Studio Teologico S. Antonio - Bologna
a§liato alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna
NIETZSCHE PENSATORE INATTUALE
il suo rapporto con la teologia
Atti della Giornata di studio
Bologna, 23 febbraio 2001
Quaderni 1
quaderni dello studio teologico «s. antonio»
– 1 –
NIETZSCHE PENSATORE INATTUALE
IL SUO RAPPORTO CON LA TEOLOGIA
Atti della Giornata di studio
Bologna, 23 febbraio 2001
a cura di
Curzio Cavicchioli
© 2006 Studio Teologico «S. Antonio»
Via Guinizelli 3, 40125 Bologna
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INDICE
Curzio Cavicchioli
Introduzione: la teologia e il problema di Nietzsche
pag. 7
Elmar Klinger
Nietzsche — una lettura controcorrente:
un discorso teologico
» 21
Giovanni Motta
Nietzsche e la filosofia del xx secolo
» 45
Giorgio Penzo
Nichilismo positivo e il divino
» 75
Indice dei nomi
» 91
introduzione
LA TEOLOGIA E IL PROBLEMA DI NIETZSCHE
Il sussidio che presentiamo contiene le relazioni pronunciate in occasione della giornata di studio: Nietzsche pensatore inattuale. Il suo rapporto con la teologia, tenuta il 23 febbraio 2001
presso lo Studio Teologico «S. Antonio» di Bologna, affiliato
alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna.
L’evento ha inaugurato una serie di incontri istituzionali
con cadenza annuale dedicati alla riflessione sui temi con i quali
la teologia è chiamata a confrontarsi responsabilmente poiché
per essa decisivi: quei temi, cioè, dai quali essa è provocata in
maniera ineludibile ad esporre il “rischio” della fede, guadagnando proprio in tale esposizione la possibilità di maturare
una sempre maggiore consapevolezza delle proprie ragioni e
della loro affidabilità sia ad intra, per il credente, che ad extra,
per il non credente.
Una tale motivazione rassicura dunque circa l’opportunità
e l’interesse della scelta di un pensatore pure tanto ostile verso
la teologia quale è Friedrich Nietzsche. Un interesse che sarebbe errato però assumere come teologico in sé. Portatore di quello che Karl Jaspers ha definito un «nuovo modo di filosofare»,
nel quale «è necessario che tutto si capovolga»,1 Nietzsche non
1
Cfr. K. Jaspers, Il Nietzsche e il nuovo filosofare (1936), in Id., La mia
filosofia, tr. it., Einaudi, Torino 1981, pp. 60-72.
7
è teologo ma filosofo, appunto, per di più chiuso pregiudizialmente a ogni dialogo con la teologia in ragione dell’impulso
stesso del suo filosofare, la singolare volontà di una “crisi”
inaudita e incomparabile, di una «decisione evocata contro
tutto ciò che era stato creduto, preteso, consacrato».2 Questa
de-cisione prende forma, com’è noto, nell’attacco più violento
sferrato in età moderna alla fede nel Dio cristiano. Sul simbolo della Croce che la rappresenta il filosofo di Röcken batte
instancabile il “martello” della propria critica, denunciando
nello «spaventoso mondo di pensieri» che vi sta dietro il compimento specifico di quella «menzogna dell’ideale» – il «mondo vero o retromondo» delle essenze immutabili e la morale
assoluta che ne è l’espressione – con cui la tradizione di pensiero inaugurata da Socrate e Platone avrebbe rinnegato fedeltà
alla terra e occultato la vita nel suo significato autentico di
volontà di potenza.
Contro la décadence del «concetto di Dio inventato come
contro concetto della vita» 3 Nietzsche dichiara dunque il suo
ateismo de rigueur, cioè non tanto approdo finale delle proprie
riflessioni quanto, invece, loro condizione «istintiva»: vera e
propria «vocazione» dipendente però dall’assimilazione di un
modello della theologia crucis che però non è affatto «quella
alla quale fa riferimento la sensibilità teologica originaria del
tema cristiano. È piuttosto quella della insopportabile moderazione della morale puritana, fondata a priori sulla mortificazione dei sensi: quella della devozione pietistica alle sante pia2
Così scriveva Nietzsche in un frammento di poco precedente il crollo
psichico del gennaio 1889 che mise fine alla sua vita cosciente. Cfr. F.
Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, 25 [6], in F. Nietzsche, Opere, ed.
it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. VIII, t. ii [trad. S. Giametta],
Adelphi, Milano 1974, pp. 407-409.
3
Cfr. F. Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, «Perché io
sono un destino», §§ 8-9, in Opere, vol. VI, t. iii [trad. F. Masini], Adelphi,
Milano ³1986, pp. 384-385.
8
ghe che si accompagna alla gelosa difesa del costume borghese
contro ogni reale investimento affettivo della vita morale. Il
‘dio crocifisso’, come enfatico emblema di una tenace mediocrità elevata a virtù suprema – il cristiano borghese in effetti
‘sopporta’ qualunque cosa e qualsiasi umiliazione pur di non
‘rischiare’ la sua felice sintesi di vita insignificante e di sentimenti elevati – non ha nulla a che fare con l’evangelo. E neppure con il centro del kérygma paolino: il ‘dio crocifisso’ – quem
Paulus creavit, ripete Nietzsche – non è affatto una creatura
paolina».4
È giusto affermare quindi che il cristianesimo ha un’importanza fondamentale per Nietzsche. Esso costituisce, sullo sfondo di un rapporto “ambiguo” segnalato da numerose criptocitazioni, il problema permanente che innesca la dinamica del
suo pensiero. Per questa ragione la teologia deve riconoscere la
filosofia di Nietzsche come problema che la concerne direttamente. Tuttavia la tentazione di valorizzazioni troppo ottimistiche ricorrente entro l’ampio e differenziato panorama del
confronto teologico con Nietzsche pone l’esigenza di una delimitazione critica dell’interesse della tematica nietzschiana per
la teologia.5 L’asimmetria evidenziata relativizza infatti in
modo sostanziale la polemica anticristiana di Nietzsche, che
non si lascia comunque liquidare sbrigativamente in modo
ideologico. È vero, infatti, che il cristiano «vi può leggere, perfino dietro le parole più blasfeme, alcune critiche di cui non
potrà non riconoscere la giustezza».6 Ma questa possibilità
4
P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, p. 335.
5
In questo senso cfr. la recente tesi di V. Soncini, «Dioniso contro il
crocifisso». Ricostruzione critica della filosofia di F. Nietzsche. Provocazione
per la teologia?, Glossa, Milano 2001.
6
H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo (1945), tr. it., Jaca Book,
Milano 1992, p. 12.
9
paradossale non deve oscurare la consapevolezza del fatto che
tale provocazione «non è un problema posto da Nietzsche, che
prosegue incurante per la sua strada; è un problema sollevato
dai teologi che hanno in custodia il cristianesimo. Ma non
riguarda il crocefisso che non è il tema di Nietzsche (e neanche
della teologia che non è disposta a rinunciare al suo dogma per
la contestazione di un filosofo); riguarda la filosofia di Nietzsche, in quanto si contrappone al cristianesimo».7
Come è noto, questa contrapposizione si impernia nel modo
più serio intorno alla questione dell’avvento necessario del
nichilismo in quanto è «la logica pensata fino in fondo dei
nostri grandi valori e ideali, che in esso traggono la loro ultima
conclusione».8 Da questa consapevolezza “epocale” Nietzsche
muove allo smascheramento dell’impianto nichilistico della cultura occidentale mediante la ‘distruzione’ genealogica – cioè
in forza di quel «pensare all’indietro» che ricerca non già l’inizio di un’idea, bensì l’apertura di senso che una certa idea inaugura e in cui si esprime – del “mito” metafisico di un’origine
intemporale e sovrastorica, stigmatizzato quale invenzione idolatrica e idealità contraria alla vita. Proprio il cristianesimo,
con il suo culto “platonico” dell’origine come causa sui e dei
valori etici in sé, realizzerebbe nella sua forma più opprimente, secondo Nietzsche, questa «menzogna immorale», che
occulta il fatto tragico che, in realtà, «manca il fine: manca la
risposta al perché?», non esistendo affatto, al di sotto delle
diverse «falsificazioni» e dei diversi «travestimenti» filosofici, religiosi, politici, morali od estetici, «una verità, una costituzione assoluta delle cose, una cosa in sé», assicurata dalla tra7
G. Colombo, Presentazione a V. Soncini, «Dioniso contro il crocifisso»,
cit., p. vi.
8
Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, vol. VIII,
t. iii [trad. S. Giametta], Adelphi, Milano 1971, 11 [411], pp. 393-394.
10
scendenza necessaria di un ipsum esse per se subsistens. L’oggettività dell’essere vale invece per Nietzsche esclusivamente
quale «mera differenza di grado all’interno del soggettivo», dandosi infatti solo «l’interpretare e l’esser soggetto», tesi che
discioglie l’idea stessa di verità nel gioco infinito delle interpretazioni il cui valore dipende esclusivamente dal tipo di
potenza soggettiva che le produce.9
Questo prospettivismo radicale sottende un antiteismo che
si vuole superamento definitivo del concetto tradizionale di
Dio,10 superamento riassunto nel suo duplice aspetto teorico
ed esistenziale dall’annuncio terribile della morte di Dio – più
precisamente della sua «uccisione» – gridato alla piazza ignorante dall’uomo folle del celebre aforisma 125 della Gaia scienza. L’annuncio di tale «evento immenso della storia più recente», irreversibilmente compiuto nel fatto ma ancora futuro
quanto alla sua comprensione profonda, intende esprimere la
definitiva dissoluzione della certezza metafisica di Dio in quanto giustificazione soprasensibile del valore di ciò che è e legislatore di un cosmo etico. Ma se «l’ipotesi di Dio» non è più credibile e dell’essere non ne è più niente; se i valori supremi sono
svalutati e «non esistono affatto fenomeni morali, ma solamente una interpretazione morale di fenomeni», insostenibile risulta allora l’esistenza pensata e vissuta entro l’orizzonte di senso
di una «morale incarnata».11
9
Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., 9 [40], p. 15;
cfr. inoltre ivi [35], pp. 12-13; 10 [192], p. 211. Sul metodo genealogico
dell’ermeneutica nietzschiana si veda S. Natoli, Ermeneutica e genealogia.
Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger, Foucault, Feltrinelli, Milano
²1988, pp. 17-89.
10
Cfr. Ivi, 11 [122], p. 267.
11
«Il nichilismo radicale è la convinzione di un’assoluta insostenibilità
dell’esistenza, quando si tratti dei valori più alti riconosciuti; nonché la comprensione che non abbiamo il minimo diritto di postulare un al di là o un in
sé delle cose che sia divino, che sia morale incarnata» (ivi, 10 [192], p. 211).
11
Nietzsche mostra così in tutta la sua radicalità la portata
esistenziale del rifiuto della metafisica e che cosa significhi
un’assimilazione della finitezza al di là di ogni apertura alla trascendenza. La morte del dio della metafisica e della morale spalanca il deserto di una solitudine assoluta («Nieman ist im All
so sehr allein als ein Gottesleugner»12), nel quale l’uomo è
posto di fronte alla necessità epocale di una trasvalutazione di
tutti i valori (Umwertung alles Werte) (nichilismo attivo) conforme al «carattere terribile e problematico della vita», animata
dalla ricerca del senso e certa dell’assurdità di ogni senso.
Zarathustra è il simbolo di questa necessaria trasvalutazione.
Egli è il maestro «dell’assoluto cambiamento che interviene
con la negazione di Dio», colui che insegnerà a vivere nel
mondo al di là del bisogno di rassicurazione metafisica e delle
venerazioni tributarie dell’ideale cristiano-morale, al di là del
bene e del male e di ogni «volontà di verità» (in sé già un «sintomo di degenerazione»). La sua decisione è la volontà di assumere senza vacillare il compito ineludibile del Superuomo
(Übermensch) imposto dall’ateismo postulatorio: «Non abbiamo assolutamente più nessun Signore sopra di noi; il vecchio
mondo dei valori è teologico – esso risulta rovesciato – Più brevemente: non c’è sopra di noi nessuna istanza superiore: in
quanto Dio possa esistere, ora siamo noi stessi Dio …
Dobbiamo conferire a noi stessi gli attributi che assegnavamo
a Dio…».13
12
Così già Johann Paul Friedrich Richter (Jean Paul) scriveva nel discorso del Cristo morto (Rede des toten Christus vom Weltgebäude herab, daß kein
Gott sei) contenuto nel romanzo Siebenkäs (1796-’97), che anticipa il tema
nietzschiano della “morte di Dio”. In proposito cfr. F. Masini, Nichilismo
e religione in Jean Paul, De Donato, Bari 1974; la tr. it. del testo è alle pp.
105-115.
13
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., 11 [333], p. 347.
Questa decisione è il compito nuovo assegnato da Zarathustra agli amici
delle isole beate: cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti
12
Il Superuomo ricapitola in tal modo, portandola alla sua
fine, la svolta antropologica che, preparata dal soggettivismo
moderno, approda al progetto di un umanesimo ateo centrato
sulla fede illuministica in un uomo infine divenuto “adulto”
nella consapevolezza della propria autonomia rispetto a qualsiasi imposizione religiosa, filosofica o politica, e delle proprie
infinite potenzialità, i cui presupposti affondano in quella
«falsa sostanzializzazione dell’io» rappresentata dal cogito cartesiano e nell’ideale critico della ragione fissato in maniera
emblematica dalla kantiana Risposta alla domanda: Che cos’è
l’illuminismo? (1784).14 Come è noto, tale progetto da un lato
si configura operativamente come volontà di un «dominio integrale della natura e degli uomini»,15 e dall’altro assume la forma
esorbitante di una pretesa all’autosalvazione dell’uomo, come
dimostra la volontà di sostituzione di Dio con l’uomo teorizzata dal programma particolare di Feuerbach, il quale riduce la
teologia ad antropologia sulla base di un’idea di religione come
sovrastruttura ideologica dello spirito umano alienato. In seguito sarà anche sulla scorta delle tesi feuerbachiane che Marx
definirà la sua idea di «religione dei lavoratori», intesa a
e per nessuno, II, in Opere, vol. VI, t. ii [trad. M. Montinari], Adelphi,
Milano 1986, p. 100, 1-28.
14
Il saggio si apre con la celebre definizione: «L’illuminismo è l’uscita
dell’uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile.
Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida d’altri. La responsabilità di tale minorità va attribuita all’uomo stesso, quando
la sua causa non risiede in una carenza dell’intelletto, ma dipende dalla mancanza di determinazione e di coraggio nel servirsene, appunto, senza la guida
d’altri. “Sapere aude!” Abbi il coraggio di servirti del tuo stesso intelletto. È
questo il motto dell’illuminismo». Citiamo dall’utile antologia ragionata Che
cos’è l’illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, a c. di A. Tagliapietra,
Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 16-18.
15
Riprendiamo l’espressione di M. Horkheimer e T.W. Adorno a sintesi dell’analisi critica del concetto di illuminismo sviluppata in Dialettica
dell’illuminismo (²1969), tr. it., Einaudi, Torino ³1988, pp. 11-50 (12).
13
«restaurare la divinità dell’uomo» mediante la risoluzione della
dialettica della coscienza nella dialettica immanente del processo materiale della storia in cui l’uomo crea se stesso.16
Collocata nella linea di questo drammatico ideale di “emancipazione”, la Umwertung nietzschiana come liberazione dal
peso dell’eredità teologico-metafisica classica non implica però
il venir meno definitivo della possibilità di un’esperienza del
divino. Questa è schiusa ultimativamente in quella «seconda
conoscenza» – intrinsecamente connessa all’ateismo – che ricrea il mondo in senso extra-morale attraverso una trasfigurazione artistica che lo restituisce al «senza forma» del suo caos
irriducibile a un centro sostanziale o schema di valore dato in
sé, via quindi anche dal centro stesso della soggettività come
cardine della spontaneità creativa in generale. Così riguadagnato il mondo all’innocenza cosmica dell’essere perennemente diveniente (Eterno Ritorno) al di là di ogni «idealismo della
coscienza», l’Io stesso deve divenire mondo, accogliendo ogni
negazione e ogni contraddizione in quel sapere «danzante»
della superficie adeguato all’infinito gioco dell’apparenza intesa «come quella sovrabbondanza inesauribile di significati per
la quale non esiste e non può esistere una composizione definitiva e un ordito conchiuso di significati».17 Ed è questo il «sì»
pronunciato dal Superuomo alla vita nell’immensa pluralità di
16
Su questi temi si veda il citato lavoro di De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, e inoltre J. Alfaro, Dal problema dell’uomo al problema di
Dio (1988), tr. it., Queriniana, Brescia 1991, pp. 30-42; 159-182. Una riflessione teoretica sulla «costellazione prometeico-faustiana» come cifra della
modernità è svolta da M. Malaguti, Per la libertà della intelligenza, in Id.
(cur.), Prismi di verità. La sapienza cristiana di fronte alla sfida della complessità, Città Nuova, Roma 1997, pp. 28-36
17
Cfr. F. Masini, Il divino come “seconda innocenza” in Friedrich Nietzsche, in Id., Le stanze del labirinto. Saggi teorici e altri scritti, a c. di U. Fadini,
Ponte alle Grazie, Firenze 1990, pp. 112-126; M. Vozza, Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel, Liguori, Napoli 1988, pp. 52-77; K. Löwith,
14
forze mediante cui essa si afferma e si accresce infinitamente
al di là di ogni possibile conciliazione dialettica. La consapevolezza che lo sorregge, che «l’arte vale più della verità», apre
a quella estetizzazione tragica della vita culminante nella «fede
dionisiaca» nella legge cosmica della volontà di potenza e
dell’Eterno Ritorno dell’uguale – duplice nome di una pretesa
diversa giustizia dell’essere – che, interpretando l’estrema
volontà di auto-fondazione del finito, manifesta lo stesso confine impraticabile dell’uomo. Essa afferma infatti il carattere
indecidibile e ingiustificabile del valore della vita, resa estranea
al principio di una carità storica come espressione della carità
universale, vita cui è negata ogni possibile redenzione del suo
éthos temporale, anche quella «nuova serenità» cui aspira la
distruzione nietzschiana della morale.
La logica del superamento che regola l’economia del pensiero nietzschiano precorre e prepara così la dissoluzione postmoderna, celebrata come “fine del soggetto”18 e “rovine del
senso”,19 entro il cui orizzonte si dibatte dolorosamente anco-
Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (1999), tr. it.,
Donzelli, Roma 2000, pp. 121-150.
18
Cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Garzanti, Milano 1981. Sulla critica nietzschiana dell’idea moderna di soggetto e del modello di razionalità ad essa sotteso cfr. Id., Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano
1974; M. Ruggenini, Il soggetto del senso. Nietzsche, o la fine della metafisica
della soggettività, in Id., Volontà e interpretazione. Le forme della fine della
filosofia, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 121-147; U. Galimberti, La ragione dell’Occidente e lo sguardo clinico di Nietzsche, in AA.VV., Tramonto dell’Occidente? Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici e dalla Biblioteca Comunale di Cattolica (Cattolica, 19-21 maggio,
1988), a c. di G.M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, Quattroventi,
Urbino 1989, pp. 37-54.
19
Vedi per esempio Le rovine del senso. Atti del convegno di Mantova,
ottobre 1981, a c. di P. Meneghetti e S. Trombini, Cappelli, Bologna 1982.
15
ra oggi per certi aspetti la nostra coscienza ed esperienza.
Nietzsche, per altro, denunciando il nichilismo come «conseguenza necessaria degli ideali finora coltivati»,20 ha avuto sempre chiara coscienza del significato epocale della propria critica. Ma se il nichilismo europeo, almeno sino alla Genealogia
della morale (1887), è considerato da Nietzsche come la conseguenza dell’annuncio della morte di Dio, con quest’opera egli
spinge a fondo la sua diagnosi sino al punto da considerare lo
stesso cristianesimo e il suo Dio come originariamente nichilistici. Ciò rende senz’altro più dura la provocazione lanciata da
Nietzsche alla teologia, facendo emergere un significato “profetico” della «morte di Dio» che non si lascia ridurre a quello
della fine dell’idealità e della moralità cristiano-borghese.
In particolare Heidegger ha meditato il significato epocale
di questa radicalizzazione, interpretando nella sentenza nietzschiana della «morte di Dio» la forma dello stadio finale del
nichilismo in quanto concerne il destino stesso dell’essere pensato come Dio (onto-teo-logia), ossia in quanto individua la
logica interna di sviluppo della storia della metafisica occidentale come oblìo della differenza ontologica (Seinsvergessenheit).21
Sulla scorta dell’analisi heideggeriana, alcuni interpreti hanno
creduto di poter cogliere nella crisi aperta dal nichilismo nietzschiano lo schiudersi di un «modo di pensare divino» al di là
del razionalismo e del teismo propri di un certo pensiero metafisico.22 Tuttavia, eleggere la negazione e l’esperienza del nega20
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., 9 [1], p. 4.
