Rivista di educazione, formazione e cultura
2010_XIV_2 - € 9
Corpo a corpo.
La madre
Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997
Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559
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Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale – e
forse più interessante per la sua carica straordinaria
di rottura e radicalità – del Movimento femminista e
le donne sono cambiate. Sono cambiate innanzitutto
nella percezione che hanno di loro stesse, nelle
attese legate al presente, al futuro, nella vita affettiva
e privata, nel sociale e nel lavoro, nelle relazioni
cogli uomini, ma anche con le altre donne.
Barbara Mapelli
Sette vite come i gatti
Generazioni, pensieri e storie di
donne nel contemporaneo
Prefazione di Carmen Leccardi
Collana POLIS pp. 180, € 16,00
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Rivista di educazione, formazione e cultura
anno XIV, n°2
Aprile, Maggio, Giugno 2010
Pedagogika.it/2010/XIV_2
Rivista di educazione, formazione e cultura
esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni
Anno XIV, n° 2 – Aprile/Maggio/Giugno 2010
Direttrice responsabile
Maria Piacente
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Progetto grafico/Art direction
Raul Jannone - [email protected]
Redazione
Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida
Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria
Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Laura Conti,
Coordinamento pedagogico Coop. Stripes.
Promozione e diffusione
Fabio Degani, Federica Rivolta
Comitato scientifico
Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio
Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi,
Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi,
Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta,
Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea
Melandri, Angelo Villa
Registrazione Tribunale di Milano n.187 del
29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45%
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MILANO - issn 1593-2559
Hanno collaborato
Chiara Saraceno, Anna Bravo, Veronica Pravadelli,
Rossana di Silvio, Graziella Bonansea, Giancarla
Codrignani, Fabrizio Chello, Angelo Villa, Francesca
Dionigi, Davide Scheriani, Manuela Fraire, Lella
Ravasi Bellocchio, Laura Cuppini, Anais Ginori
Edito da
Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it
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2
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Stampa Periodica Italiana
Pedagogika.it/2010/XIV_2/sommario
s o m m a r i o
5
Editoriale
La spinta ad esistere
Maria Piacente
../dossier/Corpo a corpo. La madre
10 Introduzione/introduction
12 La pluralizzazione delle figure
materne
Chiara Saraceno
22 Fra maternità ed emancipazione:
Sibilla Aleramo e Maria
Montessori
Anna Bravo
62 La sessualità della madre
Angelo Villa
68 Il lutto della madre
Francesca Dionigi
74 Mammismo!
Davide Scheriani
81 Disfare la madre, rifare la madre
Manuela Fraire
88 Di madre in figlia. Storia di un’analisi
Lella Ravasi Bellocchio
../cultura
31 Ruolo materno nelle pratiche
e nelle teorie filmiche
Veronica Pravadelli
40 From mother to mothering
Rossana di Silvio
47 Madri/non madri: una
discussione a partire dal libro
Perché non abbiamo avuto
figli?
Graziella Bonansea
51 Stato interessante
Giancarla Codrignani
56 Eva o la nascita come esilio
Fabrizio Chello
103 A due voci
Angelo Villa, Ambrogio Cozzi
107 Scelti per voi,
Libri Ambrogio Cozzi (a cura di),
Cinema, Cristiana La Capria (a cura di),
Musica, Angelo Villa (a cura di)
116 Arrivati in redazione
../In_breve
119 Uno, nessuno, centomila…
ruoli per l’educatore.
../In_vista
120 La libera Università
dell’Autobiografia
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Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/
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...erranze ...migrazioni
Corpo a corpo. La madre
Internet e nuove tecnologie, relazioni e linguaggi
Frontiere reali, immaginate, immaginarie
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Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/
La spinta ad esistere
Maria Piacente
In questo dossier dedicato alla figura della madre vorrei fare una riflessione su
come il divenire madre è, quasi sempre, in connessione con il divenire un’opera per
sé. Su come il divenire madre ha a che fare con il divenire quel che si è, su come il
destino del divenire madre si intrecci, inesorabilmente, con quella parte che ogni
donna che è divenuta madre ha dovuto esplorare, a volte solo inconsciamente,
prima di mettere al mondo un essere umano, un figlio, una figlia. E, ancora, su
quanto la misura del desiderio, come spinta incontenibile nello stare al mondo,
debba fare i conti con la brama di “occupare” uno spazio del mondo, nel mondo.
Per fare questo, tra le tante ascoltate, mi viene in aiuto la storia di Belinda: bella
ragazza, occhi azzurri, ciglia nere nere, capelli castani, un po’ olivastra, con qualcosa di esotico. Forse sarebbe meglio dire una ragazza di una spiccata soggettività.
Forse era quello che la rendeva unica. Unica, come ognuno di noi, certo. Ma ora
stiamo parlando di lei.
Allora, Belinda, poco più che ventenne, stava intraprendendo la strada per divenire una brava avvocata. Tutte le mattine, insieme ai suoi testi di diritto, cingeva
con l’elastico per i libri anche qualche foglio di appunti, spiegazzato, con dentro
i suoi pensieri notturni scarabocchiati qua e la. Era bella, elegante, corteggiata e,
come si suol dire, con “tutta la vita davanti”. Di mettere al mondo un figlio, lei non
lo sapeva, lo aveva deciso una mattina, guardando fuori dalla finestra dall’aula di
una università. Il suo sguardo, nonostante tutti gli sforzi, non riusciva a spingersi
oltre ad una poderosa e magnifica betulla, che in quella stagione estiva poteva fare
bella mostra delle sue verdi foglie. Nei suoi pensieri, quella mattina, ma anche
quasi tutte le altre, ci stavano anche le arringhe che sognava di fare ad occhi aperti,
quando sarebbe diventata, ormai da li a qualche anno, una brava avvocata, come
sua madre, con la differenza che lei si sarebbe, finalmente, occupata degli ultimi.
Si stava avvicinando il periodo delle mestruazioni e Belinda era piuttosto inquieta: come al solito sarebbero arrivate, uffa ! Niente di nuovo sotto il sole !
Invece di nuovo c’era che Oreste, responsabile delle attività culturali dell’Oratorio della Parrocchia più grande, stava organizzando un’uscita nel Pavese con i
ragazzini dell’oratorio, quelli che in comune chiamavano “Casi Sociali”; insomma
avrebbero fatto una gita fuori porta con intenti educativi a favore di tutta la famiglia. E poi c’era da discutere di un mondo di cose: prima di tutto di politica, visti
i tempi dell’epoca “I favolosi anni ‘70”; volendo in quel periodo c’era un gran da
fare, ma Belinda amava sentirsi indispensabile, unica; e così, sempre alle prese con
queste “ossessioni”, voleva fare delle cose che nessuno aveva voglia di fare. Alla
fine le proposte di Don Gino, i pomeriggi passati a discutere su chi è più ultimo
degli ultimi ebbero la meglio e Belinda si propose come accompagnatrice dei “Casi
Sociali” dell’Oratorio. Va detto, però, che sulla sua decisione molto aveva pesato la
presenza di Oreste, che aveva quel non so che: un mix di sacro e profano che alla
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fine lo rendeva particolarmente affascinante.
Quell’anno trascorreva davvero bene, era stato bello. Il libretto degli esami si
andava riempendo di buoni voti. L’amore si stava svelando. A Belinda piaceva
cantare a squarciagola sul pullman, insieme ai ragazzini accompagnati, le solite
canzoni da gita fuori porta.
A Belinda però mancava qualcosa... Qualcosa mancava, come quando un bimbo o una bimba piccola, che sanno di poterlo chiedere e non avendo bisogno di
nulla di contingente o di particolare, chiedono alla mamma o al papà : “dammi
qualcosa”. Ed il papà o la mamma danno loro qualcosa, ben sapendo che che non
è quello che manca al loro bambino.
Nei “favolosi anni ‘7O”, Belinda, taglia 44, altezza ragguardevole, nel recarsi
in università indossava un bell’abito color corallo, un robe-manteau di crepella,
tagliato in sbieco che accompagnava i suoi passi muovendosi sinuoso e catturando
gli sguardi birichini dei compagni più sfacciati. Ciò che metteva la ragazza in imbarazzo, come in quella celebre foto di Ruth Orkin, American girl in Italy.
A Belinda però non interessava. Belinda aspettava qualcosa. Cosa vuole Belinda? Cosa manca alla nostra poco più che ventenne ragazza?
Passa un po’ di tempo e qualcosa succede. Non importa sapere se desiderio e realtà coincidano, stiano sulla stessa strada. La spinta ad esistere per Belinda sembra
in ogni caso, in quel particolare momento della sua vita, che possa avere luogo solo
attraverso la realizzazione di una sua particolare ed unica opera d’arte e cioè quella
di avere una bambina o una bambino.
Il mettere al mondo il figlio fantasticato diventa in quel momento per Belinda il
modo di mettere al mondo il mondo. Anzi, di “creare” in parte il mondo facendolo
abitare da una creatura viva: un ponte tra natura e cultura, un esserci ed estendere
di più la propria presenza.
Ora questa opera d’arte, questo divenire madre è intriso di una notevole cifra
di investimento. Sotto molti profili, però. Vorrei per una volta sfatare il mito della
madre oblativa e amorosa, della madre che tutto dà e nulla chiede. Il desiderare la
maternità, il farsi “fare” madre da un figlio o da una figlia - ed in questo secondo
caso, sappiamo quanto è più difficile il rapporto che in seguito si instaurerà con
la figlia - ha una potente valenza generatrice di un rapporto unico, irripetibile e
singolare, investito anche narcisisticamente di tutto ciò che in quel particolare momento della propria vita si desidera. E credo che non ci si debba scandalizzare.
Quello che dico corrisponde al vero, se per verità intendiamo gli scambi autentici che in molti incontri noi donne abbiamo avuto con altre donne, con le quali
abbiamo parlato di maternità; e si è ripetuto e si ripeterà ancora molte volte. Tra
donne si parlava una volta e ancora si parla tanto. Al di là delle molte tipologie di
madri amorose o delle Medee che abitano il mondo, quando le madri parlano tra
di loro, sanno della potenza che le parole hanno. Sanno cosa vuol dire una madre
quando, rivolta all’altro ed indicando il/la proprio/a figlio/a, con una punta di
sussiego dice: “guarda cosa ho fatto, guarda di cosa sono stata capace!”. La spinta
ad esistere - dicevo - che, con la nostra venuta al mondo strutturalmente possedia-
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mo, ci porta oltre il desiderio che prima ancora di noi ci ha portato al mondo. Un
desiderio con il quale fare i conti un'eros che ci porta altrove.
E questo altrove può essere o non essere l’altrove che si chiama fare un figlio.
è il desiderio che ci porta altrove e che ci fa divenire quello che siamo. E che non
possiamo non ascoltare. È la ricerca di quella felicità, di quello stare al mondo che
la differenza sessuale ed il pensiero della differenza lasciano anche attraverso alle
donne la possibilità di generare un altro essere umano. Di fare la madre o di disfare
la madre. Allora non andrei più alla ricerca esasperata del significato dell’essere o
del non essere madre, di quando e di quanto esserlo.
In un recente libro, uscito in Francia ma non ancora tradotto in Italiano, di
Elisabeth Badinter dal titolo Le conflit, la femme e la mere la filosofa francese esplora
la profonda crisi tra l’identità della donna contemporanea, combattuta tra il desiderio di maternità ed il bisogno di realizzarsi nella sua professione e la difficoltà
di tenere insieme figli e lavoro. Una ipotesi potrebbe essere oggi quella di non fare
più figli... Io non la metterei proprio così. Oggi le donne, in Europa, in Occidente,
possono costruire tante case. Che le costruiscano! A lungo ne ha parlato un’altra
grande filosofa Luce Irigaray. Che le costruiscano, alla giusta distanza dal Padre e
all’inevitabile ombra della Madre. Di una madre che saprà rinunciare all’onnipotenza del materno, questione cruciale in particolare per la bambina per la quale il
primo oggetto d’amore è dello stesso sesso.
