Rivista di educazione, formazione e cultura
2010_XIV_4 - € 9
Immaginario,
frontiere e limiti
Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997
Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559
In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione
Barbara Mapelli
Sette vite come i gatti
Generazioni, pensieri e storie di donne
nel contemporaneo
Prefazione di Carmen Leccardi
Collana POLIS pp. 180, € 16,00
Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale – e
forse più interessante per la sua carica straordinaria
di rottura e radicalità – del Movimento femminista e
le donne sono cambiate. Sono cambiate innanzitutto
nella percezione che hanno di loro stesse, nelle
attese legate al presente, al futuro, nella vita affettiva
e privata, nel sociale e nel lavoro, nelle relazioni
cogli uomini, ma anche con le altre donne.
A cura di Elisabetta Biffi
Scrivere altrimenti.
Luoghi e spazi della creatività narrativa
Prefazione di Franco Frabboni
Collana PEDAGOGIKA pp. 196, € 15,00
La scrittura si presenta come un momento ideale e necessario per la
messa a fuoco delle diverse possibili creatività della nostra vita. Essa è
tentativo di fermare quei momenti che vale la pena non disperdere,
questo è già scrivere altrimenti: per sollecitare altre figure e possibilità
del pensiero, per sviluppare vie di ragionamento inedite.
mail: [email protected]
Rivista di educazione, formazione e cultura
anno XIV, n° 4
Ottobre, Novembre, Dicembre 2010
Pedagogika.it/2010/XIV_4
Rivista di educazione, formazione e cultura
esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni
Anno XIV, n° 4 – Ottobre/Novembre/Dicembre 2010
Direttrice responsabile
Maria Piacente
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Redazione
Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti,
Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo
Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta,
Cristiana La Capria, Laura Conti, Coordinamento
pedagogico Coop. Stripes.
Comitato scientifico
Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio,
Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino
Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro
Modini, Antonio Erbetta, Angela Nava Mambretti,
Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa
Hanno collaborato
Franco Cambi, Ambrogio Cozzi, Daniela Manno,
Raffaele Mantegazza, Paolo Bellini, Barbara
Mapelli, Monica Di Bernardo, Anna Oliverio
Ferraris, Renato Perina, Fernando Sancén
Contreras, Anita Gramigna, Pascal Perillo,
Giancarla Codrignani, Luca Buccheri, Emila
Canato, Marco Taddei, Luisa Fressoia
Edito da
Stripes Coop. Sociale Onlus
www.stripes.it
Responsabile testata on-line
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Progetto grafico/Art direction
Raul Jannone - [email protected]
Promozione e diffusione
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Pubblicità
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in ogni caso non saranno restituiti agli autori
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2
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Stampa Periodica Italiana
Pedagogika.it/2010/XIV_4/sommario/
s o m m a r i o
5 Educare a cambiare
l'immaginario del
cambiamento
Maria Piacente
72Chi manipola la tua mente?
Intervista ad Anna Oliverio
Ferraris
Maria Piacente
../dossier/immaginario, frontiere
e limiti
../temi ed esperienze
8
Introduzione
10 Immaginario e creatività.
Una sfida del/nel postmoderno
Franco Cambi
16 Immaginario, fuga e libertà
Ambrogio Cozzi
28 Confini da riconoscere,
attraversare e creare. Un
obiettivo pedagogico.
Daniela Manno
38 Giochi senza frontiere (ma
non senza limiti). Per uno
smascheramento ludico
dell'idea di frontiera
Raffaele Mantegazza
44 Il cyborg una nuova mitopia
teconologica
Paolo Bellini
53 La testa della medusa.
Immaginario non violento
e violenza delle donne
Barbara Mapelli
61 Donne potenti: la figura della
strega nell'immaginario
Monica Di Bernardo
64 Immagini adeguate
Renato Perina
79 Etica e formazione nell'era
delle nanotecnologie
Fernando Sancén Contreras,
Anita Gramigna
87 Per una pedagogia della
trasformazione. Educabilità
metacognitiva e formazione
alla riflessività
Pascal Perillo
96 Per la salvezza del futuro
Giancarla Codrignani
99 Il mistero di Maria
Ambrogio Cozzi, Luca Buccheri
../cultura
104 A due voci
Angelo Villa, Ambrogio Cozzi
108 Scelti per voi
Libri Ambrogio Cozzi (a cura di)
Musica Angelo Villa (a cura di)
Cinema Cristiana La Capria (a cura di)
116 Arrivati in redazione
../In_breve
119Generi, generazioni, rigenerazioni
../In_vista
120 Il centro siciliano
di documentazione
Giuseppe Impastato
3
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ABBONARSI è IMPORTANTE
Piano editoriale 2011
Codici educativi tra legalità e criminalità
Il viaggio. Realtà e metafora
Fratelli d'Italia?
Educare alla creatività
Rivista di educazione, formazione e cultura
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/editoriale/
Educare a cambiare
l'immaginario del cambiamento
Maria Piacente
Nell'introdurre il tema dell'immaginazione abbiamo, non a caso, indicato come
elemento di grande impatto, la presa di coscienza della necessità di “Cambiare
l'immaginario del cambiamento”, titolo di un interessante articolo apparso su Via
Dogana, Rivista di Pratica politica, a firma di Lia Cigarini: vengono segnalati alcuni
saggi dove Rebecca Solint, scrittrice , critica d'arte, attiva nel movimento femminista americano, propone una nuova visione del mondo nella quale dovrebbero
avvenire le trasformazioni. Non, quindi, attraverso una “visione meccanicista del
cambiamento”, ma tenendo conto del “tempo con i suoi umori , la sua lentezza, la sua
subitaneità” che in poche parole l'autrice sintetizza con “Cambiare l'immaginario
del cambiamento”.
Mi sembra che, in questa chiave di lettura, occorra tenere presente la “tensione”
continua che si dovrebbe mantenere tra l'Immaginazione e la Realtà come spinta
per vivere e per stare al mondo, tenere vivo e saldo il contatto con il reale e con la
propria identità e soggettività, per mantenere un immaginario attivo, non manipolato dai mass media che tendono ad omologarci e a saturare i nostri desideri.
Sembra che il mercato globale si sia “impadronito” del nostro immaginario, catturato in tutti gli ambiti, da quello lavorativo a quello affettivo, tecnologico, politico,
persino psichico: tutto è merce, tutto è liquido, il nostro immaginario è soggetto a
“manipolazioni” continue. Da parte di vecchi e nuovi persuasori veniamo strumentalizzati attraverso le diverse forme di comunicazione mediatica che fanno leva su ciò
che noi desideriamo credere e sulla nostra fisiologica necessità di credere.
Insomma, i media cercano di “saturare e snaturare”, attraverso le loro proposte
“imposte”, tutti i posti vuoti, il vuoto che ci abita, le nostre dimore o le solitudini
felici. Persino l'infanzia ci viene riproposta come merce da consumare, foss'anche per
ostentare, voyeuristicamente, l'orrore ispirato da alcuni fatti di cronaca nera. Anche
le fantasie vengono occupate, come “posti vuoti”, ai quali dare, comunque, un significato: ciò di cui non sappiamo “deve”, per forza, avere una sua spiegazione.
Leggo, a tale proposito, su Il Sole 24 ore del 17 ottobre scorso, una lettera inviata
al Direttore del quotidiano dal titolo “Violenza urlata”. Due professori di fisica, nel
corso di una loro discussione dicevano che molto probabilmente la diffusa violenza
che in questi ultimi tempi alligna sempre di più con veemenza nell'animo umano
sarebbe dovuta al mutato rapporto tra elettricità e magnetismo del nostro pianeta..,
e che l'eccessivo incremento di quest'ultima non sarebbe facilmente controllabile
da buona parte degli esseri umani; ed ecco la recrudescenza di tanto nervosismo e
impietosa virulenza... In risposta il Direttore Carruba scrive : “...siamo sicuri che ci
sia una effettiva recrudescenza della violenza sociale? ...Nn dimentichiamo troppo spes-
5
Pedagogika.it/2010/XIV_4/editoriale
so le periodiche carneficine che hanno punteggiato la storia dell'uomo?...”. E conclude:
“ ...Se mai è l'esposizione mediatica di quanto succede che rende fenomeni planetari
vicende che, una volta, avvenivano nel chiuso delle piccole comunità...”. Come si vede,
per risolvere l'inspiegabile, si può arrivare anche a mettere in dubbio l'esistenza
stessa di un problema.
Ecco che i mass media nel fagocitare le nostre fantasie e il nostro immaginario,
se ne appropriano al punto tale da restituirci poi delle risposte alle quali vogliamo
credere perché, in qualche modo, siamo fatti per credere, perché è forse per noi insopportabile il silenzio che spesso si produce di fronte a domande essenziali. Perché
la violenza e il dolore, l'infelicità? Perché la vita?
E certo non si trovano risposte, a meno di non essere credenti ed in questo
trovare un senso a questo mondo, oppure dare veramente ascolto alle parole, alle
nostre e a quelle degli altri che creano il mondo che abitiamo. E tornare a metabolizzarle all'interno delle nostre dimore, setacciando il tutto nel silenzio e nella
solitudine delle nostre coscienze.
È forse così, attraverso queste fatiche titaniche, che potremmo continuare ad
immaginare senza essere spodestati e colonizzati del nostro immaginario?
In un saggio di recente pubblicazione, Perché siamo infelici?, Bruno Callieri
scrive di desiderio e di ambiguità delle scelte e torna a noi, ai nostri pensieri desideranti, soffermandosi sul “desiderio antico, direi paleozoico, che è lo zoccolo duro
che fornisce carica, intensità tensione al desiderio attuale, consentendogli però solo una
realizzazione differita, sempre differita perché legata alla domanda inesausta di conoscere e possedere”.
Già. È forse con queste consapevolezze che occorre stare attaccati al nostro immaginario attivo, al nostro proprio desiderio, senza tradire la “propria” autenticità,
che è possibile Cambiare l'Immaginario del Cambiamento ed andare al mercato per
acquistare solo quello che ci serve ?
Pensiamoci e tanti Auguri per il Nuovo Anno che verrà ! Un 2011 che vedrà
allestire nuovi spazi per Pedagogika.it che, per il piacere dei propri lettori e delle
proprie lettrici, si farà più grande, accogliendo molti altri contributi ed articoli che
troveranno il loro spazio nella versione on line.
6
Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/
Pedagogika.it/2010/XIV_2/editoriale
Dossier 7
Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/
Giochi senza frontiere
(ma non senza limiti)
Per uno smascheramento ludico dell’idea di frontiera
Proprio giocando ci si rende conto dell’assurdità dell’idea di frontiera, di quanto
questa è perniciosa per la vita umana e soprattutto per la crescita dei giovanissimi e dei giovani; il gioco unisce, è simbolo (sym-ballo), la frontiera è diabolica,
(dia-ballo: separare); il gioco è una attività universale ma ad essere universale è
anche la diffusione dei giochi nei continenti
La squadra del Belgio ha giocato il jolly!
Guido Marchetti, secoli fa
Raffaele Mantegazza*
Molti ricordano la sigla, con due strani omini che esibivano le sigle delle reti
televisive dei paesi partecipanti: SSR, TSI, A2, BBC, ORF, RAI. Molti ricordano
il “fil rouge”, il gioco individuale che inframmezzava le gare a squadre (e che per
l’Italia era sempre esiziale). Molti ricordano Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi,
gli ineffabili giudici arbitri che davano inizio alle gare con il loro “trois, deux, un…
fiii!”. Molti ricordano le fortissime squadre targate D e GB che vincevano sempre
sulla nostra povera I. Molti ricordano i commentatori della Rai che facevano il
tifo per le squadre italiane: Rosanna Vaudetti, Guido Marchetti, Ettore Andenna.
Molti ricordano la versione natalizia, Giochi sotto l’albero. Molti ricordano che
la prima squadra italiana a vincere la finalissima è stata Como (mi si permetta un
moto di orgoglio comasco!). Giochi senza frontiere è una trasmissione che fa parte
dell’immaginario di un paio di generazioni che avevano il permesso di rimanere
alzati solo per quella sera (al massimo anche per Rischiatutto) perché era comunque una trasmissione “educativa”. Purtroppo non ripetuta per gli eccessivi costi (e
invece scempi quali L’isola dei famosi o La pupa e il secchione vengono via gratis?)
questa trasmissione ci fece conoscere giocando l’idea di Europa; ma soprattutto ci
abituò a pensare, molto prima di Schengen, che il gioco non ha frontiere.
Proprio giocando ci si rende conto dell’assurdità dell’idea di frontiera, di quanto
questa è perniciosa per la vita umana e soprattutto per la crescita dei giovanissimi
e dei giovani; il gioco unisce, è simbolo (sym-ballo), la frontiera è diabolica, (diaballo: separare); il gioco è una attività universale ma ad essere universale è anche
la diffusione dei giochi nei continenti (dal gioco della campana, al gioco dei dadi,
ai giochi con la palla). Basta avere osservato un bambino o una bambina giocare
spontaneamente con la palla per capire che quando Froebel inseriva la sfera tra gli
oggetti che universalmente accendono la mente infantile non aveva proprio torto.
