Rivista di educazione, formazione e cultura 2010_XIV_4 - € 9 Immaginario, frontiere e limiti Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559 In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione Barbara Mapelli Sette vite come i gatti Generazioni, pensieri e storie di donne nel contemporaneo Prefazione di Carmen Leccardi Collana POLIS pp. 180, € 16,00 Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale – e forse più interessante per la sua carica straordinaria di rottura e radicalità – del Movimento femminista e le donne sono cambiate. Sono cambiate innanzitutto nella percezione che hanno di loro stesse, nelle attese legate al presente, al futuro, nella vita affettiva e privata, nel sociale e nel lavoro, nelle relazioni cogli uomini, ma anche con le altre donne. A cura di Elisabetta Biffi Scrivere altrimenti. Luoghi e spazi della creatività narrativa Prefazione di Franco Frabboni Collana PEDAGOGIKA pp. 196, € 15,00 La scrittura si presenta come un momento ideale e necessario per la messa a fuoco delle diverse possibili creatività della nostra vita. Essa è tentativo di fermare quei momenti che vale la pena non disperdere, questo è già scrivere altrimenti: per sollecitare altre figure e possibilità del pensiero, per sviluppare vie di ragionamento inedite. mail: [email protected] Rivista di educazione, formazione e cultura anno XIV, n° 4 Ottobre, Novembre, Dicembre 2010 Pedagogika.it/2010/XIV_4 Rivista di educazione, formazione e cultura esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni Anno XIV, n° 4 – Ottobre/Novembre/Dicembre 2010 Direttrice responsabile Maria Piacente [email protected] Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Laura Conti, Coordinamento pedagogico Coop. Stripes. Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa Hanno collaborato Franco Cambi, Ambrogio Cozzi, Daniela Manno, Raffaele Mantegazza, Paolo Bellini, Barbara Mapelli, Monica Di Bernardo, Anna Oliverio Ferraris, Renato Perina, Fernando Sancén Contreras, Anita Gramigna, Pascal Perillo, Giancarla Codrignani, Luca Buccheri, Emila Canato, Marco Taddei, Luisa Fressoia Edito da Stripes Coop. Sociale Onlus www.stripes.it Responsabile testata on-line Igor Guida - [email protected] Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - [email protected] Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Pubblicità Clara Bonfante, Daniela Colombo Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45% ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - issn 1593-2559 Stampa: Impressionigrafiche S.c.s. Acquiterme (Al) - Tel. 0144-313350 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano Fotografie: stock.xchng é possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo della redazione - [email protected] I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio della Direzione e del Comitato di redazione e in ogni caso non saranno restituiti agli autori Direzione e Redazione Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057 e-mail: [email protected] Sito web: www.pedagogia.it FaceBook: Pedagogika Rivista 2 Questo periodico è iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana Pedagogika.it/2010/XIV_4/sommario/ s o m m a r i o 5 Educare a cambiare l'immaginario del cambiamento Maria Piacente 72Chi manipola la tua mente? Intervista ad Anna Oliverio Ferraris Maria Piacente ../dossier/immaginario, frontiere e limiti ../temi ed esperienze 8 Introduzione 10 Immaginario e creatività. Una sfida del/nel postmoderno Franco Cambi 16 Immaginario, fuga e libertà Ambrogio Cozzi 28 Confini da riconoscere, attraversare e creare. Un obiettivo pedagogico. Daniela Manno 38 Giochi senza frontiere (ma non senza limiti). Per uno smascheramento ludico dell'idea di frontiera Raffaele Mantegazza 44 Il cyborg una nuova mitopia teconologica Paolo Bellini 53 La testa della medusa. Immaginario non violento e violenza delle donne Barbara Mapelli 61 Donne potenti: la figura della strega nell'immaginario Monica Di Bernardo 64 Immagini adeguate Renato Perina 79 Etica e formazione nell'era delle nanotecnologie Fernando Sancén Contreras, Anita Gramigna 87 Per una pedagogia della trasformazione. Educabilità metacognitiva e formazione alla riflessività Pascal Perillo 96 Per la salvezza del futuro Giancarla Codrignani 99 Il mistero di Maria Ambrogio Cozzi, Luca Buccheri ../cultura 104 A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi 108 Scelti per voi Libri Ambrogio Cozzi (a cura di) Musica Angelo Villa (a cura di) Cinema Cristiana La Capria (a cura di) 116 Arrivati in redazione ../In_breve 119Generi, generazioni, rigenerazioni ../In_vista 120 Il centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato 3 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/ ABBONARSI è IMPORTANTE Piano editoriale 2011 Codici educativi tra legalità e criminalità Il viaggio. Realtà e metafora Fratelli d'Italia? Educare alla creatività Rivista di educazione, formazione e cultura Numero di c/c postale 36094233 intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) L’abbonamento annuale per 4 numeri è: € 30 privati € 60 Enti e Associazioni € 90 Sostenitori Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo: Redazione Pedagogika.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) Pedagogika.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it 4 Per ordini e abbonamenti on line: www.pedagogia.it Per informazioni: Redazione Pedagogika.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - [email protected] Pedagogika.it/2010/XIV_4/editoriale/ Educare a cambiare l'immaginario del cambiamento Maria Piacente Nell'introdurre il tema dell'immaginazione abbiamo, non a caso, indicato come elemento di grande impatto, la presa di coscienza della necessità di “Cambiare l'immaginario del cambiamento”, titolo di un interessante articolo apparso su Via Dogana, Rivista di Pratica politica, a firma di Lia Cigarini: vengono segnalati alcuni saggi dove Rebecca Solint, scrittrice , critica d'arte, attiva nel movimento femminista americano, propone una nuova visione del mondo nella quale dovrebbero avvenire le trasformazioni. Non, quindi, attraverso una “visione meccanicista del cambiamento”, ma tenendo conto del “tempo con i suoi umori , la sua lentezza, la sua subitaneità” che in poche parole l'autrice sintetizza con “Cambiare l'immaginario del cambiamento”. Mi sembra che, in questa chiave di lettura, occorra tenere presente la “tensione” continua che si dovrebbe mantenere tra l'Immaginazione e la Realtà come spinta per vivere e per stare al mondo, tenere vivo e saldo il contatto con il reale e con la propria identità e soggettività, per mantenere un immaginario attivo, non manipolato dai mass media che tendono ad omologarci e a saturare i nostri desideri. Sembra che il mercato globale si sia “impadronito” del nostro immaginario, catturato in tutti gli ambiti, da quello lavorativo a quello affettivo, tecnologico, politico, persino psichico: tutto è merce, tutto è liquido, il nostro immaginario è soggetto a “manipolazioni” continue. Da parte di vecchi e nuovi persuasori veniamo strumentalizzati attraverso le diverse forme di comunicazione mediatica che fanno leva su ciò che noi desideriamo credere e sulla nostra fisiologica necessità di credere. Insomma, i media cercano di “saturare e snaturare”, attraverso le loro proposte “imposte”, tutti i posti vuoti, il vuoto che ci abita, le nostre dimore o le solitudini felici. Persino l'infanzia ci viene riproposta come merce da consumare, foss'anche per ostentare, voyeuristicamente, l'orrore ispirato da alcuni fatti di cronaca nera. Anche le fantasie vengono occupate, come “posti vuoti”, ai quali dare, comunque, un significato: ciò di cui non sappiamo “deve”, per forza, avere una sua spiegazione. Leggo, a tale proposito, su Il Sole 24 ore del 17 ottobre scorso, una lettera inviata al Direttore del quotidiano dal titolo “Violenza urlata”. Due professori di fisica, nel corso di una loro discussione dicevano che molto probabilmente la diffusa violenza che in questi ultimi tempi alligna sempre di più con veemenza nell'animo umano sarebbe dovuta al mutato rapporto tra elettricità e magnetismo del nostro pianeta.., e che l'eccessivo incremento di quest'ultima non sarebbe facilmente controllabile da buona parte degli esseri umani; ed ecco la recrudescenza di tanto nervosismo e impietosa virulenza... In risposta il Direttore Carruba scrive : “...siamo sicuri che ci sia una effettiva recrudescenza della violenza sociale? ...Nn dimentichiamo troppo spes- 5 Pedagogika.it/2010/XIV_4/editoriale so le periodiche carneficine che hanno punteggiato la storia dell'uomo?...”. E conclude: “ ...Se mai è l'esposizione mediatica di quanto succede che rende fenomeni planetari vicende che, una volta, avvenivano nel chiuso delle piccole comunità...”. Come si vede, per risolvere l'inspiegabile, si può arrivare anche a mettere in dubbio l'esistenza stessa di un problema. Ecco che i mass media nel fagocitare le nostre fantasie e il nostro immaginario, se ne appropriano al punto tale da restituirci poi delle risposte alle quali vogliamo credere perché, in qualche modo, siamo fatti per credere, perché è forse per noi insopportabile il silenzio che spesso si produce di fronte a domande essenziali. Perché la violenza e il dolore, l'infelicità? Perché la vita? E certo non si trovano risposte, a meno di non essere credenti ed in questo trovare un senso a questo mondo, oppure dare veramente ascolto alle parole, alle nostre e a quelle degli altri che creano il mondo che abitiamo. E tornare a metabolizzarle all'interno delle nostre dimore, setacciando il tutto nel silenzio e nella solitudine delle nostre coscienze. È forse così, attraverso queste fatiche titaniche, che potremmo continuare ad immaginare senza essere spodestati e colonizzati del nostro immaginario? In un saggio di recente pubblicazione, Perché siamo infelici?, Bruno Callieri scrive di desiderio e di ambiguità delle scelte e torna a noi, ai nostri pensieri desideranti, soffermandosi sul “desiderio antico, direi paleozoico, che è lo zoccolo duro che fornisce carica, intensità tensione al desiderio attuale, consentendogli però solo una realizzazione differita, sempre differita perché legata alla domanda inesausta di conoscere e possedere”. Già. È forse con queste consapevolezze che occorre stare attaccati al nostro immaginario attivo, al nostro proprio desiderio, senza tradire la “propria” autenticità, che è possibile Cambiare l'Immaginario del Cambiamento ed andare al mercato per acquistare solo quello che ci serve ? Pensiamoci e tanti Auguri per il Nuovo Anno che verrà ! Un 2011 che vedrà allestire nuovi spazi per Pedagogika.it che, per il piacere dei propri lettori e delle proprie lettrici, si farà più grande, accogliendo molti altri contributi ed articoli che troveranno il loro spazio nella versione on line. 6 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/ Pedagogika.it/2010/XIV_2/editoriale Dossier 7 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/ Giochi senza frontiere (ma non senza limiti) Per uno smascheramento ludico dell’idea di frontiera Proprio giocando ci si rende conto dell’assurdità dell’idea di frontiera, di quanto questa è perniciosa per la vita umana e soprattutto per la crescita dei giovanissimi e dei giovani; il gioco unisce, è simbolo (sym-ballo), la frontiera è diabolica, (dia-ballo: separare); il gioco è una attività universale ma ad essere universale è anche la diffusione dei giochi nei continenti La squadra del Belgio ha giocato il jolly! Guido Marchetti, secoli fa Raffaele Mantegazza* Molti ricordano la sigla, con due strani omini che esibivano le sigle delle reti televisive dei paesi partecipanti: SSR, TSI, A2, BBC, ORF, RAI. Molti ricordano il “fil rouge”, il gioco individuale che inframmezzava le gare a squadre (e che per l’Italia era sempre esiziale). Molti ricordano Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, gli ineffabili giudici arbitri che davano inizio alle gare con il loro “trois, deux, un… fiii!”