Copia di 6e228950c1f1108dca69cfaeccee831a Pianeta scienza MARTEDÌ 1 LUGLIO 2014 IL PICCOLO Big Data, la Sissa scopre come trovare le città senza mappa Categorizzare e rappresentare in maniera sintetica enormi quantità di dati (si parla di peta, o addirittura esa-byte di informazione) è la sfida del futuro. Una ricerca della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, pubblicata sulla rivista Science, propone una procedura efficiente per affrontare questa sfida. Gli addetti ai lavori usano l’espressione big data per indicare grandissime quantità di in- formazioni, come quelle (foto, video, testi, ma anche altri tipi di dati più tecnici) che vengono condivise da miliardi di persone in ogni momento attraverso computer, smartphone e altri dispositivi elettronici. Quello attuale è uno scenario che offre prospettive senza precedenti: tracciare le epidemie di influenza, per esempio, o monitorare il traffico stradale in tempo reale, o ancora gestire l’emergenza in caso di catastrofi naturali. Per usare questa enorme mo- le di dati, però bisogna capirli, e prima ancora bisogna categorizzarli in maniera efficace, veloce e automatizzata. Uno dei sistemi più usati è un insieme di tecniche statistiche chiamate Cluster Analysis (Ca), in grado di raggruppare i set di dati secondo la loro “somiglianza”. Due ricercatori della Sissa hanno ideato un tipo di Ca basato su principi semplici e potenti, che si è dimostrata molto efficiente e in grado di risolvere alcuni dei problemi più tipici in questo ambito di analisi. «Pensate a un database di fotografie di volti -, spiega Alessandro Laio, professore di Fisica e Statistica Biologica della Sissa -, nell’archivio ci possono essere più fotografie di una stessa persona, la Ca serve a raggruppare tutti gli scatti relativi allo stesso individuo. Questo tipo di analisi viene fatto per esempio dai sistemi automatici di riconoscimento dei volti. Noi abbiamo cercato di ideare un algoritmo più effi- AL MICROSCOPIO ciente di quelli attualmente usati, che risolva alcuni dei problemi classici della Ca». «Il nostro approccio si basa su un modo nuovo di individuare il centro dei cluster, cioè i sottoinsiem i - spiega Alex Rodrigez, autore insieme a Laio della ricerca -: provate a immaginare di dover individuare tutte le città del mondo, senza avere a disposizione una mappa. Un compito immane», spiega Rodriguez. «Abbiamo perciò individuato un’euristica, cioè una regola semplice, una sorta di scorciatoia per ottenere il risultato». Nuovi test al Burlo contro la celiachia I ricercatori triestini hanno messo a punto una diagnosi che predice l’evoluzione della malattia di Simona Regina Se fino a qualche decennio fa si pensava che la celiachia fosse una rara forma di intolleranza, oggi invece è noto che si tratta di una malattia autoimmune. È scatenata dall'assunzione di glutine, il principale componente proteico di avena, frumento, farro, orzo, segale. Il celiaco, dunque, deve escludere dalla propria tavola gli alimenti che lo contengono: quindi pane, pasta, biscotti, pizza. Perché la dieta senza glutine è l’unica terapia che gli garantisce un perfetto stato di salute. La diagnosi è piuttosto facile: esistono infatti dei test rapidi, da eseguire anche su campioni di sangue molto piccoli. Se i test sono facili, non sempre però è facile correlare alcuni sintomi, anche gravi, con la malattia. I sintomi principali sono diarrea e gonfiore addominale. Ma a volte la celiachia si palesa anche attraverso altri sintomi e disfunzioni. Per esempio anemia, stanchezza cronica e diabete tipo 1 possono far sospettare la malattia, che si stima colpisca una persona su cento. Ora, grazie a uno studio condotto dall’Ospedale mater- Un laboratorio all’ospedale infantile Burlo Garofolo. Messi a punto nuovo test per la celiachia no-infantile Burlo Garofolo di Trieste, si ha a disposizione un nuovo test per diagnosticare i