Pubblicazioni
Edgar LEE MASTERS,
Antologia di Spoon River - Einaudi edit. - 16 a ediz.
E' il cimitero sulla collina di Spoon River un diario sconfortante che ospita
molte anime inutili, le anime dei violenti, falliti, speculatori, di politici dalla mente
distorta, di giovani fantasmi che ridono di quello che in terra era stato il loro ideale;
e fra l'ostilità de gli scontenti chi ringrazia la vita è così solo ed isolato da venir
sopraffatto dalla maggioranza, senza poter mutare con le proprie affermazioni
l'intonazione sconsolata dell'antologia.
Queste anime sono ancora agitate dalla passione, ancora difendono la loro
causa, ancora si pongono domande ed hanno rimpianti. Non larve epatiche, ma nella
loro irrequietezza continua sono ancorate saldamente alla terra, più vive dei vivi.
Del grande libro ogni lapide rappresenta un foglio, dove l'anima che vi parla
non è una voce che giunge da una quarta dimensione, ma tutt'uno con la pietra
sepolcrale, l'erbe, la terra, la cenere del suo corpo.
E i ricordi stessi sono rievocati in una luce chiara reale, dai toni vividi d'una
rappresentazione umana e non di spettri. Forse che pensando ad una narrazione di
memorie da parte delle anime defunte — che appaiono solo e solo come voci intangibili senza sfondo, non un coro ma nettamente distinte l'una dall'altre, e che non
hanno nulla a che fare con la rappresentazione della « Commedia » Dantesca né
con la fantasia dei « Burroni montani » di Goethe — non ci si attendeva un periodare distaccato, a metà strada fra l'assurdo e la scolorita deformazione di fatti e
pensieri? Ed eccoli invece morti solo di nome, ma ancora vivi e combattivi, come
tratti di peso dagli scritti di Faulkner o Dos Passos o Hemingwaij...
Se contro una folla di disillusi lo spirito della vecchia Lucinda Watloch grida.
« ...cos'è questo che sento di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze fallite?
Figli e figlie degeneri,
la Vita è troppo forte per voi ci vuol vita per amare la Vita »,
il suo grido di felicità risulta un sentimento isolato nel pessimistico vedere degli
altri morti.
Le figure dei falliti sono dunque le più incisive, mirabilmente inquadrate nel
gretto ed esasperante provincialismo americano — che al contrario di quello europeo non ha alle spalle la storia, quella vera, che talvolta, anche se a torto, può
servire da scusante — ed hanno per sfondo la guerra civile e le sue conseguenze di
corruzioni e violenze, nella condotta politica come nelle piccole azioni di ogni giorno.
Attraverso English Thornton, Lee Masters accusa l'ipocrisia di chi finge di non
vedere con parole che tradiscono nel poeta un desiderio d'un ritorno al passato, al
solo che ha in quei tempi l'USA, il glorioso passato epico:
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« Olà! Voi, figli degli uomini
che combatterono a Washington a Valeij Forge
e respinsero Falco Nero a Starved Rock,
sorgete! Lottate coi discendenti di coloro
che comprarono la terra all'incanto quand'era sabbia desolata
...Sorgete! Lottate coi damerini e i palloni gonfiati... »
Questo il passato che Lee Masters ha sacro: egli è quindi un irrequieto, uno
scontento anche, ma per propria natura, e non per seguire una moda col risultato
d'essere conformista appunto nel seguire pedissequainente l'anticonformismo. Ed
il rispetto verso i gloriosi trascorsi della patria ha riscontro solo nella grande
stima che dimostra ad Abraham Lincoln, più volte e sempre onorevolmente citato
nell'antologia.
Così Hannah Armstrong riassume la reverenza col suo racconto volontariamente semplice e dimesso:
« Gli scrissi una lettera chiedendogli in nome del passato
di congedare il mio ragazzo malato dall'esercito;
ma forse non riuscì a leggerla ».
Prosegue quindi descrivendo l'incarico da lei affidato a James Garber; che
vive in città e scrive tanto bene, di inviare un messaggio al presidente, « ma forse
andò perduto nelle poste »; poi andò a Washington, ebbe difficoltà nel districarsi
nel dedalo di strade e giungere alla Casa Bianca. E lì sorrisero di lei, mandandola
via e, quando ormai pensava:
« Oh, bè, non è come quando lo tenevo a pensione
e lui e mio marito lavoravano insieme
e lo chiamavamo Abe, laggiù a Menard »;
allora il custode fece il miracolo e l'annunciò:
« Bè, in un momento mi fecero entrare!
E quando mi vide scoppiò a ridere,
e lasciò stare le sue faccende di presidente,
e scrisse di proprio pugno il congedo di Doug,... ».
Quasi una fiaba a lieto fine.
