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Arte e Cultura
La Chiesa dei Santi Giovanni
Battista e Giovanni Bono a Recco
di Gianni Franzone
La recente mostra Il piano della ricostruzione secondo il progetto
dell’architetto Claudio Andreani, organizzata dall’associazione culturale
Le Arcate e seguita da un incontro di approfondimento tenutosi a villa
Dufour, è stata l’occasione per riflettere sulla riedificazione della cittadina
della Riviera di Levante a seguito dei terribili bombardamenti che
la colpirono durante la seconda guerra mondiale.
Queste pagine intendono analizzare ulteriormente quanto già
emerso in quella sede e gettare uno sguardo diverso – non
inedito, ma più circostanziato – sulla chiesa parrocchiale dei
Santi Giovanni Battista e Giovanni Bono. Cercheremo di inquadrarla in un contesto più ampio, non limitato a quello ligure, inserendola nell’atmosfera politico-culturale e nel dibattito architettonico dei primi anni del secondo dopoguerra, che
prendeva avvio da un rapporto comprensibilmente molto difficile con l’eredità che i decenni precedenti avevano lasciato
– decenni che, ricordiamolo, si erano conclusi con una tragedia di dimensioni mai viste – , da un lascito, insomma, assai
ingombrante, su cui gravava una pesante ipoteca ideologica
che solo più recentemente si è stati in grado di liberare dalle
aporie più contingenti.
Ma procediamo con ordine. La vecchia parrocchiale venne distrutta nel corso dei ventisette bombardamenti aerei anglo-americani che colpirono Recco in poco di meno di un anno, tra il
10 novembre 1943 e il 6 novembre 1944 1. Fu il lungo viadotto ferroviario la causa di tanto accanimento: obiettivo strategico tra i più rilevanti, punto di passaggio inevitabile per la linea
che portava a Roma, il suo abbattimento significava interrompere il traffico tedesco su rotaie tra la capitale e la parte nordoccidentale della penisola. Nell’aprile del 1945 la cittadina si
presentava praticamente rasa al suolo, per cui la giunta comunale provvisoria decise di affidare, già dal luglio successivo, il
A fronte
Veduta di Recco e della Parrocchiale.
piano di ricostruzione generale all’architetto Claudio Andreani.
Questo prevedeva, tra l’altro, che i due edifici simbolo dell’autorità laica e di quella religiosa, il palazzo del Comune e la chiesa, che in passato si fronteggiavano in piazza Vittorio Emanuele, sarebbero stati ricostruiti in due piazze distinte, collegate da
un porticato: la parrocchiale sarebbe risorta in una piazza che
avrebbe conservato le caratteristiche della vecchia, mentre il
municipio sarebbe stato edificato in una nuova piazza che doveva diventare il centro della cittadina. Non è questa la sede
per ripercorrere le complicate vicende del piano di Andreani:
basti ricordare che, dopo anni di polemiche, approvazioni, modifiche e varianti, ancora nel 1951 il piano venne rielaborato,
ma non da Andreani, bensì da Giuseppe Ginatta, allora presidente dell’ordine degli architetti di Genova.
La ricostruzione della chiesa, in ogni caso, procedette più speditamente di molte altre opere pubbliche, il che suscitò infuocate polemiche, puntualmente riprese dalla stampa locale. Nel
luglio 1946 la Fabbriceria della parrocchiale costituì una commissione tecnica per lo studio del progetto del nuovo edificio
di culto. A presiederla venne chiamato l’architetto Carlo Ceschi, Soprintendente ai monumenti della Liguria, che accettò
l’incarico. La documentazione circa il progetto della chiesa è
purtroppo assai scarsa. È conservata una lettera della Curia
arcivescovile 2, datata 16 dicembre 1946 e inviata contemporaneamente al Provveditore alle opere pubbliche, al Sindaco
e al Soprintendente ai monumenti, in cui è riportato quanto
deliberato dalla Commissione per la ricostruzione delle chiese e delle opere diocesane circa la posizione della nuova chie-
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sa, con allegata una planimetria approssimativa della stessa
e delle aree circostanti. In tale nota si comunicò che l’ubicazione del nuovo edificio era leggermente mutata rispetto a quella della chiesa distrutta, “secondo un più razionale criterio urbanistico”. Ceschi si dichiarò favorevole a quanto indicato nella lettera, mentre, tra le varianti del piano di ricostruzione discusse in consiglio comunale il 12 gennaio 1947, venne approvata quella in base alla quale la nuova piazza doveva mantenere la fisionomia della vecchia: un disaccordo che rivela molto del clima surriscaldato in cui avvenne la ricostruzione. Poi
silenzio. L’8 settembre 1949 l’Arcivescovo di Genova Giuseppe Siri benedì la prima pietra dell’altare maggiore e assistette
alla gittata di cemento per un pilastro centrale. Per tutto l’anno successivo, mentre proseguivano le polemiche e gli scontri sull’attuazione del piano di ricostruzione che quasi paralizzarono l’edificazione dei nuovi edifici a uso civile, tra cui le scuole e l’ospedale, l’edificazione della chiesa proseguì velocemente e senza intoppi. La consacrazione avvenne il 1 maggio 1951,
sempre alla presenza dell’Arcivescovo Siri.
