Pubblicazioni
11 Crepuscolo » e la cultura lombarda (1850-1859), in Saggi di varia
umanità - collana fondata da Francesco Flora, Nistri - Lischi editori, Pisa,
1966, pp. 202.
LINA JANNUZZI, «
Della ricca collana di critica letteraria, fondata e diretta dall'ormai compianto
Francesco Flora, il lavoro della Jannuzzi — come leggesi nella prefazione di Ettore
Mazzali — è il 49' della serie e chiude definitivamente la collana. E sarà stato,
certamente, motivo di intima soddisfazione — così almeno riteniamo — per la
giovane autrice aver posto, con la sua opera, un punto fermo nella pregevole successione degli scritti ivi comparsi e che ebbero inizio con Scrittori italiani contemporanei dello stesso maestro.
Collana che, per altro, non muore — a quanto informa la citata prefazione —
ma prosegue e si rinnova, sempre secondo gl'intendimenti e gli orientamenti
estetico-critici del Flora, in una nuova serie diretta da Lanfranco Caretti.
Questa breve notazione, per quanto tiguarda le fortune di una collana di testi
letterari che si proietta nel futuro, con il contributo di energie intellettuali e
spirituali rinnovate, nel solco di una tradizione culturalmente seria ed impegnata,
avvia di per se stessa al dialogo con l'opera della Jannuzzi meritevole, ovviamente,
di ben più lungo e circostanziato discorso.
Da ricerche e studi sulla cultura svedese e le letterature comparate, cui da
principio ella rivolse i suoi interessi, andò successivamente orientandosi verso
l'ampia problematica della letteratura italiana dell"800, con particolare predilezione per figure e soggetti della seconda metà del secolo. Si comprendono così
i numerosi saggi di quella vasta platea di gusti e di opinioni che è il giornalismo
lombardo dell"800, nonché gli scritti sulla storiografia letteraria di Carlo Tenca
(1816-1883), l'edizione commentata della Rivoluzione in casa di L. Codèmo, lo studio
su Angelo Camillo De Meis (1817-1891), il cui pensiero filosofico, per non dire altro,
è ancora in parte da scoprire.
Su Carlo Tenca, letterato e uomo politico, che passò al vaglio di una critica
sottile ed acuta l'opera di non pochi poeti e scrittori, da Foscolo a Leopardi, Prati,
Giusti, Nicolini, Grossi, per non citarne che alcuni soltanto, non molti hanno
scritto. Nessuno lo ha fatto, comunque, in una monografia così aperta a coglierne
la personalità composita, in un momento di transizione e di fetmenti ideologici,
che avrebbero dato lievito e sollecitazioni diverse agli studi ed alle esperienze della
critica più accreditata, da Carducci a De Sanctis e, per quest'ultimo, a Benedetto
Croce. Né si dica che di monografia, a stretto rigore, non dovrebbe parlarsi, tenuto
conto della straordinaria convergenza di personaggi e di avvenimenti che gravitano, attraverso 11 Crepuscolo, nell'ambiente storico della Milano che va tra gli
anni 1850 e 1859, come s'avverte nel titolo. Ma è positivo che l'intensa attività
letteraria di C. Tenca, identificabile per quanto ci riguarda nel 'redattore responsabile
del periodico, servì da elemento catalizzatore e propulsore, alla vigilia di grandi
eventi critico-estetici, oltre che di letteratura e di costume, quali la scapigliatura
milanese, nella metropoli lombarda, il neoclassicismo carducciano e sopra tutto
il romanzo verista, altrove, i I quale ultimo rispondeva, almeno in parte, all'avver-
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tita esigenza di una produzione in prova a live] lo popolare, persino nutrita di
succhi sociali.
Sotto tale profilo il lavoro in esame è da valutarsi sulla dimensione della figura giustamente ritenuta centrale, di cui non può sfuggire la posizione mediana
ed equilibratrice tra le opposte frontiere ideologiche dell'idealismo e del positivismo, del romanticismo e del neo-classicismo, di una cultura ancora intesa come
espressione e limite di tendenze aristocratiche e conservatrici, e di una corrente
di pensiero e di opinioni aperta alle esigenze globali di tutti i popoli e per ciò
stesso innovatrice. Senza contare le divergenze sul piano linguistico, dovute, da
un lato, all'immobilismo di forme cruscanti ed ancorate ad un'altra aristocrazia,
non meno deteriore di quella del contenuto, l'aristocrazia della forma che, come
è risaputo, finisce col cedere ad una specie di idolatria del gusto e dell'estetica
portata alle sue estreme conseguenze, dall'altro, a quell'evoluzione espressiva
giustificabile nella dinamica di tutti i fenomeni umani, quale è appunto il fenomeno linguistico, teso com'è a registrare, persino inconsapevolmente, il susseguirsi incalzante dei diversi momenti storici di cui è perfetta manifestazione.
Tutto ciò riassume ed esprime l'attività decennale del Crepuscolo, prosecuzione non solo ideale della Rivista Europea, con un sottofondo meno appariscente e,
per così dire, sottinteso, di colore e contenuto politico — cioè nazionale — che
non poteva non sussistere in un giornale che risultava nell'anagrafe dei periodici
milanesi, battezzati all'ombra della bicipite.
Giacché, per chi non lo sapesse, una sezione di rilievo del Crepuscolo, dal
1852 al 3 maggio 1857, quando il redattore fu costretto a sopprimerla, era di contenuto politico. Essa, sotto il titolo di Rivista settimanale, offriva puntualmente ai
lettori un ampio diorama degli avvenimenti, una selezione documentaria di notevolissimo valore, con esposizioni particolareggiate e valutazioni critiche d'importanza decisiva per l'inquadratura dei problemi politici e sociali riguardanti il
presente e il futuro dell'Europa (p. 42).
Ovviamente — e fa bene a sottolinearlo la Jannuzzi — i riferimenti e le valutazioni, positive o negative, mettevano in luce gli orientamenti dei governi e delle
correnti politiche degli stati europei ed extraeuropei, gli sviluppi dell'opera diplomatica, ma non perdevano mai di vista le sorti e gli interessi dell'Italia (p. 42).