. Molti ricordano le fortissime squadre targate D e GB che vincevano sempre sulla nostra povera I. Molti ricordano i commentatori della Rai che facevano il tifo per le squadre italiane: Rosanna Vaudetti, Guido Marchetti, Ettore Andenna. Molti ricordano la versione natalizia, Giochi sotto l’albero. Molti ricordano che la prima squadra italiana a vincere la finalissima è stata Como (mi si permetta un moto di orgoglio comasco!). Giochi senza frontiere è una trasmissione che fa parte dell’immaginario di un paio di generazioni che avevano il permesso di rimanere alzati solo per quella sera (al massimo anche per Rischiatutto) perché era comunque una trasmissione “educativa”. Purtroppo non ripetuta per gli eccessivi costi (e invece scempi quali L’isola dei famosi o La pupa e il secchione vengono via gratis?) questa trasmissione ci fece conoscere giocando l’idea di Europa; ma soprattutto ci abituò a pensare, molto prima di Schengen, che il gioco non ha frontiere. Proprio giocando ci si rende conto dell’assurdità dell’idea di frontiera, di quanto questa è perniciosa per la vita umana e soprattutto per la crescita dei giovanissimi e dei giovani; il gioco unisce, è simbolo (sym-ballo), la frontiera è diabolica, (diaballo: separare); il gioco è una attività universale ma ad essere universale è anche la diffusione dei giochi nei continenti (dal gioco della campana, al gioco dei dadi, ai giochi con la palla). Basta avere osservato un bambino o una bambina giocare spontaneamente con la palla per capire che quando Froebel inseriva la sfera tra gli oggetti che universalmente accendono la mente infantile non aveva proprio torto. Un’educazione ludica e un’educazione al gioco dunque è il miglior antidoto per 38 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere la retorica delle frontiere che ancora oggi purtroppo torna di moda. I nazionalismi e i localismi (apparentemente di segno opposto, in realtà segreti alleati) continuano a proporre separazioni artificiali tra i popoli e le genti, trasformandole retoricamente in separazioni sostanziali; tornano ad emergere i putridi spettri del razzismo pseudo-scientifico, della purezza della razza, delle differenze genetiche tra razze umane. Non siamo stati abbastanza bravi da gettare nella spazzatura della storia questi deliri, insieme ai loro prodotti: pogrom, massacri, lager. Grazie alla propaganda instancabile di marca razzista ed emergenzialista (ci invadono, vengono a toglierci le nostre tradizioni, militarizziamo le frontiere1), la frontiera è diventata uno spazio interno, una vera e propria interiorizzazione della paranoia dell’identità. Una identità chiusa a riccio, nel delirio di una autosufficienza e di una autarchia che credevamo a torto appartenete ad altre epoche storiche. Anche il linguaggio risente di questa specie di amore per i muri, le barriere, le dogane; che un bambino di sei anni impari l’inglese può anche essere giusto (è la lingua franca, è la lingua di internet ecc.); ma quante sono le reali possibilità che un bambino italiano incontri sulla sua strada, nella sua città o paese, un soggetto che parla solo italiano? E quante invece di incontrare un soggetto che parla solo arabo? Proviamo allora a proporre un corso di arabo in una classe prima della scuola primaria, e assistiamo alle reazioni scomposte di qualche Assessore padano che accusa di voler minare l’identità dell’Italia! Si vuole l’integrazione o lo scontro? La ricerca di una soluzione nonviolenta dei conflitti o la guerra? A giudicare dai continui attacchi a tutti i tentativi di integrazione scolastica dei ragazzi stranieri sembra che i fazzoletti verdi propendano per la seconda ipotesi. E poi siamo noi i violenti! Occorre dunque che le città e i paesi della nostra Italia (nostra: di tutti coloro che la amano, compresi i fratelli e amici che vengono da lontano) siano sempre più caratterizzati dal plurilinguismo, unico modo per abbattere le frontiere; il che non vale solo per le città di frontiera; occorre che vi siamo sempre più spazi scritti in più e più lingue e che tutti e tutte abbiano uno spazio per parlare e scrivere la loro lingua senza che questo si caratterizzi per la logica del ghetto; meno ghettizzazione e più contaminazione, meno quartieri dei ristoranti etnici e più confronto sulla stessa via tra una insegna in napoletano e una in greco, una in cinese e una in arabo. Salvare una lingua significa salvare un modo di dire il mondo, e quindi anche un mondo. Ma se la lingua e soprattutto il dialetto viene salvaguardato solamente in funzione desolidarizzante, per imbrattare i cartelli indicatori sulle strade con un incivile pseudo-bilinguismo d’accatto (misconoscendo tra l’altro la ricchezza dei dialetti del Nord Italia: o qualche padano crede davvero che un comasco e un bergamasco, parlando nei relativi dialetti, possano capirsi più di un cinese e un boliviano?); allora si perde quel che di universale c’è nel valore del dialetto e della lingua: dire se stessi e gli altri riconoscendo nella struttura del proprio parlare la presenza anche fisica dell’alterità. Una lingua pura è un incubo da distopia del XIX 1 Qualcuno ha minimamente idea di quanti soldi e soldati ci vorrebbero per militarizzare le frontiere in un Paese che ha 7500 km. di costa? Dossier 39 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere secolo, un oggetto protetto da frontiere protezionistiche, ma un oggetto morto, un aborto, un niente: salvare la lingua significa salvarne la storia, una storia che è cronaca di mescolamenti e sovrapposizioni, colonizzazioni e imbastardimenti. Il gioco e la lingua, dunque, come possibili salvezze dal delirio delle frontiere. Un delirio dietro il quale c’è la lucida ideologia del controllo (lucida per modo di dire, visto che sta portando all’autoestinzione della specie). Se la frontiera è qualcosa che ci separa dal male, dai barbari, da coloro che vogliono colonizzarci, e se la frontiera è qui perché i barbari sono già arrivati, allora il garantismo e la libertà individuale vengono attaccati alla radice da un sistema di saperi e di poteri che ha facile gioco perché sbandiera in modo ipocrita ma efficace i morti delle Twin Towers o di Madrid o di Londra; morti peraltro nei confronti dei quali il sistema sicuritario basato sull’universalizzazione dell’idea di controllo sarebbe del tutto inefficace; basta entrare nella hall di un aeroporto o nella sala d’attesa di una stazione per rendersene conto: al di qua dei terminali dove iniziano i controlli qualsiasi strage sarebbe possibile. O qualcuno crede che il terrorismo si possa fermare con i body scanner? E se uno volesse farsi saltare in aria in Piazza del Duomo? Il matrimonio di questa ideologia della sorveglianza con le nuove tecnologie rende possibile quello che è stato definito il carattere algoritmico delle strategie informatizzate di sorveglianza: è il computer a decidere quando intervenire (ad esempio per segnalare un sospetto) sulla base di algoritmi predefiniti; è il computer a stabilire dove si colloca la frontiera. Spetta all’algoritmo decidere fra un’immagine rubata da una telecamera e la successiva e non c’è più bisogno che un operatore decida se il volto che appare sullo schermo sia quello di un criminale. All’automatizzazione del terrore propria di al-Qaeda e del terrorismo islamico corrisponde l’automatizzazione del controllo: solo un rinnovato pensiero garantista e una azione politica sulle cause del terrore può fare in modo che non venga sgretolato, dall’urto di queste due posizioni dogmatiche che si alimentano a vicenda, quello che un tempo Walter Benjamin, ebbe a definire“il minuto e fragile corpo dell’uomo” Frontiere ovunque, dunque, e telecamere ovunque, perché ovunque è l’altro, portatore di una differenza con la quale non ci si vuole contaminare. Una situazione di emergenza che richiama la nefasta idea di mobilitazione totale che tanti danni fece dalla I Guerra Mondiale in poi. Ma se la frontiera è qui, siamo tutti mobilitati e, come in ogni frontiera che si rispetti, siamo tutti chiamati ad esibire i documenti. Per fare qualche esempio, i diritti del singolo, e soprattutto la sua privacy, vengono attaccati da programmi quali il Total Information Awareness che serve per compiere ricerche sugli aspetti quotidiani della vita (registrando l’utilizzo degli sportelli automatici, delle carte di credito, schedando i siti web visitati, entrando senza chiedere il permesso negli elenchi di iscrizioni alle scuole, negli archivi medici, nelle banche dati degli abbonamenti alle riviste, ecc.); o il Customer Relationship Management che analizza le transazioni commerciali effettuate in passato dal singolo soggetto, scheda e archivia le informazioni personali richieste per chi acquista on line, delinea i profili delle persone attraverso una serie di tipologie (si tratta di un sistema di origine puramente commerciale che viene oggi riconvertito dallo Stato in funzione antiterroristi- 40 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere ca, declinando le categorie attraverso criteri razziali e/o religiosi); o ancora il sistema di identificazione a distanza per riconoscere una persona dal volto o dall’andatura, un sistema che archivierà i dati della persona e si connetterà a un dispositivo nazionale di identificazione in grado di dare una identità precisa a chiunque si trovasse a passeggiare per una strada sotto l’occhio di una telecamera. Frontiera, controllo: chi appartiene alla mia generazione ricorderà lo strano effetto di straniamento e di sollievo provato quando, poco dopo Schengen, si scendeva da un aereo proveniente da Berlino o si oltrepassava Ventimiglia e non si veniva fermati da nessuno; il tutto accompagnato dal progressivo smantellamento fisico delle strutture dei frontalieri. Un sollievo che è difficile provare prendendo oggi un aereo per Washington o passando un security point in Kosovo o in Israele. Non è messo in discussione il diritto alla difesa dalla violenza; semmai è vero il contrario: come dimostrano le migliaia di morti innocenti queste frontiere sempre più presidiate, armate, informatizzate non solo sono inefficaci ma, alimentando la cultura del confronto armato e della soluzione violenta dei conflitti, non fanno altro che dare ossigeno alle peggiori derive terroristiche. I body scanner sono un punto su un piano inclinato che porta alla demonizzazione dell’altro, all’idea di chiusura ermetica della “nostra” cultura (“nostra”? Quella che usa cifre arabe? Quella del Dante che si ispira alla leggenda del Viaggio Notturno di Muhamad? Quella che mangia i carciofi alla giudia e i pizzoccheri fatti con il grano saraceno? Quella delle opere d’arte miste, bastarde, contaminate come il Duomo di Genova o i mosaici di Piazza Armerina? Quella che non sarebbe nemmeno nata senza i contributi dei giudei, degli arabi, dei lanzichenecchi, dei normanni? Ma proprio in Italia venite a raccontare la favola della purezza?) per evitare contaminazioni. E dire che ce lo avevano detto, alle elementari, che l’errore dei Cinesi era stato costruire la Muraglia, isolandosi così dal resto del mondo ecc. ecc… Povere maestre nostre, quanto poco abbiamo capito! Ma se è vero che il gioco e il linguaggio se la ridono delle frontiere, è altrettanto vero che il gioco ha bisogno di limiti, e così la lingua, e la vita; la contaminazione ha senso solamente tra dissimili ma ha effetti educativi se non è un semplice inglobare l’altro o farsi da lui inglobare. La frontiera separa, il limite aiuta a unire, senza confondere (o meglio: anche confondendo ma per gioco, dentro i limiti del gioco). Il gioco è gioco nel limite, è gioco con il limite; il linguaggio vive del limite, attraversandolo continuamente ma non negandolo: e quale gioco più divertente e trasgressivo, da ragazzi, che imparare da qualche amico straniero incontrato al mare come si dicono le parolacce nella sua lingua? Senza la differenziazione delle lingue, senza Babele, quale sarebbe il divertimento nell’andare incontro all’altro? Una Pentecoste continua può essere la mimesi di uno stato utopico: ma rischia di essere noiosa e poco educativa. La Torre di Babele (meglio sarebbe dire la torre di Scinaar, luogo fisico della costruzione di questa sorta di grattacielo ante-litteram, mentre Babele designa lo stato successivo alla confusione delle lingue) può non essere una punizione ma una possibilità di crescita per l’uomo; il Pensiero Unico si serve del Linguaggio Unico, erigendo frontiere per poterle poi negare con un imperialismo che è anche linguistico: la capillare diffusione di quell’aborto linguistico che è il web-english ne è la prova. Dossier 41 Pedagogika.it/2010/XIV_4/immaginario/Giochi_senza_frontiere Babele è invece il limite che invita a giocare l’infinito gioco delle lingue, scoprendo parentele, somiglianze, differenze, conflitti, soprattutto storia. Solo prendendo sul serio il limite è possibile giocare con le differenze; abbattendo le frontiere ma non per realizzare l’Unico, ma semmai per liberare la forza anarchica del Diverso. Così si può capire che il fico d’India si chiama così perché importato dalle Americhe2 (che però erano dette Indie) e che il tacchino negli States si chiama “turkey” per un complicato gioco di andirivieni linguistici (vene portato in Europa dalle “Indie” e dunque era una “cosa turca”, nome che tornò poi indietro nel continente americano3. La cultura europea è una invenzione4. Le culture che attraversano l’Europa tutti i giorni sono la realtà, feconda di futuro. Le frontiere le uccidono. Ma il limite, come in tutte le cose umane, non è posto da noi ma da chi ci circonda: il mondo, la natura, il cosmo. Per accedere alle zone polari artiche non occorre il passaporto ma ai controlli di frontiera è obbligatorio dimostrare di essere in possesso dell’attrezzatura necessaria per il