Il progetto della nuova parrocchiale è da attribuirsi a una coppia di architetti romani, Umberto e Attilia Travaglio. Dei due è
lei, Attilia Vaglieri 3 , la figura più interessante e a presentarsi
con un curriculum di tutto rispetto. Classe 1891, apparteneva a quel manipolo di donne – tra cui Elena Luzzatto e Achillina Bo, più nota come Lina Bo Bardi – che per prime, in Italia, decisero di dedicarsi all’architettura e all’urbanistica in un
momento storico per loro certamente non favorevole. Fu molto attiva tra gli anni venti e trenta del Novecento: oltre a dedicarsi all’edilizia residenziale privata e alla decorazione di interni, realizzò progetti prestigiosi e di ampio respiro, come quello per la cattedrale di Beirut, la sistemazione della zona dantesca a Ravenna, lo studio per la città polisportiva Dux a Ostia,
il piano regolatore di Monte Cavo, il piano monumentale per
la “zona della musica” sull’Aventino, un progetto che prevedeva un auditorium da 60.000 posti, un palazzo dei congressi e uno della musica, un teatro popolare all’aperto, un pensionato musicale e l’Accademia di Santa Cecilia. Aveva vinto
anche il concorso internazionale per il museo greco-romano
di Alessandria d’Egitto, ma, in rispetto alle leggi musulmane,
non le venne assegnato il premio in quanto donna.
Se passiamo a esaminare l’edificio, dell’esterno colpiscono
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le forme semplici e squadrate. La facciata è un parallelepipedo rivestito di travertino, circondato alla base da un portico architravato, con un’unica concessione alla decorazione nelle statue dei
quattro Evangelisti provenienti dalla vecchia chiesa e nel mosaico trapezoidale realizzato nel 1960 dalla ditta Sgorlon di Milano sui cartoni al vero di Antonio Giuseppe Santagata e dedicato al
ricordo della tragedia bellica: sopra una
Recco devastata, i due santi offrono il
modello della nuova chiesa a Cristo in
gloria, circondato da sei angeli. L’opera riprende un modello che l’artista aveva già utilizzato molti anni prima: L’offerta
della Casa Madre alla Vittoria per l’abside del Salone delle
adunate nella Casa Madre dei Mutilati di guerra a Roma
(1932). L’intero complesso dell’edificio risulta definito da linee ortogonali che delimitano parallelepipedi nitidi: le tre navate, il transetto, l’abside, la torre campanaria e l’adiacente
casa parrocchiale, tutti con copertura piana, a terrazza, tutti a intonaco liscio e chiaro, ad eccezione del campanile, rivestito, come la facciata, in travertino. Forme geometriche
pure caratterizzano anche la cupola emisferica su tamburo
cilindrico, ricoperta da scaglie di ardesia. In occasione dell’inaugurazione, la stampa locale sottolineò la semplicità e
l’armonia, la funzionalità e la modernità dell’edificio, “che appare oggi come uno dei pochi esempi di stile funzionale nel
campo religioso e ricca di quella particolare luminosità e sobrietà di linee, proprie delle costruzioni mediterranee”4.