E siamo perfettamente d'accordo nel ritenere che un tale aspetto fosse da
dislevare, se non sul piano puramente critico, almeno su quello storico-politico,
essendo rimasti avvolti da un alone di ingiustificabile oblio alcuni tra gli scritti
più significativi e di maggiore spicco del Tenca, quali sono appunto le Riviste
settimanali. Tanto più che tali articoli vedevano la luce nel famoso decennio di
preparazione, mentre l'infaticabile tessitore della politica italiana, Camillo Benso
di Cavour, dalla vicina regione piemontese, preparava silenziosamente ma assiduamente, la 2 a guerra nazionale contro l'Austria. E l'Austria si avvide un po'
tardi, per la verità, del significato riposto che si celava nelle Riviste settimanali,
la cui linea, o potremmo dire, tecnica studiata del silenzio sulla situazione italiana, che il Tenca si era imposta da quando, nel 1848, si era distaccato dal Mazzini, era naturalmente sfuggita alla pur occhiuta censura asburgica. Tal che quando, avvedutasene, volle correre ai ripari, imponendo il bavaglio alle colonne del
Crepuscolo, non poteva certo impedire che nel quinquennio decorso, durante il
quale le informazioni ed i commenti politici erano giunti ai lettori — agli spiriti
migliori — vi avessero deposto e fatto sviluppare, col seme fecondo di una coscienza rinnovata, anche una sensibilità più aperta a cogliere le vibrazioni fluttuanti e mutevoli della politica europea.
Che è poi esattamente quanto aveva fatto e continuava a fare lo stesso Cavour
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nella pratica quotidiana dei contatti internazionali: partecipazione attiva dell'Italia alla guerra in Crimea, congresso di Parigi, trattato di Plombières.
E riterremmo sommamente utile ed interessante, ai fini anche di una più
approfondita indagine storico-politica su Carlo Tenca, raccogliere in corpo, e
farne oggetto di pubblicazione a parte, tutti gli scritti di tale argomento, collegandoli cronologicamente tra loro e ponendone in evidenza quel tanto di spiriti
nazionali che fossero sufficienti ad illuminare un altro aspetto, niente affatto
trascurabile, dello scrittore lombardo.
Per giudicare, sia pure approssimativamente, il valore di quegli scritti, basterà
considerare che, non appena essi vennero a cessare, la rivista entrò in eclisse.
Tra gli articoli d'attualità, che dal lavoro della Jannuzzi sappiamo essere stati
compresi nel Crepuscolo, ve ne sono alcuni a puntate che colpiscono, quasi per
un'improvvisa folgorazione della mente e invece — aggiunge parenteticamente la
scrittrice — si tratta di problemi lungamente meditati.
Essi preannunciano, con una sensibilità rivolta ad un lontano futuro persino
sconcertante, la rivalità tra due mondi politici opposti, quasi blocchi di potenze
ostili, la Russia e l'America.
Sarà forse uno spettacolo gigantesco — si legge in un articolo pubblicato a
puntate nel Maggio 1853 — riservato alle generazioni venture, l'antagonismo che
prepara ai due mondi il crescere di queste nazioni (allude alla Russia e all'America), recenti entrambi e nella pienezza di una gioventù vigorosa ed esuberante:
la storia non ne offre altro esempio se non risalendo alle colossali vicende dell'antichità (p. 43).
Da tali proposizioni che ancor oggi — forse oggi più che mai, sebbene con
minor intensità negli ultimi mesi — appaiono di estrema attualità, deriva anche
l'auspicio dell'unificazione europea, fondato su basi etiche e culturali prima ancora che su alleanze economiche e politiche, auspicio che scaturisce dalla preoccupazione di un possibile futuro scontro tra due giovani mondi che sembrerebbero
destinati ad eliminare dalla scena della politica internazionale l'Europa (p. 43).
Se accanto ai problemi di natura politica porremo quello della lingua, a
proposito della quale il Tenca non condivide l'opinione del Manzoni, secondo la
quale la lingua è una quantità o un complesso di vocaboli esprimenti le idee d'una
nazione, ma è piuttosto propenso a ritenerla qualcosa di più pratico ed immediato
che esige la sovranità dell'uso e per la scelta dei vocaboli il suffragio popolare
(p. 46); se terremo inoltre conto del Bollettino bibliografico italiano sull'editoria
contemporanea e, infine, della vasta problematica su temi letterari, etico-sociali e
di varia umanità, comp'renderemo quale grande area culturale e di costume occupò la rivista diretta dal Tenca nel decennio in questione.
E ce lo fa comprendere naturalmente, attraverso la sua coscienziosa indagine,
Lina Jannuzzi, toscana di origine, pugliese, anzi salentina, di adozione, la quale
amplia il suo studio, dedicando diverse pagine alla polemica antipratiana dal Tenca al Carducci (cap. III), all'esperienza lirica del Tenca (cap. IV), alla cultura
d'oltr'alpe (cap. V), agli studi storici diversi (cap. VI), con buone osservazioni sul
comune italiano, alla narrativa « campagnuola» (cap. VII), con riferimento a quel
genere di letteratura popolare che, verso la metà del secolo scorso, si voleva portare al livello di tutti i lettori e che Il Crepuscolo accolse nelle sue colonne.
Non poteva mancare in Storiografia letteraria e pensiero critico del periodo
della maturità del Tenca (Cap. II), la parte riservata alla Storia Letteraria di
Paolo Emiliani Giudici, a suo tempo ampiamente recensita sul Crepuscolo.
Il volume reca, infine, un contributo notevole alla conoscenza di retta degli
scritti di Carlo Tenca non ancora sicuramente identificati e che, attraverso un
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paziente lavoro di mosaico — quasi tessera dietro tessera —, con procedimento
ora induttivo ora di accostamento e di raffronto tra documenti diversi, sono stati
ratti 'rientrare nell'alveo della paternità tenchiana.
A tale scopo sono stati utilizzati — lo avverte la scrittrice in Nota, alla p. 50 —
gli abbozzi e alcune lettere inedite (A. T., Museo del Risorgimento, Milano).
E' noto, infatti, — e nel libro non si tralascia di porlo in evidenza — che numerosi articoli apparsi sul Crepuscolo, dello stesso redattore come dei collaboratori, venivano pubblicati anonimi, sia per motivi politici sia per ragioni diverse
che qui sarebbe inopportuno analizzare.
