Pubblicazioni
SOMA MONTINA.
La vita viene dall'ombra. Lecce, Edizioni CERGA 1969.
« La vita viene dall'ombra », di Sonia Montina, è un romanzo che pur attenendosi alla tradizione delle storie d'amore, se ne distacca, riesce a coglierne l'aspetto
attuale inquadrandosi perfettamente nel nostro tempo.
Cinzia, la protagonista, è, in effetti, il prodotto della nostra società inquieta,
caratterizzata dal conflitto tra spirito e materia, tra sogno e realtà, tra ideali e
vita pratica: è il prototipo, quindi, della donna di oggi, legata, costretta ancora da
atavici pregiudizi, eppure protesa verso angolazioni nuove e proiezioni future.
La sua personalità è delineata con molta efficacia e dalle pagine scaturisce
viva, con le nevrosi, le apparenti contraddizioni, i drammi interiori e i momenti
felici della donna moderna.
Perché rinunciare alla felicità, se l'uomo, per natura, tende proprio al raggiungimento di essa? E' questo, in sostanza, il quesito inespresso da cui si diramano
le vicissitudini della protagonista. Ella, frustrata da un'amara esperienza coniugale,
conclusasi con una separazione, si trova a dover scegliere tra un nuovo amore che
l'attrae e il probabile spietato giudizio della gente che la terrorizza ed a volte sembra persino sopraffare il sentimento.
« La vita viene dall'ombra », è un romanzo che suscita interesse soprattutto
per la caratterizzazione del personaggio femminile che appare vivo e reale proprio
per le sue debolezze, i suoi slanci, le sue decisioni meditate, le sue ingenuità:
come si fa a credere di poter controllare a piacimento un sentimento incontrollabile quale l'amore?
Cinzia è non solo un personaggio complesso, ma anche complessato perché
racchiude in sé tutte le sfumature proprie dell'animo femminile, ancora in bilico,
in questa nostra epoca, tra i rigidi principi, retaggio di vecchie tradizioni familiari,
e i complessi che ne derivano nel tentativo di liberarsi dagli schemi fissi, dai ruoli
assegnati da secoli di generazioni passate e ora in lotta con le esigenze avveniristiche che già hanno improntato i nostri costumi.
Tra un libro intriso di erotismo ed un altro a sfondo politico-sociale, tra problemi di ogni genere e dimensione, resi ancora più difficili e talvolta astrusi e tortuosi dagli scrittori in voga, ci sembra distensivo immergerci nella lettura di un romanzo che, scritto in maniera piana e scorrevole, per il contenuto e per lo stile
potrebbe piacere alle nostre nonne come anche ai nostri nipoti.
Le Edizioni CERGA con questo volume aggiungono un nuovo argomento a
quelli finora già trattati: arti figurative, saggistica, poesia.
Designer della copertina è Garusso, che dimostra notevole gusto e misura.
A.
ATTILIO JOVINO,
M. DE13ONIS
L'illusione. Milano, Gastaldi Editore 1968.
Poesia di slancio e di alta ispirazione quella che Attilio Jovino ci presenta con
la raccolta edita da Gastaldi ed alla quale ha voluto dare per titolo « L'illusione ».
Ognuna delle cinquantuno liriche è luce e grazia di un particolare momento nel
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quale si realizza l'incontro più delicato e soave che uomo possa desiderare, determinare e comunicare. Ricerca, espressione, suono e colore placano la vita dello spirito di chi per dono divino crea, nella stessa misura con la quale chi ascolta è
rapito e spinto a trascendere i limiti della materia.
Solo in quel momento di grazia gli spiriti veramente si comprendono e si uniscono nel quadro degli innumerevoli temi che si succedono incessantemente, come
i 51 ai quali, in particolare, Jovino si è dedicato.
E' di pochi giorni un nostro incontro con poeti romani a Monte Porzio Catone,
dove i versi declamati da alcuni autori quali Ugo Sozzi e Amilcare Pettinelli ci hanno convinto — come ci convince Jovino — che solo la vera poesia, in proiezione
di lirica di figurazione o di oratoria o di qualsivoglia altra arte, riesce a dare
l'uomo alle stelle e le stelle all'uomo.
Tormento, commozione, gioia, abbandono, delirio sono prezzo di chi conosca
e sappia raggiungere il mondo che la poesia valga ad additare e nel quale è vera
miracolosa fase delle coscienze, per cui grazia e dramma, gioia e umorismo, quasi
per miracoloso filtro, portano solo ad estasi di mente.