Cfr. M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Id.,
Sentieri interrotti (1950), a c. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1987,
pp. 191-246.
22
In questo senso cfr. titolo esemplificativo Wilh. Weischedel, Il Dio dei
filosofi. Fondamenti di una teologia filosofica nell’epoca del nichilismo, vol.
II. Definizione e fondamento (1971), tr. it., Il melangolo, Genova 1994; E.
Colomer, El pensamiento alemán de Kant a Heidegger, vol. III. El postidealismo, Herder, Barcelona 1990, pp. 225-334; G. Penzo, Nietzsche allo spec21
16
tivo, nell’ampio spettro delle sue possibili declinazioni teoretiche ed esistenziali, a luogo possibile di attingimento delle ragioni per un salutare ri-pensamento del dio-idolo della metafisica
– cioè quel dio rappresentato dalle categorie del pensiero logico-concettuale come Ens supremum –, appare ipotesi feconda e
ambigua a un tempo. È vero, infatti, che il nulla, eccepito come
impossibile non-essere a partire dall’aurorale partizione parmenidea della duplice via alla ricerca, intesa a fondare la sapienza che dà la vittoria e destinata a definire il paradigma del
pensare logico, non ha mai cessato di costituire il “caso serio”
del pensiero occidentale, imponendosi anche all’urgenza manifesta di un nuovo pensiero di Dio e del divino come la questione ineluttabile di «quella potenza e realtà, che mai fu e mai
sarà essere e che restava non mai pensata entro il pensiero
metafisico dell’essere, negata come nulla ed esclusa in quanto
il puro impensabile totalmente Altro».23 Ed è vero altresì che
in questa prospettiva è plausibile interpretare il nichilismo
nietzschiano nel senso della denuncia dell’impossibilità di
ridurre Dio – che sia il “dio dei filosofi” o quello dei teologi –
a mero riflesso ed eco della condition humaine nella sua benedizione e maledizione, benché la distruzione nietzschiana del
“concetto di dio” e il suo congedo dal pensiero metafisico dell’essere attraverso le nozioni di “morte di dio”, di volontà di
chio, Laterza, Roma-Bari ³1997; Id., Friedrich Nietzsche (1844-1900). Il divino come problematicità, in AA.VV., Dio nella filosofia del Novecento, a c. di
G. Penzo e R. Gibellini, Queriniana, Brescia 1993, pp. 17-27; E. Fink, La
filosofia di Nietzsche (1960), tr. it., Marsilio, Venezia 1995; B. Welte, L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo (1958), tr. it., Queriniana, Brescia 1994.
23
A. Jäger, Dio. Dieci tesi (1980), a c. di M.C. Bartolomei-Derungs,
Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 35. Ripercorre la storia di questa
“incombenza” S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995. Una
trattazione di carattere più strettamente teoretico è quella di M. Donà, Sulla
negazione, Bompiani, Milano 2004, del quale si veda anche l’impegnativa
tesi: Aporia del fondamento, La Città del Sole, Napoli 2000.
17
potenza e di eterno ritorno siano ancora compromesse in verità con l’idolatria metafisica.24 Ma a spingersi su questa via fino
ad attribuire alla krisis nietzschiana l’efficacia teologica intrinseca di una reductio in mysterium cristianamente significativa
(o, addirittura, decisiva), si corre fatalmente il rischio di forzare, distorcendole, le ragioni dell’interpretandum.25
In effetti, una difficoltà pressoché insormontabile grava sull’idea che il nichilismo nietzschiano possa liberare l’orizzonte
di un “ateismo pensante” il quale, per dirla con K. Rahner,
permetta a Dio di apparire in forza di sé come «l’ineffabile
mistero che dispone di noi», ossia come «il mistero che l’uomo
non può manipolare intellettualmente e praticamente, né inserire nel suo sistema di coordinate».26 Non v’è dubbio infatti
che la riesposizione nietzschiana della dialettica del tragico
intende superare proprio quella consapevolezza che è alla base
del rapporto esistenziale uomo-Dio nel senso specificamente e
originalmente cristiano di relazione teo-logica (l’ascolto/custodia/memoria della Parola che Dio in principio rivolge all’uomo
per la sua salvezza nella fede). La consapevolezza, cioè, secondo cui «anche se ‘Dio’ dovesse essere ‘morto’ e quindi il discor-
24
In proposito cfr. E. Jüngel, Dio mistero del mondo. Per una fondazione della teologia del Crocifisso nella disputa tra teismo e ateismo (³1978), tr. it.,
Queriniana, Brescia ²1991, pp. 170-172; 195-203, e l’ormai classico studio
di J.-L. Marion, L’idolo e la distanza (1977), tr. it., Jaca Book, Milano 1979.
25
Come ci sembra accada, ad esempio, a P. Gisel, per il quale «il discorso nietzschiano libera la teologia da qualsiasi tentazione di razionalismo.
Essa ricorda il primato del narrativo e della parabola. Dice, in tal modo, che
la verità nasce da un decentramento che ci spossessa di qualsiasi sapere esplicativo sulle cose prime ed ultime per restituirci ad un’abitazione presente del
cosmo. Possibilità di una parola originaria ma intratemporale, totale ma
situata, pertinente qui e ora ma che stimola all’alterità di cui essa vive» (P.
Gisel, Prospettivismo nietzschiano e discorso teologico, in «Concilium»,
XVIII/5, 1985, p. 146).
26
K. Rahner, Motivazione della fede oggi, in Id., Teologia dell’esperienza dello Spirito (1964), tr. it., Paoline, Roma 1978, p. 46.
18
so della sua autocomunicazione appartenesse al regno della fantasia, l’inesaudita invocazione di una parola divina potrebbe
ancora ugualmente essere una realtà che contraddistingue la
nostra esistenza».27
Insomma, pur consapevole che «il presupposto di ogni
autentico dialogo tra filosofia e teologia è il comune sguardo,
chiaro e spietato, sull’idolatria»,28 il teologo non può trascurare il fatto che l’opposizione «Dioniso contro il crocifisso», basandosi sulla negazione dell’apertura costitutiva dell’essenza
dell’uomo alla trascendenza, nega ipso facto la possibilità della
speranza in cui consiste la via della fede cristiana come cammino di ritrovamento del senso. Speranza di un senso che l’uomo
non può attendere né da sé né dal di fuori di sé ma da Dio soltanto, il quale perciò gli parla dal suo Mistero inaccessibile.29
Curzio Cavicchioli
27
H. Verweyen, La parola definitiva di Dio. Compendio di teologia fondamentale (2000), tr. it., Queriniana, Brescia 2001, p. 35.
28
M. Cacciari, Quale destino per questo uomo?, in AA.VV., Fede e ragione. Un confronto a più voci, Cantagalli, Siena 2000, p. 57.
29
Cfr. E. Biser, Cosa parla in favore di Dio? Fede come cammino di ritrovamento del senso, in «Con-tratto», IV/1-2, 1995 (nº. monografico: «L’esperienza di Dio. Filosofi e teologi confronto»), pp. 219-230.
19
NIETZSCHE — UNA LETTURA CONTROCORRENTE:
UN DISCORSO TEOLOGICO*
Permettetemi di cominciare questa conferenza con un ricordo personale. Quando ero studente di liceo avevo un professore di religione molto bravo. Nel corso di una interrogazione
chiese ad un mio compagno di classe se Nietzsche avesse importanza per la teologia. Lo studente rispose di no. No, Nietzsche
non ha nessuna importanza per la teologia. Il professore di religione gli diede un voto molto basso.
Secondo la mia esperienza è stato giusto dare questo brutto voto. Ho osservato in esami della facoltà di teologia, che
candidati freddi nel loro giudizio su Nietzsche si rapportavano
male con la stessa teologia. E questo per la semplice ragione
che gli avversari della teologia sono per essa di una straordinaria importanza, le lanciano la sfida maggiore. Solo accettando
la loro sfida essa può verificare se stessa. Questo spiega un’affermazione singolare che troviamo tra i documenti del Concilio
Vaticano II: «immo Ecclesia, ex ipsa oppositione eorum qui ei
adversantur vel eam persequuntur, se multum profecisse et proficere posse fatetur»: proprio l’ostilità dei suoi avversari e dei suoi
persecutori, ammette la Chiesa, le è stata di profitto e tale
rimarrà [Gaudium et Spes, n. 44]. Questa affermazione è molto
importante per il giudizio sul ruolo di Nietzsche nella teologia,
* Traduzione dal tedesco di Barbara Häußler e Serenella Baggio. Editing
di Curzio Cavicchioli.
21
perché rileva l’ostilità del filosofo e sostiene nello stesso tempo
che essa è utile per la Chiesa e tale rimarrà.
Nel pensiero di Nietzsche questa ostilità è un fatto centrale e nello stesso tempo molto complesso. È centrale, perché
Nietzsche chiama se stesso l’Anticristo. Dice: «Io sono l’antiasino par excellence, e perciò un mostro nella storia universale –
in greco, e non solo in greco, io sono l’Anticristo…»;1 e aggiunge: «non si può essere filologi e medici, senza essere al tempo
stesso anche anticristiani. Come filologi, infatti, guardiamo dietro i “libri sacri”, come medici dietro la fisiologica degenerazione del cristiano tipico. Il medico dice “incurabile”, il filologo “frode”…».2
Ma l’ostilità è anche un fatto molto complesso nel pensiero
di Nietzsche. Non si esaurisce nella blasfemia e nell’agitazione. Rappresenta nello stesso tempo un apprezzamento molto
alto nel dire:
A mio modo, io sono guerresco. Attaccare è uno dei miei istinti.
Poter essere nemico, essere nemico: già questo, forse, presuppone una natura forte, e in ogni caso è proprio di ogni natura forte.
[…] La mia regola di guerra comprende quattro princìpi. Primo:
attacco solamente cose che vincono; in certi casi, aspetto fino al
momento in cui vincono. Secondo: attacco solamente cose contro
cui non potrei trovare nessun alleato, così sono solo, — così comprometto solamente me stesso… […] Terzo: non attacco mai persone — mi servo della persona come di una forte lente d’ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale, ma
sfuggente, difficilmente afferrabile. […] Quarto: io attacco solo
cose alle quali non sia connessa nessuna disputa personale o un
1
F. Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, «Perché scrivo
libri così buoni», § 2, in Opere, vol. VI, t. iii [trad. R. Calasso], Adelphi,
Milano 1986, p. 311.
2
F. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, § 47, in Opere,
vol. VI, t. iii [trad. F. Masini], cit., p. 230.
22
qualche retroscena di brutte esperienze. Al contrario, per me
attaccare è un segno di benevolenza, a volte di gratitudine. Legando il mio nome a una persona, a una cosa, io le faccio onore, la
distinguo: pro o contra — per me è lo stesso. A me spetta far la
guerra al cristianesimo, perché da quella parte non mi sono venute né disgrazie né ostacoli – i cristiani più seri sono sempre stati
benevoli con me. Io stesso, avversario de rigueur del cristianesimo,
mi guardo bene dal volerne ai singoli per questa millenaria
fatalità.3
Nietzsche non combatte con tutti. Dimostra di possedere
un alto livello intellettuale nella scelta dei suoi avversari. Da ciò
che apprezza di più si sente staccato in modo più definitivo
mentre a ciò che disprezza lo lega un rapporto molto stretto.
Nella sua critica non risparmia nessun orientamento della vita
e del pensiero, ma anche li rispetta tutti nel loro modo di esistere. Nietzsche elabora una psicologia del dibattito rivolto
verso tutto ciò che esiste. Per lui non ci sono di per sé o la verità o l’errore, o il bene o il male, o il reale o l’irreale. Questo e
quello sono tali perché giocano il loro ruolo proprio nella vita.
L’arte e la religione, la poesia e la scienza, la teologia e la filosofia hanno una loro funzione nell’insieme della vita: ne rivelano il significato soggettivo e mostrano di fronte alle sfide concrete, di caso in caso, un significato oggettivo. Sono capaci di
creare e di distruggere, di giovare o di nuocere, di rafforzare o
di indebolire. Qualche volta – anzi magari nella maggiore parte
dei casi, hanno nello stesso tempo tutte e due le qualità – purtroppo con un’importanza differente. Tutto ciò che è stato
pensato e desiderato, tutto ciò che è stato immaginato e sostenuto può essere sublimato diventando così un idolo. Bisogna
allora palesare il suo significato inconscio, rimosso.
3
F. Nietzsche, Ecce Homo, cit., «Perché sono così saggio», § 7, pp.
282-283.
23
Perciò Nietzsche chiama la critica dei sistemi filosofici, delle
idee religiose, degli ideali politici, della rappresentazione artistica «tramonto degli idoli» – Götzendämmerung. Percuote
tutti i sistemi per trovare spazi vuoti e anfratti. Decostruisce
il significato delle loro dichiarazioni ed affermazioni. Spesso
sono causa di malattia. Nella maggior parte dei casi sono un
disvalore. Distruggono vite.
Perciò Nietzsche ritiene che sia importante filosofare con il
martello in mano, e dice: «Vi sono nel mondo più idoli che realtà: è questo il mio “cattivo sguardo” per questo mondo, e questo è anche il mio “cattivo orecchio” … […] Battere qui una
buona volta problemi con il martello e forse udire per tutta
risposta quella famosa cupa risonanza che parla dai visceri
enfiati – quale delizia per uno che ha altre orecchie dietro le
orecchie – per me vecchio psicologo e incantatore; per il quale
proprio quel che vorrebbe starsene in silenzio, deve gridar
forte…».4
Con il martello Nietzsche tratta anche la teologia. Essa non
è l’unico posto dove il filosofo decostruisce dei significati.
Anche l’arte e la scienza, la politica e la filosofia, soprattutto
il platonismo, il kantismo, l’hegelismo e quant’altro sono obiettivi contro cui è necessario agire. Ma Nietzsche è interessato
soprattutto alla teologia. La mette di fronte all’interrogativo
di quale sia il suo vero significato. È un bene o un male, un valore o un disvalore, un segnale di salute o un sintomo di malattia? Nietzsche la tratta col martello. Batte sui rumori fessi, su
anfratti e vuoti. Nella maggior parte dei casi egli non parla della
teologia ma dei teologi. Li costringe a dirigere il loro pensiero
sul ruolo che giocano. Ritiene che siano la causa e l’incarnazione di idealismo e nichilismo. Nasce da qui la sua ostilità:
4
F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli ovvero Come si filosofa col martello, «Prefazione», in Opere, vol. VI, t. iii [trad. F. Masini], cit., p. 53.
24
È necessario dire chi sentiamo come nostra antitesi – i teologi e
tutti coloro che hanno nelle vene sangue teologico – l’intera
nostra filosofia… Si deve aver veduto da vicino la fatalità, ancor
meglio, si deve averla vissuta in sé, si deve essere quasi andati, per
essa, in rovina, per non ammettere più nessuno scherzo a questo
riguardo (il libero pensiero dei nostri signori naturalisti e fisiologi è, agli occhi miei, uno scherzo – a loro manca la passione di queste cose, la sofferenza di esse –).5
Così il teologo si trova di fronte ad una sfida completamente nuova. Non viene più interrogato su questa o quella tesi, ma
sulla vita che parla attraverso la sua persona e che egli rappresenta. Che cosa sostengono lui stesso e la sua teologia? Che
cosa intende dire? Che genere di volontà lo spinge? La volontà decadente della malattia o la volontà di vivere la propria
vita? L’odio o l’amore?
Nietzsche lancia dunque al teologo la sfida fondamentale
del problema del bene e del male. Come valuta qualcosa? Vuole
davvero ciò che vuole o finge soltanto di volerlo fare? E l’ipotesi che sostiene è forse una maschera, dietro alla quale si
nasconde? Ma che cosa ha da nascondere?
Il tema del mio intervento è: Nietzsche — una lettura controcorrente: un discorso teologico. Vorrei aprire un dibattito sulla
ostilità di Nietzsche verso la teologia – perché giova alla teologia e l’aiuta ad andare avanti. La mia conferenza si concentra
perciò soprattutto sulle ultime opere di Nietzsche, ovvero su:
Al di là del bene e del male, Ecce homo, L’Anticristo, La volontà di potenza. E mi addentro nell’ambito di un discorso che la
teologia intrattiene con un nemico, la cui ostilità lo collega a lei
proprio in quanto egli ne fa il proprio avversario. Lettura controcorrente significa la decostruzione di alcuni elementi del suo
pensiero. La conferenza si svolgerà in 4 punti:
5
F. Nietzsche, L’Anticristo, cit., § 8, p. 174.
25
1.
2.
3.
4.
L’opposizione del bene e del male
La volontà di potenza – la scena del dibattito sulla teologia
L’amore del prossimo e del più lontano
L’uso forte e debole del nome di Dio.
1. L’opposizione del bene e del male
Nel 1998 il Papa ha pubblicato una enciclica sull’argomento del rapporto tra fede e ragione. In essa parla di una filosofia
cristiana intendendo con questo diversi sviluppi del pensiero,
«che non si sarebbero realizzati senza l’apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana» [Fides et ratio, n. 76; e cfr. n. 77].
Guardando Nietzsche alla luce di questa concezione della
filosofia non si può affatto negare – per quanto singolare possa
apparire una tale affermazione a fronte di argomenti che la contraddicono – che egli fosse un filosofo cristiano. Perché nessun altro filosofo disputa sul cristianesimo in modo più radicale. I legami di Nietzsche con il cristianesimo dipendono tanto
dalla sua origine familiare quanto dal suo pensiero. Egli respinge il cristianesimo ed utilizza nello stesso tempo le sue denominazioni: il titolo della sua opera autobiografica Ecce homo, ad
esempio, nella Bibbia è un nome di Gesù.
Infatti, realmente una disputa è un modo di essere collegati. I nemici stanno vicinissimi. Ma Nietzsche è un filosofo, non
un teologo; è critico, poeta, musicista, non prete. Scrive aforismi, non trattati. Sfida la teologia. Ma non deve risolverne i
problemi. Non c’è bisogno che sappia dire come si deve parlare di Dio. Questo è il compito della teologia. Ma Nietzsche è
in grado di mostrarle cosa c’è di sbagliato in ciò che essa afferma. Essa è in molti casi controproducente ed opprime Dio e
gli uomini con ciò che dice di Dio. Questa osservazione spiega
perché Nietzsche parli dell’«istinto teologico della superbia».
Il filosofo dice di averlo trovato:
26
Ho ritrovato il teologico istinto dell’arroganza ovunque oggi ci si
senta “idealisti”, – ovunque, in virtù di una superiore prosapia,
si rivendichi il diritto di guardare alla realtà con un senso di superiorità e d’estraneità… L’idealista, precisamente come il prete,
ha in mano tutti i grandi concetti (– e non soltanto in mano!),
con bonario disprezzo li mette in gioco contro l’“intelletto”, i
“sensi”, gli “onori”, il “ben vivere”, la “scienza”; vede tali cose
sotto di sé, come forze nocive e traviatrici, sulle quali lo “spirito”
aleggia nella sua pura per-seità – come se l’umiltà, la castità, la
povertà, in una parola la santità, non avessero recato fino a oggi
alla vita un danno indicibilmente maggiore di qualsiasi mostruosità e vizio.6
Nietzsche guarda la vita dal punto di vista della teologia.
Al contrario: questa è per lui piuttosto una incarnazione della
vita: la vita ne è alla base e la richiede. Egli non si occupa della
giustezza delle affermazioni. Chiede piuttosto da che spirito
escano e a che cosa si debbano, quale utilità abbiano o quale
danno causino. Poiché viene fatta da uomini, la teologia rivela
la loro condizione di vita. Rivela chi sono e chi non sono, che
cosa desiderano e che cosa non desiderano, se sono ancora in
vita o se sono già morti. Ha il carattere di un sintomo e la funzione di un segnale. È un segnale di salute o di malattia, di vigore o di debolezza, di nobiltà o di malvagità di uomini concreti. Bisogna prendere posizione di fronte ad essa e giudicarla.
La teologia parla dei sommi beni, ma non è per questo essa
stessa un sommo bene. Ci si deve dunque chiedere se questi
sommi beni sono qualcosa di sommo – o forse qualche cosa di
infimo. In che cosa consiste la loro qualità? Sono comunque
qualcosa di buono o forse qualcosa di cattivo? Possiedono un
valore o sono un disvalore? Con l’interrogativo dei sommi beni
si pone il problema del “bene” in generale. Che cosa è bene e
che cosa è male? Esiste davvero questa opposizione? E se esi6
Ibidem.
27
ste, come deve essere valutata? In che cosa consiste il suo
valore?