I documenti per una cronistoria dell'opera del Tenca (cap. VIII), che concludono la monografia, possono costituire, con quant'altro in essa è raccolto, un utile
e proficuo punto di partenza per l'edizione completa delle opere edite ed inedite
e dell'epistolario dell'autore milanese, cui la Jannuzzi, stando a quanto si apprende
dal medaglioncino biografico dedicatole dall'editore sul risvolto della copertina,
avrebbe già posto mano.
Gli studiosi di letteratura italiana — e non soltanto quelli — debbono esser
grati alla scrittrice salentina per quanto ha già dato loro e vorrà ancora dare
sull'argomento, sia per un adeguato aggiornamento che per un interessante approfondimento di uno dei periodi alquanto trascurati della nostra storia civile.
ORONZO COLANGELI
CARMINE CUCUGLIATO,
Voci vive, ed. SIA, Bologna, 1966.
Le venti novelle, di cui si compone la raccolta, contengono, pur nella varietà
dei motivi, una tematica unitaria, non solo per la tangente sui problemi e le
istanze sociali del sud — del Salento in particolare — ma anche per quella carica
di umanità diffusa e presente nell'opera, tutta propria di uno scrittore che abbia
larga esperienza di vita. Esperienza di ogni strato sociale, ma sopra tutto degli
umili, dei diseredati, abbandonati per atavica tradizione al loro spirito di adattamento eppur protesi verso una quasi irraggiungibile meta di emancipazione.
Sfila così dinanzi alla nostra mente la lunga teoria dei braccianti, per lo più
dimessi, talvolta anche protestatari e ribelli, contadini, pastori, lavoratori a giornata, domestiche, uomini e donne quasi senza volto né nome, poco più che anelli
di una catena sociale che trova giustificazione e significato nella coralità della
nostra storia civile. Non che la galleria dei personaggi non si arricchisca, dilatandosi, di figure a livello intermedio del ceto borghese e persino aristocratico,
quale può essere ad esempio la romantica gentile Annabella dell'omonimo racconto o la svanita provocante signora Finelli di Gita alla Zinzulusa, o gli esangui
personaggi di Servitù che fanno da contrappunto al ceto proletario, pur ivi esistente, ma si tratta — così riteniamo — di una dialettica variazione di tipi che
contribuiscono a sottolineare e porre in maggior risalto la tipologia umana di
elezione.
Ed ai personaggi corrispondono le situazioni, le consuetudini di vita, intrise
di elementi primigenei, impastate di aria sole acqua terra, la buona la dura terra,
sofferenza e passione, per non dire dramma lentamente consumato lungo il perenne fluire dei tempi da generazioni e generazioni infinite, vale a dire da tutta
quella varia indistinta umanità che venne a susseguirsi ininterrottamente, alternandosi tra zolle amiche ed aspre e filari di vigne e argento di oliveti.
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Davvero che nelle piccole brevi storie di Carmine Cucugliato, in alcune specialmente, come in un diorama infinitesimale, sembra di poter leggere, per frammenti e periodi indecisi, cui l'immaginazione del lettore agevolmente sopperisce,
tutta una storia di povertà e di stenti, più che di ricchezza e di gioie, persino
trasudanti da quei solchi aperti e fumanti, da quelle piante vive del paesaggio
salentino, così ricco e suggestivo — le marine soprattutto — che la penna dello
scrittore ha saputo riproporci.
A riflettervi prevale un senso amaro della vita, meditato e profondo, che avvolge uomini e cose, nella sottaciuta speranza in un domani migliore, apertamente manifesta in alcuni dei racconti che più da vicino accennano a situazioni
attuali, testimoni di vicende viste in controluce, allo specchio.
Si ricordino per tutte la già citata novella Servitù ed I figli della terra.
A esperienze diverse si riferiscono Scuola attiva, la più rappresentativa di
quella vis comica, di cui si dà apprezzabile segno anche altrove, e Filo spinato o
Racconti di un prigioniero di guerra, la più lunga di tutte, abbozzo e disegno, a
quanto sembra, per un più ampio racconto o diario, come suggerirebbe la densa
originale vicenda da elaborare e svolgere in soluzioni narrative meno affrettate.
Lo stile di Carmine Cucugliato è sulla traiettoria di un moderato realismo,
tutto sostanziato com'è di cose, fatti, personaggi, esterni pittoricamente resi e
ricorrenti sotto forma di scorci rapidi, efficaci, per l'uso degli aggettivi o il martellare rapido, guizzante delle voci verbali.
Si ascolti, nel susseguirsi degli effetti luminosi, il periodo tratto dalla citata
novella Gita alla Zinzulusa: Fuori il solleone dardeggia, l'aria è infuocata, irrespirabile, brulica, scintilla, stagna in un biancore di ferro incandescente, e ancora
dallo stesso racconto, con l'accentuazione degli attributi, il bel crescendo degno
del migliore impressionismo nella fuga coloristica, che fa del lungo periodo una
tela d'altri tempi: In fondo: il mare, infinito, calmo, profondo, bleu più che azzurro, azzurro presso gli scogli, increspato da piatte piramidi appena sporgenti,
quasi la cresta, stanca per il faticoso movimento, si sia frantumata; un po' ovunque
imperlato da macchie argentee, che si disfanno al primo moto, per poi riapparire
diverse altrove, a spezzare la seducente e voluttuosa distesa di gradazioni azzurrognole, violacee, verdine, biancastre, brunastre, fino a confondersi con la foschia
che avvolge l'orizzonte nell'indecisione di monti e di terre sepolti nel mistero.
Sebbene sia dedicata particolare attenzione alle marine, non sono per questo
trascurati altri scorci naturali, atti a rappresentare qualcuno degli aspetti più
ridenti della nostra terra.
Si legge in Il pane del pecoraio: Finalmente, oltrepassata la macchia, imboccarono la stradicciola; poi, all'orizzonte, apparve un caseggiato, più case appollaiate, addossate le une sulle altre, bianche e solitarie sotto il sole di giugno, in
una sconfinata distesa di grano biondo, di maggesi verdi e serrati, di pascoli magri,
di roccia affiorante qua e là, prominente sulle colture tappezzate; e, in fondo alla
masseria, ampia e distesa a perdita d'occhio fino alla costa adriatica, la macchia.
