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Anch’io so leggere
Viaggio in un continente inesplorato
Silvia Vegetti Finzi*
“Il verbo leggere non sopporta l’imperativo,
avversione che condivide con alcuni altri verbi: il
verbo “amare”....il verbo “sognare”.
meno tempo per conversare e leggere insieme ai
propri figli.
Per tutti vi è, evidentemente, un problema di
Daniel Pennac, Come un romanzo tempo. Spesso i genitori lavorano entrambi e le ore
da trascorrere insieme risultano sempre troppo poL’intento del progetto Leggere per crescere1 è che. Le incombenze quotidiane sono così pressanti
quello di sensibilizzare le famiglie e gli educatori da invadere ogni spazio di libertà e di autonomia
della prima infanzia a raccontare e leggere ad alta per cui si preferisce collocare i bambini dinnanvoce ai bambini nei loro primi cinque anni di zi alla televisione per “ tenerli buoni”. Il piccolo
vita. Lo scopo che si vuole raggiungere consiste schermo, che giunge ad occuparli, in media, tre ore
anche nel prevenire le difficoltà di apprendimen- al giorno, viene così a costituire la prima agenzia
to, soprattutto dei bambini socialmente svantag- educativa del nostro Paese, prima in ordine di pregiati, e di promuovere lo sviluppo cognitivo e cocità oltre che di quantità. Tuttavia è sempre posaffettivo di tutti, compresi i genitori che posso- sibile ritagliare un po’ di tempo per sé, un angolo di
spazio, una priorità d’impegno,
no trarre da queste esperienze
la possibilità di scoprire nuove
concedere uno spicchio di vita al
L’incipit di ogni storia,
modalità di comunicazione, di
“c’era una volta…”,
proprio piacere oltre che a quello
dei bambini. Soprattutto i papà
schiude il sipario del
entrare in contatto con le proprie parti infantili, di riattivare teatro interiore e annuncia e i nonni possono trovare nella
una creatività rimossa dalle eso- l’inizio di uno spettacolo narrazione e nella lettura con fidi cui suggerisce la trama gli e nipoti modalità d’incontro
se esigenze della quotidianità.
Il progetto è stato avviato,
adatte alla loro disponibilità e ala partire dal 2002, nella prole loro risorse. Non importa che
vincia di Verona, scelta come area pilota, con questo intermezzo duri a lungo, l’importante è che
l’obiettivo di diffonderlo progressivamente su segua una scadenza regolare, che non costituisca
tutto il territorio nazionale. Motore dell’impre- un dovere ma un piacere, che non si confonda con
sa sono gli operatori che professionalmente si altre attività, che non si prefigga risultati e non rioccupano di bambini piccoli e che, come tali, corra a verifiche.
Un cartone animato di buona fattura alimenpossono facilmente contattare e influenzare le
famiglie: i pediatri, le educatrici, i farmacisti, i ta la fantasia ma trasmette un cibo predigerito,
un messaggio concluso; la narrazione orale invece
bibliotecari.
Tuttora in fase di espansione, il progetto suggerisce ma non satura, lascia all’ascoltatore il
coglie una grave carenza sociale e risponde a un compito di rappresentare il contesto, di mettere
bisogno fondamentale del bambino: quello di in scena la situazione, di scegliere gli attori . L’inintrattenere con i propri familiari un’interazione cipit di ogni storia, “c’era una volta...”, schiude il
verbale attenta, regolare e costante. In proposito sipario del teatro interiore e annuncia l’inizio di
un’indagine diretta dal professor Dario Olivieri uno spettacolo di cui suggerisce la trama. Ma affidell’Università di Verona, ci fornisce dati scon- da poi a ognuno la regia degli eventi e la possibilicertanti. Risulta infatti che alla maggior parte tà di scegliere con quale personaggio identificarsi.
dei bambini in età prescolare manca un’adeguata In una società dove la maggior parte dei bambini
comunicazione attraverso la lettura e il racconto sono teledipendenti, la proposta di spegnere il tucon gli adulti e che, paradossalmente, i genitori bo catodico per raccontare una storia o leggere un
che più hanno studiato sono quelli che trovano libro risulta, nella sua semplicità, rivoluzionaria.