Farsi mettere al mondo dal proprio figlio/a, farsi madre, ha che fare con la
potenza dell’indicibile. Con la ricerca della felicità, con il mistero della vita, con la
vulnerabilità dell’umano, con la bellezza e con le arti. Con quel sapere dell’anima
che la condizione umana ci ha trasmesso ancora prima della nostra nascita e che
dovrebbe farci anche accettare la sofferenza ed il dolore insiti nella vita stessa, che
amore, inteso come a-mors, mancanza di morte, ci spinge a vivere.
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Stato interessante
di Giancarla Codrignani*
“Stato interessante”, peccato che nessuno si chieda mai “per chi”. Infatti,
nella stessa concezione dello Stato sembra che la donna abbia figli solo per
suo dovere o, sublimando, piacere. Intanto le nazioni appaiono denominate
dal verbo “nascere”, come a dire che sono generate dalle donne. Eppure le
donne non hanno goduto della nazionalità, se è vero che assumevano automaticamente all’atto del matrimonio - e continuano ad assumere nei paesi di
diritto patriarcale - quella del marito.
Donna, come ti chiami? - Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? - Non lo so.
Perche’ ti sei scavata una tana sottoterra? - Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? - Non lo so.
Perche’ mi hai morso la mano? - Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? - Non lo so.
Da che parte stai? - Non lo so.
Ora c’e’ la guerra, devi scegliere. - Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? - Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? - Sì.
Wanda Szimborska
Per parlare di maternità non solo in senso biologico si può partire di lontano,
dai principi identitari codificati nel linguaggio dai fondatori delle istituzioni occidentali e che risultano immediatamente sessuati: proprio del padre è il patrimonium, della madre il matrimonium. L’uomo si riconosce nel potere proprietario, che
comprende anche il possesso di una donna che gli dia dei figli legittimi (pare giusto
pensare uxorem ducere?); mentre il potere della donna finisce in un ruolo che la
subordina al marito. Infatti nel diritto romano l’adulterio è reato per la donna, perché la sua infedeltà può introdurre un individuo spurio a usurpare il patrimonio;
il rigore della legge si perpetuerà fino all’ipocrita interpretazione ottocentesca che
vuole la figura materna senza ombra di macchia, mentre all’uomo dà per scontata
una natura incontinente e lo penalizza solo quando commetta “ingiuria grave” nei
confronti della famiglia portando l’adulterio sotto il tetto coniugale. Così fino al
1968, anno della depenalizzazione in Italia dell’adulterio.
Altre tracce connotano la costruzione della famiglia come struttura gerarchica
che subordina la donna-madre al principio riproduttivo stabilito dall’uomo, che
Aristotele certifica essere il solo protagonista della riproduzione, attivo rispetto alla
passività del contenitore femminile. I figli, quindi, secondo il diritto, rimasero definiti da gerarchie di conservazione patrimoniale: legittimi e illegittimi, primogeniti
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e cadetti, maschi e femmine. Il principio gerarchico comporta la discriminazione:
il bastardo non diventa erede e per giunta nasce socialmente reietto; chi nasce per
primo eredita titoli e beni anche se è meno capace rispetto agli altri; il padre può
amare di più la figlia femmina, ma la dà ugualmente in moglie a prescindere dal
suo gradimento. La famiglia è, per lunga tradizione, la struttura sociale più conservatrice e, nonostante l’evolversi della storia, il paterfamilias, che non è più il padrone della familia romana formata dall’insieme dei consanguinei e dei servi, neppure nel codice napoleonico lascia libera la donna, giuridicamente così incapace da
ricevere un “curatore al ventre” se accade che, incinta, rimanga vedova. Il nuovo
diritto di famiglia italiano (1975) ha eliminato la formula della “patria potestà”
sostituendola con l’autorità genitoriale, ma ne resta tuttora difficile l’applicazione
integrale, se è vero che l’espressione viene tuttora usata anche sulla stampa e nei
tribunali alcuni giudici, vittime della propria appartenenza di genere, solidarizzano
con l’autorità maritale.
Ma è il rifiuto della maternità non voluta che fa comprendere quanto poco la
donna sia padrona del suo corpo “destinato” a procreare. E’ evidente che, anche per
chi ritenesse l’embrione un insieme cellulare irrilevante, abortire non è una “libera
scelta”. Le donne che ricorrono all’aborto, qualunque giudizio esprimano sull’incipiente gravidanza, sono donne che hanno subito una lesione al loro desiderio (che
finora non rappresenta in alcun modo una petizione di diritto) di non essere messe
incinte; e poco importa se la causa è uno stupro di rapina o un’esuberanza maritale.
Soprattutto da quando esistono i contraccettivi (pratica preventiva studiata già dai
medici antichi e dalle streghe condannate al rogo), appare chiaro che avere (o non
avere) un figlio per la donna non ricade sotto la categoria del diritto. Fino a pochi
decenni fa la ragazza che “cadeva nel peccato” veniva caritatevolmente cacciata di
casa perché la trasmissione della vita era virtuosa solo se produceva figli legittimi.
Oggi non è più così; ma la maternità è tutto, meno che un diritto. Tanto è vero
che, anche per l’operazione contrapposta all’aborto, la fecondazione assistita, sono
necessarie leggi non solo che la consentano ad una coppia richiedente negandola
alla single (a cui non si può vietare di essere ragazza-madre, ma secondo prassi
“naturali” che, forse, ad una lesbica possono ripugnare), ma anche impediscano
all’uomo che accetta la pratica eterologa di rifiutare il riconoscimento del figlio
“non suo”.
Che cosa mai significherà, pensando il giure al femminile, l’espressione habeas corpus? Norme tradizionali che intendevano lo stupro “reato contro la morale”
e addebitavano il “debito coniugale” alla sola donna?
Si possono comprendere le ragioni che impediscono il riconoscimento della
maternità come potere: se accadesse, essendo quello riproduttivo - almeno per ora il potere più grande, le donne potrebbero fare tutto quello che vogliono. Il mondo
che fin qui ha gestito tutte le categorie dei poteri non può ammetterlo, anche se,
per la verità, si apre un’ulteriore questione: se sia vero che l’esperienza femminile,
pur vissuta in termini di sottomissione, abbia consentito alle donne di avere un
giudizio totalmente altro della categoria “potere”. Infatti, finora, nessuna madre,
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mai, ha avanzato questo riconoscimento.
“Stato interessante”, dunque; peccato che nessuno si chieda mai “per chi”. Infatti, nella stessa concezione dello Stato sembra che la donna abbia figli solo per suo
dovere o, sublimando, piacere. Intanto le nazioni appaiono denominate dal verbo
“nascere”, come a dire che sono generate dalle donne. Eppure le donne non hanno
goduto della nazionalità, se è vero che assumevano automaticamente all’atto del
matrimonio - e continuano ad assumere nei paesi di diritto patriarcale - quella del
marito. La questione identitaria mi appassiona poco perché, strettamente intesa,
porta al nazionalismo; tuttavia mi ha sgomentata, ai tempi della guerra in Bosnia,
pensare che una serba, sposata ad un bosniaco e diventata bosniaca per matrimonio, poteva essere stata violentata da un serbo perché generasse un figlio serbo in
seno all’etnia bosniaca.
Dentro le identità rientrano anche i cognomi. Sembra fanatismo femminista
l’ipotesi di scegliere tra due denominazioni della famiglia; ma è interessante notare
come in Islanda i cognomi della donne evidenzino il padre (il suffisso -dottir significa “figlia di”), mentre in Francia, un tempo non così lontano, usava chiamare una
signora sposata “madame François Mitterand” con anche il nome di battesimo del
marito; in Spagna la donna mantiene il suo cognome (e lo trasmette ai figli) ma
con la preposizione “de” che ribadisce il rapporto possessivo; e in Italia dicevamo
Maria Rossi “in” Bianchi a indicare il suo ingresso in un’altra famiglia.
E’ evidente che la storia rivela molte cose, anche che non esiste una bacchetta
magica per fare come se non fossero accadute. Tuttavia quello “stato interessante” persiste nella sfera degli affetti e non comanda le strutture sociali. Esaltiamo
la grandezza sublime della donna-madre, ma la riteniamo una cattiva lavoratrice
perché può restare incinta. Se dobbiamo aiutare la famiglia, ricorriamo ad un’agevolazione fiscale di qualche euro, ma non rendiamo obbligatori quei servizi che,
dal nido all’assistenza domiciliare agli anziani, sono necessari perché la donna possa
avere la libertà di esercitare il diritto al lavoro. E così le donne non fanno i figli che
vorrebbero, non li fanno da giovani, spesso non li fanno proprio. D’altra parte Elisabeth Badinter1 sostiene la presenza delle chidless (o childfree) che stanno costruendo una nuova identità femminile: “Sono le prime donne nella storia dell’umanità
a riflettere serenamente sulle implicazioni e le conseguenze della maternità. E si
astengono”.
Discutibile; ma gli uomini non riflettono sulla qualità del futuro che li aspetta.
Eppure il tempo per prevedere e prevenire non è molto: non solo la scienza ha
predisposto il congelamento del materiale riproduttivo, la fecondazione in provetta
e si cimenta con la costruzione dell’utero artificiale, ma studia anche l’autofertilizzazione femminile. Le scuole di pensiero si danno a immaginare: per qualcuna il
maschio potrebbe diventare superfluo. Indipendentemente dalla fantascienza, fecondazione assistita e pillola abortiva ridomandano “di chi è il corpo della donna?”,
che è un poco come chiederlo al militare quando “la patria” si appropria di quello
1 E.Badinter, Le conflit: la femme et la mère, Flammarion, 2009
Dossier 53
Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/stato_interessante
del maschio che ha giurato. Solo che i padri non si domandano nulla, mentre alle
donne restano le soluzioni dei semi-liberi, dei servi: come l’aborto non costituiva
problema - nonostante la violazione della legge che lo puniva - purché restasse
clandestino, così se una donna oggi vuole soddisfare la sua più che legittima esigenza di gravidanza, può andare dove la pratica è consentita.
Gli antichi - tutti gli antichi, anche in Africa o in America Latina - danno alla
terra il nome di madre e si conservano simbolicamente i miti che fondano ogni genere di vita sul materno. Che non è la stessa cosa del femminile. Il divino, il sacro,
le religioni e le tradizioni - nate con il sigillo maschile - onorano il femminile in
quanto materno. Sul femminile l’ambiguità domina sovrana: “donna dice danno”,
Eva è la madre dei viventi responsabile del peccato con lei connaturato all’umano,
Pandora ha aperto agli umani il vaso dei mali; la stessa madre del dio cristiano incarnato diventa un idolo nella sublimazione irrevocabilmente maschile della vergine- madre. Ma la madre-terra subisce violenza, come le donne, che, anche quando
erano dee, per secoli hanno partorito bambini e bambine non per sé, ma per la
violenza voluta da una patria, da un mercato, dalla compravendita dei loro corpi.
Anche per i padri, forse, oggi è ora non di limitarsi a dare alle donne l’omologazione al proprio modello: visto che nessuno sa bene che cosa sia la morte, perché non
farsi corresponsabili della vita, che abita anche il loro corpo nella libertà?
* Scrittrice, giornalista, politica, intellettuale, impegnata nel movimento femminista.
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Dossier 55
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Mammismo!
La “sindrome del bamboccione”
ha rilievo clinico?
Una riflessione semiseria sulla centralità della figura materna nel sistema familiare contemporaneo. Scomodati illustri: Carl Gustav Jung, Charles Baudelaire,
Erich Fromm, Aldo Busi, Piero Chiambretti e tanti altri…
di Davide Scheriani*
“Nella città dove sono nato vivevano due donne, madre e figlia, che camminavano
nel sonno. Una notte, mentre il silenzio avvolgeva la terra, le due donne, camminando e dormendo, s’incontrarono nel giardino velato di nebbia leggera.
E la madre parlò, e disse:
- Finalmente, nemica mia, finalmente! Tu che hai distrutto la mia giovinezza,
tu che hai costruito la tua vita sulle rovine della mia! Potessi ucciderti!
E la figlia parlò, e disse:
- Donna odiosa, vecchia ed egoista! Tu che ti ergi tra me e la libertà! E vorresti
che la mia vita fosse un’eco della tua esistenza sfiorita! Vorrei che tu fossi morta!
In quell’istante cantò un gallo, ed entrambe si svegliarono.
Dolcemente, la madre disse:
- Sei tu, tesoro?