Nel profilare i caratteri psicosomatici dei personaggi, vari, sempre diversi,
lo scrittore dimostra l'essenziale attitudine a sfaccettare con brevi taglienti espressioni il tipo da animare. E' questa, senza dubbio, un'altra peculiarità dei veri
narratori.
Si chiama Antonio Filaterio, ma lo chiamavano Forbicione — leggesi nell'omonima novella — perché aveva una lingua biforcuta appuntita e tagliente: la raspa
numero uno del paese, capace di tagliare i panni addosso anche a sua madre,
che gli aveva dato la vita mille volte, quante volte si era strappate le viscere
per le sofferenze procuratele da quello spericolato.
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Ed ecco il profilo di un originale prete paesano che, con disinvoltura e penetrazione di eloquio, è così caratterizzato in Mea culpa:
Un bel ragazzo, intelligente e perspicace, sempre in macchina, sportivo; mostrava di avere una cura particolare della propria persona: capelli sempre accuratamente pettinati, in modo da coprire quasi completamente la tonsura, distribuiti lisci e impomatati in due bande da una linea bianchissima: volto ovale
sempre perfettamente rasato, di colorito bruno, reso delicato e lucido da qualche
cosmetico che il Reverendo usava pr certo peccatuccio di vanità giovanile; occhi
neri e vivi; un sorriso smagliante sempre pronto; un atteggiamento papesco, per
cui, quando salutava, sollevando il braccio destro e aprendo le tre dita della
mano, sembrava proprio che fosse una degnazione particolare quel suo: « Ti benedico, figliuolo ».
C'è, infine, un'ultima caratteristica narrativa e stilistica in Carmine Cucugliato, che sarebbe errore passare sotto silenzio. Intendiamo riferirci alla condiscendenza, misurata ma ricorrente, per le espressioni idiomatiche tratte dalla viva
voce del popolo ed innalzate ad un decoroso livello letterario, sulla falsariga di
un filone verista mai spentosi dal Verga in poi. Talvolta trattasi più esattamente
di frasi coniate dallo scrittore ma che, pur tuttavia, hanno in comune con il contesto un fondo unitario, per consuetudine di linguaggio ed affinità espressive.
Basteranno, in proposito, poche esemplificazioni.
Per indicare il condimento che le massaie del Salento usano sul pane, leggesi
in Il pane del pecoraio: una croce d'olio e un po' di sale sulla frisella; il gergo
della Caprarese si sgrana nella stessa novella con spigliata asprezza paesana,
quando ella, da povera affittuaria, deve al proprietario, oltre all'importo del canone abituale, non si sa quante altre prestazioni: — Eh, sì..., — sputava fuori,
divenendo velenosa come una vipera — buona massaia la Caprarese, eh? Possa
comprartene medicine di quei soldi, per te e per quanta razza tieni, porco di un
cane! Ti freghi tutto tu, dieci volte porco! E come se i soldi non ti bastino, mi
fai venire tutti i giorni a Lecce, ora a portarti la ricotta, ora i fichi freschi, ora
la verdura, ora il male che non ti strangola una volta per tutte! —
Se una gazza mangia le lucertole che Pasqualino gli offre, invitandola con
l'appellativo d'uso, ecco un'altra espressione che non si dimenticherà facilmente:
— Mita! mita! — e quella spalancava il becco e inghiottiva liscio.
E che dire di quel: mancano 19 soldi per fare una lira, come si diceva In
altri tempi di chi disponeva appena del necessario per sfamare la famiglia?
Questo autentico figlio del sud, quale può vantarsi di essere Carmine Cucugliato, ha saputo ridurre la materia, la sostanza più genuina delle cose, a
suo talento, con la carica emotiva che solo possiede chi di quella sostanza ne
ha intimamente vissuti e sofferti alcuni drammatici aspetti. Chi avrebbe altrimenti potuto condensare in poche righe l'atavico grido delle piante, che è poi tutt'uno col grido degli assetati figli di Salento che, rimbalzando nei secoli, è venuto a
schiacciarsi con prodigiosa realtà sin contro i reticolati domestici di tante famiglie
proletarie?
— Acqua... acqua — gridano le piante assetate e morenti, e invano il contadino
volge lo sguardo al cielo spietato, e il prete celebra tridui nelle chiese e snoda
processioni per le strade; non piangono i Santi a dissetar le genti, ed i sospiri
salgono con le bestemmie a inaridire il cielo.
Nel concludere questo breve esame di Voci vive, riteniamo di non andare
errati affermando che nello scrittore salentino convergono gli elementi essenziali
per una narrativa efficace, incisiva, compenetrata di idealità e proiezioni tutt'altro che epidermiche, se si considera che lo spirito del prodotto letterario lungi
dall'essere fine a se stesso, intende ad un approdo cui l'indagine — se così può
i 9S
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dirsi — dei venti racconti vuol anche pervenire. Essi, infatti, non sono soltanto
documento vivo ma anche stimolo alla impostazione e soluzione di problemi
sociali e, pertanto, s'inseriscono, con pieno diritto, nella problematica della vita
e delle più sentite esigenze meridionali.
Altri e più cospicui frutti ci attendiamo dalla penna di Carmine Cucugliato.
Lecce, 12-7-I967
°RONZO COLANGELI
BIANCA DI MOLITERNO,
Sussurro, grafiche Mariano, Galatina, 1962 2a ed.
Le 31 liriche, con allegorie stilizzate e ad esse congiunte, che ci vengono proposte per la seconda volta in edizione rinnovata, costituiscono un buon esempio
di poesia duttile, armoniosa, lievemente soffusa di malinconia.
I motivi cantati sono vari, ora inaureolati d'inafferrabili sogni, ora ricondotti
su di una traccia impegnata della vita coni suoi problemi e della storia con i
suoi drammi.
Il sentimento della famiglia suggerisce Genitori e madre, quello della patria
Bandiera, Suolo natio — partire, Emigrante, quello della fede Preghiera — arena,
Presepio. Il senso della storia, con la perenne suggestione dei suoi monumenti e
della sua forza ancora spirante da resti gloriosi, affiora in Vestigia e Castel del
Monte.