Per Nietzsche sono questioni fondamentali. Sono gli interrogativi che pone alla teologia, ma non solo alla teologia, anche
all’arte, alla scienza, alla religione, allo stato. Sono il principio
della sua critica al modernismo. L’opposizione tra bene e male
è un problema di valutazione, perché nella vita quotidiana coesistono sempre entrambi. Il fatto che qualcosa possa essere
attribuito all’uno o all’altro dipende dal valore che volta a volta
possiede o gli viene riconosciuto. Tutti e due possono essere
costruttivi o tutti e due possono essere distruttivi. Ma questo
non vale in assoluto – un modo di vedere che Nietzsche senz’altro condanna in modo risoluto –, vale per ogni caso concreto
secondo il punto di vista corrente. Un delinquente commette
un crimine. Ma ha il coraggio di commetterlo. È un esempio di
audacia. Vediamo al contrario il caso di un cittadino onesto. È
onesto, ma forse per egoismo. Nel caso venga contrariato con
una certa durezza, sarebbe troppo vile per difendere la sua onestà. Tutti e due sono buoni e cattivi nello stesso tempo, anche
se vengono guardati con criteri di giudizio diversi.
Questa contemporaneità è il punto di partenza di Nietzsche. Proprio questa contemporaneità interessa il nostro filosofo. Egli parla di concetti di valore complementari. Molte
delle sue pagine mettono in evidenza questa complementarietà. Egli dice: «Le nostre conoscenze più elevate risuonano
inevitabilmente – e deve essere così – come follie, in talune circostanze come delitti, allorché vengono indebitamente all’orecchio di coloro che non sono strutturati né predestinati per cose
siffatte».7 O dice: «Il fariseismo non è una degenerazione del-
7
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, II. «Lo spirito libero», § 30, in Opere, vol. VI, t. ii [trad. F.
Masini], Adelphi, Milano 1986, p. 37.
28
l’uomo buono: una buona dose di esso è invece la condizione
di ogni esser-buono».8 O: «vi è un sale che lega il buono col
cattivo; e anche la più malvagia delle cose è degna di essere
adoperata come aroma, e degna dell’ultima effusione»,9 o la
sua pretesa di «ridare all’uomo malvagio la sua buona coscienza»10 – O la constatazione che «all’uomo sono necessarie le sue
cose peggiori per le migliori».11
Troviamo innumerevoli frasi di questo genere. Ma Nietzsche non vuole in nessun modo relativizzare il male, perché tra
i buoni c’è davvero del male e il male può davvero avere del
bene. Egli vede l’opposizione e ci gioca fino in fondo servendosi di molti esempi. Ma non vi si vuole invischiare. Il suo
attacco alla teologia si dirige contro la valutazione che le è propria. Perché essa fa del male qualcosa di buono e converte il
bene in male. No, Nietzsche non vuole in nessun caso relativizzare. Preferisce piuttosto dare un giudizio personale sul bene
e sul male. Si pone la questione dei parametri di giudizio e della
sua origine. La valutazione precede il valore. Essa è “al di là del
bene e del male”.
Nietzsche pone alla morale l’interrogativo del suo valore e
lavora ad una genealogia dei criteri che essa ha a disposizione.
L’al di là della morale è la vita stessa, rivolta a raggiungere uno
scopo determinato, che vuole affermarsi opponendosi a tutto
ciò che esiste oltre a lei. L’al di là del bene e del male, ciò che
spiega e supera la loro opposizione, è la volontà di potenza.
8
Ivi, IV. «Sentenze e intermezzi», § 135, p. 78.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno,
III. «I sette sigilli», § 4, in Opere, vol. VI, t. i [trad. M. Montinari], Adelphi,
Milano 1986, p. 281, 10-12.
10
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, 16 [10], in Opere, vol.
VIII, t. iii [trad. S. Giametta], Adelphi, Milano 1974, p. 202.
11
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., III. «Il convalescente», § 2,
p. 267, 106-107.
9
29
Nietzsche l’ha descritta in molte immagini utilizzando spesso
una terminologia darwiniana. Parla di forti e di deboli, di sani
e di malati, di allevamento e di selezione, di una coscienza debitrice dei muscoli.
Ma queste ipostasi, queste oggettivazioni della vita non
dovrebbero mai essere intese realisticamente nel senso di
un’alienazione, perché la vita stessa è volontà. Essa vuole affermarsi opponendosi a tutto ciò che non è lei. È volontà di potenza. O, per dirla con le parole di Nietzsche in Così parlò Zarathustra: «Solo dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita,
bensì – come ti insegno io – volontà di potenza!».12
Questa volontà ha molti volti. Il problema della teologia
consiste nel definirsi come una via sulla quale la volontà si
perda e giunga alla sua fine, cioè in qualche modo smetta di
essere se stessa, o – al contrario – come l’incarnazione della
volontà di potenza.
Nietzsche parla di idealismo e di nichilismo, ed anche della
nascita del cristianesimo dallo spirito del risentimento. Dice:
«La mia affermazione è che a tutti i valori supremi dell’umanità questa volontà manca – che i valori di decadenza, valori
nichilistici signoreggiano sotto i nomi più sacri».13
La teologia offre molte ragioni per un tale rimprovero. Ma
Nietzsche trova nelle sue fonti comunque anche l’al di là del
bene e del male poiché dice: «ciò che viene compiuto per
amore, è sempre al di là del bene e del male»,14 o, nello stesso
contesto: «Spesso la sensualità affretta troppo il crescere dell’amore, di modo che la radice resta debole e facilmente può
essere divelta»;15 ed ancora: «Gesù disse ai suoi ebrei: “la legge
12
Ivi, II. «Della vittoria su se stessi», p. 140, 109-110.
F. Nietzsche, L’Anticristo, cit., § 6, p. 171.
14
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., II. «L’essere religioso»,
§ 60, p. 39.
15
Ivi, IV. «Sentenze e intermezzi», § 120, p. 76.
13
30
era per i servi – amate Dio come io lo amo, come figlio suo!
Che cosa importa la morale a noi figli di Dio!”».16
Esiste un al di là del bene e del male nella teologia. Ma quale
rapporto ha la teologia con questo al di là? È in grado di basarsi su di esso? Lo esplicita verbalmente? Distrugge o protegge
la vita? Passa oltre la vita? E volontà di potenza? Da queste
domande dipende il futuro della teologia.
2. La volontà di potenza – la scena del dibattito sulla teologia
Non è ignoto alla teologia il fatto che uno possa avere l’intenzione di fare il bene facendo tuttavia il male, ovvero che
ciò che è buono nella situazione in cui si agisce, può avere per
conseguenza il male. La teologia conosce il proverbio: Summum
ius – summa iniuria. Essa sa che la coscienza rende capaci di
discernere il bene dal male, ma sa che la stessa coscienza – trovandosi nell’errore – costringe a fare il male. Anche la coscienza deviante è un obbligo.
La stessa cosa vale in senso inverso per il male stesso. Si
parla dello spirito che vuole il male e compie il bene. La colpa
offe la possibilità della conversione. Dio preferisce i peccatori
ai giusti. Da questo deriva anche il concetto di una felix culpa
– di un colpa felice. La teologia afferma addirittura che l’amore è una virtù al di là del bene e del male, e sostiene che senza
meno che i buoni sono più lontani dall’amore che i cattivi.
L’amore viene perciò chiamato anche «virtù teologica». È una
virtus supernaturalis.
Ma l’ordine e l’eccezione non sono la stessa cosa. L’ordine
di cui parla la teologia protegge i buoni ed esclude i cattivi.
Regola l’opposizione tra loro, senza mettersi però al di là di
16
Ivi, § 164, p. 80.
31
questa opposizione. Le eccezioni che la teologia osserva e
ammette, che non può non riconoscere, rimangono eccezioni.
Confermano la regola. Nietzsche invece pone l’eccezione a
principio della regola, perché tutt’e due stabiliscono dei valori.
Tutt’e due servono a raggiungere un fine. Questo le precede.
Tutt’e due volta a volta servono a formulare un giudizio. Servono al loro scopo. La regola e l’eccezione sono sul cammino
della vita, sono l’incarnazione della vita in ciò che va oltre,
sono i mezzi per raggiungere questo fine. Perché la vita va oltre
la vita. È volontà di potenza.
L’ordine del bene e del male rimane legato a questa opposizione. Non si trova al di là di essa. Essa non si dà nemmeno una
giustificazione del suo fine. Non la si richiama alla responsabilità. Nella posizione che prende di fronte ad un caso particolare, ammettendo eccezioni o escludendole, o costituendo esso
stesso un’eccezione – l’ordine può essere un errore – della
volontà di potenza. Il caso particolare al contrario può avere un
significato esemplare. Mostra, come in una lente d’ingrandimento, i problemi dell’al di là del bene e del male. Può essere il
preludio di un ordine nuovo, il luogo di un presagio del futuro
della vita, un luogo dove s’incarna ciò che la vita desidera e
vuole, un’occorrenza della volontà di potenza, ma non volontà di vivere. È volontà di potenza. Perché la vita supera la vita.
Riflette su ciò che non è essa stessa. Vuole raggiungere se stessa in ciò che va al di là della sua esistenza. La vita si trova al di
là del bene e del male ed incarna l’innocenza del divenire. Ma
la vita viene vissuta al di qua del bene e del male, e perciò si
trova invischiata nelle sue opposizioni. «Molti paesi ha visto
Zarathustra e molti popoli: così ha scoperto il bene e il male di
molti popoli».17
17
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., I. «I discorsi di Zarathustra:
Dei mille e uno scopo», p. 67, 1-2.
32
Ma da dove viene il potere così grande dell’opposizione del
bene e del male? Come si spiega l’atteggiamento che assume
volta per volta? Nietzsche lo spiega con la sua teoria del risentimento e della decadenza nella differenza di potenza tra i forti
e i deboli.
Infatti un uomo debole è succube del forte e perciò si sente
offeso, aggredito e ferito interiormente. Ecco la ragione del
suo risentimento: il forte è cattivo. Il forte invece non vuole
ferire il debole. Trattiene la propria forza e non vince. Ecco la
causa della sua decadenza: il debole è buono. Essendo la causa
di questo comportamento e del suo giudizio, la volontà di
potenza è capace di spiegarli: il debole si vendica sul forte.
Questi però non difende la propria forza e rende così possibile la propria rovina.
La volontà di potenza è in Nietzsche un criterio superiore
per il modo di riferirsi a tutto ciò che esiste. E nello stesso
tempo è la base della riflessione su tutto ciò che esiste. È il
grande palcoscenico della vita, dove si soffre e si recita. Su questo palcoscenico Nietzsche riesce a rappresentare l’umano, il
troppo umano ed il super-umano (Übermenschlich). Tutto ciò
che esiste e tutto ciò che suscita interesse è uno spettacolo allestito sul palcoscenico della volontà di potenza.
Nietzsche stesso ci mette in scena i drammi più diversi: la
potenza degli attori e dei commedianti, la potenza dei fondatori di una religione, la potenza del pensiero dei filosofi, la
potenza del risentimento e della decadenza della morale.
Gli attori di questi spettacoli si muovono nell’ordine del
bene e del male, ma si trovano anche confrontati ad esso. Sono
attori e insieme vittime della vita. La giustificano per mezzo
del loro genio. Sul palcoscenico della volontà di potenza vengono messi in scena spettacoli che riguardano nello stesso modo
quelli che recitano e il loro pubblico.
La teologia è un dramma di questo genere. Tratta del bene
e del male. Nietzsche chiede al discorso su Dio se si trova invi33
schiato in questa opposizione o se si trova al di là di tutt’e due.
Nel caso che la teologia facesse di Dio la suprema istanza dell’ordine non soddisferebbe ne quelli che si oppongono a questo
ordine ne la propria posizione di eccezione. Vietando all’uomo di diventare maggiorenne la teologia rende ridicola se stessa. Perché Dio è, in tutto ciò che egli è, un caso eccezionale,
garantisce l’eccezione all’interno di ogni ordine. Il discorso su
Dio trova il suo posto originale nell’amore, perché che altro è
in fondo Dio se non l’amore? L’amore si batte con il bene e
con il male. Li sovrasta entrambi ed è superiore all’opposizione tra i due. Sa anche giocare con tutt’e due. Il bene può essere male, ma amore è capace di cambiare qualcosa di cattivo in
qualcosa di buono. Perché – come dice Nietzsche – «ogni bene
attuale è possibile che sia frutto del male di un tempo»;18 ed in
un altro luogo: «La buona coscienza ha la cattiva coscienza
come primo grado – non come contrapposto: giacché ogni cosa
buona è stata una volta nuova, per conseguenza inusitata, contro il costume, immorale e ha roso il cuore come un verme al
fortunato inventore».19
In Nietzsche l’amore è la forza che mette il bene e il male
in un ordine gerarchico nuovo e fa che l’opposizione possa essere trasformata nel gioco di una relazione puntuale. L’amore è
il cardine nascosto della sua filosofia. Ascoltiamo Nietzsche:
«l’amore perdona all’essere amato perfino la concupiscenza».20
L’amore è per Nietzsche al di là del bene e del male nella teologia: «Troppo ebreo. Se Dio voleva diventare un oggetto
d’amore, avrebbe dovuto per prima cosa rinunciare a giudica-
18
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 16 [50], p. 292.
F. Nietzsche, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi II, parte
I. «Opinioni e sentenze diverse», § 90, in Opere, vol. IV, t. iii [trad. S.
Giametta], Adelphi, Milano 1967, pp. 36-37.
20
F. Nietzsche, La gaia scienza, II § 62, in Opere, vol. V, t. ii [trad. F.
Masini], Adelphi, Milano 1965, p. 82.
19
34
re e alla giustizia: un giudice, foss’anche un giudice misericordioso, non è oggetto d’amore. Su questo punto la sensibilità
del fondatore del cristianesimo non era abbastanza raffinata:
era ebreo».21
Il superamento della punizione e del giudizio è in Nietzsche
la base di ogni discorso su Dio. Una teologia incapace di servirsi di questo concetto deve fallire nel momento del confronto. Nietzsche stesso però lancia una sfida alla teologia. Non
risolve il problema, ma mostra in che cosa consiste, lo indica
nella valutazione dell’eccezione di ogni regola. Il fatto che i
teologi si trovino in difficoltà di fronte alla sua filosofia lo
rende ilare: «“È vero che il buon Dio è presente in ogni
luogo?” chiese una bambina a sua madre, e: “Ma io trovo che
questo non sta bene”. Un avvertimento per i filosofi!».22
Questa ilarità contrassegna anche la sua critica dell’ateismo:
«Parla l’uomo pio. Dio ci ama perché ci ha creato! – “L’uomo
creò Dio!” – ribattete voi, o sottili. E amar non deve quel che
lui ha creato? Perché l’ha creato, perfin negarlo dovrebbe? Ciò
zoppica, ha lo zoccolo del diavolo».23 Perché si tratta dell’amore. La volontà di potenza vuole essere creativa. Non desidera
se stessa. Desidera l’altro. Desidera formare ciò che non è lei
stessa.
Ne evinciamo che l’amore è sicuramente il tema centrale di
Nietzsche. Lo ispira a dare forma. Ha molti volti. Può essere
sottomesso al risentimento e descrivere uno stato di decadenza completa dell’uomo. Ma esiste anche il caso limite dell’amore chiamato da Nietzsche amore vero: è l’amore per il nemico,
perché quest’amore resiste ad una sfida esterna. Rende capaci
di accettare e di incontrare l’altro nella sua ostilità. Impedisce
21
22
23
Ivi, III § 140, p. 137.
Ivi, «Prefazione alla seconda edizione», § 4, p. 19.
Ivi, «Scherzo, malizia e vendetta», § 38, p. 27.
35
la falsa misericordia. Riconosce l’altro nella sua alterità. Aiuta
a venirgli incontro e ad essere noi stessi qualcuno. Rappresenta, nella volontà di potenza, la forza di capire se stessi partendo dalla alterità dell’altro.
Con questo modo di vedere Nietzsche cambia il compito
della teodicea. Essa non deve più difendere Dio dimostrando
la sua bontà nonostante l’esistenza del male. Il punto centrale
della teodicea diventa l’amore di Dio per i suoi nemici. Questo
amore deve darsi per vinto davanti a loro o è una forza capace
di capire se stessa partendo dalla alterità di questi altri? Sa
distinguere tra l’ostilità e la persona del nemico? Sa riconoscere resistenza di ragioni, che le danno valore? È capace di affermarsi sul proprio terreno? È amore senza condizioni? Una
forza che cambia l’ostilità in amicizia?
Il teismo classico è incapace di rispondere a questa sfida. E
l’ateismo, disprezzato anche da Nietzsche, è ancora meno capace di contribuire alla soluzione del problema. Nietzsche ha
sempre criticato un concetto troppo armonioso dell’amore e lo
ha rifiutato espressamente. La teodicea dev’essere adulta, capace di sopportare l’ostilità. Com’è possibile difendere Dio dai
suoi nemici? E: com’è possibile difendere i nemici di Dio da
Dio?
Ecco le questioni che si pone una teologia dell’amore nella
volontà di potenza. Ascoltiamo Nietzsche:
In termini teologici – statemi ad ascoltare, perché parlo di rado in
veste di teologo – fu Dio stesso, che alla fine della sua giornata di
lavoro si mise sotto l’albero della conoscenza in forma di serpente: si ristorava in quel modo dall’essere Dio… Tutto quello che
aveva fatto era troppo bello… Il diavolo è soltanto l’ozio di Dio
ogni settimo giorno…24
24
361.
36
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., «Al di là del bene e del male», § 2, p.
Sotto l’albero della conoscenza è steso Dio stesso. È lui il
serpente che mostra di essere al di là del bene e del male e dunque di contenerne l’opposizione.
3. L’amore del prossimo e del più lontano
Sul palcoscenico della volontà di potenza recita la vita. Ci
mette in scena molti spettacoli che nel complesso hanno per
argomento i suoi problemi. Il problema maggiore è quello del
bene e del male. Perché sulla terra non esiste un potere più
grande del potere della valutazione. La sfida centrale della vita
è la volontà di non sottomettersi a questo potere, ma di vincerlo; perché la vita è volontà, ma non volontà di vivere una vita
che si accontenti della situazione della sua alienazione, bensì
volontà di potenza. Realizza se stessa superandosi. Forma la
sua vita. È una potenza creatrice. Ecco i limiti entro i quali
Nietzsche sviluppa il suo discorso sull’amore. L’amore è situato al di là del bene e del male. Perciò Nietzsche dice: «l’amore, infatti, pensato come cosa totale, grande, piena, è natura,
e in quanto natura qualcosa “di immorale”».25 L’amore supera
non solo il bene ed il male. Supera se stesso. Con l’amore accade come con la vita: non vuole l’amore, vuole ciò che lo supera. È volontà. Ma non è la volontà di essere se stesso. È la
volontà rivolta verso ciò che lui non è. È volontà di potenza.
In una parodia dell’assolutezza dell’amore di Gesù, che
mette in bocca a Gesù stesso, Nietzsche fa sapere ai suoi lettori la loro irrelatezza con Gesù. Questa è nell’amore per Gesù
il tema fondamentale di Nietzsche. Ne caratterizza la qualità.
Ecco ciò che scrive Nietzsche:
25
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., V § 363, p. 240.
37
Quale fu fino ad oggi sulla terra la colpa più grande? Non furono
le parole di colui che disse: “Guai a coloro che ridono!”? Forse
non trovò sulla terra motivi per ridere? Allora aveva cercato male.
Un bambino riuscirebbe a trovare di questi motivi. Costui — non
amava abbastanza: altrimenti avrebbe amato anche noi che ridiamo! Ma egli ci odiò e ci insultò, ci promise pianto e stridor di
denti. Bisogna per forza maledire, là dove non si può amare?
Questo — mi sembra di cattivo gusto. Ma così fece, questo fanatico. Veniva dalla plebe. E anche lui non amava abbastanza: altrimenti non si sarebbe così incollerito di non essere amato. Ogni
grande amore non vuole amore: — vuole di più.26
Questo amore non si dirige su se stesso – non è egoismo –
ma su qualcosa che non è l’amore, e che dunque lo supera.
Questa a-moralità è insita nella sua natura. Vuole di più di se
stesso. Vuole ciò che lo supera. È la forma suprema, la più
intensa della vita. È la volontà di potenza.
Perciò leggiamo in Nietzsche, da una parte, che senza amore
uno è incapace di essere creativo – anche le illusioni che ne
abbiamo ci spingono avanti; dall’altra parte leggiamo anche:
«più elevato dell’amore per gli uomini è l’amore per le cose e i
fantasmi».27 Questi non inducono nella tentazione della insincerità morale.
L’amore per il nemico è la pietra di paragone dell’amore tra
gli uomini. Nietzsche lo chiama anche «l’amore vero». In esso
si manifesta la sua natura. Viene prima della moralità, perché
non si muove entro lo schema del bene e del male. Si potrebbe anche dire, però, che è la morale degli uomini superiori.
Nietzsche la chiama anche moralità dei nobili e la distingue
dalla cosiddetta moralità servile della plebe dicendone:
26
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., IV. «Dell’uomo superiore»,
§ 16, p. 356, 1-15.
27
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., I. «I discorsi di Zarathustra:
Dell’amore del prossimo», p. 70, 15-16.