E dolcemente la figlia rispose:
- Sì, cara”1
Kahlil Gibran, Il folle
“C’è la madre a pezzi, logorata dalla deriva del figlio, che accenna ai presunti effetti
dei drammi coniugali: è la nostra separazione che l’ha… da quando è morto suo padre
lui non è più… C’è la madre umiliata dai consigli delle amiche i cui figli invece vanno
bene o che, peggio ancora, evitano l’argomento con una discrezione quasi insultante…
[…] C’è quella che non ne fa una questione di persone, ma inveisce contro la società che
si sgretola, l’istituzione che va a rotoli, il sistema che è marcio, la realtà, insomma, che
non si adatta ai suoi sogni… C’è la madre furiosa con il proprio figlio: questo ragazzino
che ha tutto e non fa niente, questo ragazzino che non fa niente e vuole tutto, questo
ragazzino per cui abbiamo fatto di tutto e che non c’è verso che… mai una volta…
non se ne può più! […] C’è la madre che teme la reazione del padre: questa volta a mio
marito non andrà giù- […] C’è la madre ferrata in psicologia che dà una spiegazione a
1 Kahlil Gibran, Il folle, Mondatori, Milano, 1997, pag.17.
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Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo!
tutto e si stupisce che non si trovi mai una soluzione a nulla, l’unica al mondo a capire
il figlio, la figlia, gli amici del figlio e della figlia, e che nella sua eterna giovinezza di
spirito (Vero che bisogna saper restare giovani?) si stupisce che il mondo sia diventato
così vecchio, così incapace di comprendere i giovani. C’è la madre che piange, ti chiama
e piange in silenzio, e si scusa di piangere… un insieme di pena, di preoccupazione e
di vergogna… A dire il vero tutte provano un po’ di vergogna, e tutte sono preoccupate
per il futuro del figlio.
-Ma che cosa diventerà?-”2
Eccole, le mamme di oggi. Nevrotiche, preoccupate, sole. Le ricevo quotidianamente, esercitando la mia professione in ambito istituzionale e privato. Molto di frequente giungono al colloquio prive di accompagnatori (mariti, figli, padri), eppure
la presenza/assenza di costoro è ridondante nelle loro narrazioni. In alcuni casi, viene
descritta come una mancanza determinante (“Mio marito mi trascura, mio figlio mi
evita”); in altri, invece, si configura come una relazione di tipo vagamente persecutorio… “Non riesco a staccarmeli di dosso, non ho mai tempo per me”.
Il dibattito sulla centralità della figura materna nel sistema familiare nazionale
contemporaneo ha varcato i confini della ricerca di settore, scagliandosi all’arrembaggio di una molteplicità di ambiti socio-antropologici e culturali, con i prevedibili effetti entropici e confusivi che si scatenano in questi frangenti: dai proclami
dell’austero Ministro dell’Economia e Finanza, alle luci della ribalta mediatica nazionale, affollata di professionisti e sedicenti tali, ansiosi di sfoggiare cardigan color
pastello, spiritose montature d’occhiali e illuminati pareri d’autore.
Sforzandosi dunque di recuperare un’ottica meno compiacente ai dettami nazional-popolari (datosi peraltro che nemmeno il Festival della Canzone Melodica
Italiana, da poco conclusosi, ha offerto lampanti prove di tenere in adeguata considerazione l’argomento in questione, preferendogli la “patria” e la “religione”, per
bocca ed ugola di un regale interprete), vediamo cosa ne dicono gli Americani, i
quali, ben si sa, hanno risorse materiali e intellettuali ben più estese delle nostre,
per comprendere il Reale (quella categoria dell’Essere caro a Lacan, non il sopraccitato bamboccione di savoiarda schiatta, si intenda bene...):
“It’s true Italy has a problem with sons never growing up in their mothers’ eyes. [...]
Mammismo has its roots in the traditional role of the Italian (and Latin) woman,
who often felt unfulfilled before career and divorce were options. She thus poured her
love into her children. Over time, the son became a sort of husband to his mother,
without the sexual component.[...] Italians with openly proud relationships with their
mammas include former prime minister Silvio Berlusconi, journalist Paolo Brosio, art
critic Vittorio Sgarbi, author Aldo Busi, comedian Gene Gnocchi, and TV host and
showman Piero Chiambretti”3.
Perbacco, nemmeno gli Americani si arrischiano nella traduzione terminologica
2 D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008, pp.41-42
3 Raeleen D’Agostino, Global Psyche: Forever Mamma’s Boy, in Psychology Today, Sussex, New York,
Marzo 2008.
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di una sindrome talmente culture-related da rendere avventato qualsiasi paragone
o generalizzazione categoriale (ne troveremo forse traccia nella prossima edizione
del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”?). Ebbene, a fronte di
tali sconsolanti evidenze, si sarebbe tentati di deporre le armi, arrendendosi all’evidenza di un trend psicologico, sociale e culturale che non ha precedenti nella storia
moderna o in Paesi diversi dal nostro (rappresentati, va da sé, da ben altri modelli
di homo politicus e televisivus).
“Il codice materno antepone «naturalmente» il figlio a sé e possiede una sconfinata
capacità di sacrificio che ne costituisce la vera grandezza. I padri notoriamente hanno
meno pazienza, si stancano subito, sono meno adattabili e disposti alla rinuncia. Ma la
mentalità educativa femminile contiene in sé anche il principio della sua pericolosità;
se infatti non è fecondata dall’apporto maschile, tende a scivolare nella pericolosa china
dell’annullamento di sé, alimentando nei figli pretese e richieste che rendono eccessivamente gravosi i rapporti. […]Poiché amare non è mai stato facile, non esistono rapporti
buoni se non a prezzo di qualche fatica da affrontare o rinuncia da accettare. Nella
misura in cui permettiamo che i figli disconoscano questa fondamentale espressione della giustizia relazionale, essi diventano approfittatori (della bontà, della pazienza, della
comprensione, in ultima analisi dell’amore altrui) e progressivamente «uccidono» il loro
oggetto d’amore. […]Se il dolore provocato interiormente nella mamma dall’eccessiva
fatica della convivenza con il figlio non è ascoltato, se il non poterne più di lui […] non
si traduce in intelligenza del proprio errore, non è possibile dare una svolta ai rapporti.
Il pungolo della disperazione dice di una sofferenza malata, che non è realmente utile
al figlio, di un amore geneticamente modificato, che lo ha reso infecondo. Se proprio le
donne smarriscono l’intima convinzione che ciò che più conta è voler bene, e da mamme non insegneranno ai figli a non aver paura ad amare, tutto sarà perduto. Il regalo
più bello che esse possono fare al mondo è un figlio capace di voler bene. Chi ci salverà
se le donne, smarrendo il segreto della loro vera grandezza, non testimonieranno più
questa verità?”4
E’ pur vero, però, che la spinosa questione del mammismo ha coinvolto un
illustre luminare svizzero, in tempi e luoghi non sospetti. Figlio di un pastore protestante deluso dal matrimonio e con il quale il giovane Jung (ecco svelata l’identità
del “mammone” ante litteram…!) non ebbe un facile rapporto, della madre invece
maturò un ricordo più affettuoso: la definì “un’ottima madre, enormemente accogliente, di piacevole compagnia”5 e non pare sinceramente azzardato rintracciare
una certa influenza di questo vissuto personale sull’evoluzione dell’archetipo materno, nella ricerca scientifica di uno dei padri della moderna psicoanalisi.
“Poiché il concetto di complesso materno, è tratto dall’ambito della psicopatologia,
esso è sempre associato con quello di danneggiamento e sofferenza. Se però noi lo sottraiamo all’ambito strettamente patologico per fornirgli una connotazione più ampia e
più ricca, possiamo coglierne anche l’effetto positivo: nel figlio può ad esempio prodursi
4 Osvaldo Poli, Mamme che amano troppo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, pp.1-23
5 Maurizio Quilici (a cura di), Onora il padre e la madre, Bompiani, Milano 2001, p. 372
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[…] uno sviluppo del gusto e del senso estetico al quale un certo elemento femminino
non nuoce; delle virtù pedagogiche rese perfette dalla capacità femminile d’immedesimazione; un senso della storia conservatore nel senso migliore del termine, in quanto
ha il culto dei valori del passato […] una pienezza di sentimento religioso che traduce in realtà l’ecclesia spiritualis; una ricettività spirituale, infine, che rende l’uomo
sensibile alla Rivelazione. […] Abbiamo notato che nella figlia il complesso materno
genera o un’ipertrofia del femminile o una corrispondente atrofia. L’eccessivo sviluppo
del femminile comporta un rafforzamento di tutti gli istinti femminili, in primo luogo
dell’istinto materno. L’aspetto negativo è costituito dalla donna il cui unico scopo è la
procreazione. […] Questo tipo di donna prima fa i figli, poi ai figli si aggrappa, non
avendo all’infuori di essi alcuna raison d’être. […] Questa donna infatti, malgrado
tutta l’abnegazione di cui si dice capace, non è assolutamente in grado di compiere nessun sacrificio reale, ma impone il suo istinto materno con una volontà di potenza spesso
sprezzante che giunge fino all’annientamento della sua personalità e della vita stessa dei
figli. […] Così Plutone rapì Persefone all’inconsolabile Demetra, ma per decreto degli
dei fu costretto a cedere all’inizio di ogni estate la sposa alla suocera (Il lettore noterà che
simili leggende non nascono per caso)”6.
Se dunque possiamo timidamente iniziare a relativizzare l’orrida piaga del
mammismo, ponendola entro una cornice ben più ampia di quanto non sarebbe legittimamente consentito dalla nostra, povera, congiuntura spazio-temporale,
infarcita di tronisti, sciampiste e pretendenti al Grande Fratello (trovandone traccia nientepopodimenoche nella mitologia classica, con buona pace di Jung), saremo
quantomai rincuorati dalle accorate righe del più “maledetto tra i mammoni”.
Per tutta la vita, infatti, Charles Baudelaire tenne un’amorosa corrispondenza
con la madre. Orfano di padre a sei anni, nella madre, dalla quale fu quasi sempre
lontano, cercò tutto l’amore e la tenerezza di cui il suo animo pieno di contraddizioni era in cerca, teso all’idealizzazione, entro una fusione diadica totale. Le lettere
della maturità, angustiata dalle ristrettezze economiche e dai problemi di salute,
umiliata dalla tutela giudiziaria che proprio l’adorata madre era stata costretta a
pretendere, dopo che il figlio aveva già dilapidato l’eredità paterna, accumulando
ingenti debiti, mescolano in pari misura affetto, rabbia, ammirazione, esaltazione
e, last but not least, continue richieste di denaro.
“Mia cara madre, se possiedi veramente il genio materno e non sei ancora stanca,
vieni a Parigi, vieni a vedermi, ed anche a cercarmi. […] Alla fine di marzo, ti scrivevo: Ci rivedremo mai? Ero in una di quelle crisi in cui si vede la terribile verità.
Darei non so che cosa per passare qualche giorno accanto a te, tu, l’unico essere a cui la
mia vita è sospesa, otto giorni, tre giorni, qualche ora. […] Tutte le volte che prendo la
penna per esporti la mia situazione, ho paura; ho paura di ucciderti, di distruggere il
tuo debole corpo. […] Credo che tu mi ami appassionatamente; con animo cieco, così
forte è il tuo carattere! Io, ti ho amata appassionatamente nella mia infanzia; più tardi,
spinto dalle tue ingiustizie, ti ho mancato di rispetto, come se un’ingiustizia di madre
6 Carl Gustav Jung, L’archetipo della madre, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp.36-44
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potesse autorizzare una mancanza di rispetto filiare; spesso me ne sono pentito, anche se,
come è mia abitudine, non ne ho fatto parola. […] Ci fu, nella mia infanzia, un’epoca
di amore appassionato per te; ascolta e leggi senza paura. Non te ne feci mai parola. Mi
ricordo di una passeggiata in fiacre; uscivi da una casa di cura dove eri stata relegata,
e mi mostrasti, per provare che avevi pensato a tuo figlio, dei disegni a penna che avevi
fatto per me. Non credi che ho una memoria terribile? […] Ah! Questo fu per me il bel
tempo delle tenerezze materne. Tu appartenevi soltanto a me. Idolo e compagno insieme
eri per me. Forse ti stupirai che io possa parlare con passione di un tempo tanto remoto.
