RECENSIONI
DONATO STEFANIZZI, Squinzano nell'Ottocento. Demografia, economia,
società, Lecce, Conte, 2003, pp. 327.
Squinzano nell'Ottocento è il seguito del precedente volume di Stefanizzi, uscito nella stessa "Biblioteca di cultura meridionale", diretta da
Lorenzo Palumbo, Giuseppe Poli e Mario Spedicato: Chiesa e società a
Squinzano in antico regime (secoli XVII e XVIII), 1998.
La monografia è il frutto di un certosino lavoro sulle fonti archivistiche. L'autore ha consultato — è il caso di dire che si è "tuffato" nelle amate carte — tutta la documentazione reperibile sul suo paese e ne ha tratto
materiale di prima mano che ha utilizzato per imbastire un'autentica storia partecipata delle vicende squinzanesi del secolo XIX. Invero, i fatti
che racconta (siano essi sulla vita socio-economica che sulle trame parentali responsabili delle strategie di mentalità di lunga durata) sono innervati dal rigore delle prove documentali non disgiunto da una tecnica
narrativa che si fa carico delle mozioni antropologiche del popolo percorso da fame, miserie e dignità. Efficaci, a tal riguardo, sono i riferimenti ai contadini «cripati te fatìa» ed ai "servi-pastori" delle masserie,
quegli anonimi (e disgraziati) attori di una comunità quasi tutta rurale
basata sul duro, giornaliero impiego nelle mansioni agricolo-pastorali
che arricchivano i pochi, scaltri notabili del posto, i veri arbitri della piccola società di Squinzano.
Bisogna dare atto a Stefanizzi del valore civile della sua lunga e dispendiosa ricerca. Egli, infatti, accompagna — senza per questo "cambiare"
i risvolti delle storie portate alla luce — il suo scrivere con una sensibile nota di attenzione ai vissuti "sconfitti" della gente comune, quel microcosmo
di braccianti a giornata, enfiteuti, coloni e piccolo-proprietari intenti a
campare la vita parando gli attacchi (continui) dei padroni delle terre.
Leggere Squinzano nell'Ottocento è, allora, come visionare un film
neo-realistico dalle tinte bicromiche del bianco e del nero, qui raffiguranti il dolore di una condizione umana sofferta e appesantita dai troppi soprusi dei signorotti e di qualche ecclesiastico mondano e senza scrupoli.
Tutto il libro ci parla, dunque, di scene sociali "montate" con l'obiettivo rivolto ad accadimenti minuti che, uniti dal filo rosso dell'intelligenza storiografica di Stefanizzi, delineano quadri di riferimento più ampi del ristretto centro agricolo del Nord-Leccese. L'aver puntato l'attenzione storica sul "basso" (i "gettatelli", figli del degrado e della penuria
generalizzati; le bàlie accontentate con le mance del Comune; gli storpi
e la varia umanità sofferente e piagata dalla malnutrizione e dalle ricor257
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renti malattie) non ha distolto il nostro autore dal ricercare le cause della plurisecolare sottomissione delle plebi meridionali. Allorquando si
sofferma sui ristretti (e pervicaci) ceti egemoni di paese (il sindaco-proprietario e finto-liberale; il notaio-memoria storica del borgo e facitore
di relazioni plurisemantiche, il medico-condotto imparentato con la figlia dell'agrario e via elencando) li dipinge per quelli che sono: l'espressione, quasi manzoniana, del potere della terra che va a braccetto
con i membri più influenti del Capitolo della Parrocchiale, quegli avidi
sacerdoti alla ricerca spasmodica di prebende e di occasioni di lucro
commerciali e finanziarie (il prestito a interesse).