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Come denuncia la grande psicoanalista fran- ten (a cura di) Child language: a book of readings.
cese Françoise Dolto, si parla molto dei bambini New York, Oxford University Press).
ma poco con i bambini. Ma noi siamo “esseri di
Le narrazioni, sostiene Bruner, orientano
parola” e la mancanza di adeguata comunicazio- l’agire dell’uomo, trasmettono i modelli della vine verbale degrada l’educazione umana a livello ta sociale, con i relativi aspetti di reciproca interdell’addestramento animale.
dipendenza. (Bruner J.S., (1996) La cultura delMa che cosa significa “comunicazione ade- l’educazione, trad.it., Feltrinelli, Milano 1997).
guata”? Che coinvolga davvero una o più perso- Come tali sono coestese alla storia dell’umanità.
La cultura occidentale, per quanto riguarda
ne, che le loro menti funzionino all’unisono e le
loro parole inviino non solo contenuti ma anche la sua discendenza dall’antica Grecia, inizia con
emozioni condivise.
i racconti epici della guerra di Troia, gesta che,
All’inizio degli anni ‘7O avevo partecipa- prima di essere raccolte e tramandare nei testi
to a una grande ricerca sul disadattamento sco- ben noti de L’Iliade e de L’Odissea, sono circolate
lastico nella scuola elementare. In quel contesto per molti anni, in forma orale e rapsodica, lungo
avevamo constatato che la miglior “macchina le coste dell’Egeo e del Mediterraneo. E ad Ateper insegnare”, dotata di ineccepibili programmi ne, nell’ età classica, l’educazione dei bambini
scolastici, funzionava molto meno, a livello di ap- iniziava con l’ascolto e la lettura dei testi omeriprendimento, del più mediocre degli insegnanti. ci che rappresentano, in tal senso, l’abbecedario
La comunicazione faccia a faccia impegna infatti della nostra civiltà.
i processi affettivi oltre che cognitivi e le emozioNell’interazione tra chi narra e chi ascolta si
ni, anche quelle negative, mobilitano l’attenzio- produce un legame sociale che va al di là della
ne e sollecitano la reazione più di quanto possa parola-corpo che connette il bambino alla mamai fare un segnale luminoso di
dre, alla loro immediata comapprovazione o disapprovazioAttraverso le storie gli
prensione. La parola simbolica
ne. L’insegnante che raccoglie i stati affettivi del bambino, prende infatti il posto della cosa,
bambini intorno a sé, unendoli
la sostituisce, la evoca in modo
spesso indistinti e connel cerchio magico della narraindiretto, mediato, metaforico.
fusi, prendono forma, si
zione partecipata arricchisce il rendono visibili, compren- Ma perché questo avvenga sono
singolo e il gruppo, l’individuo
necessari dei processi preparatosibili, condivisibili
e la classe. Essi crescono insieme
ri, che si costituisca quello che
Winnicott definisce lo “spazio
non soltanto perchè condividono lo stesso ambiente esterno ma perché parteci- transizionale” una dimensione intermedia tra
pano del medesimo mondo interno.
il bambino e la madre, tra il “me” il “non me”.
Quanto alle famiglie, di fronte all’impu- Quando l’adulto gioca con il bambino al “cuttazione di comunicare poco con i propri figli, bau”, all’apparire e disparire del suo volto, sta inmolte mamme potrebbero rispondere che non consapevolmente approntando lo spazio mentale
fanno altro, per tutto il santo giorno, che sgri- della narrazione condivisa. Una situazione che
darli, riprenderli, spronarli, sino a giungere a chiede molto ai suoi protagonisti. L’adulto che
sera esauste e sgolate. Ma il progetto Leggere per narra deve infatti essere capace di immedesimarsi
crescere non propone verbalizzazioni indiscrimi- nel bambino, di raggiungerlo empaticamente là
dove si trova in conformità al suo stadio evolutivo
nate quanto narrazioni e lettura di storie.