Proprio quest’assonanza con lo spirito dell’architettura “razionale-mediterranea” degli anni trenta deve essere alla base delle numerose voci e testimonianze orali in base alle quali la nuova parrocchiale riprenderebbe il progetto di una chiesa che
avrebbe dovuto essere costruita in una delle colonie africane
dell’Italia fascista. E, in effetti, nonostante non ci siano documenti che comprovino una derivazione diretta, la vicinanza c’è
ed è evidente. La parrocchiale recchese è ancora frutto di quell’interessante dibattito che produsse alcuni tra i migliori risultati dell’architettura coloniale italiana degli anni trenta e che
trovò, qualche anno prima, nelle città di nuova fondazione della madrepatria – Littoria, oggi Latina, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e Pomezia, tanto per citare gli episodi più noti – un banco
di prova tra i più riusciti. Basta confrontare la chiesa dei Travaglio con quella della Santissima Annunziata di Sabaudia, costruita nel 1934 su progetto di Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli, cui si deve il piano
urbanistico complessivo della cittadina, per rendersi conto che
entrambe esprimono la stessa idea di architettura. La torre campanaria di Recco è sostanzialmente identica a quella del municipio del nuovo centro laziale, come, pur nella differenza dei
Sopra e a fianco
Due immagini dei villaggi rurali costruiti da Italo Balbo in Libia (1937-39).
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materiali di rivestimento, a quella della chiesa di San Michele Arcangelo ad Aprilia, la quarta città dell’Agro “redento”, fondata nel 1937 su progetto di Emanuele Filiberto Paolini, Concezio Petrucci, Riccardo Silenzi, Mario Tufaroli. Per fare qualche altro esempio e nonostante la scala diversa, sono notevoli le somiglianze anche con le chiese di centri minori, come
quella di Podlabin (1940), allora Pozzo Littorio, in Istria, su progetto di Eugenio Montuori o, se ci spostiamo nel Dodecaneso, allora possedimento italiano, quella dedicata a San Francesco (1936-39) a Rodi città, su progetto di Armando Bernabiti: tutte architetture costituite da volumi stereometrici lineari rivestiti con pietre locali, volutamente semplici, assolutamente funzionali, ma attente alla tradizione autoctona e all’eredità del passato, entrambe interpretate con i mezzi, i materiali
e l’etica dell’attualità. Ovunque equilibri di masse, armoniosi
contrasti fra pieni e vuoti, un sapiente sfruttamento dei giochi
di luce e ombra; costruzioni in cui l’aderenza al linguaggio razionale risponde all’intento di creare opere moderne, ma nel
rispetto dell’ambiente circostante, con in più quel tanto di derivato dalla pittura metafisica che costituisce uno degli esiti migliori dell’architettura italiana degli anni trenta, ma che troviamo, a partire dalla seconda metà del decennio precedente,
anche in molti capolavori del deco nostrano, dalle pluripremiate maioliche di Gio Ponti ai mobili dei Novecentisti milanesi,
tanto per fare qualche esempio.