Tutto ciò per dimostrare l'inesistenza in lui di cinismo, come potrebbe erroneamente suggerire la poesia che dà inizio alla raccolta:
« Io giaccio qui accanto alla tomba
del vecchio Bill Piersol,
che si arricchì trafficando con gli Indiani, e... »
Il primo fra i ritratti dei falliti è anche il migliore forse, per il tono sconsolato
che quasi giustifica l'accaduto come qualcosa d'inevitabile:
« Io mi stancai del lavoro e della miseria
e vedendo come il vecchio Bill e gli altri si arricchissero,
derubai un viaggiatore,...
Per questo fui processato e impiccato ».
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5 - LA ZAGAGLIA
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E' una narrazione piana, desolata:
« Fu il mio modo cli far fallimento »
ammette concludendo con nella voce molta tristezza e niente ira, consapevók
della sua impotenza contro il destino. Sa di essere nel numero dei falliti e ne
parla senza meraviglia: quello fu il suo modo di sbagliare, semplicemente.
Come Chase Henrij che con poche parole senza importanza disegna la propria
anima ed il cammino dai lei percorso durante la vita, quand'era una povera cosa
inutile su cui tutti s'accanivano e che ora in morte, proprio per l'antica dissolutezza, ha visto la sua sorte capovolgersi e mutar direzione tanto da dormire, per
ironia del destino, il sonno eterno
« accanto alla tomba del banchiere Nicholas
« di sua moglie Priscilla ».
Al contrario della precedente, questa figura ha come nota particolare il carattere ironico che la fa ridere della beffa giocatagli e la induce, non solo a non
aversela a male, ma ad ammonire maliziosamente:
« Prendete nota, anime prudenti e pie... ».
Ambedue sono dei falliti; ma se in Hod Putt vi è la triste rassegnazione di
chi ha scoperto con sbigottimento d'essere caduto in basso « senza volere », secondo quanto egli stesso afferma malinconicamente, e l'accettazione del destino
come qualcosa d'inesorabile cui è inutile ribellarsi, ìn Chase Henrij lo stesso avve',iiimento è accolto in modo ben diverso.
Se infatti l'ubriacone parla con tono scanzonato della brutta situazione in cui
s'era venuto a trovare, non bisogna credere che questo sia il suo modo di ribel
larsi al destino, ma che egli, essendosi volontariamente dannato in vita, continua
ancora da spirito a beffarsi della sorte. Egli è l'unico colpevole dell'esistenza disordinata che ha condotto, e n'è consapevole: quindi in lui può esservi non quella
malinconica resa ad un essere superiore ed invincibile che è la caratteristica di
H. Putt, ma l'ironica e beffarda sfrontatezza di chi ha sempre seguito i propri
impulsi per poi , essere riabilitato immeritatamente per l'utile
« delle controcorrenti del mondo
che danno onore ai morti vissuti nell'onta ».
Dopo la parentesi individualista di C. Henrij, il motivo del destino è ripreso
nel numero dei falliti da Harold Arnett, il suicida.
« Mi appoggiai contro la cappa del camino, nauseato,
ripensando al mio insuccesso... ».
Ma in quest'ultimo fantasma il motivo è sentito con ossessione, quasi una
forza del male alla quale non ci si deve sottomettere: ed è nato da questa convin
zíone il pensiero che l'ha spinto a ribellarsi alla vita. Arnett è un carattere violento,
insofferente, che non ha mai rinunciato al tentativo di piegare gli eventi a proprio
favore. Si è dunque fatto trovare impreparato dalla sorte, ed ha dovuto soccombere ai suoi colpi per l'incapacità di rinunziare alla lotta e sopportare passivamente il dolore.
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Così, come H. Putt si è lasciato trascinare dagli avvenimenti senza opporre
resistenza, il suicida per essersi creduto troppo forte esclama con amarezza:
« A che serve liberarsi dal mondo,
quando nessuno può scampare al fato eterno della vita?
E' un'ossessione comune a tutte le anime sepolte in Spoon River e quasi il
motivo conduttore dell'antologia... il fato.
« ...Un destino... peggiore:
essere noi falliti quando i figlioli riescono »
avverte con parole piane un altro suicida, Schirding. A sentirlo sembra che quella
di togliersi la vita fosse l'unica conclusione plausibile, inevitabile anzi.
Ma Keene che gli giace accanto non pare esserne convinto, dato che ancora
chiede:
« Perché si uccise Albert Schirding
...benedetto com'era per ricchezza
e figli meravigliosi che gli fecero onore...? ».
E la risposta ha un lieve sarcasmo nel compiaciuto soffermarsi sul paragone
con gli uccelli:
« Perché io allevai un nido d'aquile
che volarono via alla fine, lasciandomi
come una cornacchia sul ramo abbandonato ».