38
Non poter prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie
sciagure, persino i propri misfatti — è il contrassegno di nature
rigorose, complete, in cui esiste una sovrabbondanza di forza plastica, imitatrice, risanatrice e anche suscitatrice d’oblio […]. Un
tale uomo con un solo strattone si scuote di dosso appunto molti
vermi che in altri invece fanno il loro covo; qui soltanto è altresì
possibile, posto che sia in generale possibile sulla terra,– il “vero
amore per i propri nemici”. Certo, quanto rispetto per i suoi nemici ha un uomo nobile! — e un tale rispetto è già un ponte verso
l’amore… Lo vuole anzi per sé il suo nemico, come un segno suo
proprio di distinzione, non sopporta alcun altro nemico se non
quello in cui non ci sia nulla da disprezzare e moltissimo invece da
onorare!28
Perciò ciò che dice dell’amore per il nemico vale per l’amore in generale. È davvero un amore che si supera per definizione. Non può assolutamente esaurirsi in se stesso. È una pietra
di paragone dell’amore. Su di esso viene misurato l’amore del
prossimo. Il suo criterio consiste nella distanza che lo separa
dagli altri. Solo questa distanza è in grado di garantire che arrivi fino all’altro nel suo essere altro. Gli si trova realmente e
non solo moralmente di fronte. Aumenta la sua forza e non
approfitta della sua debolezza. L’altro è qualcuno che supera
questo stesso amore, non è il mezzo per raggiungere il suo fine.
Non conferma la soddisfazione di sé, la mette in questione.
Ecco ciò che leggiamo in Nietzsche:
Voi vi affollate attorno al prossimo e avete belle parole per questo vostro affollarvi. Ma io vi dico: il vostro amore del prossimo
è il vostro cattivo amore per voi stessi. Voi fuggite verso il prossimo fuggendo voi stessi, e di ciò vorreste fare una virtù: ma io
leggo dentro il vostro “disinteresse”. Il tu è più antico dell’io; il
28
F. Nietzsche, Genealogia della morale I, § 10, in Opere, vol. VI, t. ii
[trad. F. Masini], Adelphi, Milano 1986, pp. 238-239.
39
tu è stato santificato, ma non ancora l’io: così l’uomo accorre ad
affollarsi attorno al prossimo. Forse che io vi consiglio l’amore
del prossimo? Preferisco consigliarvi la fuga dal prossimo e l’amore per il remoto. […] Il futuro e ciò che sta in remota lontananza
sia la causa del tuo oggi: nel tuo amico devi amare il superuomo
come causa di te. Amici, non l’amore del prossimo io vi consiglio:
io vi consiglio l’amore del remoto.29
Lo stesso consiglio vale per i compassionevoli. Zarathustra
ne dice: «Davvero, non li sopporto, i misericordiosi, che sono
beati nella loro compassione: mancano troppo di vergogna».30
La misura dell’amore del prossimo è il prossimo stesso. In
ciò che lo supera egli può indebolire questo amore, ma anche
rinforzarlo. Nel caso lo rinforzi, Nietzsche non lo chiama più
amore del prossimo ma amore del più lontano. Questo vale
anche per la compassione. Può essere giustificata o ingiustificata. È giustificata laddove è compassione della forza del debole e lo libera facendolo diventare se stesso. Non è giustificata
laddove conferma il debole nella sua debolezza e lo abbandona alla falsità. Nietzsche esige la compassione per i forti.
Una teologia dell’amore si trova dunque al di là del bene e
del male. Non si limita ad armonizzare delle opposizioni.
Rende capaci di trattare con la forza e con la debolezza. È
volontà di potenza.
La teologia non deve limitarsi alla storicità. Si trova proprio davanti alla questione della forza e della debolezza.
Nietzsche – letto contro corrente – non le toglie il terreno sotto
i piedi. È anzi il suo fondamento.
29
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., I. «I discorsi di Zarathustra:
Dell’amore del prossimo», p. 70, 1-13.
30
Ivi, II. «Dei compassionevoli», p. 104, 15-17.
40
4. L’uso forte e l’uso debole del nome di Dio
È difficile discutere con Nietzsche, perché dice cattiverie
che contengono qualcosa di buono, e parole buone che contengono qualcosa di cattivo. Nei valori Nietzsche scopre dei disvalori. La loro perdita non è un danno, ma un affare. La venerazione di qualcosa di supremo nella teologia spesso viene pagata
col tradimento di ciò che sta più in basso. Perciò la teologia
perde il suo credito presso coloro che vengono umiliati.
Ogni discussione con Nietzsche si trova subito invischiata
in questa opposizione. Le sue analisi del cristianesimo sono una
mera provocazione. Perché il loro argomento è la mancanza di
valore dei valori del cristianesimo. Egli chiama questo un «platonismo per il popolo». È possibile rispondere a questa provocazione in modo forte o debole. In modo debole le risponde
colui che si lascia provocare da lei senza riconoscere il problema, che consiste appunto nella questione, se il male deve essere pagato con il male e la provocazione con la provocazione
opposta. Chi accetta questo, si muove entro i limiti del bene e
del male, conferma con la sua risposta al rimprovero il rimprovero stesso. È una risposta nello spirito del risentimento. Chi
invece vuole rispondere al rimprovero in modo forte, deve raccogliere la sua forza. Perché il «platonismo per il popolo» esiste davvero nel cristianesimo. Colui che risponde in modo forte
si chiede, dunque, se il cristianesimo debba essere legato al platonismo o se si affermi al di là del platonismo. Si chiede se il
cristianesimo viva al di là del bene e del male, se si batta sul palcoscenico della volontà di potenza per riportare la vittoria.
Nietzsche stesso persegue una strategia della discussione
che riveli la forza e la debolezza dei suoi amici e dei suoi nemici, dicendo dei suoi scritti:
Essi conterrebbero tutti quanti, mi è stato detto, lacci e reti per
uccelli imprudenti e un quasi costante, implicito incitamento a
41
sovvertire gli apprezzamenti consueti e le apprezzate consuetudini. Come, tutto sarebbe soltanto – umano, troppo umano? Con
questo sospiro si uscirebbe dai miei scritti, non senza riportarne
una specie di ripugnanza e di diffidenza verso la morale stessa,
anzi discretamente tentati e incoraggiati a fare per una volta gli
intercessori delle cose peggiori, come quelle che sono forse soltanto le meglio calunniate. I miei scritti sono stati definiti una
scuola di sospetto e ancor più di disprezzo; per fortuna però anche
di coraggio, anzi di temerarietà. […] ma – non è vero? – ecco che
già ricomincio a fare quello che ho sempre fatto, io vecchio immoralista e uccellatore, e parlo in modo immorale, extramorale, “al
di là del bene e del male”.31
Ricordandosi di questa opera Nietzsche affermerà più tardi:
In tutto questo è incluso un lento guardarsi intorno alla ricerca di
esseri affini, tali che da una condizione di forza potrebbero offrirmi la mano per distruggere. – Da allora in poi tutti i miei scritti
sono degli ami che io getto: non sarà che mi intendo di pesca
quanto nessun altro?… Se nulla ha abboccato, la colpa non è mia.
Mancavano i pesci…32
A quelli che conducono la discussione con forza il filosofo
dà questo consiglio: «L’uomo della conoscenza non soltanto
deve saper amare i suoi nemici, ma deve anche saper odiare i
suoi amici».33
I compiti della teologia di oggi richiedono una discussione
forte con Nietzsche, perché egli dà una diagnosi esatta delle
manchevolezze nell’uso della parola di Dio e offre spunti per
una terapia efficace. La sua diagnosi è spaventosa. Constata la
31
F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, «Prefazione», § 1, in Opere,
vol. IV, t. ii [trad. S. Giametta], Adelphi, Milano 1965, pp. 3-4.
32
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., «Al di là del bene e del male», § 1, p.
360.
33
Ivi, «Prologo», § 4, p. 268.
42
compresenza di idealismo e nichilismo. Nietzsche dice che il
concetto di Dio verrebbe usato in opposizione alla vita. Che il
concetto di Dio nella teologia unirebbe in se tutto ciò che
nuoce alla vita e la diffama. Che non sarebbe un concetto basato sulla volontà e tanto meno sulla volontà di potenza. L’uso
idealistico della parola Dio implica una mera moralità. Svaluta
la vita e la priva della prospettiva sua propria.
Il nichilismo è il sistema in cui si realizza questa svalutazione. Esso subordina il vile al nobile e non gli permette di avere
una propria volontà e di essere qualcuno. Nietzsche definisce
il nichilista come «colui che, del mondo qual è, giudica che non
dovrebbe essere e, del mondo quale dovrebbe essere, giudica
che non esiste».34
La parola Dio viene molto spesso usata in questo senso
nichilistico. La volontà di riconoscere il valore degli uomini e
del mondo oggi non è contenuta in questo atteggiamento. Nei
suo dialogo con il Cardinale C.M. Martini, Umberto Eco racconta la reazione di un suo amico all’elezione di Giovanni
XXIII come Papa con una intenzione evidentemente paradossale: «Papa Giovanni dev’essere ateo. Solo chi non crede in
Dio, è capace di amare il suo prossimo in questa maniera».35
La filosofia di Nietzsche offre tuttavia per questi difetti
spunti di una terapia. Nietzsche fa vedere l’opposizione del
bene e del male nei punti nevralgici della vita. Perché l’amore
non vuole amore, bensì ciò che oltrepassa l’amore. L’amore è
il luogo esemplare dell’al di là del bene e del male. Colui che
vuole parlare seriamente di Dio deve riflettere su questa opposizione. Amare Dio vuol dire amare ciò che lo oltrepassa, cioè
34
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, vol. VIII, t. ii
[trad. S. Giametta], Adelphi, Milano 1979, 9 [60], p. 26.
35
Cfr. C.M. Martini – U. Eco, In cosa crede chi non crede?, Mondadori,
Milano 1999, p. 58.
43
l’uomo e il mondo, amici e nemici. Senza una discussione con
degli avversari forti la teologia elude i propri temi. L’umano
troppo umano è lo spazio della sua vita. Nietzsche usa l’epiteto «volontà di potenza» anche come nome di Dio.
Elmar Klinger
Università di Würzburg
44
NIETZSCHE E IL PENSIERO DEL XX SECOLO
1. Una visione profetica
A fine di Gennaio del 1899, a Torino, Nietzsche dà evidenti segni di quella follia che lo terrà prigioniero fino alla morte.
Dopo un periodo di ricovero in varie cliniche, il filosofo sarà
ospitato dalla sorella Elisabeth e vivrà con lei e con suo marito Förster fino alla morte avvenuta nel 1900. Non sappiamo
nulla di questi ultimi undici anni di vita; se veramente il filosofo sia vissuto in stato di ebetismo, come la sorella ha sempre
detto, oppure se le cose siano state in maniera diversa. Fino ad
alcuni anni or sono nessuno ha mai dubitato che la sifilide avesse condotto Nietzsche alla pazzia e all’ebetismo. Da qualche
tempo una necroscopia effettuata sul suo cadavere ha posto in
forse questa certezza, levando un alone di mistero sulla pazzia
di Nietzsche, sulla sua causa, e, di conseguenza, su come trascorsero i suoi ultimi anni.
Ma non abbiamo qui elementi che siano utili a suffragare
questa opinione. Fatto sta che nel suo ultimo anno di vita lucida (1888) Nietzsche, pur non rinunciando ad elaborare appunti per quella che doveva essere la sua opera decisiva La volontà di potenza, pubblicò cinque brevi scritti, quasi a suo
testamento spirituale: Il caso Wagner, Nietzsche contra Wagner,
Il crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce homo. In essi emerge chiara la consapevolezza del filosofo che il secolo che si stava
per aprire, il xx secolo, avrebbe dovuto fare i conti con la sua
45
filosofia, anche là dove questa sarebbe stata apparentemente
disprezzata e dimenticata. Nietzsche ebbe la chiara visione che
con il suo pensiero si chiudeva effettivamente un’epoca e se ne
sarebbe dovuta aprire un’altra; un’epoca su cui però egli poteva solamente gettare uno sguardo – quasi come Mosè, che, dall’alto del monte, può solamente scorgere da lontano la terra
promessa.
La filosofia di Nietzsche si configura come la conclusione
di un’epoca. Dopo il suo pensiero, per citare sue parole,
«chiunque nascerà […] apparterrà per ciò stesso a una storia
più alta di ogni altra trascorsa».1 Sarà quindi opportuno cercare per prima cosa di chiarire quale sia l’epoca che Nietzsche
conclude e perché tale epoca giunge alla sua fine.
2. Il nichilismo nella prospettiva della metafisica
«Non avete mai sentito parlare di quell’uomo pazzo che, in
pieno mattino, accesa una lanterna, si recò al mercato e incominciò a gridare senza posa: “Cerco Dio! Cerco Dio!” Trovandosi sulla piazza molti uomini non credenti in Dio, egli suscitò in loro grande ilarità. Uno disse: “L’hai forse perduto?”, e
altri: “S’è smarrito come un fanciullo? Si è nascosto in qualche
luogo? Ha forse paura di noi? Si è imbarcato? Ha emigrato?”.
Così gridavano, ridendo fra di loro...».2 Con queste parole inizia il celebre aforisma 125 de La gaia scienza, intitolato “L’uomo folle”. Nella stesura preliminare questo uomo aveva un
nome: si chiamava Zarathustra. Nel seguito della ricerca questo nome risulterà decisivo.
1
F. Nietzsche, La gaia scienza, § 125, in Opere, vol. V, t. iii [trad. F.
Masini], Adelphi, Milano 1965, p. 129.
2
Ibidem.
46
L’aforisma 125 è quello nel quale viene annunciata la morte
di Dio e con essa l’inizio del nichilismo. Troviamo nel pensiero di Nietzsche tre fondamentali annunci della morte di Dio.
Il primo annuncio, in tono piuttosto ironico, si trova in Il viandante e la sua ombra, appendice del 1880 a Umano, troppo
umano.3 L’ambiente è un carcere. Un mattino i prigionieri
aspettano la comparsa del guardiano, ma questi tarda. Uno di
loro, però, afferma di non essere quello che sembra. Egli, in
realtà, è il figlio del guardiano, in incognito tra i prigionieri.
Quando però questi gli chiedono di provare la propria affermazione, egli rifiuta, affermando che gli devono credere solamente per fede. Alcuni prigionieri rifiutano decisamente di credere, altri accettano, altri, infine, sono nel dubbio. Intanto uno
dei prigionieri è salito alla casa del guardiano ed ha scoperto
che questi è morto e dunque che la credenza nel presunto figlio
è diventata del tutto inutile. Ma questi continua a richiedere la
loro fede, affermando che nulla è mutato.
L’ironia, nemmeno troppo sottile, che pervade l’aforisma,
è palese e la metafora per nulla nascosta. Conformemente al
clima degli scritti del periodo di Umano, troppo umano, Nietzsche si pone come aspro e violento critico verso i costumi del
suo tempo, Cristianesimo compreso.
Ma il tono muta ben presto. La gaia scienza, scritta tra l’estate del 1881 e la primavera del 1882, presenta una scena in cui
la morte di Dio viene presentata con un pathos tutto diverso.
Le parole dell’«uomo folle», la sua ricerca quasi spasmodica di
Dio ci rendono coscienti che il grande misfatto della sua ucci-
3
È da notare che con Umano, troppo umano si apre quello che Jaspers e
molti commentatori dopo di lui hanno definito il secondo periodo della filosofia nietzschiana, cioè quello in cui la critica alla metafisica e alla morale
razionale, che precedentemente si era limitata al mondo greco, investe anche
tutto il mondo contemporaneo. Possiamo dire che quindi proprio con questa opera inizia la visione totale del nichilismo.
47
sione è sì un evento di enorme portata, il più grande evento di
tutta la storia dell’umanità, l’evento di una storia più alta di
quella che fino a quel momento si era sempre vissuta; ma nello
stesso tempo ci presentano un grande desiderio di quel dio che
ha cessato di essere. Nelle parole dell’uomo folle non vi è la
minima ombra di ironia. Vi è piuttosto profonda angoscia per
il futuro dell’uomo. «Dio è morto! Dio resta morto!», esclama;
ed in queste parole vi è un senso di rassegnazione per quello
che sarà il futuro destino dell’uomo.
Ancora un cambiamento di clima nel terzo annuncio della
morte di Dio, quello del Così parlò Zarathustra (1883).4 Lasciando alle sue spalle il “vecchio del bosco”, che in maniera convincente T. Moretti-Costanzi ha identificato con Schopenhauer,5
Zarathustra dice: «È mai possibile! Questo santo vegliardo
non ha ancora sentito dire nella sua foresta, che Dio è morto!»6
Qui la morte di Dio è ormai alle spalle. L’evento è accaduto.
Zarathustra che scende dal suo monte per fare agli uomini il
dono del superuomo, vive ormai il clima della morte di Dio,
un clima che caratterizzerà la storia futura.
Avere presente l’evoluzione del pensiero di Nietzsche su un
argomento così importante, non significa solamente comprendere la psicologia dell’autore ed i suoi mutamenti d’umore, ma
piuttosto il rendersi conto dell’evoluzione stessa della metafisica. A partire da Cartesio la metafisica è entrata, come si esprime Heidegger, nel suo momento soggettivistico. L’ὑποκείμενον
greco, il subiectum latino, cioè letteralmente “ciò che sta sotto”
4
Tutti gli annunci successivi non sono, da questo punto di vista, importanti, poiché si intonano a quest’ultimo annuncio.
5
Cfr. T. Moretti-Costanzi, Sul prologo del «Così parlò Zarathustra», in
Ethica, s.e., Forlì 1964, p. 86.
6
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno,
«Prefazione di Zarathustra», § 2, in Opere, vol. VI, t. i [trad. M. Montinari], Adelphi, Milano 1968, p. 5, 60-62.
48
e, in quanto tale, fonda e sostiene, non è più l’esse in re, l’ente, come avveniva nel pensiero medievale, ma è diventato l’uomo. Per la prima volta con il xvii secolo l’uomo diviene il centro su cui si fonda il complesso delle idee, degli obiecta, di
quegli enti che la mente umana governa a proposito del loro
essere. Il cogito cogitata di Cartesio e la lettura matematica della
natura di Galilei sono due aspetti di un identico modo di pensare, di una nuova prospettiva, quella moderna appunto, nel
quale l’ente, diventato oggetto, si pone costantemente in rapporto al suo soggetto, l’uomo, e rientra nel suo dominio.
Tale dominio, attraverso i pensatori del xvii e xviii secolo,
Kant e le filosofie del xix secolo si estende sempre più fino ad
inglobare in sé ogni cosa. Kant pone chiaramente le basi di tale
dominio quando, nella Critica della ragion pura, afferma che «le
condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono al
tempo stesso condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza, ed hanno quindi validità oggettiva in un giudizio sintetico a priori».7
Ci troviamo qui di fronte ad una svolta di consapevolezza
essenziale nella filosofia moderna. Kant fornisce la determinazione della realtà e dell’ontologia moderna attraverso una precisa affermazione a proposito dell’essere dell’oggetto e dell’oggettivo. Per oggetto si intende infatti ciò che si offre alle
possibilità di un soggetto, cioè dell’uomo. Tutto quanto esorbita da tali condizioni diventa “cosa in sé”, cioè quell’ente che
sta per conto suo, che non ha a che vedere con il soggetto stesso, con l’uomo.
È vero che Kant considera ancora la cosa in sé come assolutamente necessaria alla conoscenza. L’intelletto umano, che
non è «né archetipo, né ectipo», ha necessità della «materia
7
I. Kant, Critica della ragion pura, 2 voll., a c. di G. Colli, Bompiani,
Milano 1987, I, p. 234, 36-40.
49
greggia delle impressioni sensibili»,8 ma questa cosa in sé assomiglia sempre più, come dirà l’idealismo in generale ed Hegel
in particolare, ad un mero “residuo realistico”, ad un vago
fumo, destinato a dileguarsi al vento della volontà di dominio
che ormai viene ad affermarsi come la vera natura dell’essere,
il fondamento stesso dell’ontologia.
Quando Hegel, nella sua ultima opera pubblicata, la Filosofia del diritto (1821), afferma che «ciò che è razionale è reale,
ciò che è reale è razionale»,9 il processo iniziato da Galilei e
Cartesio e fondato ontologicamente da Kant è ormai giunto
alla sua conclusione. Hegel esprime pienamente il senso del
dominio dell’uomo sull’ente ed esprime la consapevolezza
piena che il reale altro non è che il territorio di conquista dell’uomo stesso. Tutto il pensiero successivo non farà altro che
ribadire questa conquista, pur mutando di volta in volta gli
strumenti atti alla sua riuscita.
«“II mondo è mia rappresentazione”. In questa proposizione Schopenhauer ha riassunto il pensiero della più recente filosofia. Schopenhauer va qui menzionato perché la sua opera
principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, sin dalla
sua apparizione nel 1818 ha influito nel modo più profondo su
tutto il pensiero dei secoli xix e xx, anche là dove la sua
influenza è meno evidente, anche là dove la sua proposizione
è combattuta».10 Queste parole di Heidegger mostrano come
Schopenhauer non sia affatto, come egli si riteneva, la grande
antitesi ad Hegel, ma sia piuttosto colui il quale trae le estreme conseguenze proprio dalla metafisica in cui si sostanzia
tanto il pensiero di Kant, come quello di Hegel. Se il mondo è
8
Ibidem, l. 22.