casi dubbi: «Si tratta di cercare depositi di anticorpi antitransglutaminasi (anti-tTG IgA) nella mucosa intestinale direttamente su sezioni di biopsia» spiega Stefano Martelossi, re- sponsabile del servizio di Gastroenterologia della Clinica pediatrica del Burlo e consulente scientifico dell’Associazione Italiana Celiachia. «Solitamente – aggiunge – è la loro presenza nel siero dei pazienti celiaci a consentire la diagnosi, ma può succedere che per tempi anche lunghi, in presenza o meno di segni clinici conclamati, questi anticorpi non siano presenti nel siero pur essendo già iniziata la loro produzione e quindi la malattia». I ricercatori triestini, analizzando infatti 900 campioni di biopsie intestinali, hanno verificato la presenza dei depositi intestinali di questi anticorpi non solo in tutti i soggetti con un quadro certo di celiachia, ma anche nei soggetti con celiachia latente (mucosa normale ma presenza di anti tTG nel siero) e con celiachia potenziale (per esempio in caso di predisposizione genetica). Che così, grazie alla diagnosi precoce, hanno iniziato la dieta senza glutine, con conseguente scomparsa dei disturbi. I depositi di anti tTG IgA nella mucosa intestinale sono invece risultati assenti in tutti i soggetti non celiaci. «Questa tecnica diagnostica, insomma, riesce a predire l’evoluzione della patologia con molti mesi di anticipo» precisa Martelossi. Che aggiunge: «Oggi la biopsia intestinale non è più necessaria per la diagnosi di celiachia nei casi pediatrici clinicamente conclamati, con un livello di anticorpi specifici molto superiori alla norma e con caratteristiche genetiche che predispongono alla malattia». «Tuttavia aggiunge Martelossi - rimane essenziale eseguirla per la diagnosi in presenza di un quadro clinico incompleto o meno chiaro». ©RIPRODUZIONE RISERVATA La salute? Dipende dalle disuguglianze sociali Giovedì e venerdì un workshop organizzato da Twas e Iamp per monitorare i cambiamenti globali Salute non è solo assenza di malattia. La salute e, in senso più ampio il benessere, si conquistano eliminando le diseguaglianze sociali e garantendo accesso a cure mediche, acqua e cibo, condizioni sociali dignitose, un'educazione di base e un lavoro. Questi e altri fattori sono i determinanti sociali della salute: indicatori usati per fotografare lo stato dei popoli, che potrebbero orientare i governi ad avviare politiche più eque. Di determinanti sociali della salute si parlerà a Trieste, giovedì e venerdì, all’Hotel Continentale, in occasione del workshop “Promuovere gli interventi sui determinanti sociali della salute”. L'evento è organizzato dalla Twas, accademia mondiale delle scienze, e dalla Iamp, il network delle accademie mediche mondiali, con sede a Trieste. Circa 40 i partecipanti provenienti da 25 paesi, fra cui autorità come Sir Michael Marmot, direttore dello University College London Institute of Health Equity, Jessica Allen e Ruth Bell, rispettivamente vicedirettore e ricercatore senior presso lo stesso istituto. Sono attesi, inoltre, Jo Boufford, presidente dell'accade- mia di medicina di New York, e Inge Heim, segretario generale dell'accademia croata di medicina. «I determinanti della salute possono fungere da marcatori dei cambiamenti sociali» spiega Marmot, che è fra gli autori di del rapporto dell’Oms redatto nel 2005 proprio su questo tema: «Perciò è importante mettere a punto efficaci sistemi per monitorare tali determinanti, con cui inquadrare il livello di diseguaglianza sociale». Bisogna però distinguere fra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, specie in tema di Galileo. Koch. Jenner. Pasteur. Marconi. Fleming... Precursori dell’odierna schiera di ricercatori che con impegno strenuo e generoso (e spesso oscuro) profondono ogni giorno scienza, intelletto e fatica imprimendo svolte decisive al vivere civile. Incoraggiare la ricerca significa optare in