Ci si può allora chiedere quando una comu- e alla sua condizione personale. Dal canto suo il
nicazione merita la qualifica di “storia”. Secondo bambino può ascoltare e intendere soltanto se ha
Stein, studiosa americana di grammatica dei rac- raggiunto un livello di sicurezza tale da affidarsi
conti, un testo non può essere considerato come all’altro, da abbandonare momentaneamente il
storia se non individua almeno un ambiente e un controllo della realtà esterna per inoltrarsi in quelepisodio; inoltre una buona storia deve possedere la fantastica, che condivide con il narratore.
L’invito “vieni che ti racconto una storia”
un finale e le storie che presentano un finale preceduto dal superamento di ostacoli sono da ritenere presuppone che il più grande prenda per mano
migliori delle altre. (Stein N.L ( 1987) The develop- il più piccolo, che lo guidi, come Virgilio con
ment of children’storytelling skill, in Franklin e Bar- Dante, nella selva oscura dell’immaginario.
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Ogni racconto infatti, anche il più semplice, ha
radici lunghe, che calandosi nell’inconscio, evocano
fantasmi non sempre coscienti. Pensiamo, ad esempio, a Cappuccetto Rosso, dove alla vicenda esplicita,
si sottende un richiamo al rischio che il bambino incontri adulti malintenzionati e situazioni pericolose.
Raffigurare eventi così inquietanti attraverso il lupo,
nel bosco, aiuta ad allontanarli, a renderli ipotetici,
a relativizzarli. Tanto più che il narratore assicura,
con la sua familiare presenza, che il mondo rimane
prevalentemente buono e che la maggior parte delle
persone meritano di essere accolte con fiducia.
Ogni bambino comprende poi solo ciò che
è in grado di assimilare, lasciando cadere nel vuoto gli elementi del racconto che il suo apparato
psichico non può ancora metabolizzare. Manifestazioni di irrequietezza, di noia, di sonnolenza
costituiscono, in tal senso, segnali di disagio che
vanno colti e interpretati.
Quando la nostra mente è invasa da pensieri
caotici e da emozioni inelaborate non c’è posto per
nuovi contenuti e le porte della mente si chiudono
difensivamente. Per cui la disponibilità all’ascolto
deve essere sostenuta da un’adeguata condizione
ambientale e psichica. Acoltare una storia comporta infatti di prenderla dentro di sé, di farle posto
tra altre immagini, in un archivio che si costituisce
man mano che sopraggiunge il materiale da sistemare. I pensieri e l’apparato per pensare, sostiene
Bion, si formano e crescono insieme.
In certi momenti le emozioni possono travalicare gli argini che dovrebbero contenerle e
il bambino spezza allora il filo del racconto con
domande, osservazioni, divagazioni che hanno,
tra l’altro, lo scopo di prender tempo rispetto a
un possibile ingorgo emotivo. Altre volte invece
lascia repentinamente l’immobilità dell’ascolto
per agire attivamente, mimeticamente, dividere
un’esperienza che è, nello stesso tempo, fattuale
e passionale. Così intesa ha a che fare con l’arte e,
come ogni produzione artistica, si avvale della tecnica senza tuttavia ridursi ad essa perché comporta sempre un imponderabile fattore di creatività.
Nonostante la narrazione possa accompagnare
le parole con suoni, disegni, espressioni mimiche e
atti di simulazione, non va tuttavia confusa col gioco
o con altre modalità espressive. Nel racconto delle
storie, il filo rosso della comunicazione è costituito
dal suono della voce narrante, dal rapporto boccaorecchie che congiunge chi parla a chi ascolta.
E’ vero che il bambino diviene da ascoltatore
anch’esso narratore, che impara man mano a “fare
storie” ma in un primo tempo prevale l’assimilazione, l’incorporazione di parole, di sequenze, di
strutture grammaticali e sintattiche. Il linguaggio
non solo ordina il mondo ma lo crea, lo fa esistere
e persistere al di là della caducità delle sensazioni.