« Se mai uno dei miei figli » — ribatte allora Keene nell'immaginario colloquio — « avesse saputo mandare avanti un'edicola... » — non chiede il deluso padre
una professione che possa dar loro lustro e onori, ma un'occupazione modesta che
dia pane ed onestà — « io non sarei andato a spasso nella pioggia » — non sarebbe
divenuto uno sbandato, no certo, perché egli sentì i figli come parte di lui e la
loro felicità come propria — « né mi sarei cacciato in letto vestito rifiutando il
dottore ».
Ma Schirding, tutto chiuso nell'egoismo, ancora adesso non ammette che un
suo figlio lo possa aver superato in fama.
« Quest'anno mia figlia guadagnò il primo premio a Parigi ».
— però in luogo del naturale orgoglio paterno subentrò nel suo animo un senso
di paralizzante impotenza, così che dall'orgo glio ferito sortì per compenso una
sensazione di inferiorità, ben presto ingranditasi tantc da divenire "terrore dell'inferiorità". Così che la larva di Schirding (del padre travolto dal successo dei
figli) conclude, — parlando attraverso la pagina assegnatagli nel volume, — l'immaginario colloquio con il fantasma, — impresso e trattenuto nella pagina vicina, — di Keene (del padre travolto dal fallimento dei figli) con la frase « L'idea
che non ero degno di leì mi uccise »: lui, quello stesso Albert Schirdin g che aveva
l'ambizione di chiamarsi « Onorevole perché lo ammirassero », come ammette a
metà della poesia, e che aveva « figli meravigliosi, che gli fecero onore prima che
avesse sessant'anni », come gli ricorda tristemente Jonas Keene.
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Due padri e due drammi diametralmente opposti che però si concludono
nello stesso tragico modo.
Forse aveva ragione Lucinda M a tlock quando diceva che gli eterni scontenti
sepolti in Spoon River non devono incolpare la Vita per l'irrequietezza che lí
possedette, bensì la debolezza della loro generazione di « figli e figlie degeneri » pei
i quali « la Vita è troppo forte ».
Troppo forte anche per Eugene Carman succube del datore di lavoro, costretto dalla misera paga a trascorrere più di vent'anni
« dicendo "sissignora" e "sissignore" e "grazie"
migliaia di volte al giorno,... ».
E quando una mattina come tante, mentre s'annodava la cravatta, guardò distrattamente nello specchio vedendosi per la prima volta riflesso com'era davvero,
« la testa grigia, il viso come una torta flaccida »,
e quando su quel volto per un attimo sconosciuto scoprì la maschera servile portata per tanti anni, ebbe la forza di ribellarsi e gridare alla propria immagine:
« ...Maledetto vecchiaccio!
Cane vigliacco! Pezzente schifoso ! Schiavo di Rhodes! »
Più che l'essere invecchiato ammuffendo nell'emporio, anche più della sicura
miseria che gli garantivano i cinquanta dollari mensili di paga, più di tutto lo
infuriava lo stato di sudditanza in cui era fino allora vissuto:
« Schiavo di Rhodes! vendere scarpe e tela,
farina e lardo... ».
Sulla collina allineato con gli altri ha tanto, tanto tempo davanti a sé per ricordare l'umanissima rivolta, contro Rhodes, che gli ha ridato dignità ma che gli
è anche stata fatale.
« ...Roger Baughman...
..guardò sopra la tramezza giusto in tempo
per vedermi stramazzare di peso:
mi ero rotto una vena del capo ».
Sì è vero, una vita inutile è stata riscattata dal corag gioso riconoscimento
della propria meschinità; ma non per questo essa non è rimane quella d'un
fallito.
Eccoci ora dinanzi all'ultima figura del gruppo, la più patetica e pura. Nella poesia, una delle migliori, egli si presenta come « il suonatore Jones »: un nome indeterminato come lo era stata la sua vita.
Descrive la propria anima semplice, attratta irresistibilmente dalla musica
che, se fece di lui un uomo fallito, fu anche l'unica sua gioia.
E' un'attrazione istintiva che implacabilmente lo perseguitò, facendogli vedere
in ogni cosa in movimento l'aggraziato dondolarsi di figure danzanti. Perfino un'on
da di polvere che s'alzava nell'aria o un mulinello di foglie secche che
« per Cooneji Petter volevan dire siccità,
a lui pareva fosse Sammji Testa-rossa
quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor ».
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Se si ridusse in miseria non fu colpa della mancanza di volontà, ma di quel
l'ossessione che lo perseguitava. Ed esclama:
« Come potevo coltivare le mie terre,
con la ridda di corni, fagotti e ottavini
che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa...? ».
(Anche Lec Masters abbandonò Chicago e le amicizie, abbandonò la promettente carriera d'avvocato per darsi tutto alla letteratura, senza riserve... Una
coincidenza?).