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a c. di V. Cicero,
Bompiani, Milano 2006, p. 24.
10
M. Heidegger, Che cosa significa pensare? I. Chi è lo Zarathustra di
Nietzsche, a c. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1978, p. 57.
9
50
mia rappresentazione, allora il reale è per l’uomo e l’uomo lo
domina completamente.
All’inizio del secondo volume de Il mondo come volontà e
rappresentazione Schopenhauer completa la sua ontologia affermando che il mondo è volontà. Egli però non comprende fino
in fondo il significato ontologico di questa affermazione ed
interpreta la volontà come volontà di vivere. Sarà Nietzsche che
invece comprenderà l’autentico essere della volontà, ponendolo come volontà di potenza.
3. La metafisica come morte di Dio
L’essere è volontà di potenza. Questa è non solo l’espressione sintetica dell’ontologia di Nietzsche, ma anche di tutta l’ontologia moderna.11 In essa si riassume il significato filosofico
di quel pensiero che, ponendo l’uomo come soggetto, vede l’essente ruotare intorno all’uomo stesso.
Quale parte ha Dio in questo pensiero? Già Pascal aveva
chiaramente visto quale sarebbe stato l’esito, quando afferma
a proposito di Cartesio: «Non posso perdonare a Cartesio: egli
avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno
di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto
per mettere il mondo in movimento: dopo di che non sa più
che farsene di Dio».12 Parole profetiche, queste. Dio diviene
sempre più inutile. Quasi gli si addicono le espressioni con cui
parla Hegel descrivendo il pensiero della coscienza infelice: «un
vago brusio di campane o una calda nebulosità, un pensare
11
Heidegger ha efficacemente mostrato come tutta la storia dell’ontologia, da Platone in poi, possa essere ricondotta all’inconsapevole volontà di
potenza.
12
B. Pascal, Pensieri, n. 194 [ed. Chevalier], in Pensieri, Opuscoli, Lettere, a c. di A. Bausola e R. Tapella, Rusconi, Milano ²1997, p. 469.
51
musicale»;13 Dio diviene poco più che una nebbia che infine
sparisce con il pensiero del xix secolo.
Proprio all’inizio del secondo annuncio della morte di Dio,
quello de La gaia scienza, Nietzsche presenta coloro che osservano la spasmodica ricerca dell’uomo folle come “molti uomini non credenti in Dio”. Essi si trovano su una piazza di mercato, un luogo emblematico del pensiero di Nietzsche,14 il luogo
cioè in cui di fatto si discutono le cose “importanti” per i suoi
contemporanei e per gli uomini del futuro, quegli uomini cioè
per i quali solamente i dati economici hanno importanza. Su
una piazza di mercato non c’è posto per Dio; ed i mercanti e
finanzieri non sentono alcun bisogno di Dio. Per loro la sua
esistenza o non esistenza è un argomento vano, degno delle
buone discussioni di salotto, ma non certo degli affari importanti del mondo. Ecco la ragione per cui questi uomini non possono fare altro che deridere la ricerca dell’uomo folle: «Egli
suscitò in loro grande ilarità. Uno disse: “L’hai forse perduto?”, e altri: “S’è smarrito come un fanciullo? Si è nascosto in
qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è imbarcato? Ha emigrato?” Così gridavano, ridendo fra di loro...».
Si noti bene come le parole che Nietzsche pone in bocca a
coloro che non credono in Dio sono ben diverse da quelle dell’uomo folle. Questi, infatti, non parlano affatto di “morte di
Dio”. Dio non è mai esistito, e ciò che non è mai esistito non
può morire. L’atteggiamento dell’uomo folle è quello di un credente, anche se di un credente sui generis. Quando nell’ultimo
libro del Così parlò Zarathustra questi incontrerà l’«ultimo
papa», questi lo definirà con parole tali che ne caratterizzano
13
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a c. di E. De Negri, La
Nuova Italia, Firenze 1979, I, p. 180.
14
Su un’altra piazza di mercato Zarathustra avrà la prima occasione di
parlare alle folle e di presentare il superuomo.
52
bene la posizione. Zarathustra è «il più devoto di coloro che
non credono in Dio».15
Zarathustra non può dunque in nessun caso essere definito
un “ateo”; egli invece è un “devoto”, anche se sa benissimo
che l’oggetto della sua devozione è morto. Atei invece sono
coloro che lo deridono e che si trovano sulla piazza del mercato. Ma chi sono veramente costoro?
Nietzsche non li nomina. Possiamo benissimo però riconoscerli. Si tratta dei “non credenti”, cioè di coloro che ritengono che Dio non abbia nulla a che spartire con il loro essere; che
hanno, apertamente o meno, dichiarato che il loro essere non
ha nulla a che vedere con l’essere di Dio, che è dunque capace
di reggersi in maniera del tutto autonoma. Possiamo dire trattarsi da un lato del mondo filosofico proprio del xix secolo:
dell’idealismo, del marxismo del positivismo; di quelle correnti filosofiche le quali ritengono che l’uomo sia in grado di ottenere il completo dominio del reale e che perciò Dio sia divenuto del tutto inutile. Ma indicare i protagonisti delle correnti
filosofiche non è sufficiente per stabilire pienamente chi siano
che popolano la piazza del mercato. La filosofia è sempre stata
qualcosa di elitario; essa non è in grado, se non a distanza di
tempo, di influire sul modo di pensare della maggior parte degli
uomini. Ancora una volta Nietzsche ci fornisce però un’indicazione precisa al fine di comprendere chi siano gli uomini di
cui si parla. Essi si trovano sulla piazza del mercato. Sono lì
per curare i propri affari; quegli affari da cui dipende tutto il
mondo che veramente importa. Questa indicazione è preziosa.
L’evento che qui viene descritto è infatti un evento planetario. La sua portata è così vasta, che esso è destinato a modificare l’intera storia mondiale.
15
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., IV. «A riposo», p. 314, 53-
54.
53
Nel periodo in cui Nietzsche opera i segni di questo sconvolgimento planetario cominciano ad essere visibili, anche se solamente per coloro che, come il filosofo sanno guardare avanti.
Noi, che veniamo più di un secolo dopo, possiamo invece renderci conto di quanto è avvenuto, basta che abbiamo gli occhi
per vedere. L’eclissi di Dio sta di fronte a noi in maniera lampante: essa è presente nel modo di interpretare la vita politica
e sociale, nello “stato laico”, secondo il quale non solamente
Dio non è presente, ma il semplice riferimento alla religione è
considerato come una negazione della libertà umana. Al tempo
in cui vive Nietzsche proprio nella Germania da poco unificata, ma anche in altri stati dell’Europa,16 come la Francia e
l’Italia, si potevano chiaramente notare i segni della diffusione di una cultura che viveva facendo a meno di Dio. Le parole che pronunciò Laplace di fronte a Napoleone, che gli chiedeva quale posto avesse Dio nella sua cosmologia: “Dio è
un’ipotesi inutile”, si stanno ormai diffondendo dal campo
scientifico a tutti gli ambiti del sapere.
Negli abbozzi preliminari al Così parlò Zarathustra (Z II 9)
troviamo un significativo titolo: “Il buon Europeo”. Si tratta
di uno dei personaggi che Zarathustra incontra nel IV libro. Il
quadro che ci è presentato è ormai quello finale della tragedia.
Di fronte al deserto che cresce, cioè al nichilismo ormai incombente, Zarathustra è salito sulle montagne, poiché le pianure
sono popolate dagli “ultimi uomini”, quelli che si sono adattati al nichilismo stesso. Qui egli è inseguito da una serie di strani personaggi, tanto che le montagne diventano troppo popolose per lui. Si tratta dei cosiddetti “uomini superiori”. Tra
questi, nelle stesure preliminari, compare anche il “Buon Euro-
16
Le culture anglosassoni in cui questo processo è già da tempo in corso
sono più distanti da Nietzsche e quindi non è facile sapere quanto il filosofo fosse a conoscenza di ciò che in esse era in gran parte già avvenuto.
54
peo”. Nella stesura definitiva troviamo invece “L’ombra”. Il
modo in cui l’ombra viene descritta è degno del nome: assomiglia ad uno spettro, “così sottile, nerastro, scavato”. L’ombra
viene paragonata ad un “sopravvissuto”.17
È significativo che il “buon europeo” nella stesura definitiva sia diventato l’ombra. Ciò ha due fondamentali significati.
Il primo abbiamo già potuto osservarlo: l’ombra è quanto di
più simile ad uno spettro possa essere pensato. Il secondo lo
ricaviamo espressamente dalle parole che l’ombra rivolge a
Zarathustra: «Con te infransi ciò che il mio cuore venerava,
rovesciai tutte le pietre di confine e le immagini, inseguii i desideri più pericolosi, – Davvero non c’è delitto di alcun genere,
che io non abbia una volta superato. Con te disimparai a credere nelle parole e nei valori e nei grandi nomi. Quando il diavolo cambia la pelle, non si distacca anche il suo nome?
Questo, infatti, è pelle. E il diavolo stesso, forse, è – pelle».18
L’ombra pensa di essere tanto vicino a Zarathustra da essere
appunto la sua ombra. Per due volte il brano riporta le parole
“con te”. Solamente perché l’ombra è proprio “l’ombra”, sempre attaccata all’ente quasi da confondersi con lui, egli può
avere agito in questo modo. Solamente Zarathustra è la possibile guida al superamento dei confini che la morale impone, al
compimento dei maggiori e impensabili delitti. «“Nulla è vero.
Tutto è permesso”: così parlai a me stesso. Io mi tuffai nelle più
gelide acque».19
Le parole che l’ombra pronuncia sono le parole del nichilismo. L’ombra assomiglia a Zarathustra, anzi, di più, gli è tanto
vicina da non potersi distaccare da lui, proprio perché nell’ombra si incarna il nichilismo al massimo grado.
17
Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., IV. «L’ombra», p. 331,
34 ss.
18
19
Ivi, pp. 331, 68-332, 75.
Ivi, p. 332, 76-77.
55
Ma il nichilismo del “buon europeo” (l’ombra) e quello di
Zarathustra sono realmente identici come l’ombra crede? Già
nel libro III dello Zarathustra Nietzsche ci presenta un personaggio che crede di pensare allo stesso modo di Zarathustra e
di essere avvinghiato a lui. Si tratta del “nano”, presentato nel
brano intitolato “La visione e l’enigma”. L’ombra e il nano
hanno aspetti comuni. Anzitutto, seppure per diverse ragioni,
sono presentati come uomini malformati, in secondo luogo essi
si presentano come coloro che meglio hanno compreso Zarathustra. Il nano è il seguace di Zarathustra nel suo pensiero più
profondo: l’eterno ritorno dell’uguale; l’ombra segue invece
Zarathustra nella sua grande trasformazione storica: il nichilismo prodotto dalla morte di Dio.
Ma tanto nel caso del nano, come in quello dell’ombra
Zarathustra nega decisamente che la sua verità sia stata compresa. Tanto il nano, quanto l’ombra di fatto scimmiottano
Zarathustra. Essi non capiscono cosa realmente egli dice. Sono
troppo meschini per comprenderlo. Il loro pensiero, piatto, si
ferma ad un certo punto. Essi appiattiscono le vette a cui Zarathustra invece mira.
Nel caso del “buon europeo” basta veramente poco per
comprendere come il suo nichilismo e quello di Zarathustra
siano veramente agli antipodi. L’uno è il nichilismo dell’orgoglio, della tracotanza, ma nello stesso tempo della debolezza.
Quello di Zarathustra è il nichilismo della forza, ma, al tempo
stesso della tragedia.
Esaminiamo con attenzione. Ci troviamo di fronte alla
dichiarazione dell’uomo folle, il quale parla della morte di Dio.
«Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi
assassini!».20 Le parole dell’uomo folle sono oltremodo chiare:
tanto l’uomo folle quanto i mercanti hanno ucciso Dio.
20
56
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., § 125, p. 129.
Entrambi sono colpevoli di quel superamento stesso del delitto di cui parlava l’ombra; perché, se delitto è uccidere un
uomo, non sarà “superamento del delitto” uccidere Dio? Non
hanno forse ragione allora i mercanti buoni europei ad affermare che essi sono i veri seguaci di Zarathustra, che sono la sua
ombra, sempre legati a Zarathustra stesso?
No! Essi hanno decisamente torto. Come il nano, essi si
illudono, perché partecipano insieme a Zarathustra del nichilismo. In realtà, rivelano i due aspetti del nichilismo stesso,
aspetti collegati ed inscindibili.
Ci rendiamo conto di ciò, se prendiamo in considerazione il
terzo annuncio della morte di Dio, quello con il quale si apre il
Così parlò Zarathustra. Il libro, prima di presentare le 4 parti
dei “discorsi di Zarathustra” contiene una prefazione divisa in
10 capitoletti. Nel secondo di questi Zarathustra incontra uno
strano personaggio, chiamato “il santo del bosco”. Il santo si
ritiene uguale a Zarathustra. Come ha messo in luce il Romanici nel suo libro Il prologo di “Così parlò Zarathustra”,21 il santo
(Schopenhauer) crede che il monte da cui Zarathustra scende
non sia altro che il prolungamento del suo bosco, che quindi
Zarathustra appartenga al suo regno e sia sempre rimasto un
suo discepolo. Al contrario, Zarathustra sa benissimo come chi
è sempre rimasto nel bosco non possa avere nessuna esperienza del monte e della luce del sole. Solamente Zarathustra può
dunque realmente sapere che cosa è accaduto. Già in precedenza abbiamo infatti citato le parole pronunciate da Zarathustra una volta che si è distaccato dal santo eremita: «È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella
sua foresta, che Dio è morto!».
21
Cfr. M. Romanici, Il prologo di “Così parlò Zarathustra”, s.e., PollenzaMacerata 1975. Mi sia lecito in questa occasione ricordare lo studioso di
Nietzsche purtroppo morto ancora molto giovane alcuni anni fa.
57
Il tono di questo annuncio è talmente diverso da quello dell’uomo folle da fare impressione. L’uomo folle affermava che
l’annuncio della morte di Dio esige tempo, che coloro che
hanno compiuto il delitto non se ne sono ancora resi conto.
Nello Zarathustra è tutto il contrario. L’avvento è ormai alle
spalle e la meraviglia consiste nel constatare la presenza di qualcuno che non ne è ancora venuto a conoscenza. La tragedia sta
alle spalle. Essa può rendere dunque melanconici, ma non
angosciati. Tutto il pathos che pervadeva l’annuncio dell’uomo
folle è scomparso, poiché non ha più senso avere pathos per ciò
che è ormai passato ed acquisito. Si tratta piuttosto di decidere cosa fare.
Dunque il nichilismo portato dalla morte di Dio fa parte
della storia. Il terribile crimine non è stato compiuto mediante un atto voluto e deliberato, ma piuttosto con una serie di
passaggi inevitabili che hanno a poco a poco reso inutile l’esistenza di Dio, di quel Dio, il dio della metafisica, sorto alle origini del pensiero classico, con le filosofie di Platone e di Aristotele, che è stato necessario per reggere i destini dell’uomo.
4. Il dio della metafisica
Nietzsche concepisce la storia della filosofia come “platonismo”. Già al tempo della Nascita della tragedia (1873) egli
fornisce una visione della storia della filosofia assai diversa da
quella tradizionale. Si tratta infatti dell’unico filosofo che
abbia osato dare una visione negativa del pensiero di Socrate.
Indipendentemente da quelli che possono essere i giudizi sui
singoli pensatori e dall’interpretazione fornita, quello che
conta è il modo nel quale Nietzsche legge la complessità del
pensiero occidentale. La visione tragica della vita e dell’essere
in generale, che è presente nel pensiero greco delle origini e
che si manifesta nelle forme letterarie prima ancora che nel
58
pensiero filosofico, viene annullata dall’invenzione socratica
della razionalità.
Nel pensiero di Socrate l’uomo può vincere il tragico che lo
pervade attraverso le forze della propria ragione. Se il pensiero tragico è dominato dalla consapevolezza che l’essere è come
sospeso sul nulla ed è quindi destinato ad essere assorbito nel
nulla,22 la razionalità proclama la sconfitta del nulla attraverso
la vittoria del razionale e del morale. Questa affermazione della
razionalità si esprime massimamente nella invenzione del deus
ex machina di Euripide. La tragedia genera all’interno di se
stessa la forza che produce la sua distruzione. L’idea del deus
ex machina è la suprema vittoria del razionale e del morale,
nella quale il dio interviene a favore della ragione umana, al
fine di farla trionfare sulla tragicità. In Platone tutto ciò trova
la sua prima compiuta espressione filosofica. Proprio in quello
che i più ritengono il più antico dialogo di Platone, Eutifrone,
troviamo la svolta chiara che pone fine alla mentalità tragica.
La discussione verte su che cosa sia il santo e quale sia il suo rapporto con gli dèi. Socrate dice: «Rifletti un momento su questo: il santo, perché santo lo amano gli dèi, o perché lo amano
gli dèi è santo?» (10a). In queste parole è posta un’alternativa
decisiva. Da un lato compare la tesi di Eutifrone, che è a tutti
gli effetti una tesi tragica: “il santo è santo perché lo amano gli
dèi”. Il santo è, cioè, in balìa della volontà degli dèi, i quali stabiliscono di volta in volta ciò che è santo e ciò che non lo è.
Dall’altra la tesi di Socrate: “gli dèi amano ciò che è santo”. Il
santo si afferma qui in quanto tale, con tutta la sua forza.
Nell’affermazione platonica è già prefigurato ciò che il mondo
moderno e contemporaneo chiama il valore. L’affermazione
22
Fu proprio questa consapevolezza che portò Nietzsche ad apprezzare
Wagner e principalmente la sua Tetralogia. Nel mito nibelungico, proprio
della civiltà tedesca, Nietzsche scorge il ripresentarsi del tragico greco, contro il socratismo, il Cristianesimo e tutto il pensiero latino.
59
socratica è in questo contesto solamente contrapposta a quella
di Eutifrone. Non ne viene fornita alcuna prova; ma in essa è
già prefigurato il pensiero platonico delle idee.
Il mondo delle idee, posto da Platone come mondo trascendente, segna la definitiva scomparsa del pensiero tragico e la
comparsa di quel principio trascendente, che Nietzsche chiama
“dio”. Il pensiero di Aristotele, con l’invenzione della teologia
razionale, il Cristianesimo, come volgarizzazione del platonismo, la filosofia medievale, altro non sono che espressione di
uno stesso fenomeno: il platonismo, destinato a far scomparire la stessa presenza del tragico.
Con il sorgere della filosofia moderna, e precisamente con
Cartesio, il quadro comincia a poco a poco a mutare. Non è un
caso che Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia a proposito della filosofia di Cartesio dica: «Ormai possiamo dire
di trovarci in essa proprio a casa nostra e, come il navigatore
dopo lungo errare nel pelago infuriato, possiamo gridare
“terra!”».23 Hegel ha perfettamente compreso che proprio con
Cartesio inizia il periodo che porterà alla morte di Dio.
Intendiamoci bene: il pensiero di Cartesio, come pure quello di
Hegel, sono ancora platonismo a tutti gli effetti. Solo che,
come dice Heidegger, entriamo nel periodo della metafisica
soggettivista; cioè in quella fase del pensiero in cui l’uomo, il
nuovo subiectum, si pone come centro del pensiero intorno al
quale ruotano tutti gli oggetti possibili Dio compreso.24
23
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a c. di E. Codignola
e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1943, vol. III, t. ii (La filosofia moderna), p. 66.
24
Come si è già fatto notare, Pascal ebbe la netta consapevolezza di questo passaggio. Comprese benissimo quali ne sarebbero potuti essere gli effetti. Di qui la sua strenua opposizione a Cartesio. D’altra parte Cartesio porta
a compimento una serie di processi in qualche misura già presenti nel pensiero precedente, anche in quello che viene definito “pensiero cristiano”.
60
Da Cartesio in poi Dio appare avere non solamente nel pensiero filosofico, ma anche nella cultura, una parte sempre più
marginale. Con l’affermarsi dello stato aconfessionale, anticipazione del moderno stato laico, Dio esce dal mondo politico.
Nell’arte compaiono sempre più frequentemente soggetti che
non hanno più nulla a che vedere con il divino e l’uomo, nel suo
essere di tutti i giorni, si pone al centro della scena. La ricerca
pittorica del Caravaggio è esemplare in questo processo. La
musica si stacca anch’essa dal sacro, per diventare espressione
dell’uomo stesso.