difficile viaggio tra i ghiacci eterni5: è il ghiaccio a comandare e a decidere il limite, non l’uomo reso goffo da una uniforme. E’ la Terra a porci il limite; al suo sfruttamento, alla follia del capitalismo consumista e inquinante, agli ecocidi della British Petroleum. E’ l’Universo a porci limiti, a farci capire che siamo ospiti, a farci sentire la responsabilità della vita in un Cosmo di diversi, un Cosmo diverso. Un Cosmo con il quale giocare, “un pianeta intero con cui giocare” come cantava Eugenio Finardi. E il gioco con il limite è anche il gioco consistente nel rendersi amico il limite, nel farlo nostro compagno di giochi. I monaci tibetani, avendo il divieto di pregare, scrivono le loro preghiere su sassi che poi depongono sul fondo di un fiume, in modo che l’acqua, dilavando le parole, le trasporti con sé. Allo stesso modo le scrivono al contrario su pezzi di legno con i quali poi percuotono l’acqua “stampandovi” le parole. L’acqua: l’elemento più fluido e restio all’idea di frontiera ma al contempo il limite più chiaro alle nostre peregrinazioni di animali terricoli. Le nostre vite potrebbero essere un po’ più acquatiche; potrebbero essere caratterizzate da un continuo giocare di qua e di là dei limiti, da un parlarci e tradurci a vicenda, da un conflitto nonviolento tra uguali perché diversi. E soprattutto divertiti e leggeri. Come i giochi. Senza frontiere. *Docente di Pedagogia Generale e Sociale, Università degli Studi Milano Bicocca 2 Per la precisone dal Messico 3 Cfr. il bel libro Clandestini. Animali e piante senza permesso di soggiorno di Marco di Domenico, Torino, Bollati Boringheri, 2008 4 La parola cultura al singolare è sempre fonte di equivoci. Come quando si parla di un determinato comportamento di un soggetto, poniamo di un giovane marocchino residente a Milano, e si commenta “è la loro cultura”. Ma quale? Di Africano? Di nordafricano? Di marocchino? Di musulmano (ma siano sicuri che lo sia? Sciita o Sunnita?)? Di immigrato? Di prima o seconda generazione? Di solito si risolve il tutto accomunando le differenze in un unico contenitore: “quegli arabi islamici lì”. Tutti uguali, tutti nemici, tutti pericolosi. Il danno che questa perversione di origine massmediatica produce sulle giovani generazioni e sulla loro capacità di percepire le differenze è difficilmente sopravvalutabile. 5 Cfr. Christoph Ransmayr, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, Milano, Feltrinelli, 1984 42 Pedagogika.it/2010/XIV_4/ Temi ed esperienze L’intenzione della sezione “Temi ed Esperienze” è quella di offrire al lettore uno spazio di condivisione su riflessioni, percorsi, progetti, testimonianze, narrazioni, presentando una serie di contributi che, pur non negando l’esigenza dell’approccio e della definizione teorica, cerchino di ricollegarsi all’idea della pratica, di quell’ambito del conoscere, legato alle forme dell’azione, della sperimentazione e della verifica in continuo divenire ed in costante trasmissione. 78 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/ Etica e formazione nell’era delle nanotecnologie Pensiamo che l’educazione debba inerire ad un sapere complesso, a mappe cognitive flessibili, a strategie aperte, ad un metodo “che impara”, ad un pensiero connettivo: che debba far riferimento ad una conoscenza integrata, dialogica organizzativa, in grado di far dialogare i vari settori, le varie discipline, i vari linguaggi. Fernando Sancén Contreras*, Anita Gramigna** Quasi un’introduzione Il rapporto scienza-società, da sempre, è densissimo di implicazioni educative a livello sociale, non solo per la reciproca influenza che, fra l’altro, assume un evidente comportamento ricorsivo, ma anche perché questo rapporto, dialogicamente costitutivo, condiziona comportamenti collettivi, immaginario sociale, approcci cognitivi, idee, valori1: la scienza, scrive Morin, “è anche una parte della società che porta in sé ologrammaticamente il tutto della società”2. Va da sé che, tale nodo è, per sua natura, epistemico, cioè comprende sia la struttura della scienza che quella della società e, dunque, ha parecchio a che vedere con i processi di costruzione, organizzazione, creazione e divulgazone della conoscenza. Il che è anche un problema educativo, oltre che squisitamente filosofico. Ma, allo stesso tempo, ha parecchio a che vedere con le relazioni dinamiche che determinano la società. Inoltre: oggi più che mai la scienza e la tecnologia rappresentano un’icona identitaria della civiltà occidentale, sia perché portano alle sue estreme conseguenze – estreme ma non definitive – le premesse della scienza moderna fondata da Galileo, Bacone Cartesio3…, sia per la pervasività, prima di tutto pragmatica, poi anche simbolica, della tecnologia. Come negare che l’utilizzo massivo delle strumentazioni informatiche, del cellulare, - per non parlare dei nuovi apparati della biotecnologia e della biochimica, dei nuovi strumenti di diagnostica medica, dei farmaci di ultima generazione - ecc. non svolga una sorta di “pedagogia sociale” nel solle1 Cfr. F. Sancen, Dinamismo dell’etica: dinamismo della scienza. Processi di costruzione della Pòlis, Prefazione a Anita Gramigna (a cura di), Democrazia dell’educazione, Milano, Unicopli, 2010. 2 E. Morin, Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi. Il metodo, 4, Milano, Raffaello Cortina, 2008; tr. It. La Méthode 4. Les idées. Leur habitat, leur vie, leurs moeurs, leurs organisation, Paris, Editions du Seuil, 1986, p. 59. 3 Cfr. in particolare: Galileo, Il Saggiatore, 1623; Bacone, Novum Organum, (1620), tr. It., Nuovo Organo, in Scritti filosofici, Torino, UTET, 1986; Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Bari, Laterza, 1986, vol. I, tr. It, Discours de la méthode (1637). Temi ed esperienze 79 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione citare comportamenti, suggerire estetiche, evocare valori, identità, linguaggi, stili cognitivi… Ma quegli oggetti sofisticati che abitano i sogni dei nostri giovani e che si impongono nel quotidiano di tutti noi, disegnano anche una geografia spaziotemporale e soprattutto valoriale che ha bisogno di essere decifrata, compresa, descritta, affinché sia possibile per noi e per i nostri giovani interlocutori, orientarci, scegliere, agire. Con libertà. Ovvero, con quella competenza critica che ci mette nelle condizioni di operare scelte, sulla base di una gerarchia di valori. Di qui, la riflessione sull’etica che proponiamo, in quanto è nostra intenzione interpretare il fenomeno scienza secondo una chiave di lettura, appunto, etica. L’impianto teorico si rifà, da un lato, all’epistemologia batesoniana4 che deriva da Whitehead5 la centralità epistemica della relazione, dall’altro, alla sociologia della conoscenza che Morin espone soprattutto nei volumi che dedica al metodo. Si tratta di una pedagogia ermeneutica tesa più a comprendere i fenomeni che a spiegarli, e di un’educazione che mira alla costruzione degli orientamenti, delle chiavi di lettura, dei punti riferimento che ci aiutano ad interpretare il presente. E qui risulta fondamentale la lezione di Foucault6: la sua epistemologia concreta del contemporaneo, come opera di svelamento ideologico, diafanizzazione delle strutture che lo sostengono, analisi serrata, perché il fine etico dell’educazione non può che mirare all’azione critica di un pensiero in grado di riflettere su se stesso, capace di abbandonare i propri orientamenti per costruirne di nuovi. Il messaggio dello studioso, il filo rosso che cuce la lunga parabola del suo pensiero è qui, nella costante tensione epistemologica della sua filosofia, che potremo definire, un’epistemologia concreta. Foucault ci esorta a far affiorare le condizioni della conoscenza per giungere ad un’ontologia del nostro presente, a studiare il pensiero e i modi di vita. Ci suggerisce la necessità di analizzare i “focolai d’esperienza”, le forme della soggettivazione, perché non esiste il pensiero senza il pensiero di qualcosa. Solo in tal modo è possibile conseguire la consapevolezza critica dei dispositivi di assoggettamento e dunque reagire alla razionalità politica della contemporaneità, resistere al potere. È una pragmatica del sé. Tale epistemologia concreta approda così ad un fine propriamente educativo, ad un concetto di educazione come un “dare forma alla libertà” del soggetto che, in tal modo, si costituisce come soggetto morale7. 4 Cfr. Bateson G. e M. C. Bateson, Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 2002, tit. orig. Angels Fear. Toward an Epistemology of the Sacred, 1987; Bateson G., Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984 tit. orig. Mind and Nature: A Necessary Unity, New York, Dutton, 1979; Bateson G., Una sacra unità, Altri passi verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997, tit. orig. A sacred unity. Steps to an Ecology of Mind, San Francisco, Harper Collins, 1991; Bateson G:, Verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1977, tit. orig. Steps to an Ecology of Mind, San Francisco, Chandler, 1972. 5 Cfr. in merito F. Sancen, Le realidad en proceso de ser real, Città del Messico, Universidad Autonoma Metropolitana, Maggio, 2003. 6 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003, tit. orig. L’herméneutique du sujet, Seuil/Gallimard, 2001. 7 Ho approfondito questa riflessione nel saggio La forma della libertà. Antipedagogia e democrazia nel pensiero di Michel Foucault, in A. Gramigna e S. Cillani (a cura di), Democrazia dell’educazione, in corso di stampa. 80 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione La centralità del soggetto ci conduce all’ontologia critica di noi stessi e del nostro presente, fonte della nostra educativa della nostra creatività. L’éthos nella stagione delle nanotecnologie implica appunto creatività, consapevolezza critica, saggezza epistemologica8. Lo specifico educativo della relazione scienza-società Sin dalla sua origine, la scienza moderna si pone la questione etica: il nuovo sapere trova in sé il fine della conoscenza al di fuori di ogni giudizio di valori, sulla base di un approccio che è empirico e razionale e di un paradigma logico precipuamente disgiuntivo9. Dal XVII secolo in avanti, il suo logos non parlerà il linguaggio della morale, bensì quello della matematica: la nuova scienza sonda i fenomeni secondo giudizi di precisione e di previsione perché si ritiene che il suo linguaggio sia oggettivo e universale. Di più: si postula l’ordine sovrano degli eventi naturali, la loro fissità e prevedibilità, di cui il principio dell’intelligibilità cartesiana avrebbe svelato le leggi. Fuori dalla legge di natura, la conoscenza non è scientifica e dunque tende ad imporre oggettività ed ordine al soggettivo, al qualitativo, al caos, all’imprevisto; in una parola: al complesso10. La realtà viene così “ridotta” ai principi dell’intellegibilità logica che porterà all’esaltazione delle tassonomie e delle classificazioni come strumenti esatti di spiegazione del reale. Crediamo che sia molto interessante studiare – nel senso derridiano della decostruzione11 – le retoriche, le narrazioni, insomma, tutta la letteratura che fiorisce intorno alle nanotecnologie in quanto prodotto più evoluto della scienza contemporanea. Ci sembra stimolante capire la struttura del discorso, ovvero il congegno attraverso il quale questo nuovo universo di simboli chiamato nanotecnologia entra a determinare le dinamiche scienza-società e si impone, direbbe Foucault12, con un sentimento di verità. E la questione della verità, da sempre, storicamente si trova associata a quella dell’etica. Cosa che nuovamente ci riporta agli ambiti dell’educazione. Ma torniamo alla rivoluzione “nano”: intanto, sarebbe da osservare che, con ogni probabilità quella tendenza atomistica e dicotomica che abbiamo denunciato ha favorito questi esisti, infine, che tali “manufatti” tecnici della scienza hanno aperto prospettive di soluzione ai problemi dell’umanità davvero straordinarie. Ma, a questo paradosso se ne aggiungono altri, del tutto peculiari della nanoscienza, paradossi che inaugurano nuovi modelli di pensiero. Per esempio, nella scienza contemporanea esiste 8 Cfr. F. Sancen, (a cura di), La ética y los avances recientes de la ciencia, Città del Messico, Universidad Autonoma Metropolitana, Giugno, 2005. 9 Cfr. fra gli altri: E. Morin, Le idee, …, cit. p. 238 e 242-246. 