Un’educazione ludica e un’educazione al gioco dunque è il miglior antidoto per
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere
la retorica delle frontiere che ancora oggi purtroppo torna di moda. I nazionalismi
e i localismi (apparentemente di segno opposto, in realtà segreti alleati) continuano
a proporre separazioni artificiali tra i popoli e le genti, trasformandole retoricamente in separazioni sostanziali; tornano ad emergere i putridi spettri del razzismo
pseudo-scientifico, della purezza della razza, delle differenze genetiche tra razze
umane. Non siamo stati abbastanza bravi da gettare nella spazzatura della storia
questi deliri, insieme ai loro prodotti: pogrom, massacri, lager.
Grazie alla propaganda instancabile di marca razzista ed emergenzialista (ci invadono, vengono a toglierci le nostre tradizioni, militarizziamo le frontiere1), la
frontiera è diventata uno spazio interno, una vera e propria interiorizzazione della
paranoia dell’identità. Una identità chiusa a riccio, nel delirio di una autosufficienza e di una autarchia che credevamo a torto appartenete ad altre epoche storiche.
Anche il linguaggio risente di questa specie di amore per i muri, le barriere, le
dogane; che un bambino di sei anni impari l’inglese può anche essere giusto (è la
lingua franca, è la lingua di internet ecc.); ma quante sono le reali possibilità che un
bambino italiano incontri sulla sua strada, nella sua città o paese, un soggetto che
parla solo italiano? E quante invece di incontrare un soggetto che parla solo arabo?
Proviamo allora a proporre un corso di arabo in una classe prima della scuola primaria, e assistiamo alle reazioni scomposte di qualche Assessore padano che accusa
di voler minare l’identità dell’Italia! Si vuole l’integrazione o lo scontro? La ricerca
di una soluzione nonviolenta dei conflitti o la guerra? A giudicare dai continui
attacchi a tutti i tentativi di integrazione scolastica dei ragazzi stranieri sembra che
i fazzoletti verdi propendano per la seconda ipotesi. E poi siamo noi i violenti!
Occorre dunque che le città e i paesi della nostra Italia (nostra: di tutti coloro
che la amano, compresi i fratelli e amici che vengono da lontano) siano sempre più
caratterizzati dal plurilinguismo, unico modo per abbattere le frontiere; il che non
vale solo per le città di frontiera; occorre che vi siamo sempre più spazi scritti in
più e più lingue e che tutti e tutte abbiano uno spazio per parlare e scrivere la loro
lingua senza che questo si caratterizzi per la logica del ghetto; meno ghettizzazione
e più contaminazione, meno quartieri dei ristoranti etnici e più confronto sulla
stessa via tra una insegna in napoletano e una in greco, una in cinese e una in arabo. Salvare una lingua significa salvare un modo di dire il mondo, e quindi anche
un mondo. Ma se la lingua e soprattutto il dialetto viene salvaguardato solamente
in funzione desolidarizzante, per imbrattare i cartelli indicatori sulle strade con
un incivile pseudo-bilinguismo d’accatto (misconoscendo tra l’altro la ricchezza
dei dialetti del Nord Italia: o qualche padano crede davvero che un comasco e un
bergamasco, parlando nei relativi dialetti, possano capirsi più di un cinese e un
boliviano?); allora si perde quel che di universale c’è nel valore del dialetto e della
lingua: dire se stessi e gli altri riconoscendo nella struttura del proprio parlare la
presenza anche fisica dell’alterità. Una lingua pura è un incubo da distopia del XIX
1 Qualcuno ha minimamente idea di quanti soldi e soldati ci vorrebbero per militarizzare le frontiere in un Paese che ha 7500 km. di costa?
Dossier 39
Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere
secolo, un oggetto protetto da frontiere protezionistiche, ma un oggetto morto,
un aborto, un niente: salvare la lingua significa salvarne la storia, una storia che è
cronaca di mescolamenti e sovrapposizioni, colonizzazioni e imbastardimenti.
Il gioco e la lingua, dunque, come possibili salvezze dal delirio delle frontiere.
Un delirio dietro il quale c’è la lucida ideologia del controllo (lucida per modo
di dire, visto che sta portando all’autoestinzione della specie). Se la frontiera è
qualcosa che ci separa dal male, dai barbari, da coloro che vogliono colonizzarci,
e se la frontiera è qui perché i barbari sono già arrivati, allora il garantismo e la
libertà individuale vengono attaccati alla radice da un sistema di saperi e di poteri
che ha facile gioco perché sbandiera in modo ipocrita ma efficace i morti delle
Twin Towers o di Madrid o di Londra; morti peraltro nei confronti dei quali il
sistema sicuritario basato sull’universalizzazione dell’idea di controllo sarebbe del
tutto inefficace; basta entrare nella hall di un aeroporto o nella sala d’attesa di una
stazione per rendersene conto: al di qua dei terminali dove iniziano i controlli qualsiasi strage sarebbe possibile. O qualcuno crede che il terrorismo si possa fermare
con i body scanner? E se uno volesse farsi saltare in aria in Piazza del Duomo? Il
matrimonio di questa ideologia della sorveglianza con le nuove tecnologie rende
possibile quello che è stato definito il carattere algoritmico delle strategie informatizzate di sorveglianza: è il computer a decidere quando intervenire (ad esempio per
segnalare un sospetto) sulla base di algoritmi predefiniti; è il computer a stabilire
dove si colloca la frontiera. Spetta all’algoritmo decidere fra un’immagine rubata da
una telecamera e la successiva e non c’è più bisogno che un operatore decida se il
volto che appare sullo schermo sia quello di un criminale. All’automatizzazione del
terrore propria di al-Qaeda e del terrorismo islamico corrisponde l’automatizzazione del controllo: solo un rinnovato pensiero garantista e una azione politica sulle
cause del terrore può fare in modo che non venga sgretolato, dall’urto di queste
due posizioni dogmatiche che si alimentano a vicenda, quello che un tempo Walter
Benjamin, ebbe a definire“il minuto e fragile corpo dell’uomo”
Frontiere ovunque, dunque, e telecamere ovunque, perché ovunque è l’altro, portatore di una differenza con la quale non ci si vuole contaminare. Una situazione di
emergenza che richiama la nefasta idea di mobilitazione totale che tanti danni fece
dalla I Guerra Mondiale in poi. Ma se la frontiera è qui, siamo tutti mobilitati e,
come in ogni frontiera che si rispetti, siamo tutti chiamati ad esibire i documenti.
Per fare qualche esempio, i diritti del singolo, e soprattutto la sua privacy, vengono
attaccati da programmi quali il Total Information Awareness che serve per compiere
ricerche sugli aspetti quotidiani della vita (registrando l’utilizzo degli sportelli automatici, delle carte di credito, schedando i siti web visitati, entrando senza chiedere il
permesso negli elenchi di iscrizioni alle scuole, negli archivi medici, nelle banche dati
degli abbonamenti alle riviste, ecc.); o il Customer Relationship Management che
analizza le transazioni commerciali effettuate in passato dal singolo soggetto, scheda
e archivia le informazioni personali richieste per chi acquista on line, delinea i profili
delle persone attraverso una serie di tipologie (si tratta di un sistema di origine puramente commerciale che viene oggi riconvertito dallo Stato in funzione antiterroristi-
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere
ca, declinando le categorie attraverso criteri razziali e/o religiosi); o ancora il sistema
di identificazione a distanza per riconoscere una persona dal volto o dall’andatura,
un sistema che archivierà i dati della persona e si connetterà a un dispositivo nazionale di identificazione in grado di dare una identità precisa a chiunque si trovasse a
passeggiare per una strada sotto l’occhio di una telecamera.
Frontiera, controllo: chi appartiene alla mia generazione ricorderà lo strano effetto di straniamento e di sollievo provato quando, poco dopo Schengen, si scendeva
da un aereo proveniente da Berlino o si oltrepassava Ventimiglia e non si veniva fermati da nessuno; il tutto accompagnato dal progressivo smantellamento fisico delle
strutture dei frontalieri. Un sollievo che è difficile provare prendendo oggi un aereo
per Washington o passando un security point in Kosovo o in Israele. Non è messo in
discussione il diritto alla difesa dalla violenza; semmai è vero il contrario: come dimostrano le migliaia di morti innocenti queste frontiere sempre più presidiate, armate,
informatizzate non solo sono inefficaci ma, alimentando la cultura del confronto
armato e della soluzione violenta dei conflitti, non fanno altro che dare ossigeno alle
peggiori derive terroristiche. I body scanner sono un punto su un piano inclinato
che porta alla demonizzazione dell’altro, all’idea di chiusura ermetica della “nostra”
cultura (“nostra”? Quella che usa cifre arabe? Quella del Dante che si ispira alla leggenda del Viaggio Notturno di Muhamad? Quella che mangia i carciofi alla giudia e i
pizzoccheri fatti con il grano saraceno? Quella delle opere d’arte miste, bastarde, contaminate come il Duomo di Genova o i mosaici di Piazza Armerina? Quella che non
sarebbe nemmeno nata senza i contributi dei giudei, degli arabi, dei lanzichenecchi,
dei normanni? Ma proprio in Italia venite a raccontare la favola della purezza?) per
evitare contaminazioni. E dire che ce lo avevano detto, alle elementari, che l’errore
dei Cinesi era stato costruire la Muraglia, isolandosi così dal resto del mondo ecc.
ecc… Povere maestre nostre, quanto poco abbiamo capito!
Ma se è vero che il gioco e il linguaggio se la ridono delle frontiere, è altrettanto
vero che il gioco ha bisogno di limiti, e così la lingua, e la vita; la contaminazione
ha senso solamente tra dissimili ma ha effetti educativi se non è un semplice inglobare l’altro o farsi da lui inglobare. La frontiera separa, il limite aiuta a unire, senza
confondere (o meglio: anche confondendo ma per gioco, dentro i limiti del gioco).
Il gioco è gioco nel limite, è gioco con il limite; il linguaggio vive del limite, attraversandolo continuamente ma non negandolo: e quale gioco più divertente e trasgressivo, da ragazzi, che imparare da qualche amico straniero incontrato al mare come
si dicono le parolacce nella sua lingua? Senza la differenziazione delle lingue, senza
Babele, quale sarebbe il divertimento nell’andare incontro all’altro? Una Pentecoste
continua può essere la mimesi di uno stato utopico: ma rischia di essere noiosa e poco
educativa. La Torre di Babele (meglio sarebbe dire la torre di Scinaar, luogo fisico
della costruzione di questa sorta di grattacielo ante-litteram, mentre Babele designa
lo stato successivo alla confusione delle lingue) può non essere una punizione ma una
possibilità di crescita per l’uomo; il Pensiero Unico si serve del Linguaggio Unico, erigendo frontiere per poterle poi negare con un imperialismo che è anche linguistico:
la capillare diffusione di quell’aborto linguistico che è il web-english ne è la prova.
Dossier 41
Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere
Babele è invece il limite che invita a giocare l’infinito gioco delle lingue, scoprendo
parentele, somiglianze, differenze, conflitti, soprattutto storia. Solo prendendo sul
serio il limite è possibile giocare con le differenze; abbattendo le frontiere ma non per
realizzare l’Unico, ma semmai per liberare la forza anarchica del Diverso. Così si può
capire che il fico d’India si chiama così perché importato dalle Americhe2 (che però
erano dette Indie) e che il tacchino negli States si chiama “turkey” per un complicato
gioco di andirivieni linguistici (vene portato in Europa dalle “Indie” e dunque era
una “cosa turca”, nome che tornò poi indietro nel continente americano3.
La cultura europea è una invenzione4. Le culture che attraversano l’Europa tutti
i giorni sono la realtà, feconda di futuro. Le frontiere le uccidono. Ma il limite,
come in tutte le cose umane, non è posto da noi ma da chi ci circonda: il mondo, la
natura, il cosmo. Per accedere alle zone polari artiche non occorre il passaporto ma
ai controlli di frontiera è obbligatorio dimostrare di essere in possesso dell’attrezzatura necessaria per il difficile viaggio tra i ghiacci eterni5: è il ghiaccio a comandare
e a decidere il limite, non l’uomo reso goffo da una uniforme. E’ la Terra a porci il
limite; al suo sfruttamento, alla follia del capitalismo consumista e inquinante, agli
ecocidi della British Petroleum. E’ l’Universo a porci limiti, a farci capire che siamo
ospiti, a farci sentire la responsabilità della vita in un Cosmo di diversi, un Cosmo
diverso. Un Cosmo con il quale giocare, “un pianeta intero con cui giocare” come
cantava Eugenio Finardi. E il gioco con il limite è anche il gioco consistente nel
rendersi amico il limite, nel farlo nostro compagno di giochi. I monaci tibetani,
avendo il divieto di pregare, scrivono le loro preghiere su sassi che poi depongono
sul fondo di un fiume, in modo che l’acqua, dilavando le parole, le trasporti con
sé. Allo stesso modo le scrivono al contrario su pezzi di legno con i quali poi percuotono l’acqua “stampandovi” le parole. L’acqua: l’elemento più fluido e restio
all’idea di frontiera ma al contempo il limite più chiaro alle nostre peregrinazioni
di animali terricoli. Le nostre vite potrebbero essere un po’ più acquatiche; potrebbero essere caratterizzate da un continuo giocare di qua e di là dei limiti, da un
parlarci e tradurci a vicenda, da un conflitto nonviolento tra uguali perché diversi.