Nella felice cristallizzazione del pensiero e dell'estetica sta, perciò, il maggior
merito della poesia del « nostro », che per ispirazione e per tessuto si colloca nella buona cultura. Dicendo buona cultura, è evidente che diamo per scontato anche
l'altro attributo, quello del quale i critici moderni di mestiere usano ed abusano,
quello cioè di « nuova cultura », intesa, come a noi piace, in chiave di costante
piacere e naturale umanizzazione, per fascino e per freschezza di immagine e di parola. Aliis si licet tibi non licet.
MARIO MOSCARDINO
ERCOLE UGO D'ANDREA,
L'autunno delle rigide lumache. Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina 1969.
Motivo struggente dell'intera poetica di Ercole Ugo D'Andrea è il legame familiare: trasparenza di affetti, senza falsi pudori, rimorsi, limpida osservazione.
L'ambiente affettivo, che non è evidentemente solo familiare, si allarga a visioni
comprensive di situazioni, tradizioni e temi che al Sud continuano a ripetersi senza equivoci, senza timori: il desiderio di « adeguarsi » non tocca certi
moti dell'animo, non è vicino a certi ambienti, alla semplicità disarmante dei
nostri vecchi. Non è monotono rifarsi a esperienze vissute per fare poesia, tanto
meno risulta monotono rivelare uguali posizioni, trasmettere in brevi o lunghi
componimenti il valore di una vita, di tante vite vissute allo stesso modo.
E. U. D'Andrea, toccato da ambienti diversi dal nativo (non fa mistero — anzi se ne vanta — delle amicizie fiorentine, vicine ai suoi studi), non si spoglia di
una situazione che gli è dentro, lo stimola, lo condiziona. Ne avverte il potere, lo
trasferisce in « pensieri » di una chiarezza disarmante se paragonata al modo di
poetare — a volte straniato — di oggi. Non occorre neppure una metrica particolare: può essere una condizione. Ne scaturisce un interesse per il lettore e un piacere: l'interesse per chi risente delle stesse sensazioni, il piacere per chi, lontano
dal Sud e dai suoi condizionamenti, si avvicina al verso con l'intento di estraniarsi
dal mondo e tuffarsi nello schema poetico dell'A.
D'Andrea ha pubblicato, ai primi dell'anno, un libretto di poesie « L'autunno
delle rigide lumache » (i titoli dei libretti sin qui editi invitano alla lettura, in poche parole trasmettono il messaggio), che è quasi un compendio della produzione
precedente. Esaminare alcuni componimenti equivale a scoprire gli interessi del
poeta. D'Andrea fa poesia dai tempi della scuola, ha trovato a Firenze l'ambiente
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adatto (è amico di Carlo Betocchi), ha dato alle stampe molte poesie. Di quest'ultima raccolta la parte più valida ci sembra la prima (« a mia madre, mio padre,
i fratelli »), le altre due (« a Donatella », « a Luciana ») toccano situazioni diverse —
gli amori giovanili — e non risplendono della stessa luce.
« Che ci fa una lumachina / chiusa, tenera, bianca, / sulla stanca / cornice
d'un morto famigliare! / E' dovuta scivolare / dal mazzo di fiori freschi, / che
mia madre ha composto, / andare / sino a quella sbiadita eternità » (p. 17).
Da sottolineare gli ultimi cinque versi di « Una lumachina », quell'andare
verso la sbiadita eternità, attraverso la cornice d'un affetto perduto: il segno
della lumaca — che è poi il lento cammino — scompare presto, fino al « cambio
dei fiori di devozione.
« Le campane, il celeste nella gola » (p. 28). E' un'altra immagine. « L'ulivo
piange la sua stortura, / Dio può essere una foglia. / Pietà o paura / e noi diamo
un'anima alle cose » (p. 29). Un'altra.
E' opportuno rilevare che, accanto al mondo di familiari affetti espressi dal
D'Andrea, si può collocare il sincero attaccamento al sentimento religioso. Non
poteva essere altrimenti: chi sente in modo particolare il legame familiare e se
ne lascia condizionare non può non avere una grande fede. E. U. D'Andrea ha fede
nei valori umani, nel potere rigeneratore di essi, nell'elevazione degli affetti terreni in una sfera diversa, ampia, sicura, nella sfera di Dio, che l'uomo può facilmente raggiungere sol che lo voglia, perché l'eterno è vicino al finito, forse proprio grazie al legame affettivo con le cose genuine, sacre, dell'esistenza. Non
può perdersi la visione d'infinito nel finito, limitato, girovagare di affetti, ché tra
questi i più saldi rimangono sempre quelli che fanno da tramite nella famiglia.