La cultura illuministica poi, anche quando non si schiera
decisamente contro Dio, emargina Dio relegandolo ad alcuni
settori dell’esperienza umana a vantaggio della razionalità,
ormai capace di ritrovare da sola i propri valori. L’ideale della
libertà di coscienza non viene più ad esprimere la posizione di
autonomia della coscienza umana di fronte a Dio, quale si
mostra in san Paolo, ma piuttosto la non necessità di Dio, poiché l’uomo è capace di trovare con il lume della ragione i princìpi della morale. Non è un caso che Kant, nella Critica della
ragion pratica, possa fondare trascendentalmente la morale in
totale autonomia da Dio e ricorra solamente a Dio come garante del premio conferito all’uomo giusto.
Con l’idealismo e con il pensiero di Hegel il processo delineato giunge alla sua conclusione. La terra è finalmente raggiunta, poiché l’uomo, superata la sua individualità, viene ad
assumere a tutti gli effetti le prerogative stesse di Dio. La morte di Dio, quale entità autonoma è con questo definitivamente
affermata. L’uomo è diventato il dominatore del mondo.
Il processo della metafisica da Platone ad Hegel è così delineato nei suoi momenti principali. Se con Socrate e Platone
l’uomo ha “inventato” il Dio della metafisica allo scopo di vincere il mondo tragico, con Hegel l’uomo si rende conto di poter
finalmente fare a meno di questo dio posticcio, del dio tappabuchi, che serviva unicamente alla realizzazione degli scopi
61
umani.25 Dopo Hegel, Marx affermerà l’inutilità della religione non solo e non tanto perché questa è l’«oppio dei popoli»,
ma perché il conseguimento dell’era socialista realizzerà tutte
le esigenze dell’uomo, rendendo inutile il trascendente religioso. La stessa cosa, anche se in modo diverso, è affermata dall’ideale scientifico del positivismo, che ritiene possibile risolvere totalmente i problemi dell’uomo attraverso la scienza.
25
Forse l’esemplificazione più significativa di questo modo di concepire Dio può essere reperita nella Critica della ragion pratica di Kant. È noto
come il filosofo tedesco, totalmente agnostico a riguardo dell’atto teoretico,
abbia fondato in maniera totalmente autonoma l’atto morale. Nella dialettica si trova però in difficoltà poiché comprende da un lato che l’agire umano
esige il conseguimento della felicità, dall’altro che il fenomeno non si piega
alla volontà umana. Dopo avere trovato nella “contentezza di sé” una soluzione totalmente noumenica, e perciò umanamente conseguibile, al problema della felicità, ha però bisogno di Dio per ottenere anche una soluzione
fenomenica. Ciò risulta evidente se consideriamo ciò che Kant intende per
felicità: «La felicità è la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui,
in tutto il corso della vita, tutto avviene secondo il suo desiderio e la sua
volontà, e si fonda quindi sull’accordo della natura col fine totale di esso, e
così pure col motivo determinante essenziale della sua volontà» (I. Kant,
Critica della ragion pratica, a c. di F. Capra, E. Garin, S. Landucci, Laterza,
Bari-Roma 1982, p. 151). Ora questo tipo di felicità è possibile solo se
«viene anche postulata l’esistenza di una causa di tutta la natura, differente dalla natura, la quale contenga il principio di questa connessione, cioè
dell’accordo esatto della felicità con la moralità. Ma questa causa suprema
deve contenere il principio dell’accordo della natura, non solamente con una
legge della volontà degli esseri razionali, ma con la rappresentazione di questa legge in quanto questi esseri la pongono a motivo determinante supremo
della volontà, e quindi non semplicemente coi costumi quanto alla forma, ma
anche quanto alla loro moralità, come motivo determinante di essi, cioè con
la loro intenzione morale» (ivi, pp. 151-152). Questa causa non può essere
altro che Dio. Al di là delle espressioni che possono trarre in inganno, è evidente come Kant esiga l’esistenza di Dio solamente al fine di poter affermare che l’ordine morale (razionale) e l’ordine naturale coincidono perfettamente. Una tale coincidenza è però impossibile per l’uomo finito, ma sarà
possibile per l’uomo hegeliano diventato spirito, per il quale realtà e razionalità coincidono perfettamente.
62
Quello che però deve essere sottolineato è la trasformazione stessa del mondo nella quale l’uomo vive. La metafora della
piazza del mercato non si limita ad indicare i seguaci delle correnti filosofiche. Nietzsche comprende benissimo come il clima
di autosufficienza dell’uomo si sia piuttosto diffuso a livello
popolare. La società europea in generale e tedesca in particolare della fine xix secolo, quella creata tanto dal governo di
Bismarck in Germania, tanto dalla terza repubblica francese,
quanto dai governi della destra e della sinistra storiche in Italia,
vede la generale diffusione della concezione liberale dello stato,
il sorgere dei cosiddetti “partiti manageriali”, che sono la manifestazione più evidente del dissolversi a livello sociale di ogni
esigenza di trascendenza. Il successo dell’economia in ogni
campo della politica trasforma la società ed il suo governo in un
apparato più o meno perfezionato di gestione di affari. Lo stato
si avvia ad essere una “grande azienda”.26
Anche lo stesso vocabolo con il quale ormai vengono designate le idee morali tradisce il predominio dell’economia.
Secondo l’uso invalso al suo tempo, Nietzsche parla di “valori”. Oggi questa parola è talmente diffusa che nessuno più
pensa a che cosa dice allorché si parla di “valori morali”. La
stessa Chiesa ne parla senza la minima esitazione e nei documenti ufficiali la parola “valore” è spesso usata proprio per
indicare i punti cardini a cui il comportamento umano si deve
ispirare. Esiste una “filosofia dei valori”. La stessa fenomeno-
26
Dopo la parentesi dei totalitarismi, che in qualche modo ha interrotto l’egemonia degli stati liberali, vediamo come la fine del xx secolo e l’inizio del secolo attuale sono proprio caratterizzati dall’esplosione di questa
trasformazione dello stato in un’azienda finanziaria. Ormai in tutto il
mondo occidentale la caduta delle ideologie ha prodotto l’autosufficienza
dell’ordine politico in quanto ordine economico. In questo stato di cose Dio
non ha più spazio. Il dio della metafisica è definitivamente morto, ma neppure il Dio della religione ha in realtà possibilità di essere.
63
logia, con uno dei suoi più insigni protagonisti, Max Scheler,
ha creduto di potere riscoprire dopo Kant e Nietzsche un saldo
fondamento oggettivo della morale attraverso un’etica materiale dei valori. Alcuni addirittura non esitano ad indicare Dio con
l’appellativo di “valore supremo”. Ma le parole parlano anche
al di là degli intenti di chi le usa. Le parole guidano e costringono il pensiero. Il termine “valore” è e resterà sempre un termine “quantitativo”, un termine “economico”. Anche i valori
si spacciano sulla piazza del mercato, anche se non ce ne rendiamo conto. Nietzsche giustamente afferma che il valore è
sempre qualcosa di umano. L’ordine etico, in quanto ordine
fondato sui valori, è un ordine totalmente immanente, che solamente a prezzo di vere e proprie acrobazie, o di mancanza di
profondità di pensiero viene collegato con il trascendente.
5. Incipit tragœdia
«Dove andiamo noi, lontani da ogni sole?» Se Socrate e
Platone avevano inventato il dio della metafisica allo scopo di
superare la dimensione tragica, era perché essi avevano compreso benissimo l’incapacità dell’uomo di fondarsi su se stesso.
Che cosa succederà dunque una volta ucciso, soppresso, soffocato, il dio della metafisica? Nietzsche ne è sicuro. L’uomo
folle lo annuncia chiaramente. La tragedia tornerà ad imperare. L’uomo non può trovare da solo un proprio fondamento.
Come afferma chiaramente Heidegger, egli è come sospeso tra
due nulla, quello che precede la nascita e quello che segue la
morte. In realtà l’uomo, diventato signore del mondo, non sa
che farsene del suo regno. Ha perduto quella che è la sua caratteristica primaria, poiché il dominio assoluto, proprio perché
conseguito, non perché fallito, impedisce quel “tendere a…”,
che è il proprio dell’essere dell’uomo. A che cosa si può tendere, quando ormai tutto è caduto sotto il dominio?
64
«Chiunque nascerà dopo di noi apparterrà per ciò stesso a
una storia più alta di ogni altra trascorsa». Queste parole, che
concludono il discorso dell’uomo folle, indicano una grandezza nuova che aspetta l’uomo. Si tratta di quella grandezza che
Zarathustra, posta alle sue spalle la morte di Dio, come qualcosa di ormai passato e scontato, è venuto a portare all’uomo;
si tratta di quel dono che egli annuncia al santo del bosco, ma
che questi non comprende. «Non dar loro nulla, disse il santo.
Levagli piuttosto qualcosa e portalo insieme a loro – questo
sarà per essi il massimo beneficio: purché lo sia anche per te!
E se proprio vuoi dargli qualcosa, non dare più di un’elemosina, e falli mendicare per questo!».27 Se leggiamo le versioni
preparatorie del Così parlò Zarathustra, osserviamo che il dono
portato era duplice: «Io porto loro un nuovo amore e un
disprezzo nuovo: il superuomo e l’ultimo uomo».28 La versione definitiva parla invece di “dono” in maniera sintetica e
quasi oscura. Solamente nel primo discorso di Zarathustra,
quello tenuto nella città al limitare del bosco, ancora significativamente sulla piazza del mercato, si parla del «superuomo»
e dell’«ultimo uomo». In questo caso però le due figure sono
talmente separate, che è quasi impossibile collocarle nella loro
relazione immediata. In realtà, però, superuomo e ultimo uomo
sono il risultato del medesimo processo.
«L’uomo è qualcosa che deve essere superato».29 La morte
di Dio esige tale superamento. «L’uomo è un cavo teso ….»,30
dice ancora Nietzsche. Alle due estremità di questo cavo stanno la bestia e il superuomo, che non sono, come in un presunto evoluzionismo, il dato di partenza e il dato di arrivo, ma
27
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., «Prefazione di Zarathustra»,
§ 2, pp. 4, 30-5, 35.
28
Ivi, [N VI 1, 7], p. 421.
29
Ivi, § 3, p. 6, 5-6.
30
Ivi, § 4, p. 8, 3.
65
piuttosto le due mete a cui l’uomo può tendere: l’ultimo uomo
e il superuomo.31 Zarathustra presenta sia il superuomo e l’ultimo uomo come due mete, due progetti possibili, gli unici che
potranno esistere nell’età della morte di Dio.
«Il deserto cresce». Questa espressione che ricorre nello
Zarathustra e nell’opera di Nietzsche contemporanea e posteriore allo Zarathustra, indica lo stato di cose che segue la morte di
Dio. Si tratta di una crescita, di un processo progressivo dapprima inavvertito, poi sempre più evidente. Il deserto è la
desertificazione. La desertificazione è la stessa impossibilità di
una nuova fertilità. Il punto di vista di Nietzsche è qui totalmente antropologico: ciò che determina la desertificazione è il
nichilismo. «Che cosa significa nichilismo? — Che i valori
supremi si svalorizzano».32 Nietzsche ragiona in termini di valori e considera i valori come le mete che hanno consentito fino
ad ieri all’uomo di vivere. Certo qui non si tratta dei valori
transeunti, cioè dei valori relativi ad una situazione, ma piuttosto dei valori eterni, di quelle mete che fanno sì che l’uomo
sia uomo.
Orbene, proprio la perdita di questi valori ad opera del
nichilismo che segue la morte di Dio, indica chiaramente che
l’uomo non è più in grado di vivere. Il suo superamento è inevitabile, perché in caso contrario si andrebbe incontro all’estinzione. Così assistiamo nel IV libro dello Zarathustra all’incontro con quei sopravvissuti che si sono arrampicati fin sulle
31
Il fatto che Nietzsche si serva di una metafora evoluzionista non significa in nessun caso un’adesione, neppure parziale, del filosofo all’evoluzionismo. Qui a Nietzsche non interessa per nulla il passato, l’ipotetico punto
di partenza, che non viene neppure posto in questione. Ciò che invece interessa è il futuro, la méta di un andare a cui l’uomo è costretto, perché la storia non offre più alcuno spazio all’uomo quale è stato prima della morte di
Dio.
32
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, n. 9 [35], in Opere, vol.
VIII, t. ii [trad. S. Giametta], Adelphi, Milano 1979, p. 12.
66
montagne per sfuggire al deserto. Essi vengono chiamati “uomini superiori”; ma sarebbe un tragico errore confonderli con
il superuomo, anche se questa è la loro credenza.33
In realtà, Zarathustra si befferà degli uomini superiori, lasciandoli al loro destino e condannandoli all’estinzione. Solo
l’ultimo uomo e il superuomo sono destinati ai secoli futuri.
Ogni tentativo di salvare il modello precedente di uomo è destinato al fallimento proprio perché il nichilismo non lascia
scampo. Là dove i valori supremi si svalorizzano, potrà sopravvivere solamente chi può vivere senza i valori. Questa è la
nuova situazione.
In realtà, l’ultimo uomo, colui dal quale Zarathustra vorrebbe distogliere i propri ascoltatori, non ha possibilità di vita,
ma piuttosto di sopravvivenza. Dalle parole con cui esso ci
viene presentato emerge con forza il suo carattere rinunciatario. «“Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?” —
così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio».34 Nell’ultimo
uomo è assente ogni stimolo alla creatività. Egli ha conservato
la velleità propria dell’uomo superiore di dominare il mondo,
ma ha ristretto il proprio dominio a ciò che lo circonda. Come
l’animale, egli ha segnato con il proprio odore i confini del proprio dominio, rinunciando completamente ad uscirne.
«Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»,35 suona
la notissima proposizione 7, l’ultima del Tractatus di Wittgenstein. Se interpretiamo questa proposizione in senso stretto,
33
L’inganno è tanto più forte in quanto appositamente Nietzsche, proprio parlando di “uomini superiori” ha lasciato aperto l’equivoco. La letteratura che ha seguito Nietzsche è caduta in pieno nel tranello, ed ha forgiato i vari superuomini, pensando di approssimarsi in questo modo al pensiero
di Nietzsche. Nulla di più lontano.
34
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., «Prefazione di Zarathustra»,
§ 5, p. 11, 33-34.
35
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1941-1916,
a c. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1968, p. 82.
67
come fecero i filosofi del Circolo di Vienna, ci troviamo proprio di fronte a quella posizione che Nietzsche attribuisce
all’ultimo uomo. Ma la filosofia del Circolo di Vienna è solamente un esempio, forse il più evidente dell’ultimo uomo, di
una chiusura pressoché totale allo spazio aperto, non dominabile dall’uomo. In realtà la filosofia degli ultimi uomini è assai
più diffusa anche tra coloro che a tutta prima sembrano voler
atteggiarsi al ripristino delle classiche posizioni che precedono
la morte di Dio. Tra costoro spesso la volontà di conservare le
antiche posizioni, di ripristinare il vecchio Dio è solamente
apparente. In realtà, ci troviamo di fronte ad un conservatorismo sempre più stretto, che finisce per rinunciare ad ogni creatività, che non solamente ha paura del nuovo, ma che afferma,
con termini più o meno evidenti, che ormai tutte le posizioni
sono state esplorate e che le alternative sono già tutte poste sul
terreno. Certo, costoro camminano in piena sicurezza, ma la
loro rinuncia alla creatività, viene pagata con la pretestuosa e
meschina riproposizione di modelli dati e solo apparentemente innovativi.
«“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi
uomini e strizzano l’occhio».36 La felicità degli ultimi uomini
consiste nel costante risparmio di energie ottenuto mediante
il cammino su strade ormai sicure e codificate. La mancanza di
vero e proprio lavoro intellettuale contrassegna questa posizione, la quale calcola, sulla base di ciò che ormai è accertato,
quale sia la posizione meno dispendiosa da seguire per il futuro. «“Una volta erano tutti matti” – dicono i più raffinati e
strizzano l’occhio».37 Chiunque voglia creare, chiunque si sforzi in qualche modo di affrontare il rischio deve per forza esse-
36
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., «Prefazione di Zarathustra»,
§ 5, p. 11, 40-41.
37
Ivi, p. 12, 61-62.
68
re considerato pazzo. Chiunque voglia estendere la propria
indagine al di là dei confini accertati e codificabili non usa la
ragione in maniera appropriata. Ma quel che è peggio, è che
Nietzsche prevede che la mentalità degli ultimi uomini possa
essere tanto accettata, che anche coloro che potrebbero uscirne rientrano in realtà nei suoi parametri. «Chi sente diversamente va da sé al manicomio».38
Il superuomo si presenta come il vero dono, l’alternativa
all’ultimo uomo, la meta che l’uomo, nell’epoca che segue la
morte di Dio, deve di fatto perseguire. Ma si tratta di un’alternativa “positiva”? Nietzsche è assai lontano dall’affermare
questo. Egli sa benissimo che l’epoca storica che sta per venire è in realtà l’epoca della tragedia. Se l’ultimo uomo vive la
tragedia proteggendosi all’interno del guscio solido del già codificato, il superuomo è colui che affronta la tragedia in quanto
tale, senza protezione, anzi, rifiutando ogni protezione.
Il superuomo è la creatività allo stato puro; è colui che si
getta al di fuori degli schemi, volendo il nuovo in quanto
nuovo, sapendo bene che solamente il creare in quanto tale è
l’essere. L’essere è volontà di potenza. Ma questo non significa affatto “essere potenti”. Colui che è potente consiste nella
sua potenza; ma nella misura in cui consiste cessa di crescere.
La sua potenza gli sta dietro, è al passato. L’uomo che è potente, proprio perché lo è, ha anche cessato di potenziarsi. La sua
non è “volontà” di potenza; è invece “staticità” di potenza.
Al contrario il superuomo è colui che è sempre proteso verso
il futuro. La sua imperiosa creatività non ha pause. Essa è in
quanto si mantiene tale. Essa è «conservazione-accrescimento».39 Nel suo scritto La sentenza di Nietzsche: Dio è morto,
Heidegger fornisce una suggestiva interpretazione di queste
38
39
Ivi, p. 12, 59-60.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 11 [73], p. 247.
69
parole, basata proprio su quel tratto di congiunzione che unisce la parola conservazione alla parola accrescimento.40 Per
Heidegger la volontà di potenza consiste in ultima analisi proprio nel tratto di congiunzione, in quanto non ci può essere
conservazione senza accrescimento, né accrescimento senza
conservazione.41
Non a caso Dioniso è visto come la divinità imperante del
mondo tragico. Egli è il dio dell’ebbrezza, della musica, della
danza. Ed ecco il danzatore intrecciare sulla pista i suoi passi
in un turbine crescente di gesti, atti a suscitare sempre nuove
emozioni. Ecco la musica che innalza la sua armonia, intrecciando accordi sempre più spericolati e sublimi. Poi la bacchetta del direttore d’orchestra si ferma, la musica tace, il danzatore saluta e ringrazia. Che cosa è stato prodotto? Che cosa è
mutato? Oggi, certo possediamo mezzi di registrazioni che possono riprodurre all’infinito la musica e le immagini. Ma anche
in questo caso si tratta di semplici riproduzioni. La novità è
cessata nello stesso momento in cui lo spettacolo si è esaurito.
In tutto ciò non c’è nulla di edificante, se per “edificante”
intendiamo ciò che si costruisce ed è destinato perennemente
ad ergersi alla contemplazione esemplare dell’uomo. Il danzatore non offre nulla di simile.
Proprio questa è la tragica consapevolezza del superuomo:
egli è il creare puro e semplice: senza alcun fine, senza alcuna
vera è propria edificazione. Il creare non porta a nulla perché
il suo senso non è la meta raggiunta. Questa, come tale, è passata, è data. Quindi, per usare il linguaggio di Nietzsche stes-
40
È però necessario dire che nell’edizione curata da Montinari e Colli
e che viene reputata oggi la più attendibile edizione delle opere di Nietzsche
il trattino non esiste. L’edizione dice semplicemente «di conservazione e di
potenziamento».
41
Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, a c. di P. Chiodi, La Nuova
Italia, Firenze 1968, p. 208 e ss.
70
so, non “vale” più nulla. Il creare del superuomo è uno spettacolo di fuochi artificiali. L’angoscia prende il filosofo che ha
saputo vedere tutto questo. La filosofia di Nietzsche in realtà
non ha vie d’uscita. Non ha aperture, né religiose, né atee; perché in realtà lo sforzo del filosofo è quello titanico di guardare
in faccia la realtà.
Nietzsche impazzì per la consapevolezza di tutto questo?
La sua mente cedette di fronte alla consapevolezza tragica
senza vie di fuga? Nessuno potrà mai dirlo; ma certamente ciò
che egli indica come “il peso più grande”, cioè l’eterno ritorno
dell’identico, al di là delle inadeguate interpretazioni basate
unicamente sulla circolarità del tempo, è proprio la circolarità
stessa della volontà, che, non avendo meta, nel momento in
cui ha cessato di volere, ha anche cessato di essere.
6. Nietzsche e la teologia?
Nietzsche fa annunciare all’uomo folle la morte di Dio.