Ma il suonatore non ha dovuto lottare solo contro il demone della musica ma,
come Putt il suicida non ha saputo ribellarsi al « fato » e s'è perduto, Jones non
ha saputo sottrarsi alle pretese degli uomini:
« E se la gente sa che sai suonare,
suonare ti tocca, per tutta la vita ».
Per tutta la vita, ammette con malinconica rassegnazione.
Quell'amore per la musica fu un fuoco interno che ogni suono ravvivava: bastavano poche note d'un canto, un fruscìo di foglie, un trillo d'uccello, « ... il cigolìo d'un molino a vento — solo questo », un qualsiasi dolce rumore delle cose
a fargli correre dentro armonie nuove e canti e una « ridda dí corni, fagotti e
ottavini... ».
Era la natura in fondo che lo stupiva ed eccitava, attraverso suoni fatti di
mormorii e di fluttuare e pigolii e battiti d'ali e trilli e fruscii e richiami:
« La terra ti suscita vibrazioni nel cuore: sei tu ».
Ricordo Hautboji, il violinista allegro d'un racconto, scritto negli anni immediatamente successivi a Mobij-Dick ma anteriori al viaggio in Italia, di H. Melville.
La stessa passione per la musica li potrebbe affratellare sia pure per un istante;
sono infatti molto simili le due figure quando le vediamo chine sul violino: l'una,
incitata da « qualcuno fermatosi nella strada », traeva dallo strumento il popolare
motivo di Toor-a-Loor l'altra spinta da due conoscenti occasionali « attaccò allegro Jankee Doodle e altre arie del genere, facili, vivavi, sprezzatamente comuni ».
Ma la grande differenza si trova tirando le somme delle loro vite: Hautboij riuscì
per un attimo ad avere la gloria servendosi della musica, anche se presto ritornò
uno sconosciuto; mentre Jones lasciò inutilizzato il suo talento per non essere
riuscito a dominare la musica col ridimensionarla da quell'ossessione che rappresentava per lui.
Le sue energie si erano disperse, perdendosi in nulla. Morì così un altro fallito, il non meglio identificato « suonatore Jones », e nessun amico gli fu vicino
negli ultimi istanti compiangendolo.
« Finii con le stesse terre,
finii con un violino spaccato,
e un ridere rauco e ricordi,
e nemmeno un rimpianto ».
(Dimenticavo, anche Lee Masters morì solo, in un convalescenziario della
Peensijlvania...: anche questa una coincidenza?).
MARINA COSI
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A.
BONSANTI,
La Buca di San Colombano.
Alessandro Bonsanti, direttore della rivista « Letteratura » e del Gabinetto
Viesseux di Firenze, presenta questa trilogia, che s'intitola « La buca di S. Colombano » (Edit. Mondadori 1964 L. 7.400), romanzo-fiume in tre volumi, che esprime
l'esperienza narrativa d'uno scrittore, un tempo « vivo », intendiamo intorno agli
anni trenta, durante la dittatura fascista, oggi, come appare ín questo romanzo, gíà
concluso.
E, sinceramente, liquidare un simile romanzo (Tre grossi volumi), con faciloneria, sarebbe inintelligenza di critico; ché gli si riconoscono gusto, cultura, sentimento e profluvie del sentimento, eccitazione della memoria come « recherche »
(Motivo già sviluppato ad alto livello da Proust), un periodare sinuoso, ampio, ipotat t ico, ciceroniano.
Ma nel contempo il lettore si sente come avviluppato dagli infiniti tentacoli
d'una medusa — imprigionato più che suggestionato — invano cercando un filo
ordinatore della vicenda, che ha sì una sua trama (esile ed antiquata).
Infatti la lettura del romanzo richiama personaggi ritardati rispetto al corso
della storia. (Questo più che altro nel primo volume: il che è in un certo senso
comprendibile se pensiamo che Bonsanti faceva parte di quel gruppo di scrittori
« disimpegnati » durante il periodo fascista; mentre nel terzo volume l'Autore ha
sentito la responsabilità morale d'una revisione che ha svolto in chiave di ricerca non più della memoria bensì d'una fotografia che si compiace dell'immagine).
Ora l'autore ha impiegato per questo romanzo-fiume, presso a poco, tutto l'ar
co della sua vita (trent'anni circa: dal '34 al '64) con la certosina pazienza proprio
d'un umanista che si compiace della fantasia, della parola, del colore ritenendosi
libero là dove egli, lo scrittore umanista, è vittima del mecenatismo dei Signori
(Ariosto insegni). Bonsanti, pertanto, è scrittore umanista, schiavo non del mecenate, bensì proprio d'un tipo di cultura tipicamente borghese chiusa di fronte ai
problemi della storia presente mentre vive di rendita grazie alle esaurite strut
turo linguistiche (L'ideologia manca completamente) inefficienti proprio nella
barocca elefantiasi delle parole, nel giro lungo e subordinato del periodare, nel
tentativo apparentemente ampio e togato d'un discorso che rivela la vuota pompa
d'una « ecriture » che esprime raffinatezza ed oratoria ben calcolate in un esterno
calore letterario, umano, e secentesco. (S'intenda barocco).