E soprattutto divertiti e leggeri. Come i giochi. Senza frontiere.
*Docente di Pedagogia Generale e Sociale, Università degli Studi Milano Bicocca
2 Per la precisone dal Messico
3 Cfr. il bel libro Clandestini. Animali e piante senza permesso di soggiorno di Marco di Domenico,
Torino, Bollati Boringheri, 2008
4 La parola cultura al singolare è sempre fonte di equivoci. Come quando si parla di un determinato
comportamento di un soggetto, poniamo di un giovane marocchino residente a Milano, e si commenta “è la loro cultura”. Ma quale? Di Africano? Di nordafricano? Di marocchino? Di musulmano (ma siano sicuri che lo sia? Sciita o Sunnita?)? Di immigrato? Di prima o seconda generazione? Di solito si risolve il tutto accomunando le differenze in un unico contenitore: “quegli arabi
islamici lì”. Tutti uguali, tutti nemici, tutti pericolosi. Il danno che questa perversione di origine
massmediatica produce sulle giovani generazioni e sulla loro capacità di percepire le differenze è
difficilmente sopravvalutabile.
5 Cfr. Christoph Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, Milano, Feltrinelli, 1984
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/
Temi ed esperienze
L’intenzione della sezione “Temi ed Esperienze” è quella di offrire al lettore uno spazio di condivisione su riflessioni, percorsi, progetti, testimonianze, narrazioni, presentando una serie di contributi che, pur
non negando l’esigenza dell’approccio e della definizione teorica, cerchino di ricollegarsi all’idea della pratica, di quell’ambito del conoscere, legato alle forme dell’azione, della sperimentazione e della verifica
in continuo divenire ed in costante trasmissione.
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Etica e formazione
nell’era delle nanotecnologie
Pensiamo che l’educazione debba inerire ad un sapere complesso, a mappe
cognitive flessibili, a strategie aperte, ad un metodo “che impara”, ad un pensiero
connettivo: che debba far riferimento ad una conoscenza integrata, dialogica
organizzativa, in grado di far dialogare i vari settori, le varie discipline, i vari linguaggi.
Fernando Sancén Contreras*, Anita Gramigna**
Quasi un’introduzione
Il rapporto scienza-società, da sempre, è densissimo di implicazioni educative
a livello sociale, non solo per la reciproca influenza che, fra l’altro, assume un evidente comportamento ricorsivo, ma anche perché questo rapporto, dialogicamente
costitutivo, condiziona comportamenti collettivi, immaginario sociale, approcci
cognitivi, idee, valori1: la scienza, scrive Morin, “è anche una parte della società che
porta in sé ologrammaticamente il tutto della società”2.
Va da sé che, tale nodo è, per sua natura, epistemico, cioè comprende sia la
struttura della scienza che quella della società e, dunque, ha parecchio a che vedere
con i processi di costruzione, organizzazione, creazione e divulgazone della conoscenza. Il che è anche un problema educativo, oltre che squisitamente filosofico.
Ma, allo stesso tempo, ha parecchio a che vedere con le relazioni dinamiche che
determinano la società.
Inoltre: oggi più che mai la scienza e la tecnologia rappresentano un’icona identitaria della civiltà occidentale, sia perché portano alle sue estreme conseguenze –
estreme ma non definitive – le premesse della scienza moderna fondata da Galileo,
Bacone Cartesio3…, sia per la pervasività, prima di tutto pragmatica, poi anche
simbolica, della tecnologia. Come negare che l’utilizzo massivo delle strumentazioni informatiche, del cellulare, - per non parlare dei nuovi apparati della biotecnologia e della biochimica, dei nuovi strumenti di diagnostica medica, dei farmaci
di ultima generazione - ecc. non svolga una sorta di “pedagogia sociale” nel solle1 Cfr. F. Sancen, Dinamismo dell’etica: dinamismo della scienza. Processi di costruzione della Pòlis,
Prefazione a Anita Gramigna (a cura di), Democrazia dell’educazione, Milano, Unicopli, 2010.
2 E. Morin, Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi. Il metodo, 4, Milano, Raffaello Cortina, 2008; tr. It. La Méthode 4. Les idées. Leur habitat, leur vie, leurs moeurs, leurs organisation,
Paris, Editions du Seuil, 1986, p. 59.
3 Cfr. in particolare: Galileo, Il Saggiatore, 1623; Bacone, Novum Organum, (1620), tr. It., Nuovo
Organo, in Scritti filosofici, Torino, UTET, 1986; Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche,
Bari, Laterza, 1986, vol. I, tr. It, Discours de la méthode (1637).
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citare comportamenti, suggerire estetiche, evocare valori, identità, linguaggi, stili
cognitivi… Ma quegli oggetti sofisticati che abitano i sogni dei nostri giovani e che
si impongono nel quotidiano di tutti noi, disegnano anche una geografia spaziotemporale e soprattutto valoriale che ha bisogno di essere decifrata, compresa, descritta, affinché sia possibile per noi e per i nostri giovani interlocutori, orientarci,
scegliere, agire. Con libertà. Ovvero, con quella competenza critica che ci mette
nelle condizioni di operare scelte, sulla base di una gerarchia di valori. Di qui, la
riflessione sull’etica che proponiamo, in quanto è nostra intenzione interpretare il
fenomeno scienza secondo una chiave di lettura, appunto, etica.
L’impianto teorico si rifà, da un lato, all’epistemologia batesoniana4 che deriva
da Whitehead5 la centralità epistemica della relazione, dall’altro, alla sociologia
della conoscenza che Morin espone soprattutto nei volumi che dedica al metodo.
Si tratta di una pedagogia ermeneutica tesa più a comprendere i fenomeni che a
spiegarli, e di un’educazione che mira alla costruzione degli orientamenti, delle
chiavi di lettura, dei punti riferimento che ci aiutano ad interpretare il presente.
E qui risulta fondamentale la lezione di Foucault6: la sua epistemologia concreta
del contemporaneo, come opera di svelamento ideologico, diafanizzazione delle
strutture che lo sostengono, analisi serrata, perché il fine etico dell’educazione non
può che mirare all’azione critica di un pensiero in grado di riflettere su se stesso,
capace di abbandonare i propri orientamenti per costruirne di nuovi. Il messaggio
dello studioso, il filo rosso che cuce la lunga parabola del suo pensiero è qui, nella
costante tensione epistemologica della sua filosofia, che potremo definire, un’epistemologia concreta. Foucault ci esorta a far affiorare le condizioni della conoscenza per giungere ad un’ontologia del nostro presente, a studiare il pensiero e i modi
di vita. Ci suggerisce la necessità di analizzare i “focolai d’esperienza”, le forme della
soggettivazione, perché non esiste il pensiero senza il pensiero di qualcosa. Solo in
tal modo è possibile conseguire la consapevolezza critica dei dispositivi di assoggettamento e dunque reagire alla razionalità politica della contemporaneità, resistere
al potere. È una pragmatica del sé. Tale epistemologia concreta approda così ad un
fine propriamente educativo, ad un concetto di educazione come un “dare forma
alla libertà” del soggetto che, in tal modo, si costituisce come soggetto morale7.
4 Cfr. Bateson G. e M. C. Bateson, Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 2002, tit. orig. Angels Fear.
Toward an Epistemology of the Sacred, 1987; Bateson G., Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984 tit.
orig. Mind and Nature: A Necessary Unity, New York, Dutton, 1979; Bateson G., Una sacra unità,
Altri passi verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997, tit. orig. A sacred unity. Steps to an Ecology of Mind, San Francisco, Harper Collins, 1991; Bateson G:, Verso un'ecologia della mente, Milano,
Adelphi, 1977, tit. orig. Steps to an Ecology of Mind, San Francisco, Chandler, 1972.
5 Cfr. in merito F. Sancen, Le realidad en proceso de ser real, Città del Messico, Universidad Autonoma Metropolitana, Maggio, 2003.
6 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003, tit. orig. L’herméneutique du
sujet, Seuil/Gallimard, 2001.
7 Ho approfondito questa riflessione nel saggio La forma della libertà. Antipedagogia e democrazia
nel pensiero di Michel Foucault, in A. Gramigna e S. Cillani (a cura di), Democrazia dell’educazione,
in corso di stampa.
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione
La centralità del soggetto ci conduce all’ontologia critica di noi stessi e del nostro
presente, fonte della nostra educativa della nostra creatività.
L’éthos nella stagione delle nanotecnologie implica appunto creatività, consapevolezza critica, saggezza epistemologica8.
Lo specifico educativo della relazione scienza-società
Sin dalla sua origine, la scienza moderna si pone la questione etica: il nuovo
sapere trova in sé il fine della conoscenza al di fuori di ogni giudizio di valori, sulla
base di un approccio che è empirico e razionale e di un paradigma logico precipuamente disgiuntivo9. Dal XVII secolo in avanti, il suo logos non parlerà il linguaggio
della morale, bensì quello della matematica: la nuova scienza sonda i fenomeni
secondo giudizi di precisione e di previsione perché si ritiene che il suo linguaggio
sia oggettivo e universale. Di più: si postula l’ordine sovrano degli eventi naturali,
la loro fissità e prevedibilità, di cui il principio dell’intelligibilità cartesiana avrebbe
svelato le leggi. Fuori dalla legge di natura, la conoscenza non è scientifica e dunque tende ad imporre oggettività ed ordine al soggettivo, al qualitativo, al caos,
all’imprevisto; in una parola: al complesso10. La realtà viene così “ridotta” ai principi dell’intellegibilità logica che porterà all’esaltazione delle tassonomie e delle classificazioni come strumenti esatti di spiegazione del reale. Crediamo che sia molto
interessante studiare – nel senso derridiano della decostruzione11 – le retoriche, le
narrazioni, insomma, tutta la letteratura che fiorisce intorno alle nanotecnologie in
quanto prodotto più evoluto della scienza contemporanea. Ci sembra stimolante
capire la struttura del discorso, ovvero il congegno attraverso il quale questo nuovo
universo di simboli chiamato nanotecnologia entra a determinare le dinamiche
scienza-società e si impone, direbbe Foucault12, con un sentimento di verità. E la
questione della verità, da sempre, storicamente si trova associata a quella dell’etica.
Cosa che nuovamente ci riporta agli ambiti dell’educazione. Ma torniamo alla
rivoluzione “nano”: intanto, sarebbe da osservare che, con ogni probabilità quella
tendenza atomistica e dicotomica che abbiamo denunciato ha favorito questi esisti, infine, che tali “manufatti” tecnici della scienza hanno aperto prospettive di
soluzione ai problemi dell’umanità davvero straordinarie. Ma, a questo paradosso
se ne aggiungono altri, del tutto peculiari della nanoscienza, paradossi che inaugurano nuovi modelli di pensiero. Per esempio, nella scienza contemporanea esiste
8 Cfr. F. Sancen, (a cura di), La ética y los avances recientes de la ciencia, Città del Messico, Universidad Autonoma Metropolitana, Giugno, 2005.
9 Cfr. fra gli altri: E. Morin, Le idee, …, cit. p. 238 e 242-246.
10 Cfr. Bocchi G., M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985
11 Derrida J., La scrittura e la differenza , Torino, Einaudi, 1971, tit. orig. L'écriture et la difference,
Paris, Éditions du Seuil, 1967; Derrida J., Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997, tit. orig.,
Marges de la philosofphie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1972;
12 Cfr. M. Foucault, L’Ordr du discours, Paris, Gallimard, 1971, M. Foucault, Microfisica del potere,
cura e trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino, Torino, Einaudi, 1977; L’Herméneutique du sujet. Cours
au Collège de France, 1981-82, a cura di F. Gros, Paris, Gallimard-Seuil, 2001; trad. it. Di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003.
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione
un ribaltamento di senso sulla percezione quantitativa alla quale siamo abituati:
il piccolo è immensamente grande, ed il valore scientifico, tecnico ed economico
dell'immensamente piccolo è superiore quanto più è, appunto, piccolo. Allora scopriamo che il piccolo è enorme non solo per il suo valore – scientifico, economico
e tecnico – e per il suo potere di manipolare la natura, ma è enorme anche per il
numero elevatissimo di piccolissime molecole che la prospettiva nanometrica ci
consente di lavorare. Così dobbiamo pensare che la logica aristotelica della non
contraddizione qui deve essere integrata da un’altra logica dove possono convivere
i contrari. Inoltre, dobbiamo anche imparare che pensare il mondo “nano” implica
scoprire ed elaborare regole procedurali differenti perché nella manipolazione su
scala nanometrica cambiano le proprietà stesse della materia. Così tras-formiamo
la realtà ma tras-formiamo anche il pensiero.