Io stesso ne sono stupito. Forse perché ancora una volta, ho concepito il desiderio della
morte, i fatti antichi mi si dipingono così vivi nel mio animo. […] Passo oltre rapidamente, perché indovino delle lacrime nei tuoi occhi”7.
Basterebbe una rapida scorsa a queste righe, per solleticare l’occhio clinico (ornato di spiritosa montatura) di tanti colleghi. E’ evidente che ci troviamo in presenza di un legame diadico regressivo, improntato ad un narcisismo più tipico
dell’adolescente immaturo, che dell’adulto adeguatamente separato/individuato.
Ed è proprio nella fase dell’adolescenza che vengono alla luce (e, purtroppo, in
taluni casi, si cronicizzano) i conflitti più aspri con la figura primaria di riferimento
e di rifornimento affettivo.
“Durante l’infanzia, il corpo e la sua superficie sono il luogo elettivo dell’interazione e
dello scambio fra madre e figlio: le cure igieniche, le manipolazioni di indole estetica che
rendono il figlio il capolavoro espressivo della madre e le miracolose cure materne della
sofferenza del corpo durante le mille malattie dell’infanzia scorrono lungo tutta la sua
superficie, estendendo il soffice dominio della madre e la sua colonizzazione del figlio.
[…] Sopraggiunge l’adolescenza e il figlio è costretto ad impossessarsi del corpo ottenuto in dotazione dalla madre: sa che appartiene alla madre, ma è costretto a rubarglielo poiché deve usarlo in modo clandestino e ciò che farà e subirà non riguarda più
la madre se non in modo simbolico e nostalgico. Inizia così ad addobbarlo e ad usarlo
come un luogo di importanti comunicazioni verso la microsocietà dei coetanei; i segni
che gli infligge, i graffiti con cui lo disegna, gli abiti o gli emblemi di cui lo copre e che
lo significano non sono messaggi per la madre, semmai sono rivolti contro la madre ed
attuati in onore degli amici e delle amiche. Succederà che si decida a bucarlo in profondità per infilarvi in permanenza monili metallici, o che lo consegni a mani mercenarie
che depositino sotto la cute inchiostri che disegnano tatuaggi esotici, nostrani segni di
ingresso definitivo nel corpo e nella sua insostenibile essenza identificatoria.
[…] Molti bambini giungono all’ingresso in preadolescenza sovraccarichi di responsabilità assunte e messe in pratica nei confronti dei loro genitori o di uno dei due,
generalmente la madre, ma negli ultimi anni a chiedere questo particolare tipo di assistenza che solo un figlio può erogare si sono affacciati anche molti padri in parte perché
maternalizzati, in parte perché c’è qualcosa nel nuovo stile relazionale fra genitori e
figli che rende molto responsabili i figli nei confronti della salute mentale dei genitori.
Molti figli, trovandosi inscritti all’interno di un rapporto molto psicologizzato con i loro
7 Charles Baudelaire, Lettere alla madre, Mondadori, Milano, 1998, pp.124-125.
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genitori, finiscono per sviluppare una particolare sensibilità nei confronti della sofferenza psichica degli adulti di casa e assumono volentieri il compito di vedere cosa si possa
fare: ciò che generalmente si può fare è cercare di distrarre il genitore male in arnese
dal proprio cruccio, regalandogli un grosso lavoro da fare: ad esempio imponendogli un
surmenage parentale attraverso anomalie della condotta di tutti i tipi, creando allarme
sociale, ammalandosi il più enigmaticamente possibile, di modo che il male perduri e si
riveli solo nelle occasioni in cui serva all’obiettivo prescelto”8.
Ed eccoci di nuovo a parlare di questi maschi presenti/assenti, che lasciano alla
consorte il pesante fardello della gestione affettiva del rapporto col “bamboccio”.
Se in passato, infatti, questi incarnava maggiormente l’imago della “bambola” graziosa ed a-sessuata (erroneamente ritenuta tale, ci ha insegnato un certo Sigmund
F.), ora è divenuta manifestamente e sfrontatamente ribelle agli imbellettamenti e
alle carezze, preferendovi creste, piercing e tatuaggi. In questa spiazziante situazione, il “mammo” non può che amplificare i timori e le ansie che la mamma fisiologicamente avverte, contribuendo a consolidare la strutturazione di un sistema
disfunzionale che non tollera la frustrazione e la negoziazione del conflitto.
Ma vi sono, ahinoi, altre tipologie di famiglie, che indulgono nella “coazione a
ripetere” rappresentata dall’abolizione coatta di qualunque “crisi” (anche di quelle
utili alla crescita e all’evoluzione, direbbe Erikson).
“Ci sono genitori, oggi, che vorrebbero avere un rapporto di amicizia con i figli: ma
un padre o una madre non possono essere contemporaneamente gli amici del proprio figlio.
L’amicizia presuppone un rapporto paritario, mentre, quando un genitore pretende l’amicizia del figlio, il risultato è un rapporto immaturo e squilibrato, in cui uno cerca l’amicizia
di una persona parimenti inadatta ad offrirgliela, a causa della costellazione di esperienze
emotive da genitore a figlio che si è consolidata negli anni dell’infanzia. L’unico posto che
un figlio può occupare con reale soddisfazione reciproca nella vita del genitore è, appunto,
quello di figlio. Non può, in aggiunta, fungere da risarcimento per quello che manca nella
vita del genitore, per quanto ardentemente questi lo desideri. E l’unica cosa che un genitore
può essere per il figlio è precisamente questa: […]una persona matura, che accetta con amore
e comprensione le immaturità del figlio, che lo protegge dal sentirsi umiliato, e vigila inoltre
perché non producano conseguenze dannose, mentre, al tempo stesso, gli fornisce quegli esempi di maturità che lo guideranno nel corso del suo autonomo sviluppo”9.
“Una causa dello sviluppo nevrotico può risiedere nel fatto che un ragazzo ha una madre
amorosa, ma troppo indulgente o troppo autoritaria ed un padre debole e distratto. In questo
caso, può restare legato infantilmente alla madre e sviluppare una personalità subordinata
ad essa; è un debole, ha bisogno di ricevere, di essere protetto, curato, e manca di qualità
paterne: disciplina, indipendenza e capacità di costruirsi la vita da solo. Può trovare ‘madri’
in tutti, a volte in donne, e a volte in uomini dotati di autorità e di potere”10.
8 Gustavo Petropolli Charmet, I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida, Cortina,
Milano 2000, pp.40-96.
9 Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano, 1988, pag.361.
10 Erich Fromm, L’arte di amare, CDE su lic. Il Saggiatore, Milano, 1983, pp.48-52.
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Alla luce di queste considerazioni, sembra ormai plausibile azzardare l’ipotesi
che il mammismo sia ben lungi dal doversi considerare un male incurabile della
nostra società contemporanea. In primo luogo perché esso è sempre esistito, laddove si sia insediato uno squilibrio di istanze parentali all’interno del sistema famigliare, premessa che lascia purtroppo più spazio alla cronicizzazione della reciproca
dipendenza dei suoi membri, piuttosto che all’emancipazione e alla realizzazione
delle individualità. In secondo luogo, il mammismo non deve essere demonizzato,
ma nemmeno sottovalutato.
“Occorrerebbe invece pensare a riformare il concetto stesso di educazione se si vuole
smettere di castrare simbolicamente i bambini nelle loro potenzialità espressive e averne
cura senza alterare lo sviluppo della personalità. Bisogna che i genitori e gli adulti in
genere smettano di voler insegnare ai bambini a fare i bambini e agli adolescenti a fare
gli adolescenti (cosa che bambini e adolescenti, se lasciati a sé stessi, sanno fare in modo
eccellente). Una volta sciolti da simili impegni gravosi e giornalieri, che non hanno mai
fine, padri e madri potrebbero dedicare tutto il loro tempo libero ad imparare a fare i
genitori. Si dovrebbero creare delle scuole per genitori. Fino ad ora, pochi ci hanno riflettuto, ritenendo quasi che fosse sufficiente essere adulti e poter assolvere alla funzione
biologica della riproduzione per saper anche allevare la prole”11.
La figura materna è un territorio dai confini indistinti. Forse è proprio a causa
di questa aleatorietà che oggi è divenuto così complesso identificare il discrimen che
separa il “bamboccio” dall’adulto. Ciò non toglie che, per il nostro stesso benessere,
sia imprescindibile (ieri, come oggi, come sempre) mantenere separati i sogni, il
sonno, dalla realtà. Con buona pace di Chiambretti e Soci.
*Psicologo clinico, Counsellor.
Collaboratore Stripes Cooperativa Sociale ONLUS e co-fondatore di Spazio-Ars,
Associazione Culturale per la promozione di terapia
individuale e sistemica e la fruizione artistica e culturale.
11 Tilde Giani Gallino, Il complesso di Laio, Einaudi, Torino, 1978, p. 57.
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Disfare la madre, rifare la madre
La fantasia di sostituire i pezzi difettosi del nostro corpo (i trapianti sono un
esempio significativo) porta traccia di un corpo, preverbale, fatto di parti non
integrate tra loro che lo sguardo di un altro ha riunificato in una forma riconoscibile perché simile alla propria. “ Tu sei il mio bambino” significa “tu sei come
me”, della stessa specie cioè.
di Manuela Fraire*
Per queste note relative alla madre, il suo ruolo e la sua funzione mi sono ispirata
innanzitutto al pensiero di Piera Aulagnier e in seconda istanza a Lacan, suo maestro.
Per via del peso che nel loro discorso ha il linguaggio. Tuttavia tra i due autori vi sono
differenze sostanziali la prima delle quali è quella che interessa qui: per Aulagnier la
madre è una persona di sesso femminile oltre che una funzione, mentre per Lacan la
madre è l’Altro adulto che supplisce alla prematurità dell’infans ma nel suo pensiero
non è chiaramente riferita alla donna la funzione identificante che l’Altro svolge.
Aulagnier definisce significativamente “portaparola” la madre e discorso materno l’insieme degli enunciati attraverso cui identifica colui a cui quel discorso è
destinato.
Altrettanto fondamentale è per l’autrice la relazione dell’Io con la propria immagine nel senso in cui ad essa si riferisce Lacan nello “Stadio dello specchio” e cioè
“l’emergere nello specchio di una immagine che la psiche riconosce come propria.” 1
Il posto assegnato alla madre come origine dello psichismo umano è sinteticamente
espresso nelle seguenti righe: “Non soltanto non è in potere del bambino scegliere la madre, ma non è in suo potere non investirla, e non è nemmeno in suo potere distribuire il suo
investimento su altri oggetti che permettano di moderarne l’intensità.”2
Le identificazioni veicolate dagli enunciati identificatori della madre, sono i
mattoni necessari alla futura costruzione dell’Io dell’infans in quanto primi messa
in forma e significato attribuiti dalla madre alle sensazioni senza nome esperite dal
bambino. Esse sostanziano la funzione anticipatrice della madre attiva ancor prima
della nascita del bambino, durante la gravidanza. Quel “quando…” fantasticato
dalle madri riferito al nascituro che precorre ciò che egli sarà modellandolo sul
proprio desiderio.
L’infans dunque incontra un prima di se stesso, un già-lì del suo corpo e dei
suoi bisogni costituito dalla voce e dal corpo di colei che è il supporto dei suoi
investimenti.
Il piccolo umano viene dunque provvisto dal discorso e perfino dall’intonazione della voce materni delle rappresentazioni che significheranno - una volta che
avrà fatto suo quel discorso - il corpo da cui e di cui parla, le sue modificazioni, le
sue fluttuazioni segnate da cadute di senso, deformazioni, spostamenti, tutta una
1 P. Aulagnier (1992), La violenza dell’interpretazione, Borla, Roma 1994. p. 232
2 P. Aulagnier (1977-78), I destini del piacere, Borla, Roma 2002
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morfologia dell’aberrazione che trova nel discorso materno un ancoraggio.
Da quanto detto si può comprendere l’importanza che la categoria di incontro
assume nel pensiero dell’autrice: esso è infatti il risultato dell’incontro di due spazi
psichici nei quali una stessa esperienza si inscrive usando però due differenti scritture. L’infans è obbligato dalla sua prematurità ad accogliere il supporto che gli
viene dall’Io materno anche quando questo si rivela un avversario invece che un
alleato come - nei casi più estremi - avviene nella psicosi.