I tre volumi de « La buca di S. Colombano » possono anche leggersi o interpretarsi come ampi « pannelli » in cui predomina la ricerca della linea, della luce,
del colore, del narrativo, della memoria, con personaggi tipicamente borghesi, vuoti proprio nel senso che si muovono come invertebrati, acquosi e smorti in una
vita che ha ben poco senso; per cui ritentiamo che questi tre grossi volumi dello
scrittore Bonsanti siano privi d'una coscienza responsabile e storica del tempo
che l'autore ha decorato, anche, d'un impegno ideologico (Assente, s'è detto, negli
scrittori degli anni trenta). E ben ha detto Bonsanti a proposito della «. Buca »
— sintetizzando una verità evidente di attardarnento o anacronismo di romanzo —:
« E' un po' come sentirsi postumo di se stesso ».
Ma analizziamo brevissimamente i tre volumi dopo la faticosa, asmatica lettura. Nel primo volume de « La buca » (S'intitola « Caffè-concerto ») l'autore inquadra, con gusto proprio d'uno scrittore d'«antiquariato», la Firenze piccoloborghese del primo novecento; e, se consideriamo suggestiva o inutile la ricerca
dell'antiquariato, suggestiva ed anacronistica appare la descrizione di questo tipico ambiente. Vi si tratta del proprietario de « La buca », il signor Callisto; di suo
figlio, Antero; di due personaggi manichini, il cavalier Tasca e Arduino Cavai
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canti; dei due camerieri del locale, il furbo Eustachio ed il buon Melchiorre; infine,
di due canzonettiste, Lidia e Mara Grazia.
Bonsanti, tipico narratore fiorentino degli anni trenta, collaboratore di « Solarla » e letterato di « Giubbe rosse », esprime sin da questo primo volume il suo
« modus scribendi » analitico, disimpegnato, persino, con stile « liberty » come
quando descrive « La buca » « ...vasto locale rettangolare decorato nel soffitto di
stucchi floreali che racchiudevano le lampadine elettriche dentro foglie e bocci,
e alle pareti da grandi specchi molati, intramezzati da pannelli decorativi dipinti
in colori teneri verdi e rosa dove si ammiravano bagnati sulla riva di torrenti boschivi, o ninfe in atto di adornarsi di fiori... ».
Il secondo volume de « La buca » (S'intitola « Passioni senili » e si svolge per
ben ottocento pagine!) vede il signor Callisto, padrone della « buca »; acceso d'amore per Lidia, la canzonettista. Lidia, amata da Guido, vede il suo amore conteso
da Mara Grazia, la canzonettista malvagia. Ma il signor Callisto proteggerà l'amore
dei due giovani permettendo così che il bene prevalga sul male. Anche questo
secondo volume rivela la pedanteria del narratore che si compiace di descrivere
particolari insignificanti rifacendosi alla tecnica di Proust, svuotato, però, in Bon
santi, della delicata suggestione della parola propria dello scrittore francese:
« Passioni senili », il secondo volume de « La buca », appunto si perde nei labirinti di queste asmatiche, infinite descrizioni compiaciute proprie nel descrivere
minutamente persone ed oggetti: « Ritto sulla soglia del suo locale redditizio,
con la giacca a doppio petto rigorosamente abbottonata e la severa cravatta nera
e bianca accomodata intorno al colletto inamidato dalle becche rovesciate, comodo appoggio alla pappagorgia piuttosto abbondante, senza fazzoletto al taschino,
ma col tubino respinto leggermente sulla nuca, il signor Callisto,... ».
Finalmente giungiamo al terzo volume (Settecento pagine!!!) che s'intitola « La
gardenia appassita » in cui l'autore rivede la tecnica narrativa dei due precedenti
volumi; ora svolgendola in chiave di tecnica cinematografica come « estetica dello
sguardo »: di qui un descrivere fitto fitto, di parole e parole, belle ma vane, in
un'atmosfera ammorbata da un decadentismo consapevole e compiaciuto. Questa
la trama: il già accennato Guido è deciso a lasciare Maria Grazia per sposare Lidia.
Altro non citiamo; solo ricordiamo la vastità dell'opera che resta a documentare
un tipo di narrativa — in clima democratico, cioè in un'epoca in cui tutti possono
esprimere le proprie idee — assolutamente invecchiato e disimpegnato ideologicamente.