Il dialogo tra umili e potenti ci viene così spiegato con la categoria
delle sempiterne ragioni della "roba": dai soldi che giungevano dai raccolti (il più delle volte intaccati da puntuali eventi atmosferici di natura
rovinosa), dall'usura (praticata da chiunque avesse un gruzzolo da far
fruttare ) e dalle commercializzazioni (tardo-ottocentesche) delle uve da
vino verso il Settentrione d'Italia, che "tagliava" i pesanti e rossi mosti
dello "Squinzano".
Il lettore che ama la letteratura storica meridionale troverà tanto altro
ancora in questo saggio vergato con la passione dello scrupoloso ricercatore di fonti, che non dimentica di rapportarle alle definitive acquisizioni storiografiche sul Sud d'Italia tra i Borboni e i Sabaudi. Il locale e
il generale (la storia di comunità e gli scenari politici e istituzionali che
stanno sopra alle moltissime vicende paesane) sono tra loro ben organati; l'uno è sviscerato tenendo ben presente il contesto globale, quell'altro che muove sempre le periferie interessate un po' meno da grandi avvenimenti e più attente alle beghe di borgo, sovente lievitate a dignità
che non le appartengono.
Gustiamoci, infine — per lasciarci prendere dal gusto della bella lettura — le solide pagine sulla struttura urbana di Squinzano prima dell'avvento del boom economico dell'industria viti-vinicola (gli ultimi due decenni del secolo). Riflettiamo sulle lente conquiste dell'istruzione primaria, rese più ardue dalle magrissime poste comunali in bilancio per la
scuola. Rivivranno, così, quelle povere case contadine monolocale (con
l'ortalino retrostante per le strette necessità di cucina) abitate da genitori affranti dalla fatica, che non avevano di certo la voglia di mandare i figli nelle dimore un po' più acconce delle "signorine maestre" ad apprendere i rudimenta del leggere, dello scrivere e del far di conto. Allorquando la vita media non oltrepassava di molto i cinquant'anni e gli infanti difficilmente superavano indenni i primi dodici mesi di esistenza —
e colera, tifo e malaria infiacchivano ancora di più i corpi e gli animi afflitti dalle pene quotidiane del vivere sotto il maglio della necessità — non
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si pensava a soddisfare un inesistente bisogno di nutrimento alfabetico.
Ben altra esigenza si doveva cercar di risolvere. La lotta continua per il
cibo e per un po' di tranquillità familiare (dare una "chiusura", pur modesta che fosse, al pargolo che veniva su col distintivo delle privazioni
che solo il diùtino spaccarsi la schiena nei fondi poteva, potenzialmente,
attenuare) distoglieva, allora, il povero capo-famiglia nullatenente (o
piccolissimo-proprietario) dall'inavvertito compito di risollevare le sorti della prole con la pratica dell'abbecedario.
Ci avrebbe pensato la Chiesa, con le sue feste comandate sillabate dal
sacro lontano e dal fasto liturgico vicino, a educare i semplici animi dei
figli dei rurali. L'arciprete (e non la plètora degli sfaccendati chierici minori) si sarebbe fatto carico di offrire gli elementi-base di una religione
dei divieti, alla quale — giocoforza — si ricorreva nei momenti delicati
della raccolta dei prodotti dei campi con un atteggiamento ovviamente
paganeggiante (perché la terra doveva essere protetta dai troppi mali accadimenti della natura per mezzo di favori "estorti" ai pazienti e "ingolfati" santi di paese).
Michele Mainardi
(a cura di), Luigi Giuseppe De Simone cent'anni dopo, Castrignano dei Greci, Amaltea, 2004, pp. 136.