10 Cfr. Bocchi G., M. Ceruti, La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985 11 Derrida J., La scrittura e la differenza , Torino, Einaudi, 1971, tit. orig. L'écriture et la difference, Paris, Éditions du Seuil, 1967; Derrida J., Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997, tit. orig., Marges de la philosofphie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1972; 12 Cfr. M. Foucault, L’Ordr du discours, Paris, Gallimard, 1971, M. Foucault, Microfisica del potere, cura e trad. it. di A. Fontana e P. Pasquino, Torino, Einaudi, 1977; L’Herméneutique du sujet. Cours au Collège de France, 1981-82, a cura di F. Gros, Paris, Gallimard-Seuil, 2001; trad. it. Di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003. Temi ed esperienze 81 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione un ribaltamento di senso sulla percezione quantitativa alla quale siamo abituati: il piccolo è immensamente grande, ed il valore scientifico, tecnico ed economico dell'immensamente piccolo è superiore quanto più è, appunto, piccolo. Allora scopriamo che il piccolo è enorme non solo per il suo valore – scientifico, economico e tecnico – e per il suo potere di manipolare la natura, ma è enorme anche per il numero elevatissimo di piccolissime molecole che la prospettiva nanometrica ci consente di lavorare. Così dobbiamo pensare che la logica aristotelica della non contraddizione qui deve essere integrata da un’altra logica dove possono convivere i contrari. Inoltre, dobbiamo anche imparare che pensare il mondo “nano” implica scoprire ed elaborare regole procedurali differenti perché nella manipolazione su scala nanometrica cambiano le proprietà stesse della materia. Così tras-formiamo la realtà ma tras-formiamo anche il pensiero. Ma, “la trasformazione della realtà e la trasformazione della società si intrecciano e si alimentano l’una con l’altra”13. Lo slittamento di questo nuovo atteggiamento, di questo nuovo modo di guardare alla realtà inaugurato dalla scienza moderna verso il senso comune, ha modificato i valori della società. In ogni teoria scientifica, così come dietro l’elaborazione di qualsiasi manufatto tecnologico, ci sono postulati metafisici, posture ideologiche, paradigmi scientifici, epistemologie implicite. Allora l’educazione deve tener conto di questa sottesa pedagogia sociale, delle ideologie implicite che i prodotti della scienza contemporanea veicolano, e deve elaborare delle epistemologie che ci aiutino a comprendere come funziona il nostro pensiero e come si tras-forma a contatto con il nuovo ambiente tecnologico che abitiamo. Siamo infatti convinti che sia necessaria la fondazione di una consapevolezza epistemologica che orienti l’educazione verso una interpretazione efficace del rapporto ontologico che intercorre fra la scienza, la tecnologia e la società, perché quel rapporto ha importanti implicazioni etiche. Di più, riteniamo che abbia molto a che vedere con la sua costruzione. La scuola partecipa di questa grande sfida formativa proponendo modelli educativi sempre più orientati verso un sapere tecnocratico, perché è questo che le chiede il mercato neoliberale14. Ed è un bene che l’istruzione fornisca gli alfabeti della tecnologia che utilizziamo, è un bene, infine, che aiuti i giovani a costruire un sapere che sia in sintonia col mondo che abitano e con le sue economie. Non è un bene che tale formazione non li aiuti a capire il senso delle cose, il significato profondo della tecnologia, l’orizzonte esistenziale che essa ci disegna davanti agli occhi, nostro malgrado. Non è un bene perché tale tecnicismo elementare li priva della possibilità di orientarsi nel multiforme universo simbolico che respirano e di riconoscerne i percorsi di significazione. Questa tecno-istruzione li rende acritici, 13 E. Morin, Le idee, cit. p. 247. 14 Cfr. A. Gramigna, Innovazione e formazione nel mondo del mercato globale, in A. Gramigna, M. Righetti, A. Ravaglia, Le scienze dell’innovazione. Nuove frontiere educative nel sociale, Milano, FrancoAngeli, 2006. 82 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione dunque meno liberi e, in ultima analisi, li priva della possibilità di esprimere le loro opzioni etiche. È uno dei tanti paradossi della complessità: proprio quella tecnologia che ha ampliato la libertà nella possibilità di soddisfare i bisogni dell’umanità, nonché di evocarne di nuovi, ora sembra suggerire una formazione tecnocratica tesa alle prassi acritiche, alle competenze veloci, spendibili nell’immediato, alle strumentazioni concettuali, culturali e cognitive atomistiche ed iperspecializzate … al tempo breve; quel tempo veloce ed opprimente che non ci lascia il fiato per gli interrogativi di fondo sul senso delle cose. Sembra suggerire una educazione asfittica e, nella sostanza, poco libertaria; nonché una ricerca scientifica iperspecialistica, atomizzata, disgiuntiva, solipsistica. Alcune riflessioni conclusive Pensiamo che l’educazione debba inerire ad un sapere complesso, a mappe cognitive flessibili, a strategie aperte, ad un metodo “che impara” - per citare una felice espressione di Bachelard15 - ad un pensiero connettivo: che debba far riferimento ad una conoscenza integrata, dialogica organizzativa, in grado di far dialogare i vari settori, le varie discipline, i vari linguaggi. Si tratta di un’antropologia della formazione che implica una costante e critica diafanizzazione epistemologica sulla struttura profonda del nostro agire conoscitivo, nell’ecologia di una conoscenza che si fonda sull’ontologia della relazione. La centralità della relazione ci porta a riconsiderare criticamente sia il principio di disgiunzione sia quello di esclusione, sia, infine, il frazionamento delle conoscenze. Facciamo riferimento ad un sapere “meticcio” e ad un’epistemologia aperta alle contaminazioni16, e postuliamo la convergenza delle scienze e delle discipline umanistiche. A questo proposito, noi crediamo che possa essere utile valorizzare la competenza linguistica e narrativa anche nel suo versante metaforico. Crediamo che tutto il pensiero, compreso quello scientifico e\o tecnologico si serva di rappresentazioni per spiegare i fenomeni e utilizzi linguaggi che, a loro volta, sono strutturati secondo specifiche logiche che chiamiamo grammatiche. Tale densità simbolica si differenzia, oltre che nelle procedure e nei prodotti, sia per spettro interpretativo sia per autocosapevolezza in senso epistemologico, a seconda dei vari ambiti di conoscenza. Si ritiene pertanto che una conoscenza epistemologica sulla natura simbolica e rappresentativa del procedere tecno-scientifico e dei suoi miti e dei suoi linguaggi, così come una competenza narrativa sia all’ascolto sia al resoconto, possono aiutare nel processo di costruzione di quella conoscenza che conduce al sapere complesso. Tutto il pensiero, compreso quello scientifico e sperimentale, si serve di rappresentazione e simboli le cui strutture organizzative e le cui epistemologia devono essere rese il più possibile intelleggibili prima di tutto ai ricercatori stessi che le adoperano e infine 15 Bachelard G., La formation de l'esprit scientifique. Contribution a une psycanalyse de la connaissance objective, Paris, PUF, 1977. Cfr. anche Morin E., Il Metodo come disordine organizzatore, Milano, Feltrinelli, 1994. 16 Cfr. a questo proposito A. Valleriani, La svolta neobarocca dell’educazione, Milano, Unicopli, 2009. Temi ed esperienze 83 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione a chi ne “consuma” i prodotti. Spesso la scienza, pur essendo molto evoluta sotto il profilo tecnologico, non è pienamente consapevole della natura rappresentativa dei suoi procedimenti e resoconti. Pertanto manifesta una sorta di carenza epistemologica sui processi di costruzione, organizzazione e svelamento della conoscenza di sua pertinenza. La cosa ha evidenti conseguenze sulle prassi, perché la struttura e la natura del discorso condiziona i procedimenti scientifici, ne determina l’euristica, vincola le domande che ci poniamo e le risposte che cerchiamo. Risulta quindi importante maturare una competenza epistemologica e, in particolare, una epistemologia del pensiero che sostiene le rappresentazioni elaborate dal linguaggio scientifico nell’affrontare la conoscenza tecnologica di ultima generazione, di qui, la rilevanza di un ampio spettro semantico nelle metafore utilizzate dalla letteratura scientifica sulla nanotecnologia. Di qui, la necessità e, anzi, l’urgenza di acquisire i codici di lettura che organizzano il “discorso” sociale e scientifico sulla nanoscienza e sui suoi preziosi manufatti. La complessità fenomenologica della soggettività può avvalersi di tale competenza, la quale può far fronte ai limiti del riduzionismo astratto, dell’oggettività, ma, al contempo, utilizzarne le spiegazioni. Siamo consapevoli che gli scienziati non necessariamente sono epistemologi e tuttavia crediamo che questa disciplina, o meglio, questo “sguardo critico” possa efficacemente orientare, nella consapevolezza, sul senso profondo che hanno le loro procedure senza limitarsi alla correttezza metodologica e tecnica. Molti scienziati avvertono chiaramente questa esigenza soprattutto ora che l’avvento della nano scienza impone a loro come a noi tutti competenze trasversali, approcci multi e interdisciplinari, codici di lettura del mondo “meticci”, metodi di analisi flessibili. Naturalmente, questi snodi si dipanano alla luce di un’epistemologia, di una “presa di parte” che fa riferimento ad alcune idee cardine: la natura sistemica del soggetto, la rilevanza pratica dell’epistemologia, l’ontologia della relazione. Questa prospettiva “ecologica” valorizza l’estetica17, prima di tutto, “metodologicamente”, in quanto tale sensibilità allena il nostro pensiero a cogliere le connessioni interne ai fenomeni come le interrelazioni che li rapportano ai contesti, nonché i nessi fra i contesti medesimi; poi perché l’estetica è la via formativa dell’etica. Per Gadamer, l’autenticità dell’esistenza, la sua bontà, si rende piena proprio in questo processo di integrazione nella totalità che è conciliazione armoniosa del soggetto - o della singola esperienza - nella comunità e nel flusso esperenziale. Ed è proprio esaltando la portata di verità dell’atto estetico che Gadamer18 coglie il significato interpretativo dell’avventura umana, contro le dicotomizzazioni scientifiche che vogliono separare l’estetica dalle altre sfere dell’esistenza. Per questo l’estetica è portatrice di verità, in quanto ci svela l’opera, ci consente di coglierne il senso, 17 L'estetica è un ambito della filosofia che affronta il problema del bello, ma, in particolare, nel pensiero di Bateson, essa rappresenta lo studio dei processi attraverso i quali la bellezza viene creata e riconosciuta. Cfr. G. Bateson, Una sacra unità. Altri passi verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1997. 18 Cfr. H. G. Gadamer, l’attualità del bello, trad. it. R. Dottori, Genova, Marietti, 1986. 84 Pedagogika.it/2010/XIV_4/temi_ed_esperienze/etica_e_formazione attraverso un processo tras-formativo, mentre coinvolge la persona nella sua totalità. La sensibilità estetica pone in evidenza la natura dinamica della realtà e sul suo rapporto di svelamento-nascondimento che sempre la metafora anticipa ed esalta. Di conseguenza, ha un ruolo propriamente conoscitivo ed attiene alla formazione. Di più, ci aiuta ad indagare intorno ad una forma gnoseologica particolare ed a valutarne il senso etico, ovvero, ci aiuta a riflettere sul bene. Il campo di azione dell’estetica è l’immagine, che è una struttura della conoscenza, una radice del pensiero, suo cuore emozionale, sua anima sensitiva, elemento basilare del sapere, sua radice sensibili, infine: presupposto per l’allestimento delle rappresentazioni. Si profila così un’idea di educazione che contempla, nella conoscenza, sia i contenuti che i processi, nonché la possibilità di una revisione costante degli uni e degli altri, entro una prospettiva sistemica del sapere. Una conoscenza complessa che considera il ricercatore stesso incluso nel contesto che è oggetto della sua analisi. Gli scienziati non elaborano solo processi scientifici e prodotti tecnologici, creano anche “manufatti” linguistici, entro raffinate formalizzazioni: confini che segnano gerarchie organizzate di segni,“cornici”, come le ha definite Bateson. Ma esistono anche manufatti linguistici - principi esplicativi - che la scienza spesso considera fuori cornice e che tuttavia, talvolta a sua insaputa, interagiscono nell’intreccio co-costitutivo scienza-società. Studiare in questi interstizi di significazione può essere utile a quell’opera di smontamento che riteniamo essere un utile fine-processo formativo. Perché? Perché i confini non sono solo linee di demarcazione ma anche punti di passaggio, strade comunicative, zone franche. Di qui, la necessità di educare il pensiero, lo sguardo, il linguaggio a cogliere le relazioni fra le cose. Ed è in questo senso che parliamo di una formazione estetica, una formazione che ci aiuti a coniugare il logos scientifico, abile nel tracciare confini, nel cogliere le differenze, nel siglare le cesure, con quello delle emozioni, più immediato nel percepire i processi e i nessi. Una formazione che ci aiuti a capire come si costruisce e si utilizza la tecnica, ma anche a decifrarne lo spessore simbolico, la carica culturale, i risvolti economici: le