OTTAVO PANARO
Antonio
CASTELLANO,
Puglia sacra. La diocesi di Bitonto nella storia - Bi-
tonto 1963, Pp. 79.
Un significativo contributo alla storia della diocesi di Bitonto ha di recente
portato, seppur con più amorosa sollecitudine per il natio loco che con robusto
rigore scientifico, Antonio Castellano cui si deve questo smilzo libretto, condotto
con onesta sobrietà illustrativa e fondato, pur nella dichiarata finalità divulgativa,
su esaurienti ricerche bibliografiche.
Della diocesi bitontina, che espresse prelati d'insigne valore per santità di
vita e lume di dottrina e di non meno valido talento pastorale e diede due suoi
vescovi alla cattedra di S. Pietro, il Castellano ricerca ed illustra l'ordinata cro347
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notassi dei presuli e le opere e gli sviluppi che quei sacri Pastori impressero alla
vita religiosa del popolo ad essi affidato.
Fra i vescovi di quella Chiesa, che Urbano II, il grande regolatore dell'assetto
diocesano dell'Apulia normanna, ridusse il 1089 suffraganea dí Bari, spiccano,
oltre i nomi dei prelati che legarono il loro nome alla fabbrica dello splendido
Duomo, le forti personalità di Leucio Coradio, la cui vicenda pastorale tra gli
anni 13004306 è stata largamente lumeggiata dai documenti pontifici editi di recente dal compianto mons. Vendola, di Giovanni Lacadia, fondatore il 1333 della
fratria di S. Maria de Confratribus che si rese benemerita della comunità cittadina
per l'istituzione di un ospedale « per il ricovero dei poveri infermi e dei pellegrini »,
e del celebre conventuale piacentino Cornelio Musso, dotto teologo al Concilio di
Trento, oratore di grido e fondatore in Bitonto, il 1559, del Monte di Pietà, del quale
sarebbe interessante conoscere gli eventuali rapporti con l'omonimo ente napoletano ispirato, come ha recentemente documentato il p. Laugeni, dal teatino Beato
Giovanni Marinoni, del quale consta che il Musso fu ammirato uditore.
Senza soffermarci più oltre sul libro del Castellano, cui si raccomanda, per
gli ulteriori studi promessi nella prefazione, una più attenta revisione sovratutto
nella sezione bibliografica, rileviamo i profili dei vescovi salentini: Giacomo Vitelli
(o Castelli), dal Maggiulli segnato tra i vescovi di Castro fino al 1362, anno in
cui fu traslato a Bitonto, Luca Antonio della Gatta, otrantino, ed il neri-tino Vincenzo M. Manieri, primo vescovo, appresso il Concordato del 1818, delle diocesi
riunite di Ruvo e Bitonto, ove introdusse i canonici lateranensi e ripristinò i suoi
confratelli conventuali.
MICHELE PAONE
a cura dell' Association Internationale de Droit Pènal; Sezione distrettuale di Lecce, IX, 1961, n. 3.5, marzo-maggio.
" IL CRI 'I ONE „
Ecco l'interessante indice-sommario del fascicolo di primavera de « Il Critone », l'apprezzato organo della sezione leccese dell'Associazione internazionale
di Diritto Penale:
Il IX Congresso Internazionale di Diritto Penale all'Afa (24-30.VI11.1964);
La riforma del processo penale - Insegnamenti del Convegno di Lecce;
G. SABATINI, I reati contro la famiglia e la morale sessuale;
G. Rosso - M. NICOSIA, Le circostanze aggravanti nella problematica del diritto
penale;
G. D. PISAPIA, Orientamenti per una riforma della custodia preventiva nel processo penale;
P. NUVOLONE, L'istruttoria penale;
C. TAURINO, Ansie di rinnovamento;
PH. DE THAON, Da "Il Bestiario" (a c. di V. Pagano);
E. U. D'ANDREA, Poesie;
Il IV Congresso Italiano di scienze biologiche e morali (Roma - Mexico. 3-4.X.1964).
STUDI SALEN !IN',
VII, 1962,
fase. XIV.
Ecco l'interessante sommario del secondo fascicolo dell'organo del Centro di
Studi Salentini:
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Il II Convegno Internazionale di Studi Salentini.
ARTICOLI:
Battisti, Illirico e pura-illirico; G. Alessio, Problemi storico-linguistico inessapici; W. P. Schmid, Messapisch « klaohi », « klohi »; E. Cabei, Nochmals die Ringin.schriften aus Nord-albanien; S. Ferri, « Ager Pediculorum »; E. Manni, Alessan
dro il Molosso e la sua spedizione d'Italia; G. Marzano, Rinvenimenti a Valesio:
elementi e frammenti architettonici di templi; B. Sciàrra, Sull'abbazia di S. Andrea
all'Isola in Brindisi; P. F. Palumbo, Storia e leggenda nella Lecce medievale (a
prbposito di un personaggio mai esistito: Roberto Visconti); C. Sigliuzzo, Il Castello di Morciano; G. A. Pastore, Un madrigalista del sec. XVII: Michele Delipari;
M. Proto, Per una nuova interpretazione del Risorgimento salentino; A. Del Sordo,
Giovanni Crudomonte; P. Stomeo, Per una raccolta di testi neo-greci del Salento.