Un momento cruciale nella vicenda psichica dell’infans è rappresentato dal passaggio dall’essere un corpo - momento della pura sensorialità - all’avere un corpo,
primo possesso che l’Io esperisce. “Io sono colui che possiede questo corpo” è una
formulazione che stabilisce una relazione tra due entità, l’Io e il suo corpo. Ciò
significa anche “occupare un posto nel campo dell’osservabile, dell’esistente, del
differenziabile per lo sguardo dell’altro.3
Alla nascita c’è dunque un momento della parola che è di dominio assoluto dell’Io
materno (il portaparola) e un momento dell’immagine, momento figurale, relativo
al nostro proprio corpo - l’ancoraggio più arcaico all’esperienza che facciamo di
noi stessi - in relazione allo sguardo, innanzitutto quello della madre che conferma
a colui che fissa l’immagine di un bambino nello specchio che quella immagine “è
lui”. La conferma permette al bambino di assumere l’immagine riflessa nello specchio come propria. Detto questo resta inesplorata l’area relativa alla conferma che lo
sguardo materno occupa nella costituzione dell’Io di un uomo e di una donna poiché
non si può dare per scontato che le vicissitudini di ambedue questi Io non siano differenziate sin dalla nascita e forse anche prima della nascita.
Alla luce di queste considerazioni le nuove vie d’accesso alla procreazione e di
conseguenza la costituzione di inediti nuclei familiari (monogenitoriali, coppie di
persone dello stesso sesso, ecc) mi sembra che lasciano spesso sullo sfondo il fatto
che anche un utero “in affitto” è alloggiato nel corpo di una procreatrice che ha
avuto quel corpo in eredità dalla propria madre porta-parola.
Alla madre non si può, né conviene, dunque sfuggire e tuttavia - o forse proprio per
questo - le migliori facoltà dell’Io si manifestano proprio attraverso lo sforzo continuo
di smarcarsi dall’Io materno. Ribadisco dall’Io della madre, dal suo discorso, innanzitutto quello che ci ha definiti come un Io-corpo. Questo prima che il suo corpo diventi
significativo per la psiche dell’infans. La madre-corpo - soprattutto corpo - è in larga
misura un’invenzione dettata dal timore che la potenza materna non può che generare. Anche Winnicott, che pure assegna alla funzione dello handling tanta importanza,
sottolinea l’importanza che lo sguardo materno - il volto della madre con la sua gamma
espressiva - comunica al bambino di ciò che ella vede in lui e di lui.
La cosa singolare propria dell’umano è che per avere un corpo c’è bisogno di una doppia alienazione: il mio corpo diventa un mio possesso, un mio bene solo se le circostanze
nelle quali nasco mi permettono di investirlo libidicamente, insomma se è uno strumento
di piacere per il mio Io e dunque da esso distinto anche se non separato. Questo piacere
3 Ibidem, p. 112
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d’altra parte è ben lontano dall’essere la pura traduzione sensoriale dell’eccitamento che il
corpo della madre mi procura, esso ha infatti bisogno anche di un apparato psichico che
mi permetta di riferire al mio Io il piacere che il mio corpo esperisce.
Si deve a Lacan il merito - con il suo contributo sullo “stadio dello specchio”- di
aver tracciato una linea di demarcazione tra corpo reale e corpo immaginario, e di
aver sottolineato che ad entrare nei dispositivi di linguaggio è solo quello immaginario mentre il corpo reale resiste alla significazione.
Il fenomeno dell’invecchiamento è una circostanza in cui il corpo immaginario
salta in primo piano. Col passare del tempo infatti la separazione del nostro Io da
un corpo reale che invecchia aumenta al punto da escludere dalla nostra immagine
le parti che, a nostro parere, la de-formano. Una ruga, un afflosciamento dei tessuti,
una modificazione della struttura ossea ecc., vengono rifiutate dal nostro sguardo
come non appartenenti a noi stessi al punto da rendersi necessario un nuovo “montaggio” delle diverse parti che formano l’immagine integrata del nostro corpo.
La consistenza biologica dei corpi presa in sé nulla dice del corpo storico, quello
a cui ci si riferisce quando si dice “partire da sé”, poiché il corpo biologico è opaco
al linguaggio, ostico alla significazione resistente anche alla sessuazione. E’ l’entità
a cui si riferisce il “reale” che mette in scacco il processo di simbolizzazione a cui è
giunto Lacan al termine del suo viaggio.
La procreazione è forse l’unica azione umana ad avere una significanza preverbale
poiché immette nella realtà la cosa-viva che ha la doppia potenzialità di soggetto oltre
che di oggetto, di parlante oltre che di parlato, di creazione oltre che di creatura. Ma
anche la procreazione intanto è qualcosa di più che un puro evento in quanto ad essere simbolizzato è anche in questo caso l’incontro tra due esseri distinti da cui si genera
il terzo, forse l’unico vero terzo della vicenda umana, il frutto dell’accoppiamento tra
un maschio e una femmina. Il carattere essenziale del “fatto procreativo” (e non della
procreatività che categorizza ciò che invece attiene alla singolarità dell’esperienza di
ogni donna) consiste nell’essere la traccia extra-verbale dell’incontro dei due sessi.
L’affermazione di Freud che “l’anatomia è un destino” 4 non avrebbe senso se corpo
e linguaggio non si mettessero reciprocamente alla prova. Perché vi sia un “vissuto” del
corpo c’è necessità di un Io che possa pensare quel corpo, ma è altrettanto vero che la
capacità di pensare è una conquista che si fa strada attraverso l’esperienza di una sensorialità priva di pensieri e rappresentazioni se non quelli che ci fornisce l’altro materno.
L’aspetto destinale non sta dunque nel corpo in sé ma nella sua intraducibilità
nei codici della psiche. I greci avevano due termini per designare la vita: zoé e bios,
la vita animale e la vita nella sua specificità umana. Il destino sta dal lato animale,
la tirannia della vita che fa fallire i nostri tentativi di padroneggiarla, rispetto alla
quale spesso si infrangono le leggi che regolano il pensiero.
La parola destino allude al fatto che il corpo biologicamente inteso immette
nella vita della mente un elemento di imponderabilità che si dovrà prima o poi
riferire alla mortalità.
4 S. Freud, Il tramonto del complesso edipico, in Opere, vol. X, Boringhieri, Milano, 1978.
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La fantasia di poter cancellare i segni del tempo - il linguaggio figurale del corpo
storico - più che un rifiuto dell’invecchiamento in sé e per sé ha a che fare con il ritorno di un rimosso che affonda le sue radici nell’origine stessa dell’Io. La fantasia di
sostituire i pezzi difettosi del nostro corpo (i trapianti sono un esempio significativo)
porta traccia di un corpo, preverbale, fatto di parti non integrate tra loro che lo sguardo di un altro ha riunificato in una forma riconoscibile perché simile alla propria.
“Tu sei il mio bambino” significa “tu sei come me”, della stessa specie cioè.
Il riferimento al momento del riconoscimento del bambino da parte della madre rinvia alla funzione strutturante che nell’economia del mio discorso fanno della
presenza e dello sguardo materni i primi fattori identificanti su cui la psiche nascente può fare presa. La madre come persona quindi e non solo come funzione è colei
a cui spetta di identificare il figlio come l’altro che condivide con lei l’appartenenza
alla stessa gestalt della specie umana mentre nell’epoca prenatale c’era stata anche
una condivisione dei corpi.
Ma - e qui è il punto problematico - perché questo altro che ha la funzione di
primo identificante non è intercambiabile con una persona di sesso maschile? E
questo è poi vero?
La relazione dell’Io con l’immagine nasce nel momento definito da Lacan come
stadio dello specchio. Incontro decisivo tra chi guarda e il suo riflesso, un incontro
tuttavia che assume il suo vero significato solo se si tiene conto di “quel movimento
dello sguardo del bambino che si scopre nello specchio, che lo conduce verso lo
sguardo della madre alla ricerca della conferma della bellezza dell’immagine, prima
di ritornare allo specchio e al suo riflesso speculare.”5
Notiamo che a quell’età ci vuole una persona adulta alle spalle del bambino che
lo sostenga e gli dia così modo di osservarsi nello specchio stando in piedi, posizione che la sua motricità ancora non gli consente.
Nello specchio si riflettono dunque due figure di cui una, più piccola, sovrapposta e in qualche modo “incorniciata” dalla figura più grande. Vi sono anche due
sguardi che si cercano, precursori di ogni altro desiderio di “essere cercati con gli
occhi” come si dice degli innammorati.
Tutto questo però non dimostra che l’appoggio al bambino sia necessariamente
quello fornito dalla madre. Tuttavia se lo stadio dello specchio è preso anche nel
suo significato metaforico si comprenderà meglio perché la “tonalità” dello sguardo
che conferma il bambino deve essere carica di significati che apparterranno solo in
un secondo tempo al mondo immaginario del bambino. Davanti allo specchio si
verifica un evento che virtualizza il parto, la separazione cioè di due corpi di cui
uno dei due conteneva l’altro. L’evento della nascita è estraniante soprattutto per
la madre che deve riconoscere come parte di sé un altro divenuto la proiezione
esternalizzata di una parte di sé.6
5 P. Aulagnier, Op. cit., p. 232
6 Oltre il discorso lacaniano, anche se a partire da esso, si colloca la mia ipotesi: l’immagine che
fonda l’io individuale è un’immagine composta da due entità. Ne dà conto in modo suggestivo
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Anche immaginando una donna che nello specchio cerchi se stessa oltre il bambino che sostiene, metafora di una donna che non è tutta dentro la funzione materna, si deve ammettere che lo stadio dello specchio non definisce univocamente
la funzione della madre in relazione alla prematurità del bambino bensì adombra
uno scarto, un intervallo, uno spazio-tempo che ha innanzitutto il significato
dell’interruzione della continuità tra i due corpi.
Potremmo ipotizzare addirittura che è nel momento della specularità raddoppiata- madre e figlio davanti allo specchio- che lei non meno di lui deve compiere
un autoriconoscimento e che per fare questo ha bisogno dell’altra immagine che
oscura parzialmente la sua. Non più un intero che contiene un tesoro segreto bensì
un due in sovrapposizione, esposto allo sguardo dell’altro, degli altri.
La madre che nello specchio cerca se stessa mentre sostiene il figlio è ben rappresentata dalla madre self-absorbed di Pontalis7, che nel suo non esserci tutta lascia
vacante lo spazio nel quale il bambino incontrerà il proprio desiderio, innanzitutto
l’averla tutta per sé, a disposizione del gioco solitario in cui è il padrone assoluto.
Ma il tempo che passa è il vero padrone di tutti e non risparmia neanche la
madre più devota e il bambino più innamorato. Basti pensare al doloroso stupore
con cui inevitabilmente scorgiamo nello specchio l’immagine di noi all’improvviso
“vecchi”, come fosse accaduto d’un colpo. L’esperienza dice che la prima reazione
è il misconoscimento del fatto che quelli riflessi nello specchio siamo noi. Non ci
riconosciamo e scorgiamo all’improvviso lo spavento della dif-formità dell’immagine che lo specchio ci rimanda da quella che abbiamo gelosamente custodito fin lì.
Momento terribile legato alla “maturità” per almeno due motivi: uno è che avviene
nell’età cosiddetta matura e l’altro è che è una possibilità di maturare un nuovo
incontro con noi stessi.
Tuttavia perché questo sia possibile c’è necessità di nuove esperienze di rispecchiamento nello sguardo di un altro che ci identifica e ci riconosce come appartenenti
alla sua stessa “specie”. Una funzione identificante che si rinnova all’infinito nelle
nostre vite e che rende sempre attuale il “bisogno di madre”. Eppure non è affatto
probabile né auspicabile che sia proprio la madre dell’origine a svolgere la funzione
identificante, né tuttavia è così semplice trovare quella stessa funzione in un altro
per significativo che sia. Ci vuole infatti che in qualche modo sia andata “distrutta”
la madre dell’origine perché si possa ricostruire - nel corso delle varie epoche della
vita - la nuova madre, quella che sostenga insieme a noi il turbamento prodotto da
un’immagine di noi stessi irriconoscibile. Freud comprende questo evento acutamente quanto dolorosamente quando conia il concetto di “perturbante”. Il rifacimento
della madre ha piuttosto a che fare con un altro che riconosce e identifica il nostro
l’iconografia sacra della cristianità che rappresenta la Madonna con il bambino: essi costituiscono
un’ unica immagine contenuta entro un solo perimetro. La precisazione è necessaria per comprendere come all’interno della relazione madre-figlio sia già presente un terzo elemento che precede
l’Edipo e che riguarda la triangolarità istituita dalla madre, dal bambino e dalla loro immagine..