conseguenze sul terreno dell’etica. *Docente presso la Universidad Autónoma Metropolitana Xochimilco, di Città del Messico ** Docente presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara. Temi ed esperienze 85 Pedagogika.it/2010/XIV_3/temi_ed_esperienze/l'idea_di_lavoro 86 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci 104 Volendo andare da quelle parti, ho cercato Il testimone inascoltato di Haenel ha diviso la di accumulare depliant e guide illustrative Francia alla sua uscita. Come dice lo stesso sulla città polacca di Cracovia. Uno di que- Haenel in un’intervista “Non dimenticherò sti, giuro, porta sulla testata una fotografia in mai la prima volta che ho visto Jan Karski. bianco e nero di Auschwitz, in basso com- Era nel film di Claude Lanzmann Shoah. Le pare una didascalia pubblicitaria che invita immagini sono del 1977, quando lui ormai a visitarlo con tanto di prezzi e orari del tour. vive in America, dove insegna. Davanti alle Una scritta rossa in inglese esorta a rompere telecamere non riesce a parlare. Sono trenogni indugio per quanto suoni inquietante, tacinque anni che non viene interrogato sul se non addirittura blasfema, sullo sfondo suo ruolo di “messaggero” dell’Olocausto. dell’immagine di un Alla prima domanda, campo di concentramenesce dal campo visivo. to nazista: “We will pick Quel posto vuoto mi you up!” Letteralmente, ha profondamente verremo a prendervi! colpito. Volevo riFrancamente, faremmo empire il suo silenvolentieri a meno, grazio. Ma per farlo ho zie. Ma “Business is buvoluto raccontare di siness”, si dirà. Oppure, nuovo ciò che Karski forse, no. Esistono dei aveva detto nella sua limiti?! Comunque sia, biografia, uscita nel occorre ammettere che 1944, e poi nell’inil depliant fa un certo tervista di “Shoah”. effetto: Auschwitz come Il libro ha tre parti: Gardaland? parola, scrittura, siCome un riflesso conlenzio. Il lettore che dizionato, mi è venuto arriva al terzo capitolo subito in mente un rosa tutto quello che c’è manzo, Il mio olocausto da sapere su Karski. Io di Tova Reich, pubbligli faccio una propocato due anni fa da Eista di finzione. Si può naudi. Sponsorizzato accettare o rifiutare”. dalla bravissima Cynthia La polemica è partita Yannick Haenel Ozick (viricordate il suo da qui. Dal fatto se Il testimone inascoltato racconto “Lo scialle”?), sia lecita la finzione. Guanda, Parma 2010, è un testo da leggere. Su questo punto la pp. 168, € 15,00 Tova in ebraico signirisposta di Haenel è fica “buona”, ma lei è molto interessante: cattivissima. E’ ebrea, “La finzione può esse- Ambrogio Cozzi Angelo Villa A due Voci Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci moglie dell’ex direttore dello United States Holocaust Memorial Museum. Non lo dico per pignoleria o pura informazione, ma solo perché credo che chiunque avesse scritto un libro come quello senza avere le credenziali della Reich sarebbe finito probabilmente massacrato sotto il fuoco di fila della critica letteraria e non solo di questa. Il mio olocausto ha una scrittura brillantissima, tagliente: è una satira feroce del marketing economico e morale che si è sviluppato intorno a una tragedia. Anche lì, si parte da Auschwitz… Insisto, leggetelo. Può darsi che in un primo momento appaia un po’ scioccante, quasi irritante, ma poi… fa riflettere, pensare. La banalizzazione dell’orrore, la sua trasformazione in mercato rappresenta pur sempre un modo per non volerne sapere, per azzerare la storia, per svuotare la memoria. L’essenziale è che alla fine le persone siano indotte a esibire un atteggiamento di sufficienza, di ostentata superficialità, di un ossequio di maniera, del “sì, sì, questo lo sappiamo già” o “dell’uffa , che noia” . Come se il male o la sofferenza avessero una scadenza, come le mozzarelle. Il tempo da dedicargli si consuma in fretta, poi si passa avanti. O, meglio, ci si candida a ripetere. Il trucco sta nel far finta di ignorare il meccanismo, a questo ci pensa la rimozione. Ma restiamo in Polonia, Paese di profonda tradizione cattolica; restiamo a Auschwitz, o più esattamente a Oswiecim, come si chiama in quella lingua. Yannick Haenel ha scritto un intenso romanzo sulla storia vera ed esemplare di Jan Karski. Chi era costui? Un polacco, un cattolico impegnato nella Resistenza con un compito difficile, due volte difficile. Vuole un certo dir comune, il che non comporta necessariamente la falsità, che la popolazione di quel povero Paese stretto tra le maglie di una tenaglia annichilente (tanto per intenderci, la Germania di Hitler, re uno strumento della conoscenza. Come può uno storico parlare del lutto, della disperazione, della debolezza? Il romanziere invece può tentare di farlo”. Questa domanda diviene molto importante, poiché coglie un aspetto di tutte le ricostruzioni storiche, o forse della stessa Storia. Che posto hanno le emozioni, gli scontri tra differenti culture, nella Storia? E’ possibile uscire da ricostruzioni costruite dai vincitori? Le vittime dove potranno prendere voce? In fondo il libro di Haenel ridà voce ad una verità molto semplice: in Occidente si sapeva che cosa stava succedendo nei campi di sterminio. La sua ricostruzione romanzesca situa questo fatto. Certo, buona parte del racconto è frutto della fantasia dell’autore, soprattutto per quanto riguarda le reazioni, le difese nel non volerne sapere. Questo però non può cancellare il senso di inquietudine che ci assale, che ci impone di fare i conti con questo fatto. Qui la Storia si deve incrociare con la storia di chi ci ha provato, di chi ha preso parola, per ritrovare le ragioni di chi fu sconfitto e anche quelle della sconfitta. E’ un problema centrale, sul quale si gioca il rapporto con la memoria. Non una memoria fissata per sempre, ma una memoria che ritrovi le sue coerenze interne, che si interroghi sul come e il quando di queste coerenze. Scriveva Nietzsche “Io non posso aver fatto questo, dice la mia memoria. Io non posso aver fatto questo, dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine è la memoria ad arrendersi”. Memorie sull’Olocausto abbiamo avuto occasione di leggerne. Da Primo Levi a Jan Amery si è assistito al tentativo costante di ritrovare la parola, di provare a dire l’orrore. E questo dire ha fondato un nuovo modo di scrivere. Mancavano testi- Cultura 105 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci da una parte, e la Russia di Stalin, dall’altra) non nutrisse grande sentimenti di ospitalità nei confronti degli Ebrei. Si racconta di contadini che riportavano ai criminali nazisti chi era riuscito a sfuggire dai campi di concentramento… Insomma, queste sono le premesse… Karski, dicevo, si assume o viene delegato a svolgere un compito che definire arduo è un eufemismo. Paradossalmente, per due motivi, non uno solo. Il primo è il più evidente e indubbiamente il più pericoloso. Deve muoversi nella Polonia occupata dai nazisti senza farsi catturare. E, nel qual caso ciò succeda, e di fatto succederà, sa bene il trattamento che lo aspetta e cosa i fervidi hitleriani vogliono da lui. Karski riuscirà a sopravvivere a tutto questo. A entrare nei ghetti e persino, uscendone poi, in un lager per vedere coi suoi occhi la realtà di un dramma che ha pochi eguali nella storia, pur ignobile, del genere sedicente umano. A questo punto, si dirà, appare poco comprensibile o intuibile la seconda difficoltà. Eppure, quest’ultima non appare inferiore alla prima. Più sottile, ma al fondo non meno perversa. Il nostro eroe, perché questo è, deve prodigarsi presso gli Alleati, in Inghilterra e in America per convincere politici, e non solo, dell’esistenza e delle dimensioni di quel crimine. O forse, ed è peggio, di quello che in verità già sanno: “A volte penso che fosse impossibile sentire ciò che avevo da dire: nessuno può ascoltare che si massacra così una parte del mondo, eppure il mondo intero sa. Tutti sanno che una parte del mondo massacra l’altra, eppure è impossibile farlo intendere.” E’ quest’ultima una questione importante cui, in genere, non si presta grande attenzione. Ci si interroga spesso intorno al credere, si pubblicano articoli e libri, si animano dibattiti e scontri feroci. Raramente si indaga, invece, il versante opposto, quello cioè che si lega al non credere o meglio al non voler credere anche 106 monianze su quella che Levi definiva “la zona grigia”. Forse queste testimonianze non si sono volute cercare, presi dalla fretta di chiuder un capitolo, di voltare pagina per non lasciarsi prendere dall’inquietudine delle proprie piccole viltà, dai minimi gesti quotidiani che hanno fatto voltare la testa. Oggi nuovi approcci storici hanno tentato di ridare la voce a chi ha subito la storia, a chi faticosamente nella storia ci si è trovato coinvolto. Cercare di ricostruire quelle storie, di sottrarle al silenzio, è stato un compito meritorio dell’Oral history. Proprio in quegli studi si è visto come la memoria fosse labile, meno certa. In quella frattura d’incertezza si inserivano però ricostruzioni che dicevano qualcosa di più dei soggetti che parlavano. Il dire tradiva qualcosa che andava oltre, ritrovava nelle sue esitazioni speranze e paure, il basso e l’alto, che non apparivano più banalmente contrapposti, ma si intersecavano contaminandosi. I fatti venivano contaminati dalla presenza dei soggetti. Non c’era un film di cui i soggetti erano spettatori, ne erano protagonisti, ed entrando in scena la mutavano, ne davano coloriture inattese. Perché questa lunga digressione? Credo che nella polemica Haenel abbia ragione in parte, anche se non sottovaluto i pericoli che la ricostruzione romanzesca può introdurre nella storia. Il problema centrale è quello che Nicola Gallerano definiva come “uso pubblico della storia”, cioè dello scontro che sulla memoria storica si gioca per rappresentarci nell’oggi. Discorso spinoso, che non coinvolge solo gli “altri”, coloro che negano l’Olocausto come è avvenuto in questi giorni da una cattedra dell’università di Teramo. Se solo pensiamo alle polemiche sorte all’uscita del testo di Claudio Pavone Una guerra Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/a_due_voci quando i segnali che emanano da una certa realtà sono incontrovertibili, capaci di smuovere la diffidenza del san Tommaso più testardo. Cosa supporta una simile cocciutaggine? La paura ? Il timore che le implicazioni che ne derivino possano mettere ciascuno davanti a cambiamenti che non saprebbe affrontare, ma che comunque, piaccia o meno, bussano alla sua porta? O, forse, ancora, c’è qualcosa che viene prima, che anticipa qualsiasi pensiero sulle conseguenze e che fa dire di no, subito. Come fosse un modo per rifiutare innanzitutto una parola degli altri che disturba, invade le certezze a cui siamo narcisisticamente attaccati, come un pezzo della nostra identità. E’ una questione che, in definitiva, riguarda anche il problema del male, nella sua sostanza più intima. Il male è tale in sé? O, il male cresce, si sviluppa perché al fondo siamo sempre disposti a pensare che poi, alla fin fine, a guardar bene, non è del tutto così, che “si, ma…” In altri termini, il male si estende perché non gli si crede, perché gli si nega un corpo, una consistenza, un’evidenza che, per altro, lui non si preoccupa minimamente di occultare. Nel mentre noi continuiamo a ribadire che… E’ il destino dei testimoni, la croce cui li condanna paradossalmente la loro stessa condizione, quello cioè di non essere ascoltati. Leggendo il libro ho pensato che, da un punto di vista letterario, non era facile scrivere un testo così. Romanzare, ma senza degenerare nel letterario, nel manierismo. Haenel è riuscito a farlo più che egregiamente. La sua scrittura è sobria e tagliente, solida e scarna nella giusta misura. Bravo e, soprattutto, grazie. “Il testimone inascoltato” costituisce un libro davvero prezioso, vale più di qualsiasi trattato di sociologia politica o di psicologia sociale nel mostrare quel che è il mondo e gli uomini che lo abitano. Il miglior antidoto a tutti i Gardaland a venire… civile, ci rendiamo conto che il problema tocca trasversalmente tutti, con poche distinzioni di parte.. Ritorniamo allora alle testimonianze, a quelle alte come quella di Levi e Amery, e ad altre dimenticate, poiché “la confessione - come scrive Maria Zambrano - è il linguaggio di qualcuno che non ha annullato la sua condizione di soggetto; è il linguaggio del soggetto in quanto tale. Non sono i suoi sentimenti, né i suoi desideri, né le sue speranze; sono semplicemente i suoi sforzi di essere”. Se il romanzo può contribuire a farci ritrovare questi sforzi… Cultura 107 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/ Scelti per voi a cura di Ambrogio Cozzi libri libri, cinema, musica 108 Marco Mastella Sognare e crescere il figlio di un’altra donna ed. Cantagalli, Siena 2009, pp.256, €16,50 Il libro uscito nel 2009 è una interessante riflessione sull’esperienza adottiva. Come scrive nella presentazione l’autore, il testo “...