Ma, “la trasformazione della realtà e la trasformazione della società si intrecciano e si alimentano l’una con l’altra”13. Lo slittamento di questo nuovo
atteggiamento, di questo nuovo modo di guardare alla realtà inaugurato dalla
scienza moderna verso il senso comune, ha modificato i valori della società. In
ogni teoria scientifica, così come dietro l’elaborazione di qualsiasi manufatto
tecnologico, ci sono postulati metafisici, posture ideologiche, paradigmi scientifici, epistemologie implicite. Allora l’educazione deve tener conto di questa
sottesa pedagogia sociale, delle ideologie implicite che i prodotti della scienza
contemporanea veicolano, e deve elaborare delle epistemologie che ci aiutino a
comprendere come funziona il nostro pensiero e come si tras-forma a contatto
con il nuovo ambiente tecnologico che abitiamo. Siamo infatti convinti che
sia necessaria la fondazione di una consapevolezza epistemologica che orienti
l’educazione verso una interpretazione efficace del rapporto ontologico che
intercorre fra la scienza, la tecnologia e la società, perché quel rapporto ha importanti implicazioni etiche. Di più, riteniamo che abbia molto a che vedere
con la sua costruzione.
La scuola partecipa di questa grande sfida formativa proponendo modelli educativi sempre più orientati verso un sapere tecnocratico, perché è questo che le
chiede il mercato neoliberale14. Ed è un bene che l’istruzione fornisca gli alfabeti
della tecnologia che utilizziamo, è un bene, infine, che aiuti i giovani a costruire
un sapere che sia in sintonia col mondo che abitano e con le sue economie. Non
è un bene che tale formazione non li aiuti a capire il senso delle cose, il significato
profondo della tecnologia, l’orizzonte esistenziale che essa ci disegna davanti agli
occhi, nostro malgrado. Non è un bene perché tale tecnicismo elementare li priva
della possibilità di orientarsi nel multiforme universo simbolico che respirano e di
riconoscerne i percorsi di significazione. Questa tecno-istruzione li rende acritici,
13 E. Morin, Le idee, cit. p. 247.
14 Cfr. A. Gramigna, Innovazione e formazione nel mondo del mercato globale, in A. Gramigna, M.
Righetti, A. Ravaglia, Le scienze dell’innovazione. Nuove frontiere educative nel sociale, Milano, FrancoAngeli, 2006.
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dunque meno liberi e, in ultima analisi, li priva della possibilità di esprimere le loro
opzioni etiche. È uno dei tanti paradossi della complessità: proprio quella tecnologia che ha ampliato la libertà nella possibilità di soddisfare i bisogni dell’umanità,
nonché di evocarne di nuovi, ora sembra suggerire una formazione tecnocratica
tesa alle prassi acritiche, alle competenze veloci, spendibili nell’immediato, alle
strumentazioni concettuali, culturali e cognitive atomistiche ed iperspecializzate
… al tempo breve; quel tempo veloce ed opprimente che non ci lascia il fiato per
gli interrogativi di fondo sul senso delle cose. Sembra suggerire una educazione
asfittica e, nella sostanza, poco libertaria; nonché una ricerca scientifica iperspecialistica, atomizzata, disgiuntiva, solipsistica.
Alcune riflessioni conclusive
Pensiamo che l’educazione debba inerire ad un sapere complesso, a mappe cognitive flessibili, a strategie aperte, ad un metodo “che impara” - per citare una felice espressione di Bachelard15 - ad un pensiero connettivo: che debba far riferimento ad una conoscenza integrata, dialogica organizzativa, in grado di far dialogare
i vari settori, le varie discipline, i vari linguaggi. Si tratta di un’antropologia della
formazione che implica una costante e critica diafanizzazione epistemologica sulla
struttura profonda del nostro agire conoscitivo, nell’ecologia di una conoscenza
che si fonda sull’ontologia della relazione. La centralità della relazione ci porta a
riconsiderare criticamente sia il principio di disgiunzione sia quello di esclusione,
sia, infine, il frazionamento delle conoscenze. Facciamo riferimento ad un sapere “meticcio” e ad un’epistemologia aperta alle contaminazioni16, e postuliamo la
convergenza delle scienze e delle discipline umanistiche. A questo proposito, noi
crediamo che possa essere utile valorizzare la competenza linguistica e narrativa
anche nel suo versante metaforico. Crediamo che tutto il pensiero, compreso quello scientifico e\o tecnologico si serva di rappresentazioni per spiegare i fenomeni
e utilizzi linguaggi che, a loro volta, sono strutturati secondo specifiche logiche
che chiamiamo grammatiche. Tale densità simbolica si differenzia, oltre che nelle
procedure e nei prodotti, sia per spettro interpretativo sia per autocosapevolezza
in senso epistemologico, a seconda dei vari ambiti di conoscenza. Si ritiene pertanto che una conoscenza epistemologica sulla natura simbolica e rappresentativa
del procedere tecno-scientifico e dei suoi miti e dei suoi linguaggi, così come una
competenza narrativa sia all’ascolto sia al resoconto, possono aiutare nel processo di costruzione di quella conoscenza che conduce al sapere complesso. Tutto il
pensiero, compreso quello scientifico e sperimentale, si serve di rappresentazione e
simboli le cui strutture organizzative e le cui epistemologia devono essere rese il più
possibile intelleggibili prima di tutto ai ricercatori stessi che le adoperano e infine
15 Bachelard G., La formation de l'esprit scientifique. Contribution a une psycanalyse de la connaissance
objective, Paris, PUF, 1977. Cfr. anche Morin E., Il Metodo come disordine organizzatore, Milano,
Feltrinelli, 1994.
16 Cfr. a questo proposito A. Valleriani, La svolta neobarocca dell’educazione, Milano, Unicopli, 2009.
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione
a chi ne “consuma” i prodotti.
Spesso la scienza, pur essendo molto evoluta sotto il profilo tecnologico, non è
pienamente consapevole della natura rappresentativa dei suoi procedimenti e resoconti. Pertanto manifesta una sorta di carenza epistemologica sui processi di costruzione, organizzazione e svelamento della conoscenza di sua pertinenza. La cosa
ha evidenti conseguenze sulle prassi, perché la struttura e la natura del discorso
condiziona i procedimenti scientifici, ne determina l’euristica, vincola le domande
che ci poniamo e le risposte che cerchiamo. Risulta quindi importante maturare
una competenza epistemologica e, in particolare, una epistemologia del pensiero
che sostiene le rappresentazioni elaborate dal linguaggio scientifico nell’affrontare
la conoscenza tecnologica di ultima generazione, di qui, la rilevanza di un ampio
spettro semantico nelle metafore utilizzate dalla letteratura scientifica sulla nanotecnologia. Di qui, la necessità e, anzi, l’urgenza di acquisire i codici di lettura che
organizzano il “discorso” sociale e scientifico sulla nanoscienza e sui suoi preziosi
manufatti. La complessità fenomenologica della soggettività può avvalersi di tale
competenza, la quale può far fronte ai limiti del riduzionismo astratto, dell’oggettività, ma, al contempo, utilizzarne le spiegazioni. Siamo consapevoli che gli
scienziati non necessariamente sono epistemologi e tuttavia crediamo che questa
disciplina, o meglio, questo “sguardo critico” possa efficacemente orientare, nella
consapevolezza, sul senso profondo che hanno le loro procedure senza limitarsi alla
correttezza metodologica e tecnica. Molti scienziati avvertono chiaramente questa
esigenza soprattutto ora che l’avvento della nano scienza impone a loro come a noi
tutti competenze trasversali, approcci multi e interdisciplinari, codici di lettura
del mondo “meticci”, metodi di analisi flessibili. Naturalmente, questi snodi si
dipanano alla luce di un’epistemologia, di una “presa di parte” che fa riferimento
ad alcune idee cardine: la natura sistemica del soggetto, la rilevanza pratica dell’epistemologia, l’ontologia della relazione.
Questa prospettiva “ecologica” valorizza l’estetica17, prima di tutto, “metodologicamente”, in quanto tale sensibilità allena il nostro pensiero a cogliere le connessioni interne ai fenomeni come le interrelazioni che li rapportano ai contesti, nonché i nessi fra i contesti medesimi; poi perché l’estetica è la via formativa dell’etica.
Per Gadamer, l’autenticità dell’esistenza, la sua bontà, si rende piena proprio in
questo processo di integrazione nella totalità che è conciliazione armoniosa del
soggetto - o della singola esperienza - nella comunità e nel flusso esperenziale. Ed è
proprio esaltando la portata di verità dell’atto estetico che Gadamer18 coglie il significato interpretativo dell’avventura umana, contro le dicotomizzazioni scientifiche
che vogliono separare l’estetica dalle altre sfere dell’esistenza. Per questo l’estetica
è portatrice di verità, in quanto ci svela l’opera, ci consente di coglierne il senso,
17 L'estetica è un ambito della filosofia che affronta il problema del bello, ma, in particolare, nel
pensiero di Bateson, essa rappresenta lo studio dei processi attraverso i quali la bellezza viene creata
e riconosciuta. Cfr. G. Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un'ecologia della mente, Milano,
Adelphi, 1997.
18 Cfr. H. G. Gadamer, l’attualità del bello, trad. it. R. Dottori, Genova, Marietti, 1986.
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione
attraverso un processo tras-formativo, mentre coinvolge la persona nella sua totalità. La sensibilità estetica pone in evidenza la natura dinamica della realtà e sul suo
rapporto di svelamento-nascondimento che sempre la metafora anticipa ed esalta.
Di conseguenza, ha un ruolo propriamente conoscitivo ed attiene alla formazione.
Di più, ci aiuta ad indagare intorno ad una forma gnoseologica particolare ed a
valutarne il senso etico, ovvero, ci aiuta a riflettere sul bene. Il campo di azione
dell’estetica è l’immagine, che è una struttura della conoscenza, una radice del pensiero, suo cuore emozionale, sua anima sensitiva, elemento basilare del sapere, sua
radice sensibili, infine: presupposto per l’allestimento delle rappresentazioni.
Si profila così un’idea di educazione che contempla, nella conoscenza, sia i contenuti che i processi, nonché la possibilità di una revisione costante degli uni e degli altri, entro una prospettiva sistemica del sapere. Una conoscenza complessa che
considera il ricercatore stesso incluso nel contesto che è oggetto della sua analisi.
Gli scienziati non elaborano solo processi scientifici e prodotti tecnologici, creano anche “manufatti” linguistici, entro raffinate formalizzazioni: confini che segnano gerarchie organizzate di segni,“cornici”, come le ha definite Bateson. Ma esistono anche manufatti linguistici - principi esplicativi - che la scienza spesso considera
fuori cornice e che tuttavia, talvolta a sua insaputa, interagiscono nell’intreccio
co-costitutivo scienza-società. Studiare in questi interstizi di significazione può essere utile a quell’opera di smontamento che riteniamo essere un utile fine-processo
formativo. Perché? Perché i confini non sono solo linee di demarcazione ma anche
punti di passaggio, strade comunicative, zone franche. Di qui, la necessità di educare il pensiero, lo sguardo, il linguaggio a cogliere le relazioni fra le cose. Ed è in
questo senso che parliamo di una formazione estetica, una formazione che ci aiuti
a coniugare il logos scientifico, abile nel tracciare confini, nel cogliere le differenze,
nel siglare le cesure, con quello delle emozioni, più immediato nel percepire i processi e i nessi. Una formazione che ci aiuti a capire come si costruisce e si utilizza
la tecnica, ma anche a decifrarne lo spessore simbolico, la carica culturale, i risvolti
economici: le conseguenze sul terreno dell’etica.
*Docente presso la Universidad Autónoma Metropolitana Xochimilco, di Città del Messico
** Docente presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara.
Temi ed esperienze 85
Pedagogika.it/2010/XIV_3/temi_ed_esperienze/l'idea_di_lavoro
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci
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Volendo andare da quelle parti, ho cercato Il testimone inascoltato di Haenel ha diviso la
di accumulare depliant e guide illustrative Francia alla sua uscita. Come dice lo stesso
sulla città polacca di Cracovia. Uno di que- Haenel in un’intervista “Non dimenticherò
sti, giuro, porta sulla testata una fotografia in mai la prima volta che ho visto Jan Karski.
bianco e nero di Auschwitz, in basso com- Era nel film di Claude Lanzmann Shoah. Le
pare una didascalia pubblicitaria che invita immagini sono del 1977, quando lui ormai
a visitarlo con tanto di prezzi e orari del tour. vive in America, dove insegna. Davanti alle
Una scritta rossa in inglese esorta a rompere telecamere non riesce a parlare. Sono trenogni indugio per quanto suoni inquietante, tacinque anni che non viene interrogato sul
se non addirittura blasfema, sullo sfondo suo ruolo di “messaggero” dell’Olocausto.
dell’immagine di un
Alla prima domanda,
campo di concentramenesce dal campo visivo.
to nazista: “We will pick
Quel posto vuoto mi
you up!” Letteralmente,
ha profondamente
verremo a prendervi!
colpito. Volevo riFrancamente, faremmo
empire il suo silenvolentieri a meno, grazio. Ma per farlo ho
zie. Ma “Business is buvoluto raccontare di
siness”, si dirà. Oppure,
nuovo ciò che Karski
forse, no. Esistono dei
aveva detto nella sua
limiti?! Comunque sia,
biografia, uscita nel
occorre ammettere che
1944, e poi nell’inil depliant fa un certo
tervista di “Shoah”.
effetto: Auschwitz come
Il libro ha tre parti:
Gardaland?
parola, scrittura, siCome un riflesso conlenzio. Il lettore che
dizionato, mi è venuto
arriva al terzo capitolo
subito in mente un rosa tutto quello che c’è
manzo, Il mio olocausto
da sapere su Karski. Io
di Tova Reich, pubbligli faccio una propocato due anni fa da Eista di finzione. Si può
naudi.
