Politica > Opinioni > Italia - venerdì 20 dicembre 2013, 08:30
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Forme di vicinanza e di autoritarismo dei tutori dell’ordine
Dal bacio al poliziotto al carnet delle multe del vigile urbano
Gianpiero Gamaleri
Il bacio dato dalla ragazza al poliziotto a Torino, dopo che gli agenti si erano tolti i caschi, è un
gesto che ci riempie di tenerezza e ci fa intravedere uno spiraglio di pace sociale tanto più prezioso
in questo momento così difficile. I superiori dei tutori dell’ordine si sono affrettati a dire che non c’era
niente di nuovo, che anzi è stata l’applicazione di una collaudata tecnica di dissuasione nei confronti dei
manifestanti. Ci immaginiamo anche esercitazioni basate sulla tecnica del bacio – sulla guancia,
naturalmente – attuate tra militari di sesso maschile e reclute femminili per affrontare le situazioni più
delicate
Ma siamo sicuri in cuor nostro che quei gesti non siano stati la semplice applicazione di un ordine,
ma un gesto spontaneo di comprensione, di fraternizzazione. Tanto più importante in questa temperie
sociale in cui le manifestazioni di piazza sono all’ordine del giorno e non sembrano destinate ad
attenuarsi. Tutto ciò pone il problema del rapporto tra i cittadini e le forze dell’ordine. E a questo
proposito abbiamo negli occhi tipi di immagine diametralmente opposti.
Da una parte, come abbiamo detto, vediamo il rispetto e la tolleranza. Dall’altra forme inquietanti
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale
reperibile al link http://www.lindro.it/0-politica/2013-12-20/112780-forme-di-vicinanza-e-di-autoritarismo-dei-tutori-dellordine
L'Indro è un quotidiano registrato al Tribunale di Torino, n° 11 del 02.03.2012, edito da L'Indro S.r.l.Copyright L'Indro S.r.l. Tutti i diritti riservati
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di estraneità, d’intolleranza, di prevaricazione. La prima dimensione ha le sue radici, tra l’altro, nei
famosi articoli scritti da Pier Paolo Pasolini addirittura a metà degli anni ’70, quando vedeva nei
poliziotti quei “figli del proletariato”, quei figli dei ceti popolati che, nel rispetto della loro missione di
tutori dell’ordine pubblico, soffrono in realtà le stesse situazioni di disagio non solo economico ma anche
morale e culturale dei manifestanti che si trovano a fronteggiare.
E’ di questi giorni un episodio davanti a Montecitorio in cui un disoccupato interloquiva con un giovane
agente per rappresentargli le ragioni della protesta. E, per varcare i nostri confini, questa stessa dinamica
si sta producendo anche in Ucraina, pur nell’ambito dei gravi disordini di natura politica che travagliano
quel Paese.
E ancor più rispetto, tolleranza, dialogo sono le parole-chiave dei nostri militari sui vari versanti
delle cosiddette “missioni di pace” sui più travagliati fronti, parole che riescono persino a
coniugarsi con lo stillicidio di caduti sul campo. Un atteggiamento profondamente umano e maturo che
fa veramente onore alle nostre truppe e per il quale siamo di esempio anche per contingenti militari di
altri Paesi. Diciamo pure: il meglio che la nostra tradizione e cultura militare riesce ad esprimere per un
autentico obiettivo di pacificazione sui terreni più difficili del pianeta.
Ma c’è anche l’altra dimensione, purtroppo domestica, di intolleranza e soprattutto di estraneità di
altri operatori dell’ordine pubblico. Senza giri di parole, mi riferisco alla gran parte dei vigili urbani,
quegli agenti con cui dovremmo essere più a contatto quotidianamente e su cui dovremmo poter contare
nelle vicende ordinarie della vita.
Qui la situazione, a mio avviso, è molto grave e segna una profonda carenza di fiducia difficile da
recuperare. Basta un’immagine quotidiana. Come si muovono i vigili urbani, almeno quelli di una
grande città come Roma Capitale? Sono pressoché sempre isolati, a due a due, parlano tra loro, quasi mai
si mescolano con la gente.
C’è una scienza precisa che si occupa di queste situazioni: si chiama “prossemica” e studia la
disposizione degli esseri viventi in uno spazio, per esempio sotto la pensilina di una fermata
d’autobus: stando vicini per chiacchierare o stando lontani per il timore di essere infastiditi o
peggio ancora borseggiati. Se si applicassero le regole della prossemica ai vigili urbani si
documenterebbe in modo oggettivo il loro voluto isolamento. E si documenterebbe anche il loro aspetto
sostanzialmente minaccioso. Vogliono il revolver, ma il cittadino comune teme molto più l’arma di cui
già dispongono e che esibiscono volutamente: il libretto delle multe. Un’arma unilaterale, perché la
verbalizzazione non si traduce quasi mai in una contestazione personale, ma in una notifica accompagnata
dalla insuperabile dichiarazione che non c’è stato modo di fermare l’automobilista, creando una
situazione di “dispar condicio”, aggravata dal loro ruolo di pubblico ufficiale.
Ma è inutile farla lunga. Il sindaco Marino sta combattendo da mesi per la ristrutturazione di
questo corpo, ma alla luce dei consolidati comportamenti, qualsiasi sia la soluzione, questo è
destinato a rimanere un “corpo estraneo” rispetto al tessuto sociale. La direzione sarebbe
diametralmente opposta. Chiunque ne sia il capo, quello su cui puntare sarebbe un sostanzioso progetto di
formazione per un cambiamento radicale di mentalità, idoneo a far capire che il vigile è al servizio dei
cittadini e non i cittadini vittime del suo arbitrio.
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I poliziotti e i carabinieri impegnati in servizi d’ordine in cui rischiano anche l’incolumità dimostrano
spesso un rispetto, un capacità di tenuta anche davanti alle provocazioni (ricordiamo tutti il “carabiniere
pecorella” resistere strenuamente alla provocazione del black-block). I vigili, che dovrebbero lavorare
gomito a gomito con i cittadini, autentico esempio dei “poliziotti di quartiere” mai istituiti, esprimono
forme di estraneità e di autoritarismo inaccettabile di cui bisognerebbe cominciare a parlare per porvi
rimedio.
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