Chi narra detiene il filo del discorso e può pertanto selezionare, sottolineare, “glissare”, scandire
le pause, tornare indietro, anticipare gli eventi, pronunciare battute ironiche, “fare le facce”, in base alle impressioni che gli inviano i suoi interlocutori . I
bambini guardano l’adulto che racconta e insieme,
con gli occhi interiori, s’inoltrano nello spazio virtuale del racconto. Quanto più la situazione è tesa
tanto più conviene arrivare sino in fondo, portare
a catarsi le emozioni e, su richiesta, ripetere una o
più volte la storia finché non viene completamente
assimilata. Dopo un po’ i bambini capiscono che
c’è sempre un lieto fine, una giustizia che mette le
cose a posto, ripara di danni, punisce i cattivi e premia i buoni. La garanzia di una conclusione positiva rende tollerabile l’attesa, sopportabile l’ansia, e
permette di lasciarsi andare all’ onda della fantasia.
Per ascoltare occorre in un certo senso assumere
un atteggiamento passivo, che non significa inerte,
ma disponibile, permeabile, malleabile, plasmabile.
E sostituire all’eccitazione, spesso indotta dai messaggi televisivi (basta pensare agli spot pubblicitari),
una lieve depressione, una forma di compunzione
che non ha nulla di patologico perché è contingente,
funzionale al compito che si sta svolgendo.
Attraverso le storie, gli stati affettivi del
bambino, spesso indistinti, confusi, prendono
forma, si rendono visibili, comprensibili, condivisibili. La paura, ad esempio, fa parte del patrimonio emotivo di tutti gli animali e i cuccioli
umani la sperimentano ancor prima di incontrare un pericolo. Ma finché essa rimane fluttuante
il bambino avrà paura di tutto e di tutti. Solo
quando quella tensione negativa si sarà connessa
a dei simboli ( figure e parole), il bambino sarà in
grado di circoscriverla, tollerarla e controllarla.
Si comprende così perché sia importante
estendere la capacità di ascoltare e produrre storie
a tutti i bambini, qualunque sia la loro dotazione mentale. Anche se il bambino, perché piccolo
o perchè gravemente disabile, non comprende i
contenuti del messaggio è tuttavia in grado, attraverso la musica della parole, di cogliere le emozioni che esso veicola. In ogni caso la lettura trasmette strategie ideative e relazionali.
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La maggior parte delle psicoterapie infantili
considera ormai la narrazione come il modo privilegiato per dar figura ai fantasmi dell’inconscio e, attraverso la parola, renderli comunicabili e modificabili.
Penso, tra le tante esperienze di narratologia applicate all’infanzia, a quelle svolte dall’Istituto ricerche di
gruppo di Lugano (Marcoli F., Il pensiero affettivo,
Red edizioni, Como, 1997), a quelle di Antonino
Ferro (La psicoanalisi come letteratura e terapia, Cortina, Milano 1999) e di Dina Vallino Macciò (Raccontami una storia, Borla, Roma 1998).
Alla narrazione si accosta poi, senza necessariamente sostituirla, la lettura di in un libro insieme. Il libro, prima di essere un testo, è per il
bambino un oggetto attraente che suscita stimoli
sensoriali. La sua curiosità è attivata dalla consistenza materica (i primi libri sono anche giocattoli che inviano sensazioni tattili, olfattive, sonore)
e dalle figure che lo illustrano. Le figure possono
servire perché il bambino consideri la lettura non
come una tecnica da apprendere perché lo deve
ma un’esperienza da affrontare perché gli schiude
un mondo nuovo, uno scenario meraviglioso.
Ricordo un libretto della mia infanzia dove due bambini guardavano un buco nero entro
cui si intravvedeva la sagoma di non so che cosa.