Tra le « cose di famiglia » D'Andrea pone un poeta, isolato nella sua spiritualità, orgoglioso della sua grandezza, integrato nel simbolo della nostra terra:
l'ulivo (l'ulivo in vaso: caratteristica della sua casa). Si tratta di Girolamo Comi,
morto a Lucugnano poco più d'un anno fa, commemorato bene o male fino ad
ora, scarsamente studiato, capito, svelato. D'Andrea scrisse un « lamento » per
la morte di Comi, rifacendo il cammino del cimitero, lungo i margini della « sua »
campagna (« anch'essa intenerita, gonfia / di primavera »). « Percorrevamo le
stradine, Lucugnano / era una fioritura spaventata / di gerani e di visi alle finestre, e si facevano il segno di croce / i vecchi e gli ulivi. (...) » (p. 31). Quanto deve
la religiosità di D'Andrea all'influenza di Comi? E' opportuno attendere per dire
qualcosa: accenniamo solo una congettura (evitiamo sempre di farlo perché nuocciono alla validità di un poeta). « Lungamente non ho avuto parole. / Non ho
ripreso fra mano i tuoi libri / dove la tua ultima stagione/ — fra lacrime e preghiere / non aveva avuto ragione della bellezza, / solo che la bellezza / si era
ormai inginocchiata, a te d'attorno / e nel tuo cuore » (id.). Nessun commento.
Un quadretto familiare, comprensivo di altri affetti, oltre a quelli dei genitori,
è « Spazio domestico ». « Dolce imbrunire / spazio domestico. / Mio padre pota la
pergola / di giugno, / mia madre va alla Messa / del primo venerdì di mese / a
incontrarsi col Cuore di Gesù, / i miei nipotini fanno / della balconata una grondaia, / le rondini mi fanno il nido dentro casa. (...) » (p. 39).
• L'autunno delle rigide lumache » — mi scrive l'A. — « è a carattere antologico », cioè comprende la maggior parte delle poesie già inserite nelle precedenti
raccolte (« Rosario di stagioni », 1964 — « introvabile », « La bruna sorella », 1966;
« Spazio domestico », 1967; « La porta delle pecore », 1968). L'introduzione al libretto dà notizia dell'A.: esordio nei « Quaderni del C'ritone » curati da Vittorio
Pagano, « Quando parlano i silenzi » (1957-1959) prima organica raccolta (a ventidue
anni), infine la cronologia citata. Quella che, fino ad ora, permette d'intavolare
un discorso critico con elementi sufficienti è « Spazio domestico ». La novità, nel204
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l'iter poetico di D'Andrea, è nel tentativo di fare un poema, piccolo affresco d'ambiente: « La porta delle pecore ». Riportiamo per intero la poesia XVII (la fede
non è cosa astratta, diventa elemento vivo, componente della vita, programma,
realizzazione fino alla morte che ne è l'ultima, completa espressione).
— Che dici? - Ricordo bene anch'io, la notte
mi svegliavano gli stessi canti - Io ti ricordo al tuo balcone,
poco sotto la grondaia. Osservavi,
da un binocolo, il primo
variopinto formicolare del ritorno
oltre i tetti e gli orti,
quasi ancora all'uscita dal bosco.
Era luce diffusa, vespertina...
Tu, allora, eri una bambina
dagli occhi dilatati e viola - E tu un biondino stento - Chi avrebbe immaginato, sai...
- Cosa - Che avrei avuto occhi per te, non solo:
ma che con te sarebbe come stare
sempre sul limitare
d'una festa dell'anima - Dolci, ostinati muli
della tua fantasia,
dove ci vorrebbero portare!
Di là c'è la scarpata, di qua l'osteria
delle piccole cose - Muli... scarpata... osteria...
...piccole cose... - Dimmi, se credi, come va la nonna
- La nonna si spegne
con lume e sentimento: solo,
manca olio a quella lampada.
Pensare che la morte
è forse solo un non aver più fede, mi rattrista
— E credi, invece, che essa è solo
un atto di fede totale —
Sembra di rileggere « Una preghiera » (« Quando parlano i silenzi », 1959) »:
« Quando mi vuoi, Signore, / chiama appena più forte. / Verrò leggero, / come
dentro i panni della festa (...) ».