Ma quale tra i più funesti elementi, invenzione tragica dell'uomo vittima egli
stesso di ambizioni e di smodato potere, può sovvertire i valori eterni della vita,
seminare distruzioni e morte, cancellare persino quelle vestigia? Senza dubbio
la guerra. Così in Guerra e pace viene plasticamente reso nella forte successione
di immagini, alternate ad altre di rinascita:
Foreste divelte
dell'ascia nemica
desolate, ma nel fruscio
di foglia, risuonanti
augurio nuovo,
del cinguettio inesauribile.
Strade stroncate
dall'insidia ferrea
perpetuo rimando
alla nostra ricerca
di costante progresso.
Campi solcati
dal pesante aratro;
zolle in complice
fermezza, fecondo
seme, nascondete.
Palazzi diroccati,
silenti testimoni
di scempio e di morte
dell'italo popolo
martoriato, elevatevi
pietra a pietra
nell'affannoso risorgere.
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E il dramma della guerra si lascia chiaramente cogliere anche in Coraggio,
dove lo stento, i sovrumani sacrifici di ignoti eroi, suggeriscono alla poetessa i
seguenti versi:
Sulle colline brulle
salivano fanti,
genieri, cavalleggieri.
Si arrampicavano,
barcollando
nelle buche oscure,
sulle trincee fangose,
sfidando i bagliori
e il ferro mortali.
Tuttavia dal baratro dell'imminente catastrofe s'innalza un sentimento di
fede nella perenne continuità dello spirito che lega gli animi anche attraverso un
foglietto di carta, il messaggio di una persona cara:
Nelle tasca consunta
il talismano:
l'ultima lettera da casa.
Alla concretezza palpitante di alcuni frammenti si contrappone, anche se con
minore intensità, quasi rispondendo ad un'interiore esigenza dello spirito che
par voglia evadere dalla realtà, senza per questo sfuggirla, l'allegoria, l'immagine
che nasconde un significato riposto, ma non per questo inafferrabile.
E' il caso di quanto si scopre nel Libro, in cui si trova simboleggiata la vita,
colma di promesse e di rosee speranze:
Lo aprono i giovani,
nell'intima commozione.
Vedono le bianche pagine
animarsi di contorni
precisi: rossi,
celesti, verdi,
a rispecchiare il colore
delle gemme.
Anche Carnevale allude apertamente con i convulsi motivi, con le sue danze
e lo strepito dei suoni e delle multiformi voci, alla vita:
Cos'è la vita
se non un implacabile
ballo, a volte lento,
a volte impetuoso?
Onde l'invito della poetessa agli uomini:
Dimenticate l'insana
frenesia, ascoltate
la semplice canzone.
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Con semplicità istintiva e fresca, come da nascosta sorgente, fluisce il
canto della Di Moliterno, che rifugge da involuzioni stilistiche o costruzioni inusitate, per dare libero sfogo al suo mondo nascosto, detto quasi a fior di labbra,
onde si giustifica il titolo della raccolta Sussurro. Sebbene una maggiore purezza
dell'eloquio, uno studio più approfondito, non diremo sofferto, della parola, avrebbe innalzato lo stile della espressione poetica, collocandolo ad un livello artistico
più sorvegliato e maturo.
ORONZO COLANGELI
Lecce, 13-7-1967
GAETANO SAVELLI, Figure
del nostro Parnaso ed altri scritti, ed. Liguria, Genova, 1967.
Dobbiamo esser grati all'autore per averci voluto riproporre, con sobrie annotazioni e valutazione critica puntuale, alcuni tra i personaggi più rappresentativi della nostra poesia contemporanea, meglio illuminati e descritti attraverso
la citazione di loro versi.
Da Vittorio Locchi, l'indimenticabile bardo della Sagra di Santa Gorizia, a
Francesco Gaeta, il delicato cantore di Poesie d'amore e Reviviscenze, che il Croce
definì, per la liricità in esse contenuta, poesia in prosa, a Vincenzo Cardarelli,
l'antesignano del programma rondista, a Umberto Saba il modulatore di Mediterranee, a Luigi Fallacara, l'appassionato cantore della terra pugliese, ad Aldo
Palazzeschi, il versatile poeta dalle molte esperienze, ripassano dinanzi alla nostra
mente e riecheggiano nella nostra intimità alcune vivide espressioni del mondo
letterario moderno. Storie intraprese e non compiute per un più approfondito
ragionamento ed una più approfondita meditazione che il lettore vorrà condurre, poi, per suo conto. E' chiaro, infatti, che i versi citati, dietro lo spunto
dell'indagine critica, sono tali nella loro esemplificazione da sollecitare alla lettura, se non dell'opera intera, degli autori studiati, almeno della parte più cospicua.
D'altra parte non v'è figura che sia passata al vaglio della duttile prosa del
Savelli che non abbia ricevuto una nota inconfondibile di originali giudizi, buoni
da costituire per chiunque un utile avviamento alla lettura ed intelligenza delle
raccolte poetiche o dei racconti in prosa degli autori stessi, oltre che un approfondimento della loro personalità umana ed artistica.
Si ascolti, ad esempio, come viene ben profilata la figura di Vittorio Locchi:
egli si rivelò subito; ancora ragazzo, un tipo esuberante, uno di quei tipi gioviali
ma non vacui, volitivi ma non dispotici, indisciplinati senza trasmodare nella tracotanza; egli anelava all'autonomia, alla completa libertà, orgoglioso di sapersi
amato, seguito ed ammirato, senza per questo montare in superbia, senza assumere, insomma, atteggiamenti di demagogo e di superuomo.
Ed a proposito delle donne e dell'amore di Francesco Gaeta l'antologista così
dice: E l'amore, questo sentimento, questa fiamma che sulle prime sembra inestinguibile, questo miracolo che fiorisce in ogni cuore, che muore e che risorge
ad ogni primavera, stilla da ogni verso il suo dolce miele, anche se non sempre
festoso e trionfante, anche se spesso ingannevole e transitorio.