Zarathustra è il maestro che insegna a vivere nel mondo senza
Dio. Può essere tutto questo di qualche utilità alla teologia,
ammesso che la parola “utile” abbia qui un qualche senso?
Certamente Nietzsche non ci aiuta a parlare di Dio. Egli
conosce solamente quel dio, che è “il dio della metafisica”, il
dio “invenzione dell’uomo”, il “dio tappabuchi”. Certo si è
trattato di un’invenzione utile, che ha permesso, forse, all’umanità greca di salvarsi e di non essere inghiottita dal suo stesso
senso tragico. Ma si tratta pur sempre di una grande menzogna.
Qualsiasi dio della metafisica è in fondo una grande menzogna,
anche quando chi la compie agisce con le più pie intenzioni.
La domanda che ci dobbiamo fare è invece un’altra. Essa
investe la teologia nella sua interezza. Deve la teologia parlare
di Dio? È appropriato parlare di teologia o invece di “Teologia”? Questo gioco della minuscola e della maiuscola non
71
sembri inopportuno. Esso riguarda invece nella sua profondità l’interpretazione della teologia stessa. Essa è la parola umana
su Dio (genitivo oggettivo), o è piuttosto la stessa Parola che
Dio rivolge all’umanità (genitivo soggettivo)?
«Sacra Scriptura, quae Theologia dicitur», dice Bonaventura (Breviloquium, V, 201). Parole brevi, ma di grande incisività. Esse indicano all’uomo un compito, una vera e propria rivoluzione nei confronti tanto della teologia naturale, che di quella
soprannaturale, che tentano di dire parole su Dio, parole che
sono sempre e troppo umane. Le parole di Bonaventura sono
in se stesse un invito all’ascolto. Attraverso la Teologia il Verbo
parla al mondo. Ma come possono risuonare le parole del Verbo
nel baccano del mondo? Di fronte ad un uomo che ha tanto da
dire, che è così pieno di sé da riempire libri di parole su Dio,
come può Dio essere udito da quest’uomo che sa già tutto su di
lui? L’uomo che sa che Dio deve essere motore immobile, atto
puro, pensiero di pensiero, come può fermarsi ad ascoltare
anche un solo momento l’umile carpentiere di Nazareth, deposto in una mangiatoia e morto sulla croce?
Finché la pomposa immagine umana di Dio non sarà cancellata, la presenza divina dell’umiltà non avrà quartiere.
Nietzsche sdruscia dall’orizzonte umano l’immagine possente
del dio della metafisica. Si tratta certo di un primo passo; ma
da solo esso non è affatto sufficiente. L’uomo, infatti, privato
del suo dio umano e troppo umano, conosce solamente la solitudine. Egli era sempre stato solo, ma la presenza del dio della
metafisica l’aveva illuso d’avere un alleato potente al suo servizio. L’illusione della potenza, dell’essere potente è l’essere
della metafisica, che giunge in Hegel, in Marx, nella filosofia
scientifica ottocentesca ad ergersi in tutta la sua boria di grandezza. Con Nietzsche tutto questo finisce e la solitudine
mascherata diventa una solitudine rivelata.
***
72
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Il poeta chiarisce la situazione dell’uomo della morte di Dio
quale Nietzsche l’ha conosciuta.
Tre punti emergono immediatamente:
1. La solitudine. «Sul cuor della terra», dominatore del mondo,
l’uomo è però irrimediabilmente solo, abbandonato a se
stesso.
2. Il sole. L’aiuto, il conforto, l’energia si è trasformato da
amico in nemico. Il sole trafigge l’uomo ponendolo come in
croce, ma non in una croce di salvezza, ma piuttosto di totale sconfitta e perdizione.
3. La morte. Il peso della morte, dell’eterno nulla toglie anche
l’ultimo senso all’esistenza ed annulla i progetti umani, qualsiasi siano, anche i più alti.
Poeti e pensatori, in modi diversi, hanno sentito ed espresso questa stessa posizione. Sia all’interno di pensieri filosofici,
come quello dell’esistenzialismo e del neo-marxismo, sia nella
più disparata letteratura l’essere dell’uomo della morte di Dio
è stato espresso talora con violenza, talora con rassegnazione.
In tutti i casi il nichilismo, sia quello della forza, sia quello della
debolezza, simili entrambi, non hanno potuto far altro che
esprimere il nulla dell’uomo. Nient’altro. È inutile farsi illusioni su questo punto. Il nichilismo non è di per sé il primo
passo verso Dio. Non lo è, perché all’interno del nichilismo
l’uomo resta pur sempre ricco di sé, ricco della sua vuotezza.
«L’essere è volontà di potenza», afferma Nietzsche. Con
queste parole egli giunge al limite estremo della metafisica, ma
vi rimane pur sempre all’interno. In questa visione dell’essere
l’uomo rimane intrappolato in se stesso, impossibilitato ad
uscirvi.
73
«Noi siamo su di un piano su cui ci sono solamente degli
uomini»,42 dice Sartre, ponendo così in luce tutta la verità sull’uomo del nichilismo. In esso non è possibile cercare altro.
Sbaglierebbe chi credesse che la fede in Dio nasce, quasi per
genesi spontanea dal nichilismo.
Deve essere però qui fatta, e con grande forza, una ulteriore affermazione, che può apparire paradossale alla luce di quanto è stato appena detto: senza un autentico nichilismo non vi
può essere vera fede. Comprendere ciò, significa avere realmente compreso che il nichilismo, distogliendo i sogni di
potenza, anche quelli di potenza intellettuale prodotti dalla
metafisica, può rivelare la vera essenza dell’uomo: il nulla.
Ma che cos’è il nulla? Questa domanda, paradossale per la
metafisica, si rivela invece fruttifera agli occhi della fede.
καὶ τὰ ἀγενῆ τοῦ κόσμου καὶ τὰ ἐξελέξατο ὁ "εος, τὰ μὴ
ὄντα, ἵνα τὰ ὄντα καταργήσῃ (1 Cor 1,28). Paolo parla espressamente di τὰ μὴ ὄντα, delle cose che non sono. In queste Dio
pone la sua forza. Queste parole non vanno prese alla leggera.
Contro una metafisica che si vuole costruire sull’affermazione
dell’essere, le parole del Vangelo affermano che le scelte di Dio
cadono sui τὰ μὴ ὄντα. Ma anche il nulla può essere pieno di sé,
chiuso a Dio, come avviene nel nichilismo sartriano. Perché i τὰ
μὴ ὄντα possano essere eletti da Dio, essi devono aprirsi a Dio
stesso. Cristo in croce, secondo il Vangelo di Luca, è proprio il
supremo esempio di un totale nullificarsi, che però si apre nell’abbandono filiale. «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Senza questo affidamento salvifico il nulla prodotto dal nichilismo lascia l’uomo solo e lo condanna alla morte.
Giovanni Motta
Studio Teologico «S. Antonio»
42
J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, tr. it. di G. Mursia Re;
nota bio-bibliografica a c. di A. Sordini, Mursia, Milano 1990, p. 40.
74
NICHILISMO POSITIVO E IL DIVINO
1. Non c’è dubbio che quando si pronuncia il termine nichilismo, si è presi da un senso di smarrimento. Inconsciamente
tale concetto richiama una dimensione negativa. Suscita l’immagine di una realtà che si trova in dissolvimento. Nel terreno sociale e in quello politico si pensa ad una critica demolitrice della
società, dello stato considerati nel loro fondamento. Si pensa
ad una critica più o meno radicale della legge: non solo della
legge umana, ma pure di quella divina. Anzi, soprattutto di
quella divina. Il termine nichilismo viene in tal modo confuso
con il termine anarchismo, e soprattutto con quello di ateismo.
Si pensa ad una rivolta nei confronti di tutto ciò che pretende limitare la nostra libertà: soprattutto quella interiore. Viene
messa in discussione ogni tavola dei valori e in particolare quelli che riguardano il fondamento dell’uomo. Viene messo in
discussione il rapporto di dipendenza tra uomo e Dio: il potere non viene da Dio ma solo dall’uomo. Questo comporta che
la radice ultima del potere e quindi della sicurezza non sia più
Dio ma l’uomo.
L’uomo si sente super-uomo in quanto libero da ogni vincolo che possa limitare la sua libertà. L’uomo come super-uomo
è al di là del bene e del male. Il nichilista è considerato come
un pensatore radicale che mette in crisi le radici della stessa
civiltà. Questa descrizione del nichilismo è piuttosto comune
e la si incontra nei vari ambiti della cultura. Si vede il nichilismo come perdita del sacro.
75
2. Ma considerato nella sua dimensione più profonda il
nichilismo non implica solo una dimensione negativa come può
sembrare. Si può incominciare a far luce su questo concetto se
lo si considera come un fenomeno culturale non ben definito e
pure non definibile. Si è di fronte ad un fenomeno culturale
che non si esaurisce necessariamente nell’ambito stesso della
cultura. Ciò significa che il nichilismo può essere messo a fuoco
pure in un orizzonte che supera la stessa dimensione culturale.
Si può così tentare di delineare il nichilismo come quel fenomeno che è a un tempo culturale e sovra-culturale. In tal modo
si è di fronte ad una prima descrizione del nichilismo, anche se
piuttosto generale. Come fenomeno strettamente culturale il
nichilismo si presenta sotto due aspetti, uno storico e uno filosofico. Sono due aspetti tra loro intrecciati per cui non è possibile tracciare tra questi due ambiti linee ben definite.
Ma, se è abbastanza facile descrivere il momento storicoculturale del nichilismo, non è invece altrettanto facile descrivere il momento filosofico. E ciò perché, come si è detto, il nichilismo filosofico in senso stretto non si esaurisce in un ambito
culturale. Rimane in esso sempre aperta la possibilità di procedere oltre la stessa dimensione culturale. Si può così parlare
nell’ambito del nichilismo di un nichilismo sovra-culturale.
Per distinguere questi due modi fondamentali di essere del
nichilismo, quello culturale e quello sovra-culturale, si può definire il nichilismo culturale come nichilismo negativo e il nichilismo sovra-culturale come nichilismo positivo. Il nichilismo
negativo rimane legato al tempo, il nichilismo positivo supera
la dimensione del tempo.
Ma superare non vuol dire abbandonare il momento del
tempo e quindi la cultura legata al tempo. Vuol dire essere nel
tempo e contemporaneamente essere fuori del tempo. Essere
quindi nell’orizzonte della “eternità”. Si tratta, ovviamente,
di un’eternità esistenziale, che si distingue dall’eternità metafisica. Questa è oltre il tempo in una dimensione oggettiva che
76
viene messa a fuoco dalle categorie dell’intelletto conoscente.
Nel pensare esistenziale, solo il nichilismo positivo è considerato in senso autentico, poiché in questo ambito la dimensione del nulla viene messa a fuoco a livello di fondamento dello
stesso esistere.
3. Quando Nietzsche critica l’impostazione cristiana dell’esistere come posizione nichilistica, pensa appunto al fatto
che l’impostazione cristiana rimane in fondo legata alla cultura. Anzi, ad una ben determinata cultura, che viene messa in
luce dalle categorie dell’intelletto. Quando invece a questa
impostazione nichilistica oppone la sua propria visione del
nichilismo, Nietzsche pensa a una concezione del nulla che va
oltre ogni concezione culturale e quindi oltre ogni concezione
concettuale.
Ciò spiega perché Nietzsche dica di se stesso di essere antinichilista e nello stesso tempo dica sempre di se stesso di essere il primo autentico nichilista. In altre parole, si capisce perché Nietzsche dica di essere “anti-nichilista”, se si tiene
presente il fenomeno del nichilismo solo come puro fenomeno
culturale. E così pure si capisce perché Nietzsche dica di essere il primo “nichilista”, se si tiene presente nel nichilismo il
fondamento stesso dell’esistere, che viene inteso appunto come
nulla.
Sotto questa luce appunto di un nichilismo negativo e di un
nichilismo positivo acquista senso il pensiero fondamentale di
Nietzsche della «morte di dio» e del super-uomo. Quando
Nietzsche sottolinea con ferma convinzione che dio è morto,
egli allude al dio del nichilismo negativo, al dio che si presenta sotto veste culturale. Così pure quando dice che gli dèi sono
morti, e che deve vivere il super-uomo, egli intende per superuomo l’uomo aperto alla sovra-cultura, alla trascendenza esistenziale, al sacro. Nietzsche è convinto che l’autentica dimensione di dio può essere messa in luce solo in un nichilismo
77
positivo. In altre parole, solo nel nichilismo che supera a livello di fondamento ogni dimensione culturale. In tal modo viene
messo in questione il cosiddetto ateismo di Nietzsche.
Perciò se il nichilismo positivo può essere messo a fuoco al
di là di ogni pretesa culturale, significa che esso va oltre l’ambito dell’esperienza. Ma si è detto che per il filosofo dell’esistenza superare non significa abbandonare. Significa piuttosto
mettere in luce nell’esperienza quell’orizzonte che per definizione sfugge alle prese dell’esperienza. Se infatti si taglia questo legame con l’esperienza e quindi con la cultura, non si può
parlare di un nichilismo filosofico in senso stretto, ma di un
nichilismo mistico.
4. È possibile in tal modo tenere presente diverse espressioni del fenomeno del nichilismo. Si può innanzitutto ricordare
la distinzione tra un nichilismo storico e un nichilismo filosofico. Si è detto che tutti e due questi momenti del nichilismo
affondano la loro radice nel terreno della cultura. A sua volta
nel contesto del nichilismo culturale filosofico si può aprire un
discorso su un nichilismo sovra-culturale. Solo questo nichilismo può essere considerato in senso stretto come autentico.
Tale nichilismo sovra-culturale, che si fonda su una dimensione di eternità esistenziale, rimane però a livello di fondamento sempre legato alla realtà culturale. Come si è detto,
senza questo legame, il nichilismo sovra-culturale decade a nichilismo mistico. Tale nichilismo tende proprio a livello di fondamento a liberarsi il più possibile da ogni vincolo culturale.
Queste due espressioni di nichilismo sovra-culturale, quello esistenziale e quello mistico, vengono poste di continuo sotto
problema. E ciò perché non si può tracciare facilmente i contorni di una realtà che non può essere rappresentata. Si può
vedere l’esempio classico di tale ambiguità nel nichilismo di
Meister Eckhart. Questo non può essere affatto confuso con il
nichilismo dei mistici renani che vivono nello stesso periodo
78
di tempo. Il misticismo di Meister Eckhart investe soprattutto il piano della ragione e non già quello del sentimento.
Ma il fatto che il fenomeno del nichilismo sovra-culturale sia
una realtà non rappresentabile, non implica che essa sia una
realtà di segno negativo nel senso comune del termine. Anzi,
proprio perché il nichilismo esistenziale si mostra intrinsecamente come una realtà non rappresentabile può essere messa a
fuoco in una dimensione del nulla che è a livello di fondamento. Il nichilismo positivo parla appunto del nulla come del fondamento ultimo dell’esistenza. L’essere è il nulla: questa è la
tesi fondamentale del nichilismo positivo.
5. Il primo grande pensatore che, nella cultura dell’Occidente cristiano, ha parlato dell’essere come nulla in senso esistenziale è Meister Eckhart. Questi vive nel Medioevo. È filosofo e teologo a un tempo. Nella cultura dell’Ottocento un
simile discorso viene ripreso da Kierkegaard e da Nietzsche. E
più tardi viene approfondito da Heidegger e da Jaspers. Questi
pensatori mettono a fuoco un nuovo linguaggio filosofico, rifacendosi in particolare al linguaggio di Meister Eckhart.
Accanto a questi pensatori, che sono soprattutto dei filosofi, vi sono altri pensatori che sono considerati in senso più
stretto dei teologi. Si ritrovano tutti in un orizzonte di filosofare esistenziale. Penso che tra i teologi dell’esistenza il più
profondo sia Friedrich Gogarten.
Se Nietzsche può essere considerato il teorico del nichilismo, Gogarten può essere considerato il teorico della secolarizzazione. Ma in fondo le problematiche del nichilismo e della
secolarizzazione sono quanto mai vicine appunto perché tutte
e due portano avanti un discorso sul nichilismo a livello esistenziale. Sia il nichilismo positivo che la secolarizzazione non
investono solo la realtà del singolo, ma pure quella della storia. Per questo motivo il loro discorso ha pure un risvolto
politico.
79
Si può fare il punto. Si è accennato a un nichilismo sotto
l’aspetto storico e di un nichilismo sotto l’aspetto filosofico. A
sua volta nell’ambito della dimensione filosofica si è accennato a un nichilismo culturale e a un nichilismo sovra-culturale.
Il primo è stato definito come nichilismo negativo e il secondo
come nichilismo positivo. A sua volta nell’ambito del nichilismo sovra-culturale si è distinto un nichilismo positivo esistenziale da un nichilismo positivo mistico. Il primo rimane legato
alla cultura anche se la supera, il secondo invece cerca di liberarsi il più possibile da ogni dimensione di cultura.
nichilismo
storico
filosofico
nichilismo positivo esistenziale
culturale
sovra-culturale
nichilismo positivo mistico
nichilismo negativo nichilismo positivo
Da queste brevi considerazioni sul nichilismo ci si rende
facilmente conto che, se è abbastanza semplice aprire un
discorso su una dimensione storica del nichilismo, non è invece altrettanto semplice parlare del nichilismo sotto l’aspetto
filosofico. Si può ancora chiarire il nichilismo positivo se si
tiene presente che esso non può affatto essere considerato
come una nuova corrente filosofica, come possono essere per lo
più le correnti filosofiche che si fondano su una determinata
concezione del mondo. Ma proprio perché non si presenta
come una concezione filosofica, il nichilismo positivo viene
considerato dai rappresentanti di alcune correnti filosofiche
come non-problema. È ovvio che non si possa parlare di un
nichilismo positivo come di una corrente filosofica come, ad
80
esempio, possono essere l’idealismo, il romanticismo o il positivismo. E ciò perché il nichilismo si sottrae a livello di essenza a qualsiasi rappresentazione culturale.
6. Ma se il nichilismo inteso nel senso più profondo non è
una concezione culturale, esso è però presente in ogni concezione culturale. Ciò ha luogo precisamente come momento di
“crisi” di una determinata cultura. Ed è proprio questo aspetto del nichilismo che può essere definito come sovra-culturale.
D’altra parte il concetto del nichilismo come momento di
crisi di una determinata cultura può essere chiarito più da vicino se si pensa che una simile crisi non è solo un aspetto laterale della cultura, ma è piuttosto un aspetto essenziale di essa.
Non si tratta più precisamente del problema di mettere in luce
la crisi di una particolare cultura, ma si tratta piuttosto di mettere in luce la cultura stessa come crisi.
Ciò significa, in altre parole, che la cultura considerata a
livello di fondamento si rivela appunto a livello di crisi. Parlare
non tanto di crisi di una determinata cultura, quanto di cultura come crisi è la stessa cosa che parlare di sovra-cultura. La
realtà della crisi diventa in tal modo un momento di fondo del
nichilismo esistenziale a livello positivo.
7. Queste riflessioni sul nichilismo esistenziale che supera
il piano della cultura, non possono essere prese in considerazione per chiarire le altre possibili espressioni del nichilismo filosofico che non superano il piano culturale. Si è visto che tutte
queste espressioni del nichilismo possono essere definite come
un nichilismo filosofico di segno negativo. Non c’è dubbio che
solo nel contesto di un nichilismo negativo è possibile aprire
un discorso su un nichilismo come corrente filosofica accanto
ad altre.
Il nichilismo positivo invece, che supera il piano della cultura, si sottrae ad ogni tentativo di valutazione appunto per81
ché, come si è detto, è al di là di ogni concezione del mondo.
Si trova al di là del bene e del male. È quella realtà esistenziale e storica che non può essere definita, proprio a livello di
essenza.
Penso che sia ancora possibile mettere in luce il nocciolo
filosofico ultimo del nichilismo positivo, se lo si considera come
un nichilismo aperto al sacro. Sotto quest’angolo visivo il nichilismo positivo è una realtà sacrale che investe ad un tempo il
piano del singolo individuo e il piano della storia. La verità propria del nichilismo positivo è tutta particolare perché “trasforma” l’individuo e la stessa storia che si presenta appunto come
sovra-storia Questa soltanto può essere definita pure come storia sacrale. Quando Nietzsche definisce il nichilismo come un
modo di «pensare divino» (göttliche Denkweise), egli pensa
appunto a questo nichilismo positivo, che è come tale aperto al
sacro.
Un simile nichilismo, che non può essere in alcun modo
chiarito con le categorie dell’intelletto conoscente, è ben lontano dall’essere confuso con il fenomeno culturale dello scetticismo. Pure questo è una concezione del mondo, anche se di
segno negativo. Lo scettico si trova ancora sul piano del bene
e del male. Se mette in questione la validità di ogni verità, lo
scettico ritiene in fondo proprio questo suo dubitare come verità. In altre parole, lo scettico non rigetta la verità del dubbio.