7 Jean Baptiste Pontalis , Perdere di vista, Borla, Roma, 1993, p. 192 e sg.
Dossier 85
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essere cambiati come compatibile con l’insieme a cui sentiamo di appartenere.
E’ una delle illusioni sostenute dall’affermazione che “mater semper certa est” che
ci inchioda lei e noi alla letteralità del corpo biologico della madre, mettendo così in
scacco la qualità simbolica dell’azione identificante svolta dalla madre dell’origine.
L’esperienza che fonda l’Io, anche se non l’unica ad avere questa funzione, si ripresenta ad un certo punto della vita sotto forma rovesciata: guardandoci nello specchio - o
peggio ancora negli occhi di un altro che non ci riconosce - arretriamo nel tentativo
di mettere fuori fuoco, fino a farla scomparire, l’immagine perturbante. Solo successivamente accettiamo che lì di fronte c’è qualcosa di noi. Il fatto di riconoscere solo
parti di noi ci riporta ad un’immagine corporea frammentata come quella dell’infans
prima che lo sguardo della madre lo raccogliesse in una forma compiuta anche se per
motivi opposti: invece che la prematurazione la eccessiva maturazione.
Questo inevitabile accadimento ci pone di fronte all’avvenuta distruzione della
madre che sostenne la nostra prima messa in forma. Davanti allo specchio della
nostra maturità siamo dunque soli e disorientati per via di una nuova alienazione
rispetto a quella originaria del corpo rispetto all’immagine, questa volta è relativa
alla necessità di riconoscere l’alienazione dell’immagine che portiamo con noi rispetto a quella che ci fissa dallo specchio.
E’ proprio all’assunzione di nuove immagini che l’Io resiste. Della sua origine
relazionale l’Io non vuole saper\ne e quell’alter-in-azione che gli sta di fronte viene
rigettato quando non odiato.
E’ quindi tanto più arduo stabilire come e quando ha inizio l’esperienza della
differenza sessuale. Questo però, ormai lo sappiamo, non è vero per la madre.
Includere nei confini del proprio Io l’immagine di una bambina o di un bambino
carica necessariamente di diverse intonazioni lo sguardo materno.
Nella costituzione dell’Io vi è una doppia illusione: la prima è relativa all’immagine
riflessa nello specchio che assumiamo ingannevolmente come facente parte di noi senza
renderci conto della s-corporazione pagata come tributo alla necessità di dare un ordine
al “disordine” che il corpo immette nei nostri processi mentali. La seconda illusione,
quella meno esplorata e più segreta, è relativa al fatto che all’origine dell’Io singolare
vi è in realtà un due, l’immagine sovrapposta di una donna e un bambino, che fa la
parte dell’uno. Sembra plausibile che quell’immagine che lo specchio rinvia all’infans
rimanga a fondamento di un Io mai veramente uno. L’altro che tormenta le nostre notti
composto cioè di due entità che si confermano e autorizzano vicendevolmente. L’immagine che fonda l’Io af-fonda le sue radici nella perdita del fronteggiamento ipnotico
che caratterizza le prime e più precoci fasi del rapporto madre-bambino.
All’origine della prerogativa, solo umana, di pronunciare la parola Io, principio
di delimitazione e libertà, radice della nostra soggettività vi è dunque un ombra
che non ha a che fare con la patologia poiché fonda e non altera. Ombra che ci
oscura nei momenti della differenziazione, come se dovesse ripetersi quell’oscuramento originario, quel gettare la nostra ombra su di lei e quel suo essere oscurata
parzialmente da noi. Cosa vediamo nello specchio del tempo se non la sua sagoma
oscurata? Il mal d’immagine come si sa appartiene ad ogni età e sempre la formula
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è “ormai è troppo tardi”. Ma tardi rispetto a cosa, se questa frase viene pronunciata
anche dagli adolescenti? E’ tardi per sostare nell’illusione dell’origine, di un due
che mette in scacco la castrazione.
Ma l’immagine che generò l’Io è il polo non di una dualità bensì di una triangolarità:
lei, noi più la nostra immagine congiunta e non un due che fa la funzione dell’uno.
Se all’origine del nostro io vi è la coppia madre-bambino che favorisce l’instaurarsi
di quella gestalt che ci permette di dire ‘quello sono io’, cosa ci sosterrà quando la
nostra immagine, si de-formerà (cambierà la forma originaria) per via dell’età? Cosa
rende sempre presente e attuale il “bisogno di madre” che attraversa ogni età?
L’immagine congiunta di madre e figlio rappresenta un primo insieme che inganna sulla singolarità del nostro Io. La madre con la sua immagine presiede – che lo
voglia o no - alla costituzione dell’inganno necessario che sostiene la nostra pretesa
di singolarità ed è per via del prestito che la sua presenza fa all’illusione di essere solidamente uno davanti allo specchio della storia che la ricerchiamo sempre, ovunque
e comunque. Deve ancora essere una donna a fare da sfondo al rinnovarsi dell’esperienza del rispecchiamento che le diverse epoche della vita richiedono come principio
di continuità di noi stessi. Se tuttavia questa funzione strutturante è legata al corpo
della donna, irrevocabilmente non resta - alle donne - che fare da sfondo al costituirsi
dell’Io dell’altro, accontentandosi della consapevolezza dell’illusione che lo sostiene.
Saremmo però nel paradosso assoluto poiché anche la donna - pur nella sua veste di
madre - partecipa di un due che è rimasto nascosto allo sguardo della storia.
Ecco dunque che una via nuova si apre alla ricerca: la consapevolezza femminile che il saperne di più dell’altro dell’illusione che lo costituisce non è più sufficiente a garantire il mantenimento dell’illusione. Il cambiamento sta avvenendo
soprattutto a livello dell’immaginario, cambiano pertanto anche le rappresentazioni che l’insieme di cui facciamo parte propone della donna e della madre. La
problematica identificatoria, ancorché intrappolata nella relazione immaginaria, è
messa al lavoro dalle modificazioni socioculturali. La più imponente sembra tuttavia riguardare la sproporzione che c’è tra la madre e il padre.
Lasciando per il momento da parte la problematica relativa alla “evanescenza” del
padre - di cui ha scritto Recalcati su queste pagine -, il tema che ho cercato di proporre
riguarda piuttosto le problematiche identificatorie relative alla madre, che non rappresenta più il polo della natura a fronte di quello della cultura rappresentato dal padre.
Mi domando invece se i processi identificatori che sono all’origine del nostro
Io e che ho cercato sommariamente di descrivere appartengono costitutivamente
allo psichismo umano, se hanno cioè una dimensione metastorica o se anche essi
non sono il frutto della lenta e inesorabile erosione che la complessità della storia
umana compie su ogni certezza.
* Psicoanalista, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana.
Esponente di rilievo del movimento delle donne.
Dossier 87
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura
102
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Inizio subito bene, cioè male, ricorrendo Per quale motivo, leggendo le poesie
a una tautologia: una poesia è una poe- della Szymborska, abbiamo l’impressia. Già, bella pensata, ancora una così sione di trovarci di fronte alla grande
e ti candidano per il Nobel, mugugna letteratura, quella che può avere un
sarcastico il bastian contrario di turno. peso reale nella vita di chi legge, che
Bondi avrebbe reso l’idea molto meglio, contiene i germi del cambiamento e
sciorinandoci uno di quei versi deliziosi delle risposte di cui ognuno va in cere appena appena un filino enfatici di cui ca? Probabilmente perché i suoi testi
noi, consumati lettori di Vanity fair, co- contengono un invito sottile quanminciamo a sentire la nostalgia. Come to rigoroso ad aprire gli occhi sulla
si può dargli torto?
realtà, a prendere
Al bastian contrario,
coscienza dei limiintendo. Un attimo,
ti ineludibili del
però, calma, che mi
nostro esistere, ma
spiego. Una poesia è
anche della prouna poesia vuol dire,
fondità indicibile
ad esempio, che ogni
della condizione
genere letterario è una
umana e del nostro
struttura a sé. E che,
comune destino.
quindi, per scendere
La poesia che ne
sulla terra, leggere una
scaturisce, cruda,
poesia suppone una
concreta, lineadisposizione diversa
re, ironica, giundi quella che richiede
ge sempre ad un
lo svolgimento della
punto di stupore
medesima operazione
perché, come afcon un romanzo, un
ferma nel discorracconto o un saggio.
so pronunciato
E’, forse, l’assenza di
in occasione del
questa disposizione,
conferimento del
non mi viene un alNobel, “il nostro
tro termine, che alstupore esiste per se
Szymborska Wislawa
lontana dalla poesia
stesso e non deriva
La gioia di scrivere.
persino le schiere di
da alcun paragone
Tutte le poesie
per sé non folte dei
con alcunché e poi
(1945-2009)
frequentatori
della
perché il mondo,
Adelphi, Milano 2010
letteratura in generaqualunque
cosa
pp. LIV-774 p.,€ 19,00
le. Sì, lo so, conosco
noi ne pensiamo,
l’obiezione che viespaventati dalla
Ambrogio Cozzi
Angelo Villa
A due Voci
Cultura 103
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci
ne abitualmente mossa contro la poesia, quella della sua incomprensibilità.
Il poeta sembra talvolta parlare solo a
se stesso, come se il suo testo fosse la
pagina di un suo diario personale, tal
altra, invece, si perde in funambolismi
verbali, ora desueti ora ostaggio di un
estetismo all’apparenza sterile. Ma, secondo me, può darsi che il disagio,
l’imbarazzo nei riguardi della poesia si
nutra anche di un’ulteriore ragione. Insomma, c’è dell’altro, come soleva puntualmente (o sadicamente?) ribadire il
mio analista, quando mi beavo d’avere
conquistato una briciola di verità dopo
un lungo peregrinare e rovistare tra le
nefandezze del mio inconscio. E’ l’enigma che mi rinvia al tema della disposizione. Leggere una poesia pone il lettore
dinanzi a una temporalità inusuale che
lo introduce a un diverso rapporto con
il testo e con la realtà. Un racconto, un
romanzo riempiono. Quando appassionano non si vede l’ora di terminarli,
presi all’amo della storia. Pagina dopo
pagina. La poesia, invece, non chiede
d’essere seguita, ma accolta. Lei è già
lì, come un grumo di sangue rappreso,
nel suo darsi, esporsi. Di fronte a questa sorta di condensata precipitazione,
di esplosione temporale, il lettore si
trova impreparato, smarrito. I più educati dicono “sì, bella” e voltano pagina.
I più ingenui sbottano: sì, è tutto qui?
E allora? In un certo senso, la poesia è
finita prima d’essere cominciata. O, più
esattamente, contempla la sua fine nel
suo inizio. Non vuole narrare, raccontare una vicenda. O se lo fa, non più di
tanto. Essa mira ad attraversare la storia,
a penetrarla da parte a parte, a isolarne
il suo cuore invisibile. Fateci caso.
La poesia, la buona poesia sembra stac-
104
sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte ad esso, amareggiati
dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali, qualunque cosa noi
pensiamo dei suoi spazi trapassati
dalle radiazioni delle stelle, stelle
intorno a cui si sono giá cominciati
a scoprire pianeti (giá morti? Ancora
morti?), qualunque cosa pensiamo di
questo smisurato teatro, per cui abbiamo sí il biglietto d’ingresso, ma
con una validità ridicolmente breve, limitata da due date categoriche,
qualunque cosa noi pensassimo di
questo mondo – esso è stupefacente”.
Questo stupore si declina nella sua
poesia lungo l’asse del tempo, dello scorrere del tempo, non inteso
come rassegnazione, ma come invito all’attenzione, per cogliere in
questo scorrere le possibilità della bellezza, per svelare il mistero
di ogni singola esistenza, di ogni
istante, perché la vita è formata da
piccole eternità piene di pallottole in
volo.