Quell’enigma mi ha spinta a imparare quasi da sola, utilizzando i libri scolastici di mia madre maestra, a leggere e scrivere a quattro anni. In questo
modo ho saltato la fase dell’apprendimento puramente tecnico, fine a se stesso, con cui spesso si
mortifica il desiderio infantile di apprendere. Mi
è rimasto solo ciò che Roland Barthes chiama “il
piacere del testo”. Un piacere sorretto dal desiderio,
non tanto di possedere, quanto di cercare.
Ma prima di giungere alla sublime solitudine
della lettura in proprio, il bambino chiede “Mi leggi?”, una domanda così carica di promesse e di memoria che non può essere disattesa. Noi apparteniamo alle tre religioni del Libro: l’ebraica, la cristiana
e l’islamica, che affidano a un testo sacro la parola di
Dio. Nella fondamentale regola monastica di S. Benedetto, il Prologo inizia con queste parole: “Ascolta,
o figlio, l’insegnamento del Maestro e piega l’orecchio del
tuo cuore”. Tutta la giornata del monaco benedettino
è scandita dalla lettura delle Sacre Scritture che occupano ogni periodo di silenzio, compresi quelli dei
pasti. Riattivare la tradizione della lettura orale del
libro, dei libri, significa, così come per la narrazione, iscrivere i bambini nella genealogia della nostra
cultura, farli sentire partecipi del lungo cammino
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dell’umanità. Come scrive Pennac: “A ripensarci in
questo inizio d’insonnia, il rituale della lettura ogni sera, ai piedi del suo letto, quando era piccolo - orario fisso
e gesti immutabili - aveva qualche cosa della preghiera.
...Sì, la storia letta ogni sera assolveva la funzione della preghiera, la più disinteressata, la meno speculativa,
e che concerne solamente gli uomini: il perdono delle
offese... Senza saperlo, scoprivamo una delle funzioni
essenziali del racconto e più in generale dell’arte: quella
di imporre una tregua alla lotta degli uomini. L’amore
ne usciva rinato. Era gratis”. ( Pennac D., Come un
romanzo, Feltrinelli, Milano 1994, 26).
Questo vale per tutti i bambini, compresi
quelli che si trovano in difficoltà per una patologia intensiva o per una carenza strutturale. I primi
soffrono spesso, soprattutto durante i ricoveri ospedalieri prolungati, di un deficit di comunicazione.
Le manipolazioni del corpo tendono a sostituire le
comunicazioni verbali, impoverite dalla mancanza
di esperienze piacevoli. In quei frangenti la lettura di un libro stabilisce una comunicazione non
strumentale, libera, disinteressata. Il bambino che
ascolta una storia è aiutato a evadere dalle strettoie
dell’istituzione clinica e dalle ossessionanti scadenze della cura. La fantasia mette le ali e vola alto trasportando i piccoli in un mondo incantato dove è
possibile essere felici nonostante le inibizioni e le
sofferenze dell’organismo malato.
Estendere poi la pratica della lettura ai soggetti con disabilità intellettive serve a superare
un’iniqua discriminazione e attivare nuovi percorsi di conoscenza e di cura. Soprattutto quando
si attuano le tre fasi che promuovono la fruizione
del testo : narrazione, ascolto della lettura effettuata da altri, lettura in proprio. Sappiamo da molte
ricerche che esse producono una sinergia virtuosa
che incrementa le capacità del lettore: la sua competenza, le sue motivazioni. ( Bondioli A., a cura
di, Ludus in fabula: per una pedagogia del narrare
infantile, Edizioni Junior, Bergamo, 2004).
Infine, in una società multiculturale come
la nostra, le varie forme di comunicazione verbale, nella lingua di provenienza e di residenza,
costituiscono un fondamentale veicolo di integrazione senza omologazione, rispettosa delle
specificità e delle differenze.
Note
1
Intervento tenuto in occasione del Convegno nazionale Lo sviluppo di Leggere per Crescere in Italia: 2001-2005, Roma, 25 ottobre 2005
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* Docente di Psicologia dinamica,
Dipartimento di
Filosofia, Università di Pavia
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