Di Vincenzo Cardarelli né purista né cruscante ma composto e puro nel suo
abito stilistico si afferma: Cardarelli... non fu mai schiavo di esotismi e sulla
compostezza, sull'austerità, sulla purezza, sull'italianità del suo linguaggio nessuno
ebbe mai nulla da eccepire.
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E l'esemplificazione, ove occorresse, potrebbe continuare, ma i lettori potranno scoprire da soli le prospettive cri lico-estetiche dell'autore.
La silloge degli artisti non si esaurisce nelle cinque voci or ora enunciate
ma include nella seconda parte una miscellanea W altre 14 notazioni, sullo stesso
stile e nella stessa misura, e con analoghi intendimenti, aperte oltre che alla
poesia ed alla prosa di scrittori italiani e stranieri, anche alle arti figurative.
Più precisamente si parla di Leonardo da Vinci in Breve storia del Cenacolo, di
Modigliani in I colli lunghi di Modigliani, di Gioacchino Torna, in Il grigio
di Torna.
Sono rappresentati, inoltre, per la letteratura ed in particolare per il teatro,
D'Annunzio e Betti, Gozzano per le sue esperienze esotiche, e poi Borgese, Caprin,
Lionello Fiumi, Capasso, Spadini, oltre che scrittori stranieri come Rilke e Pasternak.
Concludono il lavoro alcune osservazioni sugli Usi ed abusi del dialetto.
L'autore — e questo ci sembra degno di nota — si dimostra aperto ad accogliere sollecitazioni di varia latitudine e dimensione culturale, passando egli da
un argomento all'altro con spontanea capacità introspettiva, buona da rendere
la sostanza di una vasta problematica, Pur tra autori così diversi, il Savelli è
riuscito a mantenere il contatto con ciascuno di loro, tenendo presente un'istanza
fondamentale: cogliere quanto di eternamente valido essi ci hanno lasciato. Ed
un prodotto artistico è comunque valido quando riesca a sollecitare reazioni
psichiche, attraverso la magia della parola o del colore o di un altro mezzo qualsiasi, in chi legga o ammiri.
I profili raccolti in Figure del nostro Parnaso assolvono, così come ci vengono
presentati, oltre che ad una funzione. propedeutica, per quanti non avessero una
conoscenza diretta dei personaggi interessati, o la avessero solo parziale, anche
ad una funzione rievocatrice e di sintesi nella valutazione che se ne compie.
Sotto tale profilo l'opera ha un suo valore ed un suo contenuto essenziale.
ORONZO COLANGELI
Lecce, 4-8-1967
FRANCO SILVESTRI,
La Puglia nelle stampe dal '500 a//'800, ed. Il Leggio, Bari, 1967.
Dalla sua pregevole collezione privata di circa 300 tra carte geografiche e
vedute della Puglia e Lucania, l'autore ha tratto 78 incisioni e litografie, facendone
oggetto della presente pubblicazione. Le altre, quelle che non figurano in volume,
sono state presentate il giu gno scorso nella sede del Leggio di Bari, in una mostra appositamente allestita, a conclusione della stagione 1966-1967 del primo
quinquennio di attività sociale.
La selezione, che comprendeva stampe originali dal 1500 al 1800, ha riscosso
il più lusinghiero successo. Analoga manifestazione è prevista anche a Lecce.
Essa è da incoraggiare in ogni modo, tenuto conto del suo valore scientifico più
che semplicemente documentaristico e dell'interesse che certamente susciterebbe, sopra tutto, tra gli appassionati cultori di opere antiche.
Il catalogo, che comprende 78 riproduzioni — solo una parte del repertorio
presentato alla mostra —, ha il pregio non ultimo della chiarezza e dell'ordine,
risultando i pezzi distribuiti secondo un criterio che, a nostro avviso, deve ritenersi il più giusto: dalle carte geografiche, alcune delle quali di epoca assai antica
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(l'Italia vista dal Tolomeo del 1525, ad esempio, la Puglia dell'Ortelio, Atlante
minore, del 1560) alle vedute ed ai ritratti.
Apre, infatti, la raccolta una selezione di 21 carte geografiche dell'Italia
meridionale — tranne la prima e la seconda che riproducono l'intera Penisola — ed in particolare della regione salentina. Carte che rappresentano la nostra
regione e quelle limitrofe con forme tozze e allungate e, spesso, assai diverse da
quelle che oggi siamo abituati a riconoscere sugli atlanti geografici in uso, sebbene non ne manchino altre con prospettive morfologiche quasi del tutto simili
alle carte attuali. Tutte, però, risultano minuziosamente compilate a cura di
esperti cartografi i quali, considerate le possibilità di rilevamento dell'epoca, sono
meritevoli di ogni apprezzamento.
Le piante prospettiche risultano dei veri gioielli in miniatura, ben profilate
e comprese entro turrite mura di cinta, con i porti nell'ampia distesa delle acque
se città di mare, come Taranto, Bisceglie, Bari, Otranto e Gallipoli, con le case
arroccate sulle alture se località montane, come Ariano.
E che dire delle vedute, che concludono la bella silloge dello studioso salentino? Trattasi di rarissimi documenti che puntualizzano, anche sotto il profilo
storico, i costumi, i caratteri di una civiltà che, nel suo perenne divenire, non
conosce soste e vede sovrapporre alle forme antiche altre sempre nuove e moderne. Persino i monumenti in marmo o in bronzo, per duraturi che siano, sono
tutti sottoposti a quell'incessante superamento, alle fluttuazioni della vita associata, sicché molti di essi rovinano, sono rimossi dalla volontà degli uomini o
divengono quasi irriconoscibili per lenta usura. Ma xilografie, incisioni e stampe
fissano sulla carta ed affidano ai posteri la storia di una località, di uno scorcio
cittadino, non di rado di alcuni degli angoli e delle prospettive più caratteristiche.
Chi riconoscerebbe, ad esempio, nella illustrazione n. 47 (-99) il chiostro dei
Domenicani, annesso alla Chiesa della Madonna del Rosario, nei pressi di Porta
Rudie, e da tempo adattato ad usi diversi? E nella riproduzione n. 48 (-100) pochi
riuscirebbero ad individuare Squinzano, village situé entre Brindisi et Lecce
— come avverte la didascalia — dans la Terre d'Otrantes. Vaghe reminiscenze
susciterebbe inoltre la figura n. 50 (-102) su Maglie, bourg ou village dans la
Terre d'Otrantes, se non fosse la colonna sormontata dalla Madonna delle Grazie
nell'omonima piazza, dove sorge la chiesa dedicata alla stessa.