E se esistono analogie palesi tra la parrocchiale recchese e i
progetti per una chiesa da costruirsi in Africa Orientale, proposti in occasione di un concorso indetto per i Littoriali d’architettura del 1937 a Napoli5 - in particolare col progetto di E. Casalini e G. Libani del Gruppo universitario fascista (GUF) di Roma, che ottenne una menzione speciale dalla giuria, ma anche con il secondo classificato di Luigi Pagani del GUF di Milano - riteniamo che siano alcune opere costruite in Libia a essere più interessanti per il nostro discorso. In primis perché le
terre libiche appartenevano e appartengono, geograficamente,
storicamente e culturalmente, alla “mediterraneità”; in secondo luogo perché, nell’Italia fascista, mentre Etiopia, Eritrea e Somalia erano a tutti gli effetti colonie, la Libia diventò la “Quarta
Sponda”, cioè un territorio che, anche dal punto di vista legislativo e amministrativo, faceva parte della madrepatria e, non
a caso, ad alcuni cittadini libici “qualificati” era concessa la cosiddetta “piccola cittadinanza”. Pur nelle differenze di scala e
di rappresentatività, la parrocchiale di Recco va messa in rela-
zione con i villaggi che il potente governatore Italo Balbo fece
allestire in vista della “colonizzazione demografica intensiva” della Tripolitania e della Cirenaica, che portò circa trentamila contadini italiani a trasferirsi, tra il 1938-39, in quelle terre 6. La concezione dei villaggi coloniali di Balbo – Beda Littoria, Luigi di
Savoia, Giovanni Berta e Primavera, poi ribattezzato Luigi Razza, avviati, nella piana di Cirene, nel 1932 prima del suo arrivo e poi, tra il 1937-39, Maddalena, D’Annunzio, Baracca, Battisti, Filzi, Sauro, Oberdan e Mameli, ancora in Cirenaica, e Crispi, Gioda, Breviglieri, Oliveti, Giordani, Bianchi, Micca, Tazzoli, Marconi, Castelverde, Corradini e Garibaldi in Tripolitania, la
cui costruzione fu affidata a architetti come Florestano Di Fausto, Umberto Di Segni e Giovanni Pellegrini che, nel 1936, redasse il Manifesto dell’architettura coloniale – colpisce per una
decisa scelta in chiave “razionale-mediterranea”. Gli edifici, anche quelli collettivi dalla spiccata vocazione simbolica, come la
casa del fascio e la chiesa, sono masse bianche e luminose,
veri e propri solidi geometrici (in particolare cubi e parallelepipedi) dalle volumetrie elementari ma articolate e dalle forme pure e essenziali, classiche nella loro laconicità, senza la minima
decorazione. Solo porticati lunghi e profondi, ampie arcate in
successione e finestre di varie dimensioni bucano e movimentano le superfici. E in più con quel tanto di metafisico che accomuna i villaggi libici ai centri della “bonifica integrale” della
madrepatria cui abbiamo accennato poco sopra. È “architettura mediterranea” nel senso più proprio del termine - “cubi
bianchi e terrazze soleggiate, sotto un cielo azzurrissimo”, per
dirla con le parole di Carlo Enrico Rava - che “apparenta l’italianissima architettura locale delle nostre colonie libiche a quella delle nostre altre coste mediterranee, da Capri a Camogli” 7.
E difficilmente sapremmo trovare parole più appropriate per esprimere lo spirito della parrocchiale di Recco.
Note
1
Si veda in proposito S. Pellegrini, Recco, Avegno, Uscio: storia di una vallata, Recco 1983 e F. Alberico, Recco 1900-1945: autoritratto di una città in
guerra, Recco 2001.
2
Archivio storico della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria, prot. 2892. Vd. in proposito l’accurata ricostruzione di D. Portaluppi, La Parrocchiale di Recco: riadattamenti e restauri postbellici, tesi del
corso di laurea triennale in Conservazione dei beni culturali, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Genova, anno accademico 2004/2005,
in particolare pp. 60-85.
3
Per Attilia Vaglieri si veda A.M. Speckel, Architettura moderna e donne architette, in Almanacco della donna italiana, Milano 1935; K. Cosseta, Ragione e sentimento dell’abitare. La casa e l’architettura nel pensiero femminile tra
le due guerre, Milano 2000, pp. 73-74; G. Bassanini, Le “madri dell’architettura moderna”: alcuni ritratti nel panorama italiano e straniero, in “Parametro”, XXXV, 257, maggio-giugno 2005, pp. 20-24.
4
Consacrata a Recco la Chiesa Parrocchiale, in
“Il Nuovo Cittadino”, 3 maggio 1951, p. 4.
5
Vd. R. Giolli, Littoriali 1937. Progetto di chiesa
per l’A.O., in “Casabella”, X, 117, settembre 1937,
pp. 20-25.
6
Vd. in proposito G. Franzone, The Demographic
Colonization of Lybia: Propaganda, Art and Architecture, in S. Barisione, M. Fochessati, G. Franzone (a cura di), Under Mussolini. Decorative and Propaganda Arts of the Twenties and Thirties, cat. mostra, Londra, Estorick Collection, 2002, pp. 47-54.
7
C. E. Rava, Di un’architettura coloniale moderna, in “Domus”, IV, 42, giugno 1931, p. 32 e “Domus”, IV, 41, maggio 1931, p. 89.
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