è rivolto in particolare ai genitori, naturali,adottivi o aspiranti tali”, in pratica un utile strumento per il difficile compito di genitore. Il libro “...Nasce da un lungo lavoro di riflessione e rielaborazione della propria esperienza da parte di un gruppo di genitori adottivi che si sono ritrovati periodicamente”, è frutto di un confronto ed una condivisione di sogni e mondi interni di genitori adottivi e di figli. Una esperienza condotta sapientemente da uno psicoanalista che si interessa da tempo di bambini, di adolescenti e di famiglie. Da un lato emergono dal testo le potenzialità di un metodo di lavoro di gruppo che ha consentito di fare emergere la individualità, i sentimenti, i sogni attraverso l’esercizio quotidiano della funzione genitoriale e il mettersi in gioco di ciascun partecipante per riflettere e condividere; sullo sfondo la guida di Marco Mastella, neuropsichiatra infantile e psicoanalista “...che utilizza la competenza psicoanalitica inaugurando un metodo libero e associativo che permette al gruppo di riunirsi e liberamente associare i propri pensieri come fosse un trattamento psicoanalitico” (Postfazione di C.Artoni Schlesinger pag.240). Merito dell’autore e conduttore di questa esperienza formativa con le famiglie è l’aver creato un contesto estraneo a “fantasmi” giudicanti di qualsiasi natura e pertanto in tutto il libro si percepisce la spontaneità e si colgono spunti di sostegno e supporto alla genitorialità, compito difficile non solo per chi intraprende l’avventura adottiva. Mi sembra interessante partire dal disegno di copertina per segnalare che in ogni sua parte il libro esprime contenuti che mettono insieme storie e vissuti . L’immagine riporta una bambina ed un aquilone, sopra l’aquilone un “segno”, il simbolo dell’infinito: mi ha incuriosito cercare il senso di quella traccia. Nel capitolo “Lo spazio di ascolto in gruppo “libero e associativo” di problematiche contingenti e attuali. Le abitudini quotidiane: la comunicazione gestuale e linguistica, la scuola”, il disegno è riportato quale aneddoto clinico di una bambina-ragazzina adottata in tenera età che aveva mantenuto i contatti con la madre naturale e poi era stata “presa” in adozione. Attraverso questi pochi elementi si comprende come il disegno metta insieme un livello di struttura immediato (l’aquilone) ed uno più profondo lontano, l’infinito; esso esprime visivamente la doppia tematica e la possibilità di tenerla insieme. Ho collegato questa immagine ad un’altra, quella di un bimbo solo su un molo di un lago, fiume o mare aperto, riportata sulla copertina di un altro libro uscito nel 2005 sulla stessa tematica, dal titolo “Un figlio venuto da lontano”, edizioni San Paolo. La presentazione e la recensione avevano trovato spazio su questa rivista. Il dottor Guido Cattabeni, curatore di quel testo, si interessava all’adozione e all’affido come risposta al bisogno e al diritto fondamentale di ogni bambino di crescere in una famiglia e poneva una serie di domande: che differenza c’è tra un genitore biologico e uno adottivo? Quali difficoltà e quale preparazione per una coppia che vuole adottare? Quali risposte dare ad una bambino adottato quando chiede delle sue origini? Come affrontare l’adozione internazionale?. Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi Ho volutamente fatto questo parallelo perché il libro di Marco Mastella sembra rispondere a questi quesiti ed insegnare una metodologia operativa di formazione e supporto creativa attraverso i vissuti, i sogni, le attese, le delusioni e le soddisfazioni di un gruppo di genitori adottivi. Il sottotitolo “Ascoltando e sperando con i genitori adottivi” rende l’idea di un percorso di formazione e di trasformazione per i genitori. L’esperienza di collaborazione tra l’Associazione Famiglie per l’Accoglienza dell’Emilia Romagna con il dottor Mastella è di oltre una decina di anni, ma il percorso di gruppo per affrontare i temi più sentiti è più recente, e per le famiglie coinvolte in questo percorso ha rappresentato un momento di particolare intensità partecipativa. Tanto che il Presidente dell'Associazione nella presentazione del libro scrive “E' diventata un’esperienza positiva e costruttiva per ciascuno di noi, forse si può dire che non siamo quelli di prima”. Emilia Canato Palo Ferliga Attraverso il senso di colpa ed. San Paolo, Milano 2010, pp. 184, €13,00 Paolo Ferliga, psicologo-psicoterapeuta e docente di filosofia e storia in un Liceo Classico di Brescia affronta in questo libro le pene e i disagi dell’uomo contemporaneo, offrendo però anche una riflessione per una via di cura. La possibilità di riscatto parte dal sentimento della colpa. Il riconoscimento della colpa e la sua valenza di sofferenza, anche patologica, non deve spaventare o spingere ad adottare ogni espediente per sfuggirla, eliminarla o esternarla; deve essere vista, valutata e riconosciuta. Solo affrontandola l’individuo può trovare la propria individualità, il proprio progetto di vita, che inevitabilmente si confronta con la dimensione archetipica . L’uomo, in sintonia con la dimensione più profonda e spirituale, trova una strada creativa nella cura dell’anima e la colpa diviene quindi la spinta per un percorso di introversione, per un viaggio dentro di sé, per ritrovarsi. Il riferimento è al pensiero di C. Gustav Jung, e al processo di “individuazione” come da lui teorizzato nella realizzazione concreta del Sé tramite l’Io: nella pratica psicoterapeutica il trattamento inizia, per l’uomo occidentale, dalla consapevolezza della colpa nella doppia dimensione individuale e collettiva. L’autore rende vivo, attuale e concreto questo processo attraverso sogni e testimonianze di pazienti; attraverso la lettura e i riferimenti teorici accompagna il lettore nel racconto del percorso di cura del disagio emotivo. Il libro si sviluppa in sette capitoli e i titoli , così come di seguito elencati, danno una idea concreta su come il tema è stato affrontato: I) La scomparsa del senso di colpa nella società contemporanea; II) Carattere archetipico della colpa; III) Neuroscienze: dalla colpa all’empatia; IV) ruolo del padre e senso colpa nell’analisi di Freud: V) Aggressività, angoscia e creatività agli inizi della vita psichica: il contributo di Melanie Klein; VI) Oltre la colpa persecutoria: l’iniziazione paterna alla vita; VII) colpa e individuazione. E' un percorso che, partendo da Anassimandro, arriva ai giorni nostri e sviluppa tematiche difficili con un lessico coinvolgente e facile alla lettura. Senza relazione con la colpa l’individuo si ammala. Occorre prendere contatto con la colpa, attraversarla e ritrovare quell’aspetto creativo che Melanie Klein “aveva attribuito alla posizione depressiva della psiche infantile. Il desiderio di riparare l’oggetto leso, che si presenta fin dai primordi della vita psichica, trova la sua espressione più compiuta nella Cultura 109 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi necessità che prova, chi si sta individuando, di creare dei valori positivi, di partecipare alla vita della comunità con un proprio personale contributo.”(pag. 177). La coscienza della colpa e la sua funzione di stimolo della vita morale sono ripresi nell’ultima parte del libro, partendo da una riflessione sul pensiero del filosofo Ludwig Wittgenstein: “Quando cerchiamo di descrivere le questioni più importanti della vita, che hanno a che fare con l’etica e con il senso dell’esistenza, le parole vengono meno e ci sembra sempre di avventurarci contro i limiti del linguaggio...”. Le immagini dei sogni aiutano a comprendere il carattere archetipico della colpa e accompagnano in una dimensione di comunicazione ed uso del linguaggio differente da quello più strettamente scientifico, con una apertura ad una dimensione che si potrebbe definire spirituale. Emilia Canato Stefano Cazzato Dialogo con Platone Come analizzare un testo filosofico Roma, Armando Editore, 2010, pp. 62, €. 8,00 “Perché non continuare a insegnare la filosofia – si chiede l'Autore del testo a pagina 57- come si è sempre fatto, presentando filosofi e scuole in successione cronologica? Non è quello storico il metodo migliore perché lo studente entri in possesso di un quadro generale della disciplina nel suo sviluppo diacronico? Ma il problema è proprio questo: è possibile oggi fornire quadri generali, storici, onnicomprensivi, totalizzanti, del contenuto delle discipline o sarebbe più formativo individuare e trasmettere agli alunni le strutture basilari di un sapere?” 110 Già più di trent'anni fa Jerome Bruner sottolineava la difficoltà di padroneggiare un intero ambito disciplinare a causa sia della crescita inarrestabile dei saperi, sia dei limiti cognitivi dell'individuo; e individuava nell'applicazione su vasta scala di idee disciplinari veramente portanti, “grandi idee organizzative o strutturali”, come l'idea di “razionalità” per quanto concerne la filosofia, la condizione decisiva per imparare a imparare, per imparare in autonomia anziché riprodurre meccanicamente saperi ricevuti, per derivare idee da idee, per acquisire abilità permanenti al posto di conoscenze effimere. Dialogo con Platone, è un “libretto”, nel senso di libro piccolo, libro di poche pagine, scritto da Stefano Cazzato, insegnante di Filosofia da molti anni nelle scuole superiori, che raccoglie in cinquantadue pagine effettive di testo (da pagina 7 a pagina 58 comprese) un bell'esempio di didattica della filosofia sulla base di quei principi bruneriani. Per realizzare questa operazione Cazzato non ha scelto i dialoghi di Platone più noti e convenzionali, come la Repubblica, il Timeo, il Cratilo, le Leggi, il Fedro o il Simposio, la cui analisi, dice l'Autore, è costretta ad operare su parti e non sul tutto, finendo per sovraordinare il contenuto alla forma, le conoscenze alle abilità, le nozioni ai codici e ai linguaggi, bensì i dialoghi platonici più brevi, come Eutifrone, Crizia, Minosse, Epinomide, Clitofonte e Carmide (che scandiscono anche la successione dei capitoli), che consentono invece un'analisi complessiva, permettono di cogliere i passaggi essenziali e di presentare quindi al lettore la macchina dialettica, la complessità della sua costruzione e lo spirito critico che la guida; spirito che poi è lo stesso che sta alla base della filosofia come attività di ricerca, di sperimentazione e di conoscenza. Marco Taddei Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi Maria Pia Trevisan L’operaia che amava la sua fabbrica La Memoria del Mondo Libreria EditriceMagenta (MI), 2010, pp.161, €14,50 Un libro autobiografico che racconta il proprio lavoro svolto in fabbrica. Una prima assunzione in una piccola calzoleria attraverso cui l’autrice ci rende, con poche e chiare immagini, l’ambiente fisico e l’atmosfera della vita in fabbrica. “… Disposte lungo una parete laterale, illuminata da grandi finestre rettangolari, cinque donne sedute davanti alle macchine rifilatrici, procedevano all’eliminazione della sbavatura delle suole di gomma. Di tutte loro, a più di mezzo secolo di distanza, ricordo ancora i nomi: Anna, Emi, Giovanna, Elsa, Graziella, Angela e Tina …” Seguono gli eventi vissuti alla Mivar, negli anni Sessanta e Settanta, grande azienda produttrice di televisori ad Abbiategrasso, e con essi Maria Pia Trevisan ( ha iniziato a lavorare a quindici anni come apprendista operaia, di seguito presso l'industria metalmeccanica per 22 anni, impegnata in politica e nel sindacato; per cinque volte è stata in Consiglio Comunale di Abbiategrasso) ci narra la sua storia e quella di uomini e donne che hanno prestato la propria opera nel mondo produttivo del nostro Paese. “La Mivar non fu però solo guerra. Nonostante l’attività persecutoria e discriminatoria attuata dall’azienda nei confronti di tutti gli attivisti sindacali, riuscimmo a prenderci anche notevoli spazi di iniziativa politica e culturale. Due di noi, Carlo (non quello a cui avevano rotto il setto nasale, un altro Carlo, anch’esso membro della commissione interna) ed io fummo eletti nel mese di maggio del 1970 consiglieri comunali del Comune di Abbiategrasso. Subito dopo ci fu l’elezione del primo Consiglio di fabbrica. Mi proposero di candidarmi. Tra i nove eletti nell’esecutivo ci fui anch’io. Sempre nel corso di quello stesso anno mi elessero nel Comitato federale del PCI milanese, quale rappresentante di una delle fabbriche più significative del territorio abbiatense ... La mia palestra di vita si allargò a dismisura. I corsi sindacali e di partito, i convegni, i seminari, le conferenze e i congressi a cui partecipavo, divennero la mia Università, quella che avevo da sempre desiderato frequentare. Da quella scuola, trassi insegnamenti che mi permisero di leggere la realtà con occhi più consapevoli e che, contemporaneamente, mi diedero la forza per affrontare le nuove