Il nichilista invece supera il dubbio inteso come ultima spiaggia della verità. La verità si dispiega solo nell’orizzonte del
nulla. In questo orizzonte anche il dubbio perde i suoi contorni di una realtà definibile appunto perché il dubbio è legato a
un modo di pensare concettuale. Il dubbio è in fondo sempre
una concezione del mondo.
8. Se si tiene presente la definizione del nichilismo positivo
come nichilismo sacrale, ci si può rendere conto di come sia
possibile aprire un discorso tra questo nichilismo e il Dio della
82
sacra Scrittura. Tale discorso può essere messo in luce a livello intrinseco, dato che si tratta di un discorso sovra-culturale.
Viene condotto sempre sullo sfondo del nulla. Se si apre un
discorso tra il Dio della sacra Scrittura e il nichilismo negativo,
questo sarà invece a livello estrinseco. Qualsiasi espressione
del nichilismo negativo, infatti, è legato alla cultura, mentre il
Dio della sacra Scrittura è al di là di ogni cultura.
I filosofi e i teologi che sono apparsi nel corso del pensiero
dell’occidente cristiano hanno per lo più cercato di definire
quella realtà del divino della sacra Scrittura. E ciò anche se
forse erano convinti che tale realtà sfugge a qualsiasi definizione categoriale dell’intelletto conoscente. Altri pensatori hanno
cercato di mettere in luce la realtà del divino grazie a un pensare mistico. Senza, cioè, l’aiuto dell’intelletto conoscente.
Caratteristica di fondo del pensiero mistico è appunto quella di
scrollarsi dalle spalle ogni fardello culturale di natura concettuale.
Ma se il nichilismo negativo ha le sue radici nel terreno di
ogni cultura, esso diventa un fenomeno culturale quanto mai
acuto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Esso avvolge col suo manto tutti gli ambiti della cultura del Novecento:
filosofi, teologi, pittori, scrittori, psicologi non possono sottrarsi a questo fenomeno. Per usare un’espressione di Nietzsche, il nichilismo batte alle porte di ogni espressione culturale di questo secolo come un fenomeno pieno di fascino da una
parte e pieno di mistero dall’altra. Per questo Nietzsche descrive l’avanzare del nichilismo come fenomeno inquietante.
Le due guerre mondiali che hanno segnato in modo tragico
il Novecento sono testimonianze di un tale nichilismo negativo. Si alza il canto del superuomo, inteso come eroe, che si spegne in una visione quanto mai nichilistica della storia. Il grido
pieno di entusiasmo che racconta le visioni raccapriccianti di
rivoluzioni e di guerre, si confonde con l’orgia di una libertà
che si consuma nell’individuo singolo nella storia. Dinanzi a
83
questo urlo orgiastico si stende il tappeto di un nulla nichilistico nel senso più arido che si possa immaginare. Domina solo lo
scandire della ruota del tempo, che non lascia trasparire nessuna possibilità di cogliere la dimensione del sovra-tempo.
9. Si può tra l’altro pensare alla cultura letteraria e filosofica del Romanticismo, dove si incontrano pagine drammatiche
su tale nichilismo negativo. Si parla del tramonto e del disfacimento delle culture. In questo ambito non ha senso distinguere una cultura dall’altra per mettere in luce quella che sembra
avere più valore. Esse appaiono tutte come onde del mare, che
nel rinfrangersi sullo scoglio o sulla spiaggia ripetono sempre la
stessa canzone del non-senso delle cose e del non-senso del
vivere dell’uomo.
Forse qualche storico della cultura può vedere in questo
sfogo romantico l’inizio di una cultura moderna e post-moderna. Ma ciò non è di particolare importanza, perché appartiene
al puro piano culturale. Nel suo saggio Il mio nome è Monroe,
Gottfried Benn confessa di non avere la minima idea di ciò che
sia moderno o post-moderno. L’autentico pensiero filosofico
non può seguire il corso del tempo. Non può essere ricondotto
a storia del pensiero. L’autentico pensare è appunto il pensare
di fronte al nulla. Ma questo è sempre al di là di qualsiasi
dimensione storica che viene misurata dal tempo. Ciò che può
essere ricondotto a storia del pensiero non è più pensiero.
Questo è fuori del tempo. Per usare una espressione di Nietzsche, il pensare è come tale inattuale. E su questo pensare fuori
del tempo non si possono versare lacrime, per usare proprio
una espressione di Benn.
Nel suo Nichilistico o positivo, Benn racconta che nel museo
tedesco di Monaco vi è un orologio ad acqua, dove una ninfa
versa lacrime sulle ore, sui minuti, sui secondi che scorrono
senza sosta. Dalle sue lacrime si legge il tempo. Ma ovviamente su una realtà sovra-culturale e quindi al di là del tempo non
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c’è una ninfa che lascia cadere le sue lacrime lucenti come stelle che si spengono di continuo in un cielo rimasto ormai quasi
senza stelle. Sullo sfondo di questo nichilismo negativo legato
alla cultura, domina un senso di angoscia senza limiti: l’uomo
ha la sensazione di precipitare in un abisso dove non si scorge
il fondo.
10. Ma se il nichilismo è un fenomeno inquietante che apre
all’angoscia, non lo è solo nel contesto di un nichilismo negativo, ma lo è pure nel contesto di un nichilismo positivo. Anzi
soprattutto in questo. Si è visto che tale visione positiva del
nichilismo supera la dimensione culturale per una dimensione
sovra-culturale. In questa non c’è posto per una ninfa che versa
lacrime sul tempo che scorre. Se si parla di realtà sovra-culturale si parla infatti di realtà sovra-temporale. E ciò anche se,
ovviamente, la realtà del tempo non può venire meno, dato che
essa è sempre fondamentale. E quindi non viene mai posta in
questione. Ciò che invece viene posto in questione è il senso
ultimo del tempo. Questo non è più legato al tempo cronologico che misura il divenite delle cose, ma è legato a una realtà
non-temporale che per essenza non può essere mai definita. Si
è di fronte a una realtà sovra-temporale dove il senso ultimo
non dipende dal divenire delle cose ma dal superamento di tale
divenire. Il senso ultimo è legato alla dimensione del “tra”. E
più precisamente a quella particolare dimensione che non è,
ma che contemporaneamente pure è.
In tal modo si può parlare di un senso ultimo sia nel nichilismo negativo come nel nichilismo positivo. Il primo è misurato dalle cose che sono nello spazio e nel tempo; il secondo è
misurato dall’assenza delle cose, anzi dal loro superamento. In
altre parole, il nichilismo positivo è misurato solo dal nulla.
Questa è una realtà autenticamente sacrale perché sfugge al
potere dell’uomo, che invano tenta di definirla. Si capisce così
che ciò che affascina e nello stesso tempo turba il fenomeno
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del nichilismo positivo è appunto il fatto che esso può essere
messo in luce del tutto in un orizzonte culturale. E questo a
prescindere dal contenuto culturale di un tale orizzonte.
D’altra parte non si può mai abbandonare la spiaggia della cultura, anche quando la si vuole superare.
Sotto questo aspetto il nichilismo positivo si rivela appunto come quella realtà problematica che per essenza rimane sempre aperta. Il nichilismo positivo è essenzialmente apertura.
Ma è proprio questa apertura a livello di fondamento che
mostra la particolare dimensione della libertà legata a tale
nichilismo. Si tratta di una libertà che non dipende del tutto
dalla volontà del singolo, dato che essa è legata alla dimensione di essere-oltre, di superare. In fondo si tratta di una libertà
che è condannata ad essere intrinsecamente finita, poiché nel
suo superamento si trova di continuo di fronte alla realtà del
nulla. Questo significa che si trova dinanzi a ciò che non può
mai essere del tutto determinato. È una libertà condannata ad
essere intrinsecamente finita. E ciò anche se rimane sempre
aperta la possibilità di rompere tale finitezza. L’andare oltre
implica il superare i limiti della finitezza, ma implica pure la
coscienza di non poterli mai superare del tutto. Il superare,
l’andare-oltre, è l’esistenziale di fondo del nichilismo positivo.
Da una parte questo ci porta di fronte alla realtà del sacro, e
dall’altra ci apre la via per poter mettere a fuoco il particolare
rapporto che intercorre tra pensare ed esistere.
11. Si tratta di un rapporto a livello di fondamento. Si è
visto che per il nichilismo positivo il senso ultimo del pensare
non può essere messo in luce nell’orizzonte del concetto, ma
nello stesso orizzonte dell’esistere. Ma ciò ha luogo quando si
ha coscienza. della dimensione di crisi dell’esistere. O, più precisamente, quando si ha coscienza dell’esistere come crisi. Tale
coscienza della crisi coincide in fondo con la stessa coscienza
della trascendenza che è implicita non solo nel pensare ma pure
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nell’esistere. In fondo il senso ultimo del pensate non viene
messo a fuoco nel concetto o nella serie di concetti intrecciati
tra loro a livello logico, ma nello stesso esistere aperto alla crisi,
e quindi aperto alla trascendenza. Si è di fronte a una trascendenza esistenziale. Ma parlare del rapporto tra pensare ed esistere secondo il nichilismo positivo non è la stessa cosa che parlare del rapporto tra essenza ed esistenza secondo il pensiero
tradizionale. Nel nichilismo positivo non si pensa che l’esistenza abbia la priorità rispetto all’essenza, capovolgendo in tal
modo il rapporto del pensare metafisico. In tal caso si sarebbe
di fronte a una esistenza irrazionale, appunto perché non determinata dai concetti.Anzi, nel nichilismo positivo non si può,
propriamente parlando, parlare di essenza, appunto perché il
pensare esistenziale supera il conoscere tradizionale, che procede secondo categorie concettuali. La trascendenza esistenziale come continua crisi, e quindi come continua apertura,
determina la natura profonda del pensare esistenziale.
L’esistere è quindi pura apertura e il pensare è anch’esso
pure apertura. Ma parlare di apertura come pura apertura significa in fondo parlare di apertura al nulla. Si sottolinea così
ancora che il rapporto tra pensare ed esistere viene messo a
fuoco appunto nell’orizzonte del nulla. E, come si è visto, proprio tale dimensione del nulla può essere chiarita come il sacro.
In altre parole, la dimensione del sacro esistenziale può essere messo a fuoco appunto nell’orizzonte del nulla. In tal modo
le espressioni di trascendenza, di crisi, di sovra-cultura, di eterno nel tempo, dicono tutte la stessa cosa, cioè l’esistenza del
singolo di fronte al nulla. Un tale “essere-di-fronte-a” qualcosa
che non può essere mai determinato a livello di essenza, rappresenta in fondo la coscienza della propria finitezza. Di fronte alla
trascendenza esistenziale il singolo acquista la coscienza di
fondo di essere un essere finito proprio a livello di fondamento.
Un simile filosofare esistenziale capovolge il filosofare idealistico che batte la via della non-finitezza. Nel filosofare esi87
stenziale, anche il sacro, il divino non può sfuggire alla realtà
della finitezza. E ciò perché il sacro si apre nell’uomo inteso
come singolo. L’uomo e Dio sono intrinsecamente finiti.
12. È evidente che, se si parla di esistenza proiettata sullo
sfondo del nulla, non si pensa a una esistenza astratta, ma
all’esistenza concreta di ogni singolo intesa nel suo aspetto di
autenticità. E più precisamente come “apertura-a”. La stessa
considerazione vale per il pensare. Si è accennato che non si
intende con il pensare il conoscere astratto messo in luce dalle
categorie alle quali sfugge il momento concreto dell’esistere.
Con il pensare si intende piuttosto proprio la continua “apertura-a”. Penso che per chiarire ulteriormente il particolare rapporto tra pensare ed esistere sia fondamentale tenere presente
che il pensare è sempre al di là dell’esistere concreto del singolo. Ciò spiega perché l’esistenza tipica del nichilismo positivo
sia intrinsecamente possibilità. Si tratta anzi di possibilità a
livello di fondamento e non a livello di puro conoscere. Si tratta quindi di possibilità che non può mai venire meno.
È evidente che in questo ambito problematico i concetti di
possibilità e di apertura dicono la stessa cosa. Dicono la finitezza dello stesso esistere. L’esistenziale che esprime tale finitezza è appunto l’angoscia. In tal modo gli esistenziali del nulla,
del trascendenza, della crisi, della possibilità, dell’apertura e
dell’angoscia rappresentano dei momenti fondamentali dell’esistere proprio del nichilismo positivo. L’angoscia è quindi quell’esistenziale che è presente in tutti gli altri esistenziali proprio
nell’atto in cui vengono messi a fuoco gli stessi esistenziali.
L’angoscia esprime il fatto che non vi è alcun punto fermo su
cui fondarsi. Ciò significa, in altre parole, che nella esistenza
propria del nichilismo positivo non si può far conto di alcuna
sicurezza e di alcuna certezza. Questo spiega perché il nichilismo positivo si presenti come una realtà misteriosa e a un
tempo angosciante.
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13. Questo è ovvio se si pensa che al di fuori di un conoscere che viene messo a fuoco con le categorie dell’intelletto, ci si
muove su un terreno piuttosto incerto. Ciò si può constatare
sia nell’ambito del singolo che in quello della storia. D’altra
parte, si è fuori strada se si pensa di poter mettere tra parentesi tale realtà problematica del nichilismo positivo solo perché
essa suscita un senso di smarrimento e di angoscia. Questa considerazione può sembrare piuttosto grave nell’ambito di una
realtà religiosa che è ritenuta appunto essere un porto di sicurezza per ciascun individuo. La religione è vista dal credente
proprio come un porto che lo può proteggere dai venti freddi
del pessimismo e dell’irrazionalismo. Per questa ragione si preferisce per lo più abbandonare il modo di portare avanti il
discorso filosofico tipico di un nichilismo positivo, per abbracciare la causa di un nichilismo negativo. Questo sembra quanto mai ovvio. Ma se si abbraccia tale causa, il nulla non viene
più visto come un orizzonte in cui si manifesta il sacro, ma come
un orizzonte in cui si assiste alla perdita del sacro. Questo spiega la condanna del nichilismo negativo nelle sue diverse espressioni. E ciò perché, come detto, esso pretende di fare a meno
dei valori concettuali propri di una concezione metafisica.
Il mito della sicurezza portato avanti da un pensare metafisico ha in questo contesto il sopravvento sul mito della insicurezza portato avanti dal pensare esistenziale. Questo investe il
sacro sulla sua dimensione essenziale. Si capisce così perché il
nichilismo positivo si presenti per lo più misterioso e angosciante. Il nichilismo positivo è angosciante proprio perché capovolge il modo tradizionale di pensare e di affrontare la realtà del
sacro. Si può così definire il nichilismo positivo quando lo si
considera come quel fenomeno esistenziale che mette in questione il fondamento dell’uomo come orizzonte ultimo di sicurezza. E assieme al fondamento dell’uomo il nichilismo positivo mette in questione la realtà del divino qualora questo venga
considerato appunto come fonte ultima di sicurezza.
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Si può ancora far presente che in questo rapporto uomo-Dio
non si pensa l’uomo come concetto generale, ma come singolo.
Questi si sottrae a qualsiasi definizione astratta di uomo che
l’intelletto conoscente può mettere a fuoco. Il singolo è uomo,
ma è ad un tempo, come dice Nietzsche, “più-che-uomo”.
Perciò non può mai essere chiuso in una de?nizione astratta.
Con ciò non si vuol dire che il nichilismo positivo sia un fenomeno irrazionale. Esso è in realtà un fenomeno “razionale”,
qualora non si intenda con ragione quella facoltà che si riduce
al solo gioco delle categorie logiche dell’intelletto conoscente.
È certamente merito di Nietzsche l’aver richiamato l’attenzione sul momento esistenziale del conoscere, cogliendo nella
verità a livello esistenziale una dimensione più profonda. Per
questo egli parla di verità come trasformazione (Verklärung).
Nietzsche porta il lettore di fronte a un nuovo modo di vedere la razionalità come a un nuovo modo di vedere il teismo. Il
pensare di Nietzsche può dirsi irrazionale o ateo qualora si
abbia come metro di misura le dimensioni di razionalità e di
teismo propri del pensiero metafisico. Ma può il pensiero metafisico ritenersi il custode della verità, dell’autentica ragione e
persino di Dio stesso? *
Giorgio Penzo
Università di Padova
* Nota bibliografica. Sulla problematica del nichilismo in rapporto al
sacro rimando ad alcuni miei studi: Il nichilismo da Nietzsche a Sartre, Armando, Roma ²1984; Invito al pensiero di Nietzsche, Mursia, Milano ²1992;
Meister Eckhart. Una mistica della ragione, Edizioni Messaggero, Padova
1992; Nietzsche allo specchio, Laterza, Roma-Bari ³1997; Invito al pensiero
di Marx Stirner, Mursia, Milano 1996; Invito al pensiero di Meister Eckhart,
Mursia, Milano 1997; Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo,
Edizioni Messaggero, Padova 2000.
90
Indice dei nomi
Adorno, T.W. 13 n.
Alfaro, J. 14 n
Aristotele 58, 60
Baggio, S. 21 n.
Bartolomei-Derungs, M.C. 17 n.
Bausola, A. 51 n.
Benn, G. 84
Biser, E. 19 n.
Bismarck, O. von 63
Bonaventura, santo 72
Cacciari, M. 19 n.
Calasso, R. 22 n.
Capra, F. 62 n.
Cartesio vedi Descartes, R.
Cavicchioli, C. 21 n.
Cazzaniga, G.M. 15 n.
Chevalier, J. 51 n.
Chiodi, P. 16 n., 70 n.
Cicero, V. 50 n.
Codignola, E. 60 n.
Colli, G. 8 n., 49 n., 70 n.
Colombo, G. 10 n.
Colomer, E. 16 e n.
Conte, A.G. 67 n.
Descartes, R. (Cartesio) 15, 48,
49, 50, 51, 60 e n., 61
De Negri, E. 52 n.
Donà, M. 17 n.
Eco, U. 43 e n.
Euripide 59
Fadini, U. 14
Feuerbach, L. 13
Fink, E. 17 n.
Galilei, G. 49, 50
Galimberti, U. 15 n.
Garin, E. 62 n.
Giametta, S. 8 n., 10 n., 29 n.,
34 n., 42 n., 43 n., 66 n.
Gibellini, R. 17 n.
Giovanni XXIII, papa 43
Gisel, P. 18 n.
Givone, S. 17 n.
Gogarten, F. 79
Häußler, B. 21 n.
Hegel, G.W.F. 50 e n., 51, 52
n., 60 e n., 61, 62, 72
Heidegger, M. 16 e n., 48, 50 e
n., 51 n., 60, 64, 69, 70 n.,
79
Horkheimer, M. 13 n.
Jäger, A. 17 n.
Jaspers, K. 7 e n., 47 n., 79
Jüngel, E. 18 n.
93
Kant, I. 49 e n., 50, 61, 62 n., 64
Landucci, S. 62
Laplace, P.S. de 54
Losurdo, D. 15 n.
Löwith, K. 14 n.
Lubac, H. de 9 n., 14 n.
Malaguti, M. 14 n.
Marion, J.-L. 18 n.
Martini, C.M. cardinale 43 e n.
Marx, K. 13, 62, 72
Masini, F. 8 n., 12 n., 14 n., 22
n., 24 n., 28 n., 34 n., 39 n.,
46 n.
Meister Eckhart 78, 79
Meneghetti, P. 15 n.
Montinari, M. 8 n., 13 n., 29 n.,
48 n., 70 n.
Moretti-Costanzi, T. 48 e n.
Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi 54
Natoli, S. 11 n.
Pascal, B. 51 e n., 60 n.
Paul, J. (Johann Paul Friedrich
Richter) 12 n.
Penzo, G. 16 n., 17 n.
Platone 8, 51 n., 58, 59, 60, 61,
64
Rahner, K. 18 e n.
Romanici, M. 57 e n.
Ruggenini, M. 15 n.
Sanna, G. 60 n.
Sartre, J.-P. 74 e n.
Scheler, M. 64
94
Schopenhauer, A. 48, 50, 51, 57
Sequeri, P. 9 n.
Sichirollo, L. 15 n.
Socrate 8, 58, 59, 61, 64
Soncini, V. 9 n., 10 n.
Tagliapietra, A. 13 n.
Tapella, R. 51 n.
Trombini, S. 15 n.
Ugazio, U. 50 n.
Vattimo, G. 15 n., 50 n.
Verweyen, H. 19 n.
Vozza, M. 14 n.
Wagner, R. 59 n.
Weischedel, W. 16 n.
Welte, B. 17 n.
Wittgenstein, L. 67 e n.
I Quaderni dello Studio Teologico «S. Antonio» (a§liato alla
Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna) intendono costituire
uno spazio di riŒessione interdisciplinare sui temi che provocano la teologia ad esporre il ‘rischio’ totale della fede, oÆrendole
in tal modo la possibilità di maturare una sempre maggiore
consapevolezza delle sue ragioni e della loro a§dabilità sia ad
intra, per il credente, che ad extra, per il non credente.
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il suo rapporto con la teologia