EUGENIO IMBRIANI
A distanza di ventuno mesi dall'incontro di studio tenutosi ad Arnesano (31 maggio 2002) sotto l'egida della civica amministrazione, escono gli Atti di quella riuscita serata, che intese onorare la figura e la memoria dell'illustre cittadino Luigi Giuseppe De Simone nel centenario
della sua morte. Sponsorizzati dal piccolo comune leccese, vedono la cura di Eugenio Imbriani. Il volume è il numero due dei "Quaderni della
Biblioteca comunale" intitolata allo studioso De Simone, antiquario per
intima scelta, vissuta in tutto e per tutto all'insegna della raccolta di ogni
elemento (archeologico, archi vistico, librario, etnografico) utile alla ricostruzione della storia del Salento, un territorio da lui profondamente
amato e indagato e onorato in fondamentali lavori a stampa ancora oggi
consultatissimi (basta qui citare l'aureo Lecce e i suoi monumenti, che
abbiamo nella edizione postillata da Nicola Vacca nel 1964, edito dal
Centro di Studi Salentini di Lecce).
La pubblicazione raccoglie, allora, i contributi del relatori del microconvegno svolto «alla presenza di un bel pubblico, folto, attento e compartecipe» (sono le allegre parole del moderatore d'eccezione, il prof.
Mario Marti, che apre la raccolta con una sapida nota introduttiva dal ti259
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Recensioni
tolo pure esso andante: "Al lettore qualche stimolo d'avvio").
Firmano svelti ma concettosi scritti collaudati e riconosciuti ricercatori di storia, letteratura, biblioteconomia e tradizioni, operanti tutti in
provincia di Lecce. Sono, nell'ordine, Vittorio Zacchino, Eugenio Imbriani (che ha già curato la desimoniana Vita della Terra d'Otranto per
conto delle Edizioni del Grifo nel 1996; un anno dopo uscirono, in aggiunta, i Capitoli inediti in una versione più economica), Mario Spedicato, Alessandro Laporta e Lorenzo Carlino. Essi ci restituiscono vividi
riassunti del personaggio De Simone. Ne esce un quadro conoscitivo
preciso e sostenuto anche da riferimenti di prima mano, come le notizie
rivenienti dalla sterminata produzione cartacea del giudice-erudito conservata nella sezione manoscritti della Biblioteca Provinciale "Nicola
Bemardini" (una vera miniera di informazioni che, ultimamente, allo
scadere del 2003, ha consentito l'uscita di un testo dell'Editrice Salerno
di Roma, curato da Annarita Calogiuri, "Storie e Canzoni". Le stampe
popolari della raccolta di Luigi Giuseppe De Simone. Censimento, con
una Introduzione di Olga Silvana Casale e una Presentazione di Alessandro Laporta).
Il lettore, dunque, agevolmente potrà conoscere i vari, e tutti percorsi con acribia, campi di interesse del De Simone. Dalla indagine storicoarcheologica della Messapia, al folklore dei proverbi e dei canti; dalla
pura erudizione alla smania dei libri rari.
Il merito di questo libro è, inoltre, quello di racchiudere in bastevoli
pagine l'interpretazione dell'universo studioso desimoniano, che si sostanziava sull'acquisizione di dati e notizie tramite i canali collaudati
della rete amicale e professionale, di corrispondenti e "compagni di penna". Un tratto da rimarcare è, nondimeno, quello dell'epistolografia, nell'Ottocento percorsa dai più validi ingegni, come il comprovinciale Cosimo De Giorgi, sodale di studi e "vicino di campagna" di De Simone (i
due dimoravano, nella bella stagione, scambiandosi erudite visite, vien
da pensare, nella "Cupa" arnesanese).
Risulta, infine, azzeccata l'idea di riservare la seconda parte degli Atti alla riproduzione di due introvabili opuscoli del Nostro, vergati in sole trenta copie per l'affezione della sua cerchia. Si tratta di Architectonica (1879) e di Un pizzico di cose salentino-albanesi (1896). Sono, indubbiamente, la riprova del suo esclusivo modo di intendere la ricerca:
una profusione, meditata e finanche spigolosa, di informazioni e commenti eruditi spesso dispensati con fendenti non poi così amichevoli verso i ... malcapitati interlocutori di indagine studiosa.
Michele Mainardi
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