Questa consapevolezza diviene allora
invito ad immergersi nella realtà, un
fondamento per una speranza solida
di sapersi riconoscere, di incontrarci,
coscienti di un limite che non diviene prigione ma consapevolezza della
fine, eppure in questa consapevolezza
si ritrova la dimensione della speranza ... Vivevano nella vita/Permeati da
un grande vento /Con sorti giá decise./
Fin dalla nascita in corpi da commiato. /Ma c’era in loro un’umida speranza,/una fiammella nutrita del proprio
luccichio. / Loro sapevano cos’è davvero
un istante,/oh, almeno uno, uno qualunque prima di – […] (“Monologo
per Cassandra”).
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci
carsi dalla realtà, come se vi si chiamasse
fuori, non aderendovi, non inventandola. Salvo poi, con un movimento successivo, ritornarvi per coglierla, fissarla
in quel che contiene di più veridico e di
essenziale. Il primo passaggio fa tutt’uno
con il secondo, la messa a distanza si ritrova, ritorna nella messa in profondità.
Il ritmo, le parole ben scelte organizzano l’andata e il ritorno. L’effetto che ne
deriva è quello proprio di un’illuminazione, di una capacità di vedere con altri occhi una realtà che era orfana di un
senso nuovo e vitale. Perché ciò accada
occorre però che il lettore si ponga nella
“giusta” disposizione.
Legga il testo magari più d’una volta.
Sospenda la fretta, una poesia di solito
è breve, lasci che la poesia venga verso di lui. E non faccia il contrario. E’
nell’incontro destabilizzante con questo gioco di estraniazione e prossimità
che la poesia gli regalerà del nuovo. Si
offrirà come un dono impagabile. Provate…
Se poi cercate un testo meraviglioso
con cui affinare la vostra disponibilità
psichica, mentale alla poesia, non ho
dubbi in proposito. De Andrè citava
spesso un’affermazione di Benedetto
Croce secondo la quale dopo una certa
età, diciamo passata (ammesso che passi, non è scontato… ) l’adolescenza, chi
scrive poesie o è un poeta o è un cretino. Per l’autrice di cui consigliamo la
lettura non sussiste dubbio alcuno. Per
una poetessa come lei gli aggettivi giustamente si sprecano. E’ semplicemente
bravissima, è polacca e porta un nome
al limite del pronunciabile: Wislawa
Szymborska. L’editore Adelphi ha fatto
opera meritoria raccogliendo le sue poesie scritte tra il ’45 e il 2009, rieditando-
Il tempo è anche il tempo dell’attimo, dell’evento che non ritorna, e
che pure può essere colto nella sua
dimensione irripetibile, in quel che
ritorna si introduce una differenza,
uno scarto che è proprio la dimensione del tempo, di un tempo che
non è solo cronologia, ma una sorta di epifania, che nella differenza
richiama alla necessità di mettersi
in gioco Nulla due volte accade / né
accadrà. Per tale ragione / si nasce
senza esperienza, / si muore senza assuefazione. / Anche agli alunni più
ottusi / della scuola del pianeta / di
ripeter non è dato / e stagioni del passato. / Non c’è giorno che ritorni, /
non due notti uguali uguali, / né due
baci somiglianti, / né due sguardi tali
e quali.
Occorre allora saper guardare il mondo, lasciarsi cogliere dalla sorpresa,
lasciarsi sorprendere un miracolo,
basta guardarsi intorno: / il mondo
onnipresente (“La fiera dei miracoli”)
Così la poesia indica una via che vada
temporalmente oltre la morte, parole
come traccia di chi ci ha preceduto,
di chi vive la nostra epoca, di chi
anche distante ci è contemporaneo
e vicino, ma per far questo la lingua
si deve mettere in gioco, deve saper
osare, perché anche la memoria se
non si mette in gioco non accede al
ricordo, rischia di diventare pura registrazione. Occorre osare verso l’impensabile, come il poeta che bussa
alla pietra dicendo “fammi entrare”
per penetrarne il mistero […]non
c’è senso che possa sostituirti quello del
partecipare./ Anche una vista affilata
fino all’onniveggenza / non ti servirá
a nulla senza il senso del partecipare./
Cultura 105
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci
le in un volume che porta il bel titolo:
La gioia di scrivere. Sono poesie leggibilissime che non si prestano a quelle
obiezioni cui poc’anzi accennavo. Di
cosa parlano? Ricorro non casualmente
al verbo parlare, perché è, in fondo, il
più corretto, il più idoneo per rendere
ragione dello stile quasi colloquiale della poetessa polacca. I suoi scritti parlano delle cose che fanno, che ci fanno
o che dovrebbero farci parlare: le solite.
E cioè, bisogna proprio dirlo?, l’amore,
l’amicizia, la sofferenza, l’undici settembre… Importante è il tocco, lo sguardo.
E, per noi, il luogo dove la sua scrittura ci invita, per fare un’esperienza che
ci permetta di rileggere le nostre esperienze, ora ritrovandoci ora rendendoci
estranei a noi stessi, quel che basta. Cito
i versi con cui lei conclude la poesia “Un
minuto di silenzio per Ludwika Wawrzynska”: “Conosciamo noi stessi solo fin
dove / siamo stati messi alla prova ./ Ve lo
dico / dal mio cuore sconosciuto/”. Credo
che per il tramite delle parole, la poesia
della Szymborska ci riporti, in maniera mediata, proprio lì. A rivivere, a risentire quella prova… Una prova che
è , semplicemente, il senso del nostro
esserci, le tracce del nostro vivere. Che
cos’è la gioia di scrivere se non il dono
che qualcuno ci affida solo perché,
come una coppia di amanti, nell’altro
gli venga incontro il desiderio atteso: la
gioia di leggere.
106
Non entrerai, non hai che una sensazione di quel senso, appena un germe,
una parvenza. […] (“Conversazione
con una pietra”).
Il germe, la parvenza diventano segni, segni di un reale irraggiungibile,
ma che non si smette di cercare, di
inseguire per trattenerlo attraverso
le parole, per poter esclamare tutto è
mio, niente mi appartiene di ciò che
ci circonda.
Ma questo parlare sottotraccia ritorna con ironia anche nella dimensione pubblica di una poetessa che prima del Nobel quasi nessuno conosceva, e che preferisce ancora parlare
attraverso le sue poesie, sottraendosi
alla dimensione pubblica, rivendicando una preminenza del testo rispetto all’autore, l’autonomia delle
poesie rispetto al viso, alla storia e
alle opinioni sulla letteratura e sulla società di colui che le scrive. Per
dirla tutta, ella non ama neppure le
serate d’autore, anzi se ne fa beffe Ci sono dodici persone ad ascoltare,
è tempo ormai di cominciare. Metà
è venuta perché piove, gli altri sono
parenti. O Musa. […] In prima fila
un vecchietto dolcemente sogna che la
moglie buonanima, rediviva, gli sta
per cuocere la crostata di prugne. Con
calore, ma non troppo, ché il dolce non
bruci, cominciamo a leggere. O Musa
– (“Serata d’autore”).
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Scelti per voi
libri
a cura di Ambrogio Cozzi
Davide Lopez
La potenza dell’illusione: l’amore
Angelo Colla Editore,
Vicenza 2010
pp. 176, € 15,90
Il testo di Lopez non è
un testo facile, richiede un certo impegno
di lettura, ed è difficile
presentarlo senza scadere in ovvietà, senza ridurlo a sterili ripetizioni cui credo si ribellerebbe l’autore stesso. D’altra parte la presenza
di una forte vis polemica (a volte un po’ eccessiva) rende un po’ più difficoltoso seguire l’autore senza perdersi. Eppure ci sembra di poter
individuare un percorso, un nodo centrale che
percorre tutto il libro, senza forzare eccessivamente l’interpretazione parlando d’altro.
Esso è’ strutturato in due forme di scrittura,
una per aforismi, l’altra per paragrafi ampi
in cui il filo del pensiero si snoda in modo
più disteso. Eppure tra le due forme mi sembra di rintracciare un filo di continuità, che
mi pare di rintracciare a partire dall’etimo di
aforisma che nella sua derivazione da aphorismos significa “porre i termini”, “limitare”.
Allora, dicevamo, un filo di lettura si può
rintracciare nel porre un limite, limite che si
incontra nelle parti dedicate al rapporto tra
legge e giustizia (si pensi al paragrafo dedicato alla sentenza di un tribunale rumeno), limite nel rapporto tra le persone, limite nelle
rappresentazioni del rapporto tra i sessi.
Proprio da quest’ultimo inizia il testo, propo-
nendo una lettura del mito dell’androgino di
Platone come elemento fondatore di un intervento degli dei per spingere gli umani, attraverso la differenza tra i sessi a cercarsi. Ma la
condanna originaria diviene punto di partenza
per una riflessione sulla sessualità più ampia,
tale da includere le declinazioni che assume la
differenza sessuale nelle diverse epoche storiche.
Insieme a questo primo aspetto mi pare centrale l’individuazione di un punto di passaggio
dalla società patriarcale a quella di Gesù bambino dove “si assiste al ritorno dell’importanza
prevalente del rapporto madre-bambino e, perfino, della simbiosi fusionale, quale estrema regressione di questo rapporto”. Riflessione che ben si
adatta a questo numero monografico della rivista dedicato alla madre e che mi pare ritorni
in alcuni articoli. Merito dell’autore è quello di
non cadere nel facile rimpianto dei bei tempi
andati, sottolineando invece quanto in autori
dei bei tempi andati fosse presente una sottovalutazione del ruolo della donna ma anche come
la soluzione non consista nel ridurre la donna a
madre, facendo coincidere le due figure e quindi negando la prima nella seconda.
Un altro filo che mi è sembrato di intravvedere parte dalla nozione di colpa. Ci sarebbe molto da scrivere, ma vorrei limitarmi ad
un commento a partire dall’aforisma 83 a
pagina 139. “Un modo perverso di asserire e
affermare la propria libertà è quello di infierire contro se stessi, moltiplicando e trasformando per orgoglio narcisistico i colpi che si sono
ricevuti dall’esterno in colpe sacrificali”.
Il legame tra i due elementi, colpi e colpe, mi
pare tenga attraverso il termine orgoglio narcisistico, che pur di eliminare la presenza del caso
nell’esistenza, e quindi esporsi responsabilmente
alla precarietà dell’esistenza, preferisce assumere
su di sé le colpe, per mantenere l’illusione del
controllo sul mondo, l’illusione di centralità.
Appare ora un nuovo nesso tra il limite che
l’aforisma stabilisce e l’invito ad osare che per-
Cultura 107
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi
corre tutto il testo, un invito ad osare nel limite,
nelle parole che configurano un mondo possibile, possibile per la convivenza, dove la legge
non è un assoluto che soverchia, ma un invito a pensare la possibilità del legame sociale, a
stabilirne i confini per renderli pensabili, guardando ad un orizzonte per prefigurare un oltre,
un passaggio difficoltoso ma possibile. Il limite
non come impedimento ma come confine,
come orizzonte che rende possibile l’esistenza.
Allora l’invito ad osare che percorre il testo è
un invito all’assunzione di responsabilità, come
ricerca delle risposte, come invito ad uscire: in
fondo è solo mettendoci in strada che possiamo
incontrare colui che è offeso o colui che ci accompagnerà nel viaggio. Non sta forse in questo desiderio il primo passo verso l’amore?
“Con un atto istantaneo di comprensione e
consapevolezza si annulla tutto il mondo della
colpa”. Forse questo è il miglior viatico per
poter osare, comprendendo ed essendo consapevoli, ma l’autore lo dice meglio di me.
Ambrogio Cozzi
Barbara Mapelli
Sette vite come i gatti. Generazioni, pensieri e storie di donne
nel contemporaneo
Stripes Ed., Rho (MI)
2010, pp. 180, € 16,00
Quattro donne, quattro diverse generazioni.
Storie personali che trovano nuovo significato nel rapporto reciproco.
Con questa immagine, una foto di famiglia di
qualche decennio fa, Barbara Mapelli accoglie il lettore o la lettrice di Sette vite come i
gatti. Generazioni, pensieri e storie di donne
nel contemporaneo (Stripes Edizioni, 2010).