Infine al n. 62 (-120) la piazza centrale di Lecce, intitolata al santo protettore, presenta proporzioni e prospettive profondamente mutate. A parte la statua
di S. Oronzo, rivolta in direzione diversa da quella attuale, altre statue figurano
intorno al basamento della colonna, inoltre un monumento equestre s'innalza a destra di chi guarda, in simmetria con altro piedistallo, a sinistra, non sormontato da
alcuna statua. La statua equestre, da tempo scomparsa con il piedistallo era
dedicata a Carlo III°. Da considerare, poi, che la stessa piazza, quale risulta dalla
stampa in esame, ad eccezione del Seggio esistente al momento della riproduzione, appare incorniciata da edifici ora scomparsi o del tutto trasformati.
Non meno interessanti le altre due vedute, in catalogo, su Lecce, ai nn. 63
(-121) e 71 (-148), quest'ultima, su disegno di S. Sidoti, della famosa Torre del
Parco, del tutto simile all'originale che ancora oggi si può ammirare in situ.
Completano la raccolta le schede bibliografiche, disposte in ordine progressivo, con indice della raccolta e dei luoghi ricorrenti nelle illustrazioni.
Della nostra regione che, come afferma l'autore nella prefazione al volume
e ripete in Tribuna Forense di Bari del 24 giugno 1967, non è stata in passato
terra di grandi viaggi, tagliata fuori dalle grandi correnti di passaggio degli appassionati studiosi e dei curiosi d'Italia, F. Silvestri ha saputo riproporci, attraverso la sua felice selezione, alcuni degli aspetti più suggestivi, anzi singolari,
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lasciandosi guidare dalla sua lunga esperienza di studioso, oltre che d'intenditore
d'arte.
°RONZO COLANGELI
Lecce, 4-8-1967
MICHELE MONTINARI,
Liriche popolari, a cura di Antonio Antonaci, Bari Grandolfo,
1967, pp. 72.
La benevola presentazione di Antonio Antonaci concorda col nostro punto
di vista solo su una delle liriche di Montinari, « Il maestro ». E' il testamento
spirituale di un uomo che alla scuola e alla cultura ha dato il meglio di sé. La
poesia reca la data del 25 maggio 1944, risulta scritta a Galatina, la terra del
Montinari.
« Anche lì dove la nostra mentalità moderna, abituata ad altre tecniche del
verso, potrebbe trovare motivi inattuali, a ben riflettere vi sente tutto un mondo
d'ispirazione e di reminiscenze che vanno ben collocate nel loro ambiente e nel
quadro d'una contemplazione che, appunto perché fuori del nostro tempo, si
staglia con naturalezza nell'orizzonte più vasto della Poesia, che è fuori di ogni
tempo ». L'annotazione è dell'Antonaci, studioso costante e proficuo di cose nostre.
Non si tratta però soltanto di altre tecniche del verso, nel caso di queste « Liriche
popolari »; né si può accennare alla Poesia, che effettivamente non conosce limiti
spaziale o temporali. I versi del Montinari sono davvero popolari. Né s'innalzano
oltre il significato dell'attributo. Sarebbe più facile e coerente apprezzare i suoi
racconti, i 'romanzi, le novelle (Nel paese di Pallanzano, Novelle del Salento, Il
contratto di matrimonio e altre novelle). Da essi non si può prescindere nel
giudicare questo libretto postumo. L'ispirazione viene al poeta da piccole cose,
dal piccolo mondo del paese, dalle stagioni, dal colore della campagna, dalla
scuola. L'ambiente è quello dei romanzi, i limiti diventano più evidenti per la
naturale difficoltà che lo scrittore ha incontrato nel fare poesia. Sono versi semplici. Per essi non è necessario cercare riferimenti letterari o culturali. Né se ne
potrebbero trovare.
« Il maestro » comunque si stacca dalle altre liriche, dando un tono al volumetto, caratterizzandolo e qualificandolo. L'amore per la scuola, quella che dovrebbe essere la scuola di base, per gli scolari (« cento pupille », « dolci pupille »,
« ansiose pupille », « care e dolci pupille infantili »), rivela l'intima vocazione
dello scrittore. Il suo messaggio va meditato e raccolto. Vale la pena di leggere
le « Liriche popolari » del. Montinari proprio per questo.
GIANFRANCO SCRIMIERI
E. U. D'ANDREA, Spazio domestico. Padova, Ed. Rebellato, 1967.
Da una ispirazione sinceramente religiosa, di una religiosità totale, scaturisce
la poesia di E. U. D'Andrea, la quale investe intimamente gli affetti familiari, gli
amici, il paese — un Salento ricreato in termini di soffuso vagheggiamento, come
proposta di una rielaborazione interiore che rimetta nel linguaggio poetico, attualizzati, certi antichi e non dimenticati modi di vita e di sentire —, un caldo
nucleo d'nteressi, insomma, che sollecitano al poeta, non nuovo alle esperienze
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della poesia, un ritmo sereno, un lessico aperto a certe movenze che riconducano
alla sostanza centrale ispirativa (si tengano in debito conto certi fatti o atteggiamenti dialettali inseriti qua e là in tutto il discorso poetico e indicativi d'una
ferma volontà di tenere la sostanza poetica ed il linguaggio su di un piano di
resa totale), un verso disteso, nel quale gli attacchi, gli sviluppi, le pause, il
giuoco strofico, infine, pongono l'accento sulle piccole gioie di ogni giorno, e se
non sono gioie non importa, ché alla luce della Fede tutto si converte in gioia.
Consapevole di un così grande patrimonio spirituale che lo circonda, da impiegare in poesia, E. U. D'Andrea si affida con serenità agli eventi quotidiani, consueti, che la vita gli propone, ne mette a nudo l'intimo valore umano convertendoli
in fatto di poesia, come in questi versi: Sotto bocche di melegrane / mia nonna
magra / scatenava rosari / mentre noi / sperduti tra i filari / spiavamo le mosse /
della prima luna.