C.
RECENSIONI:
Fonti per la storia del Salento greco-romano; Guglielmo di Puglia in nuova edizione; Eustazio di Tessalonica e l'impresa antibizantina normanna del 1185; Le
carte più antiche della Chiesa agrigentina; Montecassino e la Capitanata
(P. F.
Palombo); Uno scultore salentino del Rinascimento (M. Paone).
BIBLIOGRAFIA SALENTINA:
Monumenti megalitici nel Basso Salento; L'anfiteatro di Lupiae; Una guida
itinerario del Museo di Brindisi; Sul convento basiliano di S. Nicola di Càsole,
Gli affreschi medievali di Massafra; Nardò dai Normanni agli Svevi; Per Stefano
da Putignano; Arte e artisti salentini in Dalmazia; Su Sciroletto, evirato cantore
del Settecento; Emanuele Manieri, architetto leccese del Settecento; Feudi napoleonici nel Salento; Manduria risorgimentale; Il Salento nell'epopea risorgimentale;
Nell'« Annuario » del Liceo. « V. Lilla» di Francavilla Fontana; Nell'« Annuario >,
del Liceo « Archita » di Taranto »; Nell'« Annuario » del Liceo « G. Palmieri»
di
Lecce; Nei « Quaderni » del Liceo « F. Capece» di Maglie; Sfogliando « La ZagcL
glia»; Tra giornali e riviste
(M. Paone ); Ancora intorno all'Aminirato; Un'opera
del Leo; Il mosaico pavimentale d'Otranto; Bibliografia salentina; Contributi di
G. Rohlfs
(P. F. Palombo).
LA PANORAMIC DI PELLEGRINO
La Poesia, allargando le braccia, accoglie tutti cristianamente indirizzando
verso il grande stadio del tempo, già gremito di folla, autori e lettori. Avanti c'è
posto. Le squadre dell'Arte si contendono l'alloro: applausi e fischi. Il cambio
degli atleti è consentito senza risparmio perché le gare continuano ininterrottamente da generazioni. Non leggiamo nessun vietato ai minori di diciott'anni, quindi
fiato alle pagine.
Scusateci l'aspetto sportivo, ma oggi le redazioni di alcune riviste letterarie,
come le giurie di vari premi, sono tante società sportivo-culturali al comando di
questo o di quell'allenatore. E l'idolo, che dovrebbe saltare fuori dalle associa
zioni d'arte, cambia nome da critico a critico.
Ci siamo tirati addosso una leggerezza totocalcica? Non fa niente. Siamo originali anche nell'indicarvi una sensibile raccolta di poesie (Litanie di S. Martino,
Ed. Salentina 1964 - Galatina).
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Perché Piero Pellegrino scrive sul vecchio tema del Sud? La ragione, come sí
legge nell'ultima pagina, sta « nell'inestricabile scoperta dell'esistere ».
Oggi, salvo eccezioni benvenute, una lirica si distingue dalla prosa solo per
la frequenza dell'«a capo» — con o senza punteggiatura — e per una cosiddetta
ritmica inferiore avvertibile, quando è ispirato, solo dall'autore, altrimenti rimangono pensieri schizzati sulla rotativa di un compiacente editore.
Le etichette poesia chiusa o poesia aperta, ermetica o realistica, contenutistica
o formalistica e via di seguito, almeno sul libro che teniamo sott'occhio, non si
debbono incollare: la Poesia, come ogni forma d'Arte, anche quando potessimo
classificarla chiusa o realistica, rimane sempre aperta al dialogo, alla consolazione dell'uomo. « Le rondini non hanno staccato / i ricordi dalle terrazze » o
dalle Litanie: vi godiamo una panoramica qui contadina e, laggiù « la mia terra
è sempre pianura »), marinara; panoramica che ci ripropone la condizione, anche
in chiave lirica, di una società dimenticata nei corridoi di una Questione.
Il Salento vive il Golgota di ogni giorno in queste litanie recitate con un accorato senso pittorico. Entriamo in paese (anche se ha un nome, è uguale a tanti)
mentre, nel sapore del mosto, i treni « salgono a un'altra Italia » e « la frusta /
che empie lo stradone svetta / tra oleandri rossi / e bianchi ». Dietro l'immediatezza delle immagini, troviamo la zona depressa « che si sbriciola al tramonto »
per rintanarsi con un sogno, nella notte dei poveri: <5 l'asfalto non punge sotto
i piedi / arrugginiti nel fango / e nei campi seminati da poco ».