responsabilità che mi ero assunta ... A me pareva di riuscire, così, a riversare anche sui miei figli la ricchezza di quelle esperienze. I sensi di colpa per le mie frequenti assenze trovarono spesso compensazione nella pienezza del nostro rapporto, nella voglia di vivere tutta nuova che rendeva il nostro quotidiano persino speciale. Io mi sentivo cambiata. Non ero più una madre frustrata. Ero una madre più forte. Ero una donna più forte.” Un universo, quello dell'azienda, con le sue ingiustizie, le contraddizioni, la fatica, le lotte sindacali, ma anche un microcosmo da cui ci raggiungono risa, chiacchiere, scherzi, forme di solidarietà e di impegno, insieme ad una leggerezza del vivere sapiente, carica di umanità. Una realtà corale in cui padrone, operai, impiegati, sindacalisti sembrano muoversi ciascuno con un proprio compito segnato da un profondo senso di appartenenza; quella realtà in cui Maria Pia, con la sua narrazione fluida e misurata, ci permette ogni volta di entrare, per conoscerla e quasi farne parte. I personaggi del libro sembrano oltrepassare la cortina rappresentata dal duro e lungo lavoro quotidiano e farsi soggetti liberi che si incontrano e si riconoscono, costruiscono un proprio spazio vitale e trovano la forza di emanciparsi, sentendosi parte integrante e protagonisti della Storia e della vita dell’umanità intera. Luisa Fressoia Cultura 111 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi Agostini Nerio Il bibliotecario di ente locale Editrice Bibliografica, Millano 2010 pp. 919, € 80,00 Negli ultimi anni il legislatore ha impostato un modello di governance generale della pubblica amministrazione basato sulla valorizzazione dell’autonomia organizzativa e regolamentare di ogni ente, con al centro le esigenze e i bisogni del cittadino-utente, il richiamo al criterio organizzativo della trasparenza e dell’imparzialità e l’introduzione della responsabilità di risultato e/o di performance. Con questo scenario sullo sfondo, in questa pubblicazione viene sviluppata in particolare una lettura dinamica del processo di riforma del “sistema di gestione delle risorse umane” negli enti locali. Viene messo in evidenza che le regole formali non bastano da sole a introdurre il cambiamento: sono i comportamenti effettivi che possono e devono dare concretezza agli obiettivi formalmente individuati e ai processi di cambiamento che ne dovrebbero conseguire. In questo volume, sia pure con stretto riferimento al quadro normativo, si cerca di individuare gli strumenti operativi da proporre a chi vuole progettare e vivere l’evoluzione nel cambiamento. Viene evidenziato il nuovo ruolo culturale e a volte comportamentale a cui sono chiamati i dirigenti e gli amministratori nel sistema di governance delle risorse umane. Viene analizzato il funzionamento dell’ente locale e il possibile raggiungimento di livelli di efficienza, efficacia ed economicità nei servizi erogati e nelle funzioni svolte, adeguati ai bisogni e alle richieste dei cittadini. 112 Questa pubblicazione può essere letta e utilizzata a più livelli. Come in una bambola russa, una matrioska, è sempre visibile l’involucro, il manufatto principale, ma si può decidere di scendere e scoprire la parte più interna, il cuore, quello a cui si è indirizzato più attenzioni: il bibliotecario. Vuole infatti essere soprattutto una pubblicazione “per” il bibliotecario, ma anche un manuale che può essere utile per i responsabili della biblioteca, per i dirigenti/ responsabili dei servizi e persino uno strumento informativo per gli amministratori. L’obiettivo è anche quello di considerare la figura professionale del bibliotecario come un “normale”, qualsiasi dipendente pubblico di ente locale che non deve più essere considerato e non deve più sentirsi avulso dalla realtà. Infatti, assieme alla biblioteca egli non costituisce un corpo separato dal resto dell’ente, ma deve essere visto invece come un oggetto-soggetto che sta dentro la gestione delle risorse umane che a sua volta sta dentro le regole della gestione del sistema ente locale. L’opera è arricchita da note legislative, bibliografiche, riferimenti alla giurisprudenza, a leggi, a contratti e sentenze che spesso interrompono lo scritto per avvalorarne i contenuti. Essa costituisce, in definitiva, il trasferimento di una serie di esperienze fatte dall’autore Nerio Agostini in dieci anni di attività di consulenza per la gestione delle biblioteche, progettazione, seminari, incontri, oltre che corsi di aggiornamenti fatti con e per i bibliotecari. Essa costituisce anche una presentazione sistematizzata di tutta una serie di quesiti e problemi reali posti dai bibliotecari che nella gestione quotidiana delle biblioteche dei vari enti locali di tutte le regioni italiane si è potuto dare risposta o trovare soluzione concreta. Loredana Vaccani Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi a cura di Angelo Villa ni. Sono ragazzi e ragazze che partecipano a un progetto, denominato Crossing , che funziona da un po’ di anni e che si rivolge a adolescenti immigrati alle prese con problemi di integrazione scolastica e sociale. E’ organizzato da La casa sul Pozzo, in via Bergamo 69, a Lecco (tutte le informazioni su www.comunitagaggio.it) . Ora, coordinato da Stephane Ngono, un piccolo gruppetto di loro, sotto l’insegna “Roots’n’love” hanno prodotto un cd che più “indie” non si può . Titolo: “Sulla strada”. Il vecchio e, “à mon avis”, sopravvalutato Kerouac non c’entra molto in questo caso, ed è meglio così. La strada a cui qui si allude non è quella sulla quale lo scrittore americano rovesciava la sua inquietudine, in un vagabondare senza meta e, forse, senza desiderio. La strada è il cammino della vita, la ricerca che anche il fenomeno migratorio contribuisce a esaltare, pur tra mille immense difficoltà. Scrive Stephane nella brevissima nota di introduzione al cd: “Nonostante la diversa provenienza, i colori della pelle, le disparate origini, siamo riusciti a parlare la stessa lingua e a comunicare attraverso la musica, una delle poche esperienze di questo mondo, dove la contaminazione è vissuta come una ricchezza e non come un ostacolo alla creazione della cultura”. E allora? Giù, giù a “rappare”, di gusto. Ritmo e rima, anima e parole. E, ancor più, lingue… Lingue che si mischiano, si alternano nel canto dei ragazzi. Voci giovani e fresche, maschili e femminili che si lasciano intendere, che cercano spazio per quel che sono o per quel voglio dire. Alla faccia di “Amici” o “X factor”. Il risultato è ottimo, esteticamente pregevole davvero. Decisamente meglio di molto rap nostrano che sembra solo la patetica caricatura di sé stesso, orfano com’è di una sua vera originalità, di parole che testimonino di esperienze vissute che rieccheg- musica Roots'n'love Sulla strada Comunità di Gaggio Vi ricordate di “Futura”, una bella canzone di Lucio Dalla? Il brano auspicava che potesse essere il nome di una bambina che stava per nascere. Un messaggio di speranza, di apertura e di curiosità verso il domani. Mi sono chiesto chi, oggi, canterebbe o scriverebbe qualcosa del genere. Oddio, già i punk sul finire degli anni settanta sbraitavano “No future”, ma quelli, per l’appunto, erano punk… I Dire Straits, dal canto loro, vi rispondevano con “Romeo and Juliet” o cose del genere. Insomma, una dialettica. Ma, oggi, non ci sono nemmeno più i punk e Mark Knopfler se ne va in giro a suonare da solo… E la dialettica è sparita. Su tutto sembra aleggiare un tiepido vento malinconico. E, allora? Chi, alzi la mano, salirebbe sul palco, come fece Joe Cocker a Woodstock citando niente meno che il Vangelo: “lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” ( Luca 9,60 )? Ve lo immaginate? Su diciamo la verità chi se la sentirebbe, in questi tempi? La canzone di Dalla era un atto di fiducia, di speranza verso il mondo che verrà? E , oggi, chi osa? Dove sono i giovani, quelli veri, reali, concreti? Non i duttili e flaccidi manichini che i sarti (ah già dimenticavo, gli stilisti…) buttano in prima pagina nelle loro pubblicità… Dove sono? In questo vecchio Paese di vecchi, aggrappati egoisticamente alle loro poltrone, pensioni, godimenti… Chi li tocca? Quale futuro? Se la speranza è data solo per chi non ha speranza, come ricordava Walter Benjamin, ecco quindi un messaggio di vita che, un volta tanto, sembra un lampo di luce in cieli così foschi. Ovviamente, si tratta di giova- Cultura 113 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi a cura di Cristiana La Capria 114 Coraline e la porta magica. Henry Selik, Usa 2009 Si tratta di un film dall’immaginario controverso, molto. E’ catalogato come un cartone animato, con soluzione visuale in 3 D, ma non è destinato ai bambini. Non a tutti, almeno. E’ anche rivolto agli adulti. Ad alcuni. Quelli che amano la pedagogia. Perché questo cartone va maneggiato con cura, altrimenti si rischiano non pochi effetti collaterali. Diciamo che il format è quello tipico dell’antifiaba: la protagonista non è bella, non è ingenua, non è bionda e l’antagonista non è un orco, non è un lupo e neppure la classica matrigna. La protagonista è Coraline, una bambina arguta, dai capelli blu, i tratti del viso irregolari, il corpo filiforme, gli antagonisti sono i suoi stessi genitori che, troppo presi dal lavoro, non hanno tempo da dedicarle per vincere la noia e le tristezza della solitudine. Dentro a uno scenario dai colori opachi come la nebbia, il fango e la pioggia che occupano il circostante dell’azione, Coraline si imbatte in un nuovo amichetto che le regala una bambola uguale alla sua fisionomia, con bottoni al posto degli occhi. A questo punto, per mezzo di una porticina magica, si apre un mondo parallelo e identico al primo, ma più seducente: la casa ha arredi assai confortevoli e colorati, i genitori – chiamati “altra” madre e “altro” padre - sono il doppio felice e affettuoso di quelli reali. Ma anche i sogni hanno un risvolto inquietante che non ci viene affatto risparmiato. Se intende rimanere per sempre nella casa accogliente con i genitori amorevoli, Coraline deve imitarli e cucire dei bottoni al posto degli occhi, per condividere con loro la stessa visuale sul mondo. Ecco allora che inizia per la bambina una lotta furibonda per ritor- cinema giano il solito stereotipato gioco delle parti. Nel cd dei “Roots’n’love” si parla di Gaza, di Rosario, di musica, di fumo… Può darsi che, a volte, nei testi risuoni una certa ingenuità, figlia della giovane età dei rappers. Niente di male. E’ il dono di uno sguardo aperto sul mondo che, crescendo, impareranno a regolare. Come è giusto che sia. Il futuro avanza, diamogli ascolto. Ps: il cd è così “indie” che non è nemmeno in commercio. Come averlo? Scrivete a [email protected]. Insomma, che volete di più? Buona la musica, non farei altrimenti, sarebbe un atto insopportabilmente ambiguo o ideologico, buona la causa . Angelo Villa Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/scelti_per_voi nare al posto e agli affetti di origine, ovvero per scardinare l’incubo e ritornare al reale del quotidiano. E la guerra più feroce sarà combattuta contro l’”altra” madre… Questo film ci conduce nel paesaggio dell’immaginario dei bambini e delle bambine di oggi che di solito sono figli di genitori che, entrambi, lavorano incessantemente, quindi hanno poco tempo da dedicare alla prole. La prole si arrabbia, si vendica, reagisce costruendo un mondo alternativo, desiderato fino a sentire di starci dentro. Coraline rappresenta questa generazione di giovanissimi, a volte tristi e spesso annoiati. E’ lei, una bambina, che deve affrontare le affilate proiezioni dell’inconscio, teatro spietato dei fantasmi buoni e cattivi dei genitori. Basta con il buonismo e basta con le semplificazioni: i genitori non si scelgono, può ben capitare che non ci piacciano affatto, perciò ci diamo da fare per fingere di averli davvero questi genitori perfetti, li costruiamo proprio come li avremmo voluti noi, i nostri “altri genitori”. Questo immaginario, però, non è lineare, non è scorporato dal resto dei vissuti, non sta altrove rispetto al reale, anzi, lo alimenta e ci aiuta a viverlo con più densità, ma anche con più complicazione. Infatti, anche i fantasmi dei genitori buoni non sono mai così buoni, anche loro chiedono una quota di frustrazione, ci vogliono mettere gli occhi di bottone. Non c’è il bene da un lato, il male dall’altro lato. Cifre di positivo e negativo stanno dentro a ogni cosa e il film lo ricorda senza falsi buonismi. Se il rapporto con i genitori non funziona e l’insoddisfazione non viene capita, i figli mettono in moto i sotterfugi della mente che proietta sul palcoscenico due nuovi attori, migliori – forse – dei primi: gli “altri” genitori, appunto. Ma dei due, e questo è il colpo finale, la matrice malvagia è la madre. L’altra madre è colei che mangia i bambini dopo averli sedotti con il fascino del comportamento caloroso