concreto per il progresso del benessere sociale. La Fondazione lo crede da sempre. salute pubblica, spiega Marmot. I paesi sviluppati registrano un aumento nelle malattie non comunicabili (tumori, obesità e patologie associate a fumo, alcol, mancanza di esercizio fisico). Nei paesi in via di sviluppo, dove purtroppo anche le malattie non comunicabili sono in aumento, il peso economico sanitario deriva soprattutto da infezioni e malattie legate a igiene carente, cibo e acqua di scadente qualità e persino dallo scarso accesso all’educazione primaria. «Nei paesi in via di sviluppo - aggiunge Jessica Allen - la povertà causa 25 stress, ansia e depressione, che incidono sulla salute mentale dei bambini». Ovvero, delle generazioni future. Pertanto, commenta Ruth Bell, serve un movimento globale che stimoli la riflessione su questi temi. Il workshop Iamp vuole riunire intorno allo stesso tavolo scienziati e rappresentanti governativi. La speranza è che, unendo le competenze, e usando i determinanti di salute come cartine tornasole del benessere delle nazioni, i governi possano avviare azioni concrete che vadano oltre le parole. cr. s. QUESTA PAGINA È REALIZZATA IN COLLABORAZIONE CON Abbronzarsi è come drogarsi: causa dipendenza di MAURO GIACCA U n raggio di luce ultravioletta colpisce una cellula dell’epidermide. Giunge fino al Dna e lo danneggia. La cellula si accorge del danno, che può portare alla sua morte, o, peggio, trasformarla in una cellula tumorale, e attiva una serie di meccanismi di riparazione e protezione. Tra le proteine che vengono prodotte c’è anche la propiomelanocortina, che viene poi spezzettata in tanti frammenti più piccoli; una di questi stimola i melanociti vicini alla cellula colpita a produrre un pigmento protettivo, la melanina. Alla fine, la pelle diventa più scura, per assorbire meno raggi dannosi. Perché milioni di persone ogni anno ossessivamente si espongono al sole per innescare questo processo molecolare di difesa soltanto allo scopo di abbronzarsi? Perché stare al sole diventa un comportamento compulsivo? E, infine, perché le persone che amano il sole trovano invece del tutto insoddisfacente essere esposti alla sua luce attraverso un vetro che scherma i raggi ultravioletti? La risposta ce la dà questa settimana un gruppo di Harvard in un articolo pubblicato sulla rivista Cell. Oltre alla melanina, una delle piccole proteine che derivano dallo spezzettamento della propiomelanocortina, indotta dai raggi ultravioletti, è la beta-endorfina, il più potente degli oppiacei prodotti in maniera endogena dal nostro organismo. Dalla pelle, la beta-endorfina circola nel sangue e giunge al cervello, dove stimola una sensazione di analgesia e di piacere. Ecco che allora abbronzarsi rappresenta una maniera “naturale” per attivare gli stessi recettori che inducono euforia quando si assumono eroina, morfina e similari. Questo meccanismo spiega molto bene l’effetto di dipendenza che si sviluppa in molti appassionati alla tintarella. Topi esposti alla luce ultravioletta in maniera continuativa, e poi privati della stessa o trattati con il farmaco antagonista naloxone (che si usa nei pazienti con overdose di eroina), presentano sintomi simili a una crisi di astinenza. L’esposizione cronica agli oppiacei causa anche tolleranza, e questo fa capire perché chi si abbronza cerca tempi di esposizione al sole progressivamente sempre più lunghi. Insomma inseguire la tintarella è di fatto analogo ad assumere una sorta di droga interna, che dà dipendenza e richiede dosi sempre più alte. Questo spiega anche perché, nonostante campagne di prevenzione massicce per cui tutti ormai sono a conoscenza che l’esposizione ai raggi ultravioletti rappresenta il maggiore fattore di rischio per i tumori della pelle, inclusi i melanomi, l’incidenza di questi tumori sia in aumento costante di circa il 3% ogni anno. ©RIPRODUZIONE RISERVATA