Ercole Ugo D'Andrea è nato a Galatone (Lecce). « L'autunno delle 'rigide lumache » contiene 67 poesie.
GIANFRANCO SCRIMIERI
GIOVANNI BERNARDINI,
Provincia difficile. Bari, Editoriale Adda 1969.
« Provincia difficile » di Giovanni Bernardini è il secondo volume della collana di opere narrative « Testimoni del Sud », nata per offrire ai ragazzi letture piacevoli ed educative. E' motivo cli rammarico il costatare nella scuola media un
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atteggiamento guardingo e intellettualmente pigro nei riguardi di lavori simili,
la cui adozione costituirebbe una salutare rottura con un passato non sempre
produttivo, inadatto sicuramente alle capacità della maggioranza degli ospiti
della nuova scuola media.
Il volume contiene un lungo racconto e una serie di interviste e inchieste
giornalistiche. Il tema comune è il Sud, nella prima parte stemperato dal sentimento e dalle evocazioni della memoria, nella seconda intenso e policromo, brutalmente e dolorosamente reale nelle parole della gente.
Protagonista di « Chi rimane » è l'autore, ma potrebbe essere uno dei tanti
che, finita la guerra, tornarono a casa ad affrontare — dopo i primi giorni intensi di affetti e di novità — il problema dell'« avvenire », dell'inserimento in
una società che aveva poco o nulla da offrire. La provincia è uguale dovunque:
si vive delle piccole cose, si partecipa alla vita degli altri con sentimenti spontanei, naturali. Il Salento come le Langhe: « La sera andavamo lungo le strade che
irraggiandosi dal paese conducevano ad altri paesi o affondavano nel buio della
campagna. Spesso portavano dei panini e Filippo una o due bottiglie. Ci sedevamo sui muretti a bere e mangiare. (...) In coro intonavamo canzoni fino a tardi.
Erano notti splendenti d'agosto e a ritrovarsi con gli amici dava piacere, come
ai vecchi tempi prima della guerra, quando eravamo ragazzi ed era facile intendersi (...) » (pp. 41-2). E, più avanti, il problema della scelta politica che non sia
limitata alla simpatia, alla lotta sterile delle parole. Un atteggiamento comune a
tanti per pigrizia mentale e per timore, non così nel protagonista, la cui riluttanza a farsi promotore delle idee di alcuni dei suoi concittadini affonda le radici
nel suo carattere, nel suo modo di essere, nell'essere la sua vita « tessuta di riflessioni, di sentimento, di odori più che di suoni ». Il racconto è popolato di figure
grandi e piccole, animate dall'abilità dello scrittore e dal sentimento dell'uomo.
Nei diari di viaggio sfilano davanti agli occhi luoghi e paesaggi del Salento,
da S. Cataldo a Roca, da Castro a Marina di Leuca, con notizie storiche e curiosità che, qualche volta, hanno il sapore della rivelazione (alcuni nomi: la « Poesia »,
le « Centopietre »). L'A. interroga, annota, divaga. Ulivi, pagliare, fichidindia e
poi ancora ulivi, mare, terra, gente simile agli ulivi e al mare, e il sole — « un'indelebile macchia gialla incrostata in mezzo al cielo » (p. 188) — e lo scirocco volubile: il Salento condensato in immagini. Quello stesso sole e scirocco che, implacabili e osti nati condizionano la povera economia locale e qualche volta la distruggono (« Il nubifragio del '57 »).
L'A. mette a fuoco gli annosi problemi del Sud, un'economia allo stato primitivo, un'insufficiente assistenza sociale, lo scarso interesse degli uomini politici
(le amare, rassegnate parole del sindaco in « Il nubifragio del '57 »).
Dalla raccolta sono state escluse due inchieste « Raccoglitrici di olive e frantoiani » (Il Campo, 1959, n. 3) e « La Kasbah di Taurisano » (Il Ponte, 1957, n. 5),
la prima sullo sfruttamento dei braccianti e dei sistemi di reclutamento, la seconda sull'incredibile sistemazione di alcune famiglie in un caseggiato pericolante,
i cui abitanti vivono ai margini della società, in condizioni di vita indegne dell'uomo.
La descrizione di una tipica festa paesana chiude « Provincia difficile »: bancarelle, bande musicali, fuochi d'artificio, semplici ingredienti di una felicità temporanea per anime semplici.
SILVANA STAMERRA
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