In Pale di fichi d'India — la parte della raccolta che preferiamo —, il dialogo
ha un maggiore respiro, un modulo diverso senza apparati scenici. Nessuno chiamerà « fanciullo » Pellegrino solo perché ci dice che « tornando nei campi del
sud, / non volli lasciare le altre / parole nei segni del seme taciuto... ». Un dolore
quotidiano, ma niente allarmismi e tragedie, anzi abbiamo un pane di religiosità
e dì sopportazione: « Tu non cambi / la Fede / miracolata dal gettito / d'incenso
quando sale / gonfiando le cupole che svettano ». Sono le cupole le vere colline
di questa pianura, di questa gente segreta che non vuole salire « a un'altra Italia ».
Il tema del vecchio sud non è di oggi, ma Pellegrino vi si è accostato con
versi equilibrati senza cadere nel manierismo provinciale di formule sorpassate.
Il distratto può fermarsi alla bettola « dove il tressette affretta / il canto... » oppure fotografa « la contadina del sud », ma il lettore attento si accorgerà che la
panoramica lirica è « nell'eterno raggio del dolore » che s'intravede qua e là per
un'altalena di luci.
Torniamo sportivi. Piero Pellegrino, atleta isolato, non è rimasto sconfitto
(anche un verso può suicidare un poeta) da « Litanie di S. Martino ».
NESTORE CAGGIANO
LA MAGNIFICA GESTA DEI MILLE.
In un clima di imperversante sperimentalismo poetico, piace incontrare qualche spirito dotato di senso critico e di preparazione culturale e che si rifaccia
— con senso di modernità — ad una buona tradizione
E' quel che vien di pensare leggendo i centouno sonetti che compongono « La
magnifica gesta dei Mille », che Oronzo Colangeli ha pubblicato in nitida, dignitosa edizione (Editrice Orlivera, Bari, 1963). L'autore — come ha scritto nella premessa — ha inteso « presentare una storia consueta in veste insolita; lasciare
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all'immaginazione il respiro necessario ad attingere le sfere dell'irreale, senza,
per altro, perder di vista la realtà ». Nella scia di un Carducci poeta della storia, di
un Marradi, di un Pascarella (che il gusto e la critica contemporanei hanno forse
eccessivamente condannato), il Colangeli ha ripercorso poeticamente tutta l'impresa che da Quarto al Napoletano portò alla liberazione dal giogo borbonico
l'Italia meridionale e fu determinante per il risveglio politico del Sud. « Pur senza
indulgere all'episodico e all'ornamentale », continua l'autore, « abbiamo puntualizzato situazioni e particolari, se non inediti, per lo meno poco noti o sepolti nell'oblio, ma che fossero tali da agitare la mente dei lettori ». Avremmo scritto noi
queste parole, recensendo il volume, se non le avesse già dette l'autore, tanto è
evidente, nella poetica descrizione della « magnifica gesta », il riuscito equilibrio
tra il fatto e lo spirito animatore dell'impresa, tra l'episodio, appunto, e il mito.
T ra peculiare caratteristica dei versi del Colangeli è la sintesi del moderno
e del tradizionale, ottenuta mediante l'innesto, sul tronco del sonetto, di un linguaggio nient'affatto antiquato od ottocentesco (pericolo proprio di questo genere
mitico-poetico), ed anzi assolutamente scorrevole e contemporaneo, di una discorsività vagamente « crepuscolare », mai sciatta o fastidiosa. Eccone un esempio:
Con un respiro di scogliere salse
giungono volontari melitani,
celati sotto vele di paranze
tra risa d'onda come battimani.
Ed ecco un secondo esempio:
Gl'inseminati pascoli marini
percorre verso l'isola sorella
il Condottiero, a bordo di due pini
che sbadigliano all'occhio d'una stella.
trovate retorica, vi trovate artificio? Oronzo Colangeli anzi vi conduce at
traverso il fatto storico (scientificamente esatto) in una temperie ed in una trasfigurazione lirica che non sentono di sforzo. I suoi versi, più che allo stesso gran
de modello carducciano o a quello marradiano, hanno la freschezza (si licet componere l'italiano al romanesco) di quelli del Pascarella, esaltanti un'altra grande
impresa, quella colombiana.
Anche le note storiche a commento di ogni sonetto, sobrie, puntuali, rivelano
nell'autore una serietà di propositi, una cultura, una passione che ci salvaguardano
da ogni faciloneria e da ogni dilettantismo.
I disegni di Giovanni Pinto e di Giuseppe Giurgola accrescono l'interesse dell'edizione; quelli caricaturali del Giurgola, di buon gusto, ci riportano in un clima
risorgimentale.
Vi
FRANCESCO LALA
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