Sponsorizzato
accettare o rifiutare”.
dalla bravissima Cynthia
La polemica è partita
Yannick Haenel
Ozick (viricordate il suo
da qui. Dal fatto se
Il testimone inascoltato
racconto “Lo scialle”?),
sia lecita la finzione.
Guanda, Parma 2010,
è un testo da leggere.
Su questo punto la
pp. 168, € 15,00
Tova in ebraico signirisposta di Haenel è
fica “buona”, ma lei è
molto interessante:
cattivissima. E’ ebrea,
“La finzione può esse-
Ambrogio Cozzi
Angelo Villa
A due Voci
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci
moglie dell’ex direttore dello United States
Holocaust Memorial Museum. Non lo dico
per pignoleria o pura informazione, ma solo
perché credo che chiunque avesse scritto un
libro come quello senza avere le credenziali della Reich sarebbe finito probabilmente
massacrato sotto il fuoco di fila della critica
letteraria e non solo di questa. Il mio olocausto ha una scrittura brillantissima, tagliente:
è una satira feroce del marketing economico
e morale che si è sviluppato intorno a una
tragedia. Anche lì, si parte da Auschwitz…
Insisto, leggetelo. Può darsi che in un primo
momento appaia un po’ scioccante, quasi irritante, ma poi… fa riflettere, pensare.
La banalizzazione dell’orrore, la sua trasformazione in mercato rappresenta pur sempre un modo per non volerne sapere, per
azzerare la storia, per svuotare la memoria.
L’essenziale è che alla fine le persone siano indotte a esibire un atteggiamento di
sufficienza, di ostentata superficialità, di
un ossequio di maniera, del “sì, sì, questo
lo sappiamo già” o “dell’uffa , che noia” .
Come se il male o la sofferenza avessero una
scadenza, come le mozzarelle. Il tempo da
dedicargli si consuma in fretta, poi si passa
avanti. O, meglio, ci si candida a ripetere. Il
trucco sta nel far finta di ignorare il meccanismo, a questo ci pensa la rimozione.
Ma restiamo in Polonia, Paese di profonda
tradizione cattolica; restiamo a Auschwitz,
o più esattamente a Oswiecim, come si
chiama in quella lingua. Yannick Haenel ha
scritto un intenso romanzo sulla storia vera
ed esemplare di Jan Karski. Chi era costui?
Un polacco, un cattolico impegnato nella Resistenza con un compito difficile, due
volte difficile. Vuole un certo dir comune, il
che non comporta necessariamente la falsità,
che la popolazione di quel povero Paese stretto tra le maglie di una tenaglia annichilente
(tanto per intenderci, la Germania di Hitler,
re uno strumento della conoscenza. Come
può uno storico parlare del lutto, della disperazione, della debolezza? Il romanziere
invece può tentare di farlo”.
Questa domanda diviene molto importante, poiché coglie un aspetto di tutte le
ricostruzioni storiche, o forse della stessa
Storia. Che posto hanno le emozioni, gli
scontri tra differenti culture, nella Storia?
E’ possibile uscire da ricostruzioni costruite dai vincitori? Le vittime dove potranno
prendere voce?
In fondo il libro di Haenel ridà voce ad
una verità molto semplice: in Occidente
si sapeva che cosa stava succedendo nei
campi di sterminio. La sua ricostruzione
romanzesca situa questo fatto. Certo, buona parte del racconto è frutto della fantasia
dell’autore, soprattutto per quanto riguarda le reazioni, le difese nel non volerne
sapere. Questo però non può cancellare
il senso di inquietudine che ci assale, che
ci impone di fare i conti con questo fatto. Qui la Storia si deve incrociare con la
storia di chi ci ha provato, di chi ha preso
parola, per ritrovare le ragioni di chi fu
sconfitto e anche quelle della sconfitta.
E’ un problema centrale, sul quale si gioca
il rapporto con la memoria. Non una memoria fissata per sempre, ma una memoria
che ritrovi le sue coerenze interne, che si
interroghi sul come e il quando di queste
coerenze. Scriveva Nietzsche “Io non posso aver fatto questo, dice la mia memoria.
Io non posso aver fatto questo, dice il mio
orgoglio e resta irremovibile. Alla fine è la
memoria ad arrendersi”.
Memorie sull’Olocausto abbiamo avuto occasione di leggerne. Da Primo Levi
a Jan Amery si è assistito al tentativo costante di ritrovare la parola, di provare a
dire l’orrore. E questo dire ha fondato un
nuovo modo di scrivere. Mancavano testi-
Cultura 105
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci
da una parte, e la Russia di Stalin, dall’altra)
non nutrisse grande sentimenti di ospitalità nei confronti degli Ebrei. Si racconta di
contadini che riportavano ai criminali nazisti chi era riuscito a sfuggire dai campi di
concentramento… Insomma, queste sono le
premesse… Karski, dicevo, si assume o viene
delegato a svolgere un compito che definire
arduo è un eufemismo. Paradossalmente, per
due motivi, non uno solo. Il primo è il più
evidente e indubbiamente il più pericoloso.
Deve muoversi nella Polonia occupata dai
nazisti senza farsi catturare. E, nel qual caso
ciò succeda, e di fatto succederà, sa bene il
trattamento che lo aspetta e cosa i fervidi hitleriani vogliono da lui. Karski riuscirà a sopravvivere a tutto questo. A entrare nei ghetti e persino, uscendone poi, in un lager per
vedere coi suoi occhi la realtà di un dramma
che ha pochi eguali nella storia, pur ignobile,
del genere sedicente umano. A questo punto,
si dirà, appare poco comprensibile o intuibile la seconda difficoltà. Eppure, quest’ultima
non appare inferiore alla prima. Più sottile,
ma al fondo non meno perversa. Il nostro
eroe, perché questo è, deve prodigarsi presso gli Alleati, in Inghilterra e in America per
convincere politici, e non solo, dell’esistenza
e delle dimensioni di quel crimine. O forse,
ed è peggio, di quello che in verità già sanno:
“A volte penso che fosse impossibile sentire
ciò che avevo da dire: nessuno può ascoltare
che si massacra così una parte del mondo,
eppure il mondo intero sa. Tutti sanno che
una parte del mondo massacra l’altra, eppure
è impossibile farlo intendere.” E’ quest’ultima una questione importante cui, in genere,
non si presta grande attenzione. Ci si interroga spesso intorno al credere, si pubblicano
articoli e libri, si animano dibattiti e scontri
feroci. Raramente si indaga, invece, il versante opposto, quello cioè che si lega al non
credere o meglio al non voler credere anche
106
monianze su quella che Levi definiva “la
zona grigia”.
Forse queste testimonianze non si sono volute cercare, presi dalla fretta di chiuder un
capitolo, di voltare pagina per non lasciarsi prendere dall’inquietudine delle proprie
piccole viltà, dai minimi gesti quotidiani
che hanno fatto voltare la testa.
Oggi nuovi approcci storici hanno tentato di ridare la voce a chi ha subito la storia, a chi faticosamente nella storia ci si è
trovato coinvolto. Cercare di ricostruire
quelle storie, di sottrarle al silenzio, è stato un compito meritorio dell’Oral history.
Proprio in quegli studi si è visto come la
memoria fosse labile, meno certa. In quella frattura d’incertezza si inserivano però
ricostruzioni che dicevano qualcosa di più
dei soggetti che parlavano. Il dire tradiva
qualcosa che andava oltre, ritrovava nelle
sue esitazioni speranze e paure, il basso e
l’alto, che non apparivano più banalmente
contrapposti, ma si intersecavano contaminandosi. I fatti venivano contaminati
dalla presenza dei soggetti. Non c’era un
film di cui i soggetti erano spettatori, ne
erano protagonisti, ed entrando in scena la
mutavano, ne davano coloriture inattese.
Perché questa lunga digressione? Credo
che nella polemica Haenel abbia ragione
in parte, anche se non sottovaluto i pericoli che la ricostruzione romanzesca può
introdurre nella storia. Il problema centrale è quello che Nicola Gallerano definiva come “uso pubblico della storia”, cioè
dello scontro che sulla memoria storica si
gioca per rappresentarci nell’oggi.
Discorso spinoso, che non coinvolge solo
gli “altri”, coloro che negano l’Olocausto
come è avvenuto in questi giorni da una
cattedra dell’università di Teramo. Se solo
pensiamo alle polemiche sorte all’uscita
del testo di Claudio Pavone Una guerra
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci
quando i segnali che emanano da una certa
realtà sono incontrovertibili, capaci di smuovere la diffidenza del san Tommaso più testardo. Cosa supporta una simile cocciutaggine? La paura ? Il timore che le implicazioni
che ne derivino possano mettere ciascuno
davanti a cambiamenti che non saprebbe affrontare, ma che comunque, piaccia o meno,
bussano alla sua porta? O, forse, ancora,
c’è qualcosa che viene prima, che anticipa
qualsiasi pensiero sulle conseguenze e che fa
dire di no, subito. Come fosse un modo per
rifiutare innanzitutto una parola degli altri
che disturba, invade le certezze a cui siamo
narcisisticamente attaccati, come un pezzo
della nostra identità. E’ una questione che,
in definitiva, riguarda anche il problema del
male, nella sua sostanza più intima. Il male è
tale in sé? O, il male cresce, si sviluppa perché al fondo siamo sempre disposti a pensare
che poi, alla fin fine, a guardar bene, non è
del tutto così, che “si, ma…” In altri termini, il male si estende perché non gli si crede,
perché gli si nega un corpo, una consistenza,
un’evidenza che, per altro, lui non si preoccupa minimamente di occultare. Nel mentre
noi continuiamo a ribadire che… E’ il destino dei testimoni, la croce cui li condanna
paradossalmente la loro stessa condizione,
quello cioè di non essere ascoltati.
Leggendo il libro ho pensato che, da un punto di vista letterario, non era facile scrivere un
testo così. Romanzare, ma senza degenerare
nel letterario, nel manierismo. Haenel è riuscito a farlo più che egregiamente. La sua
scrittura è sobria e tagliente, solida e scarna
nella giusta misura. Bravo e, soprattutto, grazie. “Il testimone inascoltato” costituisce un
libro davvero prezioso, vale più di qualsiasi
trattato di sociologia politica o di psicologia
sociale nel mostrare quel che è il mondo e gli
uomini che lo abitano. Il miglior antidoto a
tutti i Gardaland a venire…
civile, ci rendiamo conto che il problema
tocca trasversalmente tutti, con poche distinzioni di parte..
Ritorniamo allora alle testimonianze, a
quelle alte come quella di Levi e Amery,
e ad altre dimenticate, poiché “la confessione - come scrive Maria Zambrano - è
il linguaggio di qualcuno che non ha annullato la sua condizione di soggetto; è
il linguaggio del soggetto in quanto tale.