e ossequioso, è lei che orchestra trappole per rimangiarsi i figli che ha creato. E allora questo cosa vuol dire? Che Coraline è in lotta contro la madre. Ancora una volta è inscenato il conflitto madre-figlia che si concluderà senza una soluzione appagante, perché la mamma buona non esiste neppure nel nuovo immaginario delle giovani figlie. La fantasmatica espressa da questo cartone animato ci dice molto sulle attuali generazioni tele-consumatrici, e insegna a capire il loro mondo interno, anche se in forma disturbante. Cristiana La Capria Cultura 115 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/ ARRIVATI_IN_REDAZIONE René Girard Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, pp. 188, € 12,80 L'autore affronta in questo libro temi sociologici e antropologici oggi molto attuali: il dilagare dell'anoressia e dei disordini alimentari, l'angoscia della solitudine, l'invidia, e in particolare il risentimento, la necessità umana di fondare l'ordine sociale, le apparenze culturali e religiose attraverso l'esclusione di capri espiatori. Secondo l'autore, l'uomo agisce sempre desiderando di essere un altro, che è ad un tempo modello e rivale: ecco il fuoco dell'invidia e del risentimento, ecco le prime micce della violenza e dell'esclusione... Demetrio Duccio L' interiorità maschile. Le solitudini degli uomini Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, pp. 284, € 14,50 In cosa consiste la vita interiore? Ed è davvero destituito di senso il luogo comune secondo cui gli uomini rifuggono ogni confronto con la propria interiorità? Che i maschi, nella grande maggioranza, siano poco disponibili alla riflessività, più protesi verso "l'esterno", pare incontestabile. Evitano di porsi le domande più ineludibili, di confrontarsi con la sensibilità femminile, che include l'ascolto e la cura, temendo una crisi di immagine o di identità. L'importanza di riscoprire il valore antico della solitudine degli uomini, condizione senza la quale non si educa la propria interiorità, è il tema di questo libro.... Orsi C. (a cura di) Ai confini del welfare Manifesto Libri, Roma 2008, pp. 151, € 15,00 Che cosa è una società giusta? Quali riforme dello stato sociale si dovrebbero intraprendere se davvero si volesse instaurare un modello di vita comune che valorizzi ogni singolo? Quali politiche potrebbero restituirci una robusta società civile laica e capace di giocare un ruolo primario nei processi economici? Queste sono le domande che il curatore rivolge a economisti, sociologi, filosofi politici di fama internazionale. Negli ultimi decenni le politiche sociali sono state inesorabilmente subordinate alle necessità di un mercato del lavoro sempre più flessibile e della competitività globale. Queste riforme hanno allontanato i sistemi di protezione sociale europei da quell'idea di buon funzionamento della società intesa come bene comune... Marco Lodoli Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana Einaudi, Torino 2009, pp. 155, € 15,00 Marco Lodoli non è soltanto uno scrittore, ma anche un insegnante, un professore nelle scuole superiori. Ogni giorno, in presa diretta si incontra e scontra con la scuola, con gli studenti e con il diffìcile e appassionante mestiere di insegnante. In "Il rosso e il blu" abbandona la finzione narrativa e, attraverso brevi ma folgoranti osservazioni, affronta i molti "cuori ed errori" che sono disseminati nella scuola italiana, e di cui è testimone quotidiano, esprimendo così il suo punto di vista sui tanti temi che entrano nel dibattito pubblico sull'educazione scolastica e i giovani di oggi: dal momento topico dell'esame di maturità alla piaga emergente del bullismo; dalla straniarne e defatigante esperienza delle gite di classe al problema della droga... 116 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/arrivati_in_redazione D'Ambrosio Cleopatra L' abuso infantile. Tutela del minore in ambito terapeutico, giuridico e sociale Centro Studi Erickson, Trento 2010, pp. 219, € 19,50 Il volume è il risultato dello studio, dell'esperienza e delle riflessioni dell'autrice che, attraverso il lavoro terapeutico, peritale e di formazione degli operatori, entra quotidianamente in contatto con i bambini vittime di abuso e con le problematiche emotive, relazionali e istituzionali che a questo tipo di intervento sono connesse. La prima parte del testo mostra come lavorare con i minori vittime di violenza voglia dire venire a patti con la paura, il disorientamento, la confusione, la negazione. Nella seconda parte del libro, anche attraverso la presentazione di studi di caso, viene dato spazio al percorso terapeutico e giudiziario che il bambino abusato deve affrontare e agli strumenti che i professionisti hanno a disposizione per ascoltarlo e supportarlo nell'elaborazione del trauma... Gopnik Alison Il bambino filosofo. Come i bambini ci insegnano a dire la verità, amare e capire il senso della vita Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 298, € 19,00 Cos'hanno in mente i nostri figli quando, appena in grado di parlare, si impegnano con tutta la serietà di cui sono capaci nella costruzione di realtà immaginarie? Come si articolano i loro stati coscienti, apparentemente più simili a un magma fangoso che al trasparente flusso cartesiano di cui ci parlano i filosofi? Cosa ci può dire la loro mente sul nostro modo di pensare? Alison Gopnik si muove in una terra di confine, tra scienza, filosofia e i sentimenti di una madre, per mostrarci che i nostri bambini sono tutt'altro che esseri irrazionali o limitati nelle loro capacità intellettuali... Molesini Andrea Non tutti i bastardi sono di Vienna Sellerio Editore, Palermo 2010, pp. 376, € 14,00 Orgoglio, patriottismo, odio, amore: passioni pure e antiche si mescolano e si scontrano tra loro, intorbidate più che raffrenate dal senso, anch'esso antico, di reticenza e onore. Villa Spada, dimora signorile di un paesino a pochi chilometri dal Piave, nei giorni compresi tra il 9 novembre 1917 e il 30 ottobre 1918: siamo nell'area geografica e nell'arco temporale della disfatta di Caporetto e della conquista austriaca. Nella villa vivono i signori: il nonno Guglielmo Spada, un originale, e la nonna Nancy, colta e ardita; la zia Maria, che tiene in pugno l'andamento della casa; il giovane Paolo, diciassettenne, orfano, nel pieno dei furori dell'età; la giovane Giulia, procace e un po' folle, con la sua chioma fiammeggiante... Cavaliere Luisa, Dante Emma, Postorino Rosella Anticorpi Liguori Editore, Napoli 2010, pp. 112, € 11,90 Tre donne di differenti generazioni parlano delle cose che amano, del mondo che abitano, del Sud in cui sono nate, dell'Italia in cui vivono, del paese che vorrebbero. Dialogano sul teatro, sulla scrittura, sulla politica, sul lavoro, sulla mafia, sulla 'ndrangheta, sulla camorra. Ripercorrono il profilo di paesaggi violati da una speculazione edilizia che sembra non concedere scampo allo sguardo che cerca bellezza. Spesso invano. Raccontano passioni che, qualche volta, si trasformano in ossessioni... Cultura 117 Pedagogika.it/2010/XIV_4/cultura/arrivati_in_redazione 118 Pedagogika.it/2010/XIV_4/in_breve Si educa al genere, o diventiamo uomini e donne sulla base di modelli sociali e stereotipi che si perpetuano? A questa domanda avvincente e complessa ha cercato di dare risposta il seminario organizzato insieme alla rivista Pedagogika.it. All’incontro, moderato da Maria Piacente, la direttrice della rivista, hanno preso parte circa 130 persone. C’è la necessità ed è importante educare al genere nei contesti educativi, formativi, sociali? Il documentario “Questioni di genere” realizzato dagli studenti del liceo Minghetti di Bologna, con l’associazione Alice, diretto da Lorenzo Galeazzi, introduce le risposte fornendo spunti alla discussione. Maria Agnese Maio, formatrice dell’associazione Progetto Alice Bologna “Educare al genere”, sottolinea l’importanza fondamentale di accompagnare i ragazzi verso la consapevolezza del sé, per diventare l’uomo e la donna che ognuno desidera essere. “E’ importante parlare nelle scuole – concorda Stefano Ciccone, dell’associazione Maschile Plurale, e precisa – parlare di genere però non vuol dire parlare di “questione femminile”, ma di questioni che sono legate alla vita di uomini e donne, trasversalmente, che riguardano scuola, lavoro, società.” In realtà educazione di genere si fa sempre, inconsapevolmente: anche Barbara Mapelli, docente di “Pedagogia delle differenze di genere” presso l’Università Bicocca di Milano ed autrice di diversi testi sul tema, concorda: “Il fatto che il mondo è abitato da uomini e donne, è quella che io chiamo l’evidenza invisibile, tutti sanno che sono uomini e donne, è scontato, e ciò crea paradossi. Tutte le agenzie formative legittimano i modelli esistenti, non si pongono a critica o a consapevolezza i modelli che passano, che quindi creano confusione, ma se ne discute, e si arriva poi a distorsioni.” Tanti gli spunti di riflessione: perché se le tematiche di genere riguardano entrambi i generi, ma sono spesso promosse da donne, la scuola – che è luogo di donne, prevalenza di insegnanti donne e di studentesse – non se ne occupa? Come fare per proporre un modello maschile che dica ai ragazzi che c’è un altro modo di essere uomo? La conclusione è concorde: il genere non deve essere una “questione”, ma l’educazione di genere dovrebbe rientrare nell’educazione di base, per creare le fondamenta del processo di divenire uomini e donne. “Farsi carico di questa educazione – sottolinea la Mapelli – vuol dire far capire la differenza come ricchezza e potenzialità”. Non dimenticando che, citando la filosofa belga Luca Irigaray, “la democrazia comincia a due”. in_breve Generi, generazioni, rigenerazioni In breve 119 in_vista Pedagogika.it/2010/XIV_4/in_vista Il centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato Il Centro siciliano di documentazione è il primo centro studi sulla mafia sorto in Italia. Fondato nel 1977 da Umberto Santino e Anna Puglisi, si è formalmente costituito come Associazione culturale nel maggio del 1980 ed è stato intitolato al militante della Nuova Sinistra Giuseppe Impastato, assassinato dalla mafia il 9 maggio 1978. Dal 1998 il Centro si è trasformato in Onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale). Il Centro ha lo scopo di sviluppare la conoscenza del fenomeno mafioso e di altri fenomeni ad esso assimilabili, a livello nazionale ed internazionale; promuovere iniziative allo scopo di combattere tali fenomeni; elaborare e diffondere un'adeguata cultura della legalità, dello sviluppo e della partecipazione democratica. A tal fine svolge le seguenti attività: raccogliere materiali di carattere politico, economico, storico, sociologico; condurre studi e ricerche; promuovere iniziative culturali (convegni, seminari, dibattiti, mostre ecc.); pubblicare libri, opuscoli e materiali vari. Nel corso della sua attività il Centro ha formato una biblioteca, un'emeroteca e un archivio specializzati sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata; ha prodotto studi e ricerche, bibliografie e materiali di documentazione; svolto attività di informazione e di educazione nelle scuole e in istituti universitari, in Italia e all'estero; promosso iniziative di mobilitazione (a cominciare dalla manifestazione nazionale contro la mafia, la prima nella storia d'Italia, svoltasi nel maggio del 1979) e di aggregazione sociale e ha avuto un ruolo decisivo nell'inchiesta sull'omicidio Impastato. Con il progetto di ricerca Mafia e società, il Centro ha avviato un'analisi scientifica del fenomeno mafioso, svolgendo ricerche sull'omicidio a Palermo, sulle imprese mafiose, sul traffico internazionale di droghe, sul rapporto mafia-politica e sulle lotte contro la mafia. La sede. La sede del Centro è è in via villa Sperlinga 15, 90144 Palermo. Telefono: 0916259789; fax: 0917301490; email: [email protected]; sito: www.centroimpastato.it Conto corrente postale: 10690907; codice fiscale: 02446520823. 120 Si ringrazia l'Editore per lo spazio concesso. NON LASCIAMOLI ANDARE. Foto: Daniele Fiore OGNI ANNO NEL MONDO MUOIONO OLTRE 8 MILIONI DI BAMBINI. DONA 2 EURO PER DIRE BASTA ALLA MORTALITÀ INFANTILE. Ogni anno nel mondo milioni di bambini muoiono per cause facilmente prevenibili e curabili come polmonite, malaria, infezioni intestinali o malnutrizione. Eppure basterebbe poco per non lasciarli andare: vaccini, zanzariere, antibiotici. Save the Children continua la sua grande campagna mondiale EVERY ONE per dire basta alla mortalità infantile. Invia un SMS al 45503 e donerai 2 euro dal tuo cellulare personale TIM, Vodafone,Wind, 3 e Coop Voce o chiamando lo stesso numero da rete fissa Telecom Italia, Fastweb e Infostrada. Gli utenti di rete fissa Telecom potranno scegliere se donare 2 o 5 euro. Operazione valida dal 6 ottobre al 7 novembre 2010. www.palloncinorosso.it www.savethechildren.it