Una poesia nella quale c'è ispirazione, dunque, tenuta ad un costante livello,
e cultura, ispirazione che si nutre dell'atmosfera serenamente patriarcale, cui
abbiamo accennato, e cultura che adeguatamente sorregge l'ispirazione e, quando
è necessario, ne agevola la resa. Non è questione di modi poetici assimilati, magari, nel corso di distratte letture, o riecheggiamenti che inavvertitamente risalgono a galla, ma di una tensione culturale con costanza perseguita che ha i suoi
bravi punti di riferimento. Si vedano, ad esempio, le dediche a poeti e letterati,
le quali denunciano, al di fuori di quelli familiari ed a loro integrazione, una
evidente catena d'interessi culturali — i critici e i poeti cui il D'Andrea dedica
le sue liriche son di quelli che 'rappresentano veramente una stagione letteraria —
dai quali si enuclea la sua poesia, e le citazioni epigrafiche tratte da poeti che
realmente hanno inciso nella formazione culturale del poeta. E non è che si tratti
di poeti domestici, legati ad un modo, o ad una moda, poetico.
Uno spazio domestico, questo del D'Andrea, non chiuso, ma dilatantesi al
punto da diventare soggetto di storia, una storia assorta che consente liriche
così dispiegantisi: Al tempo vecchio delle diligenze / — anche le ruote girano
all'indietro / su polverose strade — / al tempo dei diari ingialliti, delle candele /
steariche sui tavoli / colle famiglie a tondo / che rispondono ai rosari, / — un'eco
ancora resta / nei tuguri e nelle campagne — / al tempo degli antichi baroni /
...che non è il solito armamentario crepuscolare o letterariamente popolare o addirittura populistico con il quale costruire certa poesia, ma tutto un mondo che
ancora sussiste integro nel cuore dei poeti.
ENZO PANAREO
A. I. CECCHINI, Alitus umbrae, Stringa Editore, Genova 1966.
Natura appassionata, cui per una quasi ventennale produzione poetica sono
andati di volta in volta i consensi di critici e poeti, Agata Italia Cecchini, nelle
ventisette liriche che compongono questa deliziosa plaquette Halitus umbrae,
Stringa Editore, Genova 1966 - sa cantare i sentimenti con l'ansia di chi spendendo
tutta sé stessa attende al giuoco della vita. Una monodia ora tenue, seguita sul lì lo
di delicate nuances, dalla quale come evocate affiorano creature e luoghi e situazioni, o'ra accesa, nella quale creature e luoghi e situazioni s'impongono con
l'evidenza degli eventi che incidono nell'esistenza.
Il valore delle liriche della Cecchini sta appunto in ciò, in una sofferta necessità di canto che si prefigge di cogliere gli aspetti più evidenti, e nello stesso tempo
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più peculiari, di una soggel l i va vicenda esistenziale la quale, man mano cantata,
resta immersa in una atmosfera di universale partecipazione: c'è aria e vita, ci
son forme e colori, stati d'animo e moti del pensiero, un ribollire di passioni c'è
e, se si guarda bene in tanta ricchezza di aspetti, gioia di esistere — e di poetare —
anche quando il cuore detta con amarezza sottile e l'animo, pur fortificato dal
conforto della poesia, si piega su sé stesso. Ne nascono versi che riflettono i
tempi del cuore dai quali, come si vede in certe accensioni repentine (Sommessa
la tua voce / schiude a pause celesti / la sera che ci avvolge...; ...Non avremo I
che il selvaggio dolore del commiato / nascosto dietro siepi di silenzio..., e l'esemplificazione potrebbe continuare ancora per molto), la Cecchini trae vigore d'ispirazione e ricchezza d'immagini, un vigore ed una ricchezza alimentati dalla particolare preparazione intellettuale della poetessa — ci si sente l'eco di certe letture
indispensabili e formative —, la quale si propone a chi legge con il gusto delle
immagini evidenti e pur lasciate sfumate in una sorta di vago impressionismo
(...Ho gettato nel fiume le memorie, / nuda e viva risalgo la corrente / per amare
soltanto la tua forte / presenza. E non mi credi. / Anche le foglie / tremano d'ansia
verde nei cristalli, dove l'ultima immagine è peculiare di alcune preferenze culturali della Cecchini), immagini d'una esemplare raffinatezza (...Non lasciare / che
i giorni in me distruggano il tumulto / del tuo viso raccolto dentro il sangue) che
non lascia mai, come si potrebbe supporre, o quasi mai, cadere nel meramente
letterario il momento poetico iniziale e ciò in forza della sincerità del sentire della
donna, ricca di vita interiore, che di fronte alla sua vicenda si pone con animo
fermo ed intelligenza aperta. Nasce così l'ardente canzoniere di una donna — nel
solco della migliore poesia femminile (ammesso che questa possa costituire una
categoria a parte) della tradizione letteraria italiana — che attraversando attonita
i prati dell'amore (...Ma di felci / tu mi vesti in un tenero stupore) dà vita ad una
poesia sostanzialmente carica di effetti e formalmente genuina.
Si noti, intanto, nel contesto delle composizioni appunto, il movimento delle
immagini, agevolato tale movimento nell'ambito lessicale da una precisa e penetrante aggettivazione che tende a porre l'accento sugli aspetti umani e naturali che
le liriche 'riflettono, o il movimento strofico, tenuto costantemente su di un ritmo
melodico del quale chiari restano gli echi in chi legge. E a riprova di ciò sta il
fatto che le liriche della Cecchini hanno sollecitato una brillante, e non certo
facile, trasposizione in metri saffici, operata dal Prof. Zappa, noto cultore di poesia
latina, il quale ha saputo adeguare il suo strumento tecnico e la sua perizia alla
personalissima, ed appunto per ciò intraducibile, ispirazione della Cecchini, una
operazione di notevole interesse culturale — quello poetico resta scontato in sede
di rapporto tra i due linguaggi — della cui realizzazione piace dar atto al traduttore
il quale ha così offerto all'interesse del lettore della Cecchini un aspetto non
consueto della sua forte poesia.
ENZO PANAREO
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