Non sono i suoi sentimenti, né i suoi
desideri, né le sue speranze; sono semplicemente i suoi sforzi di essere”. Se il
romanzo può contribuire a farci ritrovare
questi sforzi…
Cultura 107
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/
Scelti per voi
a cura di Ambrogio Cozzi
libri
libri, cinema, musica
108
Marco Mastella
Sognare e crescere
il figlio di un’altra
donna
ed. Cantagalli, Siena
2009, pp.256, €16,50
Il libro uscito nel 2009
è una interessante riflessione sull’esperienza
adottiva. Come scrive nella presentazione
l’autore, il testo “...è rivolto in particolare ai
genitori, naturali,adottivi o aspiranti tali”, in
pratica un utile strumento per il difficile compito di genitore. Il libro “...Nasce da un lungo lavoro di riflessione e rielaborazione della
propria esperienza da parte di un gruppo di
genitori adottivi che si sono ritrovati periodicamente”, è frutto di un confronto ed una
condivisione di sogni e mondi interni di genitori adottivi e di figli. Una esperienza condotta
sapientemente da uno psicoanalista che si interessa da tempo di bambini, di adolescenti e
di famiglie. Da un lato emergono dal testo le
potenzialità di un metodo di lavoro di gruppo
che ha consentito di fare emergere la individualità, i sentimenti, i sogni attraverso l’esercizio quotidiano della funzione genitoriale e il
mettersi in gioco di ciascun partecipante per
riflettere e condividere; sullo sfondo la guida
di Marco Mastella, neuropsichiatra infantile
e psicoanalista “...che utilizza la competenza
psicoanalitica inaugurando un metodo libero
e associativo che permette al gruppo di riunirsi
e liberamente associare i propri pensieri come
fosse un trattamento psicoanalitico” (Postfazione di C.Artoni Schlesinger pag.240). Merito dell’autore e conduttore di questa esperienza formativa con le famiglie è l’aver creato un
contesto estraneo a “fantasmi” giudicanti di
qualsiasi natura e pertanto in tutto il libro si
percepisce la spontaneità e si colgono spunti di
sostegno e supporto alla genitorialità, compito
difficile non solo per chi intraprende l’avventura adottiva. Mi sembra interessante partire
dal disegno di copertina per segnalare che in
ogni sua parte il libro esprime contenuti che
mettono insieme storie e vissuti . L’immagine
riporta una bambina ed un aquilone, sopra
l’aquilone un “segno”, il simbolo dell’infinito: mi ha incuriosito cercare il senso di quella
traccia. Nel capitolo “Lo spazio di ascolto in
gruppo “libero e associativo” di problematiche
contingenti e attuali. Le abitudini quotidiane: la comunicazione gestuale e linguistica, la
scuola”, il disegno è riportato quale aneddoto
clinico di una bambina-ragazzina adottata in
tenera età che aveva mantenuto i contatti con
la madre naturale e poi era stata “presa” in adozione. Attraverso questi pochi elementi si comprende come il disegno metta insieme un livello di struttura immediato (l’aquilone) ed uno
più profondo lontano, l’infinito; esso esprime
visivamente la doppia tematica e la possibilità
di tenerla insieme. Ho collegato questa immagine ad un’altra, quella di un bimbo solo su
un molo di un lago, fiume o mare aperto, riportata sulla copertina di un altro libro uscito
nel 2005 sulla stessa tematica, dal titolo “Un
figlio venuto da lontano”, edizioni San Paolo.
La presentazione e la recensione avevano trovato spazio su questa rivista. Il dottor Guido
Cattabeni, curatore di quel testo, si interessava
all’adozione e all’affido come risposta al bisogno e al diritto fondamentale di ogni bambino
di crescere in una famiglia e poneva una serie
di domande: che differenza c’è tra un genitore biologico e uno adottivo? Quali difficoltà e
quale preparazione per una coppia che vuole
adottare? Quali risposte dare ad una bambino adottato quando chiede delle sue origini?
Come affrontare l’adozione internazionale?.
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
Ho volutamente fatto questo parallelo perché
il libro di Marco Mastella sembra rispondere
a questi quesiti ed insegnare una metodologia
operativa di formazione e supporto creativa attraverso i vissuti, i sogni, le attese, le delusioni e
le soddisfazioni di un gruppo di genitori adottivi. Il sottotitolo “Ascoltando e sperando con i
genitori adottivi” rende l’idea di un percorso di
formazione e di trasformazione per i genitori.
L’esperienza di collaborazione tra l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza dell’Emilia
Romagna con il dottor Mastella è di oltre
una decina di anni, ma il percorso di gruppo
per affrontare i temi più sentiti è più recente,
e per le famiglie coinvolte in questo percorso
ha rappresentato un momento di particolare
intensità partecipativa. Tanto che il Presidente
dell'Associazione nella presentazione del libro
scrive “E' diventata un’esperienza positiva e
costruttiva per ciascuno di noi, forse si può
dire che non siamo quelli di prima”.
Emilia Canato
Palo Ferliga
Attraverso il senso
di colpa
ed. San Paolo, Milano
2010, pp. 184, €13,00
Paolo Ferliga, psicologo-psicoterapeuta e docente di filosofia e storia
in un Liceo Classico di
Brescia affronta in questo libro le pene e i disagi dell’uomo contemporaneo, offrendo però
anche una riflessione per una via di cura. La
possibilità di riscatto parte dal sentimento della colpa. Il riconoscimento della colpa e la sua
valenza di sofferenza, anche patologica, non
deve spaventare o spingere ad adottare ogni
espediente per sfuggirla, eliminarla o esternarla; deve essere vista, valutata e riconosciuta.
Solo affrontandola l’individuo può trovare la
propria individualità, il proprio progetto di
vita, che inevitabilmente si confronta con la
dimensione archetipica .
L’uomo, in sintonia con la dimensione più
profonda e spirituale, trova una strada creativa
nella cura dell’anima e la colpa diviene quindi la spinta per un percorso di introversione,
per un viaggio dentro di sé, per ritrovarsi. Il
riferimento è al pensiero di C. Gustav Jung,
e al processo di “individuazione” come da
lui teorizzato nella realizzazione concreta del
Sé tramite l’Io: nella pratica psicoterapeutica
il trattamento inizia, per l’uomo occidentale,
dalla consapevolezza della colpa nella doppia
dimensione individuale e collettiva. L’autore
rende vivo, attuale e concreto questo processo
attraverso sogni e testimonianze di pazienti;
attraverso la lettura e i riferimenti teorici accompagna il lettore nel racconto del percorso
di cura del disagio emotivo.
Il libro si sviluppa in sette capitoli e i titoli ,
così come di seguito elencati, danno una idea
concreta su come il tema è stato affrontato:
I) La scomparsa del senso di colpa nella società contemporanea; II) Carattere archetipico della colpa; III) Neuroscienze: dalla colpa
all’empatia; IV) ruolo del padre e senso colpa
nell’analisi di Freud: V) Aggressività, angoscia e creatività agli inizi della vita psichica:
il contributo di Melanie Klein; VI) Oltre la
colpa persecutoria: l’iniziazione paterna alla
vita; VII) colpa e individuazione. E' un percorso che, partendo da Anassimandro, arriva
ai giorni nostri e sviluppa tematiche difficili
con un lessico coinvolgente e facile alla lettura. Senza relazione con la colpa l’individuo
si ammala. Occorre prendere contatto con la
colpa, attraversarla e ritrovare quell’aspetto
creativo che Melanie Klein “aveva attribuito
alla posizione depressiva della psiche infantile. Il desiderio di riparare l’oggetto leso, che
si presenta fin dai primordi della vita psichica,
trova la sua espressione più compiuta nella
Cultura 109
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
necessità che prova, chi si sta individuando,
di creare dei valori positivi, di partecipare alla
vita della comunità con un proprio personale contributo.”(pag. 177). La coscienza della
colpa e la sua funzione di stimolo della vita
morale sono ripresi nell’ultima parte del libro, partendo da una riflessione sul pensiero
del filosofo Ludwig Wittgenstein: “Quando
cerchiamo di descrivere le questioni più importanti della vita, che hanno a che fare con
l’etica e con il senso dell’esistenza, le parole
vengono meno e ci sembra sempre di avventurarci contro i limiti del linguaggio...”. Le
immagini dei sogni aiutano a comprendere
il carattere archetipico della colpa e accompagnano in una dimensione di comunicazione
ed uso del linguaggio differente da quello più
strettamente scientifico, con una apertura ad
una dimensione che si potrebbe definire spirituale.
Emilia Canato
Stefano Cazzato
Dialogo con Platone
Come analizzare un
testo filosofico
Roma, Armando Editore,
2010, pp. 62, €. 8,00
“Perché non continuare
a insegnare la filosofia –
si chiede l'Autore del testo a pagina 57- come si
è sempre fatto, presentando filosofi e scuole in
successione cronologica? Non è quello storico
il metodo migliore perché lo studente entri in
possesso di un quadro generale della disciplina
nel suo sviluppo diacronico? Ma il problema è
proprio questo: è possibile oggi fornire quadri
generali, storici, onnicomprensivi, totalizzanti, del contenuto delle discipline o sarebbe più
formativo individuare e trasmettere agli alunni le strutture basilari di un sapere?”
110
Già più di trent'anni fa Jerome Bruner sottolineava la difficoltà di padroneggiare un
intero ambito disciplinare a causa sia della
crescita inarrestabile dei saperi, sia dei limiti cognitivi dell'individuo; e individuava
nell'applicazione su vasta scala di idee disciplinari veramente portanti, “grandi idee
organizzative o strutturali”, come l'idea di
“razionalità” per quanto concerne la filosofia, la condizione decisiva per imparare a imparare, per imparare in autonomia anziché
riprodurre meccanicamente saperi ricevuti,
per derivare idee da idee, per acquisire abilità
permanenti al posto di conoscenze effimere.
Dialogo con Platone, è un “libretto”, nel
senso di libro piccolo, libro di poche pagine, scritto da Stefano Cazzato, insegnante
di Filosofia da molti anni nelle scuole superiori, che raccoglie in cinquantadue pagine
effettive di testo (da pagina 7 a pagina 58
comprese) un bell'esempio di didattica della
filosofia sulla base di quei principi bruneriani. Per realizzare questa operazione Cazzato
non ha scelto i dialoghi di Platone più noti
e convenzionali, come la Repubblica, il Timeo, il Cratilo, le Leggi, il Fedro o il Simposio, la cui analisi, dice l'Autore, è costretta
ad operare su parti e non sul tutto, finendo
per sovraordinare il contenuto alla forma, le
conoscenze alle abilità, le nozioni ai codici
e ai linguaggi, bensì i dialoghi platonici più
brevi, come Eutifrone, Crizia, Minosse, Epinomide, Clitofonte e Carmide (che scandiscono anche la successione dei capitoli), che
consentono invece un'analisi complessiva,
permettono di cogliere i passaggi essenziali
e di presentare quindi al lettore la macchina
dialettica, la complessità della sua costruzione e lo spirito critico che la guida; spirito che
poi è lo stesso che sta alla base della filosofia
come attività di ricerca, di sperimentazione e
di conoscenza.
Marco Taddei
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
Maria Pia Trevisan
L’operaia che amava la
sua fabbrica
La Memoria del Mondo Libreria EditriceMagenta (MI), 2010,
pp.161, €14,50
Un libro autobiografico
che racconta il proprio
lavoro svolto in fabbrica.
Una prima assunzione
in una piccola calzoleria attraverso cui l’autrice
ci rende, con poche e chiare immagini, l’ambiente fisico e l’atmosfera della vita in fabbrica.
“… Disposte lungo una parete laterale, illuminata da grandi finestre rettangolari, cinque donne
sedute davanti alle macchine rifilatrici, procedevano all’eliminazione della sbavatura delle suole
di gomma. Di tutte loro, a più di mezzo secolo
di distanza, ricordo ancora i nomi: Anna, Emi,
Giovanna, Elsa, Graziella, Angela e Tina …”
Seguono gli eventi vissuti alla Mivar, negli anni
Sessanta e Settanta, grande azienda produttrice
di televisori ad Abbiategrasso, e con essi Maria
Pia Trevisan ( ha iniziato a lavorare a quindici anni come apprendista operaia, di seguito
presso l'industria metalmeccanica per 22 anni,
impegnata in politica e nel sindacato; per cinque volte è stata in Consiglio Comunale di
Abbiategrasso) ci narra la sua storia e quella di
uomini e donne che hanno prestato la propria
opera nel mondo produttivo del nostro Paese.
“La Mivar non fu però solo guerra. Nonostante
l’attività persecutoria e discriminatoria attuata dall’azienda nei confronti di tutti gli attivisti
sindacali, riuscimmo a prenderci anche notevoli spazi di iniziativa politica e culturale. Due
di noi, Carlo (non quello a cui avevano rotto il
setto nasale, un altro Carlo, anch’esso membro
della commissione interna) ed io fummo eletti
nel mese di maggio del 1970 consiglieri comunali del Comune di Abbiategrasso. Subito dopo
ci fu l’elezione del primo Consiglio di fabbrica.
Mi proposero di candidarmi. Tra i nove eletti
nell’esecutivo ci fui anch’io. Sempre nel corso di
quello stesso anno mi elessero nel Comitato federale del PCI milanese, quale rappresentante di
una delle fabbriche più significative del territorio
abbiatense ... La mia palestra di vita si allargò a
dismisura. I corsi sindacali e di partito, i convegni, i seminari, le conferenze e i congressi a cui
partecipavo, divennero la mia Università, quella
che avevo da sempre desiderato frequentare. Da
quella scuola, trassi insegnamenti che mi permisero di leggere la realtà con occhi più consapevoli e che, contemporaneamente, mi diedero la
forza per affrontare le nuove responsabilità che
mi ero assunta ... A me pareva di riuscire, così, a
riversare anche sui miei figli la ricchezza di quelle
esperienze. I sensi di colpa per le mie frequenti
assenze trovarono spesso compensazione nella
pienezza del nostro rapporto, nella voglia di vivere tutta nuova che rendeva il nostro quotidiano
persino speciale. Io mi sentivo cambiata. Non
ero più una madre frustrata. Ero una madre più
forte. Ero una donna più forte.”
Un universo, quello dell'azienda, con le sue
ingiustizie, le contraddizioni, la fatica, le lotte
sindacali, ma anche un microcosmo da cui ci
raggiungono risa, chiacchiere, scherzi, forme di
solidarietà e di impegno, insieme ad una leggerezza del vivere sapiente, carica di umanità. Una
realtà corale in cui padrone, operai, impiegati,
sindacalisti sembrano muoversi ciascuno con un
proprio compito segnato da un profondo senso
di appartenenza; quella realtà in cui Maria Pia,
con la sua narrazione fluida e misurata, ci permette ogni volta di entrare, per conoscerla e quasi farne parte. I personaggi del libro sembrano
oltrepassare la cortina rappresentata dal duro e
lungo lavoro quotidiano e farsi soggetti liberi che
si incontrano e si riconoscono, costruiscono un
proprio spazio vitale e trovano la forza di emanciparsi, sentendosi parte integrante e protagonisti
della Storia e della vita dell’umanità intera.
Luisa Fressoia
Cultura 111
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
Agostini Nerio
Il bibliotecario
di ente locale
Editrice Bibliografica,
Millano 2010
pp. 919, € 80,00
Negli ultimi anni il legislatore ha impostato
un modello di governance generale della
pubblica amministrazione basato sulla valorizzazione dell’autonomia organizzativa e regolamentare di ogni
ente, con al centro le esigenze e i bisogni del
cittadino-utente, il richiamo al criterio organizzativo della trasparenza e dell’imparzialità
e l’introduzione della responsabilità di risultato e/o di performance.
Con questo scenario sullo sfondo, in questa
pubblicazione viene sviluppata in particolare
una lettura dinamica del processo di riforma
del “sistema di gestione delle risorse umane”
negli enti locali. Viene messo in evidenza
che le regole formali non bastano da sole a
introdurre il cambiamento: sono i comportamenti effettivi che possono e devono dare
concretezza agli obiettivi formalmente individuati e ai processi di cambiamento che ne
dovrebbero conseguire.
In questo volume, sia pure con stretto riferimento al quadro normativo, si cerca di
individuare gli strumenti operativi da proporre a chi vuole progettare e vivere l’evoluzione nel cambiamento. Viene evidenziato
il nuovo ruolo culturale e a volte comportamentale a cui sono chiamati i dirigenti e
gli amministratori nel sistema di governance delle risorse umane. Viene analizzato il
funzionamento dell’ente locale e il possibile
raggiungimento di livelli di efficienza, efficacia ed economicità nei servizi erogati e
nelle funzioni svolte, adeguati ai bisogni e
alle richieste dei cittadini.
112
Questa pubblicazione può essere letta e utilizzata a più livelli. Come in una bambola
russa, una matrioska, è sempre visibile l’involucro, il manufatto principale, ma si può
decidere di scendere e scoprire la parte più
interna, il cuore, quello a cui si è indirizzato
più attenzioni: il bibliotecario.
Vuole infatti essere soprattutto una pubblicazione “per” il bibliotecario, ma anche
un manuale che può essere utile per i responsabili della biblioteca, per i dirigenti/
responsabili dei servizi e persino uno strumento informativo per gli amministratori.
L’obiettivo è anche quello di considerare la
figura professionale del bibliotecario come
un “normale”, qualsiasi dipendente pubblico di ente locale che non deve più essere
considerato e non deve più sentirsi avulso
dalla realtà. Infatti, assieme alla biblioteca
egli non costituisce un corpo separato dal
resto dell’ente, ma deve essere visto invece
come un oggetto-soggetto che sta dentro la
gestione delle risorse umane che a sua volta
sta dentro le regole della gestione del sistema ente locale.
L’opera è arricchita da note legislative, bibliografiche, riferimenti alla giurisprudenza, a leggi, a contratti e sentenze che spesso interrompono lo scritto per avvalorarne i contenuti.
Essa costituisce, in definitiva, il trasferimento di una serie di esperienze fatte dall’autore
Nerio Agostini in dieci anni di attività di
consulenza per la gestione delle biblioteche, progettazione, seminari, incontri, oltre
che corsi di aggiornamenti fatti con e per
i bibliotecari. Essa costituisce anche una
presentazione sistematizzata di tutta una
serie di quesiti e problemi reali posti dai
bibliotecari che nella gestione quotidiana
delle biblioteche dei vari enti locali di tutte
le regioni italiane si è potuto dare risposta o
trovare soluzione concreta.
Loredana Vaccani
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
a cura di Angelo Villa
ni. Sono ragazzi e ragazze che partecipano
a un progetto, denominato Crossing , che
funziona da un po’ di anni e che si rivolge
a adolescenti immigrati alle prese con problemi di integrazione scolastica e sociale. E’
organizzato da La casa sul Pozzo, in via Bergamo 69, a Lecco (tutte le informazioni su
www.comunitagaggio.it) .
Ora, coordinato da Stephane Ngono, un
piccolo gruppetto di loro, sotto l’insegna
“Roots’n’love” hanno prodotto un cd che
più “indie” non si può . Titolo: “Sulla strada”. Il vecchio e, “à mon avis”, sopravvalutato Kerouac non c’entra molto in questo
caso, ed è meglio così. La strada a cui qui si
allude non è quella sulla quale lo scrittore
americano rovesciava la sua inquietudine,
in un vagabondare senza meta e, forse, senza desiderio. La strada è il cammino della
vita, la ricerca che anche il fenomeno migratorio contribuisce a esaltare, pur tra mille immense difficoltà. Scrive Stephane nella
brevissima nota di introduzione al cd: “Nonostante la diversa provenienza, i colori della pelle, le disparate origini, siamo riusciti a
parlare la stessa lingua e a comunicare attraverso la musica, una delle poche esperienze
di questo mondo, dove la contaminazione è
vissuta come una ricchezza e non come un
ostacolo alla creazione della cultura”.
E allora? Giù, giù a “rappare”, di gusto. Ritmo e rima, anima e parole. E, ancor più, lingue… Lingue che si mischiano, si alternano
nel canto dei ragazzi. Voci giovani e fresche,
maschili e femminili che si lasciano intendere, che cercano spazio per quel che sono o
per quel voglio dire. Alla faccia di “Amici”
o “X factor”. Il risultato è ottimo, esteticamente pregevole davvero. Decisamente meglio di molto rap nostrano che sembra solo la
patetica caricatura di sé stesso, orfano com’è
di una sua vera originalità, di parole che testimonino di esperienze vissute che rieccheg-
musica
Roots'n'love
Sulla strada
Comunità di Gaggio
Vi ricordate di “Futura”, una bella canzone di Lucio Dalla? Il
brano auspicava che
potesse essere il nome di una bambina che
stava per nascere. Un messaggio di speranza, di apertura e di curiosità verso il domani. Mi sono chiesto chi, oggi, canterebbe o
scriverebbe qualcosa del genere. Oddio, già
i punk sul finire degli anni settanta sbraitavano “No future”, ma quelli, per l’appunto,
erano punk… I Dire Straits, dal canto loro,
vi rispondevano con “Romeo and Juliet”
o cose del genere. Insomma, una dialettica. Ma, oggi, non ci sono nemmeno più i
punk e Mark Knopfler se ne va in giro a
suonare da solo… E la dialettica è sparita.
Su tutto sembra aleggiare un tiepido vento
malinconico. E, allora? Chi, alzi la mano,
salirebbe sul palco, come fece Joe Cocker
a Woodstock citando niente meno che il
Vangelo: “lasciate che i morti seppelliscano
i loro morti” ( Luca 9,60 )? Ve lo immaginate? Su diciamo la verità chi se la sentirebbe,
in questi tempi? La canzone di Dalla era un
atto di fiducia, di speranza verso il mondo
che verrà? E , oggi, chi osa? Dove sono i
giovani, quelli veri, reali, concreti? Non i
duttili e flaccidi manichini che i sarti (ah
già dimenticavo, gli stilisti…) buttano in
prima pagina nelle loro pubblicità… Dove
sono? In questo vecchio Paese di vecchi, aggrappati egoisticamente alle loro poltrone,
pensioni, godimenti… Chi li tocca? Quale
futuro?
Se la speranza è data solo per chi non ha
speranza, come ricordava Walter Benjamin,
ecco quindi un messaggio di vita che, un
volta tanto, sembra un lampo di luce in cieli
così foschi. Ovviamente, si tratta di giova-
Cultura 113
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
a cura di Cristiana La Capria
114
Coraline e la porta
magica.
Henry Selik, Usa 2009
Si tratta di un film
dall’immaginario controverso, molto. E’ catalogato come un cartone
animato, con soluzione
visuale in 3 D, ma non
è destinato ai bambini. Non a tutti, almeno. E’ anche rivolto agli
adulti. Ad alcuni. Quelli che amano la pedagogia. Perché questo cartone va maneggiato con
cura, altrimenti si rischiano non pochi effetti
collaterali. Diciamo che il format è quello tipico dell’antifiaba: la protagonista non è bella,
non è ingenua, non è bionda e l’antagonista
non è un orco, non è un lupo e neppure la
classica matrigna. La protagonista è Coraline,
una bambina arguta, dai capelli blu, i tratti del
viso irregolari, il corpo filiforme, gli antagonisti sono i suoi stessi genitori che, troppo presi dal lavoro, non hanno tempo da dedicarle
per vincere la noia e le tristezza della solitudine. Dentro a uno scenario dai colori opachi
come la nebbia, il fango e la pioggia che occupano il circostante dell’azione, Coraline si
imbatte in un nuovo amichetto che le regala
una bambola uguale alla sua fisionomia, con
bottoni al posto degli occhi. A questo punto,
per mezzo di una porticina magica, si apre un
mondo parallelo e identico al primo, ma più
seducente: la casa ha arredi assai confortevoli e
colorati, i genitori – chiamati “altra” madre e
“altro” padre - sono il doppio felice e affettuoso di quelli reali. Ma anche i sogni hanno un
risvolto inquietante che non ci viene affatto
risparmiato. Se intende rimanere per sempre
nella casa accogliente con i genitori amorevoli,
Coraline deve imitarli e cucire dei bottoni al
posto degli occhi, per condividere con loro la
stessa visuale sul mondo. Ecco allora che inizia
per la bambina una lotta furibonda per ritor-
cinema
giano il solito stereotipato gioco delle parti.
Nel cd dei “Roots’n’love” si parla di Gaza, di
Rosario, di musica, di fumo… Può darsi che,
a volte, nei testi risuoni una certa ingenuità,
figlia della giovane età dei rappers. Niente di
male. E’ il dono di uno sguardo aperto sul
mondo che, crescendo, impareranno a regolare. Come è giusto che sia. Il futuro avanza,
diamogli ascolto.
Ps: il cd è così “indie” che non è nemmeno in commercio. Come averlo? Scrivete a
[email protected]. Insomma, che volete di più? Buona la musica, non farei altrimenti, sarebbe un atto insopportabilmente
ambiguo o ideologico, buona la causa .
Angelo Villa
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi
nare al posto e agli affetti di origine, ovvero
per scardinare l’incubo e ritornare al reale del
quotidiano. E la guerra più feroce sarà combattuta contro l’”altra” madre…
Questo film ci conduce nel paesaggio dell’immaginario dei bambini e delle bambine di
oggi che di solito sono figli di genitori che,
entrambi, lavorano incessantemente, quindi
hanno poco tempo da dedicare alla prole. La
prole si arrabbia, si vendica, reagisce costruendo un mondo alternativo, desiderato fino a
sentire di starci dentro. Coraline rappresenta
questa generazione di giovanissimi, a volte tristi e spesso annoiati. E’ lei, una bambina, che
deve affrontare le affilate proiezioni dell’inconscio, teatro spietato dei fantasmi buoni e
cattivi dei genitori. Basta con il buonismo e
basta con le semplificazioni: i genitori non si
scelgono, può ben capitare che non ci piacciano affatto, perciò ci diamo da fare per fingere di averli davvero questi genitori perfetti, li
costruiamo proprio come li avremmo voluti
noi, i nostri “altri genitori”. Questo immaginario, però, non è lineare, non è scorporato
dal resto dei vissuti, non sta altrove rispetto
al reale, anzi, lo alimenta e ci aiuta a viverlo
con più densità, ma anche con più complicazione. Infatti, anche i fantasmi dei genitori
buoni non sono mai così buoni, anche loro
chiedono una quota di frustrazione, ci vogliono mettere gli occhi di bottone. Non c’è il
bene da un lato, il male dall’altro lato. Cifre di
positivo e negativo stanno dentro a ogni cosa
e il film lo ricorda senza falsi buonismi. Se il
rapporto con i genitori non funziona e l’insoddisfazione non viene capita, i figli mettono
in moto i sotterfugi della mente che proietta
sul palcoscenico due nuovi attori, migliori –
forse – dei primi: gli “altri” genitori, appunto. Ma dei due, e questo è il colpo finale, la
matrice malvagia è la madre. L’altra madre è
colei che mangia i bambini dopo averli sedotti
con il fascino del comportamento caloroso e
ossequioso, è lei che orchestra trappole per rimangiarsi i figli che ha creato. E allora questo
cosa vuol dire? Che Coraline è in lotta contro
la madre. Ancora una volta è inscenato il conflitto madre-figlia che si concluderà senza una
soluzione appagante, perché la mamma buona non esiste neppure nel nuovo immaginario
delle giovani figlie. La fantasmatica espressa da
questo cartone animato ci dice molto sulle attuali generazioni tele-consumatrici, e insegna
a capire il loro mondo interno, anche se in
forma disturbante.
Cristiana La Capria
Cultura 115
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/
ARRIVATI_IN_REDAZIONE
René Girard
Il risentimento.
Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo
Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, pp. 188, € 12,80
L'autore affronta in questo libro temi sociologici e antropologici oggi molto
attuali: il dilagare dell'anoressia e dei disordini alimentari, l'angoscia della
solitudine, l'invidia, e in particolare il risentimento, la necessità umana di fondare l'ordine sociale, le apparenze culturali e religiose attraverso l'esclusione di
capri espiatori. Secondo l'autore, l'uomo agisce sempre desiderando di essere
un altro, che è ad un tempo modello e rivale: ecco il fuoco dell'invidia e del
risentimento, ecco le prime micce della violenza e dell'esclusione...
Demetrio Duccio
L' interiorità maschile.
Le solitudini degli uomini
Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, pp. 284, € 14,50
In cosa consiste la vita interiore? Ed è davvero destituito di senso il luogo
comune secondo cui gli uomini rifuggono ogni confronto con la propria interiorità? Che i maschi, nella grande maggioranza, siano poco disponibili alla
riflessività, più protesi verso "l'esterno", pare incontestabile. Evitano di porsi
le domande più ineludibili, di confrontarsi con la sensibilità femminile, che
include l'ascolto e la cura, temendo una crisi di immagine o di identità. L'importanza di riscoprire il valore antico della solitudine degli uomini, condizione
senza la quale non si educa la propria interiorità, è il tema di questo libro....
Orsi C. (a cura di)
Ai confini del welfare
Manifesto Libri, Roma 2008, pp. 151, € 15,00
Che cosa è una società giusta? Quali riforme dello stato sociale si dovrebbero intraprendere se davvero si volesse instaurare un modello di vita comune che valorizzi
ogni singolo? Quali politiche potrebbero restituirci una robusta società civile laica e
capace di giocare un ruolo primario nei processi economici? Queste sono le domande che il curatore rivolge a economisti, sociologi, filosofi politici di fama internazionale. Negli ultimi decenni le politiche sociali sono state inesorabilmente subordinate alle necessità di un mercato del lavoro sempre più flessibile e della competitività
globale. Queste riforme hanno allontanato i sistemi di protezione sociale europei da
quell'idea di buon funzionamento della società intesa come bene comune...
Marco Lodoli
Il rosso e il blu.
Cuori ed errori nella scuola italiana
Einaudi, Torino 2009, pp. 155, € 15,00
Marco Lodoli non è soltanto uno scrittore, ma anche un insegnante, un professore
nelle scuole superiori. Ogni giorno, in presa diretta si incontra e scontra con la
scuola, con gli studenti e con il diffìcile e appassionante mestiere di insegnante. In
"Il rosso e il blu" abbandona la finzione narrativa e, attraverso brevi ma folgoranti
osservazioni, affronta i molti "cuori ed errori" che sono disseminati nella scuola
italiana, e di cui è testimone quotidiano, esprimendo così il suo punto di vista sui
tanti temi che entrano nel dibattito pubblico sull'educazione scolastica e i giovani di
oggi: dal momento topico dell'esame di maturità alla piaga emergente del bullismo;
dalla straniarne e defatigante esperienza delle gite di classe al problema della droga...
116
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/arrivati_in_redazione
D'Ambrosio Cleopatra
L' abuso infantile.
Tutela del minore in ambito terapeutico, giuridico e sociale
Centro Studi Erickson, Trento 2010, pp. 219, € 19,50
Il volume è il risultato dello studio, dell'esperienza e delle riflessioni dell'autrice che,
attraverso il lavoro terapeutico, peritale e di formazione degli operatori, entra quotidianamente in contatto con i bambini vittime di abuso e con le problematiche emotive,
relazionali e istituzionali che a questo tipo di intervento sono connesse. La prima parte del
testo mostra come lavorare con i minori vittime di violenza voglia dire venire a patti con
la paura, il disorientamento, la confusione, la negazione. Nella seconda parte del libro,
anche attraverso la presentazione di studi di caso, viene dato spazio al percorso terapeutico
e giudiziario che il bambino abusato deve affrontare e agli strumenti che i professionisti
hanno a disposizione per ascoltarlo e supportarlo nell'elaborazione del trauma...
Gopnik Alison
Il bambino filosofo.
Come i bambini ci insegnano a dire la verità,
amare e capire il senso della vita
Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 298, € 19,00
Cos'hanno in mente i nostri figli quando, appena in grado di parlare, si impegnano
con tutta la serietà di cui sono capaci nella costruzione di realtà immaginarie? Come si
articolano i loro stati coscienti, apparentemente più simili a un magma fangoso che al
trasparente flusso cartesiano di cui ci parlano i filosofi? Cosa ci può dire la loro mente
sul nostro modo di pensare? Alison Gopnik si muove in una terra di confine, tra
scienza, filosofia e i sentimenti di una madre, per mostrarci che i nostri bambini sono
tutt'altro che esseri irrazionali o limitati nelle loro capacità intellettuali...
Molesini Andrea
Non tutti i bastardi sono di Vienna
Sellerio Editore, Palermo 2010, pp. 376, € 14,00
Orgoglio, patriottismo, odio, amore: passioni pure e antiche si mescolano e si scontrano tra loro, intorbidate più che raffrenate dal senso, anch'esso antico, di reticenza
e onore. Villa Spada, dimora signorile di un paesino a pochi chilometri dal Piave,
nei giorni compresi tra il 9 novembre 1917 e il 30 ottobre 1918: siamo nell'area
geografica e nell'arco temporale della disfatta di Caporetto e della conquista austriaca. Nella villa vivono i signori: il nonno Guglielmo Spada, un originale, e la nonna
Nancy, colta e ardita; la zia Maria, che tiene in pugno l'andamento della casa; il
giovane Paolo, diciassettenne, orfano, nel pieno dei furori dell'età; la giovane Giulia,
procace e un po' folle, con la sua chioma fiammeggiante...
Cavaliere Luisa, Dante Emma, Postorino Rosella
Anticorpi
Liguori Editore, Napoli 2010, pp. 112, € 11,90
Tre donne di differenti generazioni parlano delle cose che amano, del mondo
che abitano, del Sud in cui sono nate, dell'Italia in cui vivono, del paese che
vorrebbero. Dialogano sul teatro, sulla scrittura, sulla politica, sul lavoro, sulla mafia, sulla 'ndrangheta, sulla camorra. Ripercorrono il profilo di paesaggi
violati da una speculazione edilizia che sembra non concedere scampo allo
sguardo che cerca bellezza. Spesso invano. Raccontano passioni che, qualche
volta, si trasformano in ossessioni...
Cultura 117
Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/arrivati_in_redazione
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Pedagogika.it/2010/XIV_4/in_breve
Si educa al genere, o diventiamo uomini e donne sulla base di modelli sociali e
stereotipi che si perpetuano?
A questa domanda avvincente e complessa ha cercato di dare risposta il seminario
organizzato insieme alla rivista Pedagogika.it. All’incontro, moderato da Maria
Piacente, la direttrice della rivista, hanno preso parte circa 130 persone. C’è la necessità ed è importante educare al genere nei contesti educativi, formativi, sociali?
Il documentario “Questioni di genere” realizzato dagli studenti del liceo Minghetti
di Bologna, con l’associazione Alice, diretto da Lorenzo Galeazzi, introduce le risposte fornendo spunti alla discussione.
Maria Agnese Maio, formatrice dell’associazione Progetto Alice Bologna “Educare
al genere”, sottolinea l’importanza fondamentale di accompagnare i ragazzi verso la
consapevolezza del sé, per diventare l’uomo e la donna che ognuno desidera essere.
“E’ importante parlare nelle scuole – concorda Stefano Ciccone, dell’associazione
Maschile Plurale, e precisa – parlare di genere però non vuol dire parlare di “questione femminile”, ma di questioni che sono legate alla vita di uomini e donne,
trasversalmente, che riguardano scuola, lavoro, società.” In realtà educazione di genere si fa sempre, inconsapevolmente: anche Barbara Mapelli, docente di “Pedagogia delle differenze di genere” presso l’Università Bicocca di Milano ed autrice di
diversi testi sul tema, concorda: “Il fatto che il mondo è abitato da uomini e donne,
è quella che io chiamo l’evidenza invisibile, tutti sanno che sono uomini e donne,
è scontato, e ciò crea paradossi. Tutte le agenzie formative legittimano i modelli
esistenti, non si pongono a critica o a consapevolezza i modelli che passano, che
quindi creano confusione, ma se ne discute, e si arriva poi a distorsioni.”
Tanti gli spunti di riflessione: perché se le tematiche di genere riguardano entrambi
i generi, ma sono spesso promosse da donne, la scuola – che è luogo di donne,
prevalenza di insegnanti donne e di studentesse – non se ne occupa? Come fare per
proporre un modello maschile che dica ai ragazzi che c’è un altro modo di essere
uomo?
La conclusione è concorde: il genere non deve essere una “questione”, ma l’educazione di genere dovrebbe rientrare nell’educazione di base, per creare le fondamenta del processo di divenire uomini e donne. “Farsi carico di questa educazione – sottolinea la Mapelli – vuol dire far capire la differenza come ricchezza e
potenzialità”. Non dimenticando che, citando la filosofa belga Luca Irigaray, “la
democrazia comincia a due”.
in_breve
Generi, generazioni, rigenerazioni
In breve 119
in_vista
Pedagogika.it/2010/XIV_4/in_vista
Il centro siciliano
di documentazione
Giuseppe Impastato
Il Centro siciliano di documentazione è il primo centro studi sulla mafia sorto
in Italia.
Fondato nel 1977 da Umberto Santino e Anna Puglisi, si è formalmente costituito come Associazione culturale nel maggio del 1980 ed è stato intitolato al
militante della Nuova Sinistra Giuseppe Impastato, assassinato dalla mafia il 9
maggio 1978.
Dal 1998 il Centro si è trasformato in Onlus (Organizzazione non lucrativa di
utilità sociale).
Il Centro ha lo scopo di sviluppare la conoscenza del fenomeno mafioso e di
altri fenomeni ad esso assimilabili, a livello nazionale ed internazionale; promuovere
iniziative allo scopo di combattere tali fenomeni; elaborare e diffondere un'adeguata
cultura della legalità, dello sviluppo e della partecipazione democratica. A tal fine
svolge le seguenti attività: raccogliere materiali di carattere politico, economico, storico, sociologico; condurre studi e ricerche; promuovere iniziative culturali (convegni,
seminari, dibattiti, mostre ecc.); pubblicare libri, opuscoli e materiali vari.
Nel corso della sua attività il Centro ha formato una biblioteca, un'emeroteca
e un archivio specializzati sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata; ha
prodotto studi e ricerche, bibliografie e materiali di documentazione; svolto attività di informazione e di educazione nelle scuole e in istituti universitari, in Italia
e all'estero; promosso iniziative di mobilitazione (a cominciare dalla manifestazione nazionale contro la mafia, la prima nella storia d'Italia, svoltasi nel maggio
del 1979) e di aggregazione sociale e ha avuto un ruolo decisivo nell'inchiesta
sull'omicidio Impastato. Con il progetto di ricerca Mafia e società, il Centro ha avviato un'analisi scientifica del fenomeno mafioso, svolgendo ricerche sull'omicidio
a Palermo, sulle imprese mafiose, sul traffico internazionale di droghe, sul rapporto
mafia-politica e sulle lotte contro la mafia.
La sede.
La sede del Centro è è in via villa Sperlinga 15, 90144 Palermo.
Telefono: 0916259789; fax: 0917301490; email: [email protected]; sito: www.centroimpastato.it
Conto corrente postale: 10690907; codice fiscale: 02446520823.
120
Si ringrazia l'Editore per lo spazio concesso.
NON LASCIAMOLI ANDARE.
Foto: Daniele Fiore
OGNI ANNO NEL MONDO
MUOIONO OLTRE 8 MILIONI
DI BAMBINI.
DONA 2 EURO PER DIRE BASTA ALLA
MORTALITÀ INFANTILE.
Ogni anno nel mondo milioni di bambini muoiono
per cause facilmente prevenibili e curabili come
polmonite, malaria, infezioni intestinali o
malnutrizione. Eppure basterebbe poco per non
lasciarli andare: vaccini, zanzariere, antibiotici.
Save the Children continua la sua grande
campagna mondiale EVERY ONE per dire basta
alla mortalità infantile. Invia un SMS al 45503 e
donerai 2 euro dal tuo cellulare personale TIM,
Vodafone,Wind, 3 e Coop Voce o chiamando lo
stesso numero da rete fissa Telecom Italia,
Fastweb e Infostrada. Gli utenti di rete fissa
Telecom potranno scegliere se donare 2 o 5 euro.
Operazione valida dal 6 ottobre al 7 novembre 2010.
www.palloncinorosso.it
www.savethechildren.it
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