Un approccio anche emotivo per un libro che
parla alle donne italiane, ma anche agli uomi-
108
ni, partendo da una questione non facile: che
cosa hanno lasciato il movimento femminista
e le riflessioni che ne sono seguite? Un’eredità
non scontata e che non può essere racchiusa in
un’esperienza storica ben conclusa e archiviata.
Al contrario un punto di partenza che offre
spunti importanti per il presente. Tanto più
che viviamo un’epoca ricca di contraddizioni,
dove le politiche per le donne sono drammaticamente carenti: interventi per madri che
lavorano, sostegno alle famiglie nella cura di
bambini, anziani, malati. Attività tradizionalmente riservate alle donne e oggi in alcuni casi
assegnate a quelle che Mapelli chiama “le altre”,
le straniere che lavorano nelle nostre case. Costoro aprono importanti e feconde possibilità
di trovare nuove strade nella definizione sociale
di donna o meglio nella narrazione delle singole
biografie. Narrazione che può diventare – ed è
questo uno dei lasciti del Movimento femminista – un racconto collettivo che non esclude ma
include, non giudica secondo modelli ma vuole
creare nuovi modelli.
Dunque madre e lavoratrice. E’ la donna di
oggi, che appartiene ad almeno tre generazioni:
le nate negli anni ‘40-‘50, ‘60-‘70, ‘80-‘90. Ecco
la mescolanza inattesa tra due ambiti considerati separati (la dimensione pubblica del lavoro e
quella privata della cura familiare e domestica),
tradizionalmente affidati il primo agli uomini
e il secondo alle donne. Ecco il regalo che le
nostre madri, nonne in alcuni casi, ci hanno
fatto (ma in tanti casi è un dono che porta la
firma anche dei padri): il superamento del modello univoco dentro-fuori, privato-pubblico,
donne-uomini. La possibilità di essere in modi
inediti, di conciliare realizzazione professionale
e personale con il desiderio di prendersi cura
della famiglia. Una doppia presenza, un’ambivalenza – caratteristiche tipicamente femminili
ampiamente citate nel libro – che pongono
nuove sfide e che consentono di percorrere più
strade contemporaneamente. Sfide che vanno
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anche raccontate e quindi condivise, con parole in parte ancora da trovare. Perché la nuova
identità delle donne è irta di ostacoli e di difficoltà che in parte derivano dal passato, dalla
fatica o non volontà di cambiare punti di vista,
certezze assodate. Ecco allora che emergono
storie di violenze, spesso tra le mura domestiche, soprusi, discriminazioni.
C’è la questione dei corpi, l’esigenza di corrispondere a certi dettami sociali, l’“inganno della
taglia 42”, il “contesto prostituzionale”, ovvero
l’allusione erotica usata come risorsa economica. Ecco le donne desessualizzate delle pubblicità, dove i corpi “perfetti” e i volti inespressivi
parlano di una seduzione decisa altrove (in questo caso dal soggetto maschile che guarda).
La riflessione di Barbara Mapelli è complessa, accoglie piani diversi di lettura e propone innumerevoli spunti. Immaginando
un cammino in cui alla foto delle quattro
generazioni di donne si affianchi quella delle corrispettive generazioni di uomini. Entrambi liberi, ci si augura, di sperimentare
nuove strade per agire insieme, senza il bisogno di ricorrere a facili modelli o a rifiuti
che portano sulla strada della violenza.
Laura Cuppini
Ezia Palma
La stanza della sabbia.
Un caso clinico di
sandplay therapy
Morgana Ed. Firenze
2008, pp.112, € 15,00
Il libro di Ezia Palma,
psicologa psicoterapeuta
di formazione junghiana,
è una interessante riflessione sulla ricchezza e la complessità dell’incontro con l’altro. E’ un libro che sollecita molteplici
spunti di riflessione e che condensa più aspetti
narrativi. Il più immediato è di rilevanza visiva, e
si esplica attraverso le immagini che iniziano con
la stanza della sabbia e la varietà degli oggetti in
essa contenuti e si va a sviluppare in un percorso
narrativo con la sequenza dei quadri di sabbie. Le
immagini di “Sand Play”, poco colorate e contenute delle prime sequenze diventano sempre più
ricche di elementi, di colori e di emozioni; e via
via che ci si addentra nel percorso terapeutico,
esse rendono partecipe il lettore, lo portano dentro la storia consentendogli di seguire l’evolversi
del processo di cura di Elia. Il suo cammino inizia “...da una città triste e desolata” e approda “a
una città ideale protetta dagli dei”. Il caso clinico
narrato e trattato con il “Gioco della sabbia” è
quello di un bambino di 8 anni che arriva ad
incontrare la psicoterapia in una situazione di irrequietezza e paura, una storia ingarbugliata che
attraverso l’incontro con l’analista nella stanza
della sabbia prende senso e si evolve. Il racconto
è la narrazione di una esperienza condivisa che,
come avverte l’autrice nell’introduzione, vuol essere un “... dare corpo alle vicissitudini che avevano segnato il ‘romanzo individuale’ di un giovane paziente”, non con una semplice registrazione
di eventi, ma con un susseguirsi di eventi vissuti
e raccontati per un altro che ascolta, accoglie,
custodisce, rivive... Pertanto, si può partecipare
e leggere la storia riportata “come un dispiegarsi
di scenari simbolici che nel loro divenire si fanno
novella” e consentono di guardare al disagio psichico in modo diverso. Il libro si sviluppa in tre
parti: dopo la breve introduzione e la presentazione della “storia di Elia”, si percorre, l’evolversi
della terapia attraverso il susseguirsi di sabbie. La
successiva riflessione sulle fasi del processo consente di comprendere il setting e le potenzialità
del trattamento con la “Sand Play Therapy” e di
passare ad un approfondimento della metodologia attraverso l’esperienza personale dell’autrice.
L’incontro dell’autrice con Dora Kalff apre un
interessante capitolo sul metodo del gioco della
sabbia ma soprattutto sulla formazione a questo
approccio terapeutico. “Dora Kalff usava un me-
Cultura 109
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi
todo di insegnamento che ricordava gli antichi
maestri, un modo di sfogliare le pagine del suo
sapere e quindi di fare teoria che era rivolto non
tanto verso l’esposizione di concetti teorici razionalmente acquisiti, ma orientava il suo insegnamento verso campi sperimentali nuovi, dove
i concetti e le nozioni si animavano e si espletavano non attraverso il dire, ma attraverso il fare.
Un fare dinamico che coinvolgeva la totalità
dell’essere in una azione sperimentale continua e
da cui scaturiva un’ulteriore rielaborazione sia dei
concetti che delle nozioni”(pag.90). Il ricordo di
Dora Kalff a vent’anni dalla sua morte è il tema
della postfazione di Marco Garzonio e nelle pagine che ricordano lo spirito di Zollikon, la casa
e i luoghi di formazione della fondatrice si ritrova
l’incoraggiamento a praticare la “Sand Play”, ma
anche a scoprire la ricchezza dell’incontro con
l’altro “...è il fare che diventa parola , è la parola
che si fa nell’esperienza del mettere le mani nella
terra. E’ un pensare per immagini”.
Emilia Canato
Veronica Ornaghi, Ilaria Grazzani Gavazzi
La comprensione della mente nei bambini.
Un laboratorio linguistico con storie per la
scuola dell’infanzia
Edizioni Erickson, Trento
2009, pp. 108, tavole 113,
€ 19.00
“Nella versione originaria di Wimmer e Perner
al bambino viene presentato il seguente scenario:
un bambino di nome Max ripone la sua tavoletta
di cioccolato nell’armadietto verde della cucina e poi
si reca al parco giochi. Nel frattempo, mentre Max è
fuori a giocare, la sua mamma sposta la tavoletta di
cioccolato dall’armadietto verde all’armadietto blu
ed esce in giardino. Quando Max rientra a casa,
vuole mangiare il suo cioccolato. A questo punto
110
al bambino viene posta la seguente domanda:
“Dove cercherà Max la sua tavoletta di cioccolato”. In genere, i bambini di 3 anni rispondono erroneamente alla domanda, sostenendo
che Max cercherà la sua tavoletta di cioccolato
nell’armadietto blu, ovvero dove si trova realmente e non dove Max l’aveva riposto prima di
andare al parco giochi. In tal modo, essi dimostrano di non essere ancora in grado di attribuire
a Max una falsa credenza rispetto a come le cose
stanno nella realtà (…) Al contrario la maggior
parte dei bambini di 4 anni risponde correttamente alla domanda, ovvero dicendo che Max
cercherà il cioccolato nell’armadietto verde dove
era stato messo prima dello spostamento”. (pagg.
12, 13). Questo è il paradigma più noto, quello
del compito di falsa credenza, della prima fase di
ricerca sullo sviluppo di una teoria della mente
(ToM, dall’inglese Theory of Mind), iniziata negli
anni ottanta, indirizzata a dimostrare la presenza,
in bambini di circa 4 anni, della capacità di rappresentarsi l’altro come persona che possiede stati
mentali suoi propri (desideri, credenze, false credenze, etc.). Negli anni successivi, fino ad arrivare ad oggi, gli studi e le ricerche in questo settore
si sono via via sviluppate ed articolate puntando
sull’indagine del legame tra la capacità, da parte
del bambino, di comprendere i propri e gli altrui
stati mentali e lo sviluppo di altre competenze,
tra cui quelle sociali, emotivo-affettive e linguistiche (i correlati). Il libro di Veronica Ornaghi
e Ilaria Grazzani Gavazzi, la prima ricercatrice,
l’altra Professore associato, entrambe presso la
Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, si inserisce
all’interno di questo panorama di ricerche e approfondisce, da un punto di vista teorico e applicativo, la relazione tra sviluppo della comprensione della mente e linguaggio, focalizzandosi in
particolare sul cosiddetto lessico psicologico, sulla
base del riconoscimento del ruolo decisivo che,
nel binomio, il secondo ha sul primo.
Il testo si divide in tre parti. La prima è artico-
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lata a sua volta in tre capitoli, Lo sfondo teorico,
nel quale si descrivono gli sviluppi degli studi
sulla ToM e i correlati (in particolare Tom e
linguaggio-lessico psicologico); L’esperienza
di training con i bambini: la ricerca, che illustra un’esperienza condotta in alcune scuole
dell’infanzia di Milano e provincia sul rapporto tra lessico psicologico e sviluppo della
ToM; Il laboratorio sull’uso del lessico psicologico, la presentazione di una proposta educativa,
rivolta ai bambini della scuola dell’infanzia,
per l’uso del lessico psicologico finalizzato a
migliorare le competenze legate allo sviluppo
della ToM. Segue una corposa bibliografia. La
seconda parte, Appendice A, contiene 16 storie, Le avventure di Jack e Teo, che forniscono
lo spunto per i giochi linguistici con il lessico psicologico, accompagnate da altrettante
schede per le attività di gioco linguistico e di
discussione. La terza parte, Appendice B, è
composta da illustrazioni colorate che facilitano la realizzazione del percorso.
Marco Taddei
Torey L. Hayden
La foresta dei girasoli
Che cosa nascondono le storie che una
madre racconta?
Corbaccio, Milano 2009
pp. 389, € 19,60
Nel suo ultimo romanzo, La Foresta dei girasoli,
Torey L. Hayden riporta
alla luce l’orrore della guerra e della crudeltà nazista attraverso le memorie della protagonista.
Ma, contrariamente a quanto verrebbe istintivo
pensare, l’autrice non ci parla dell’orrore della
Shoah; sceglie invece di raccontarci del perverso e forse meno conosciuto progetto hitleriano
dal bel nome di Lebensborn, la Fonte della Vita.
Anche gli “ariani”, ci ricorda la Hayden, han-
no subito violenza e gli occhi di Mara, donna
bellissima di origine ungherese, non possono
dimenticare il Male e le atrocità commesse. Il
suo cuore e la sua mente sono ormai marchiati a fuoco dalla Storia, perché Mara ha subito
quella violenza indicibile per una donna, la
più umiliante e psicologicamente devastante
di chi ha subito a soli diciassette anni gli orrori
di Lebensborn. La storia di Mara è raccontata
dalla voce della figlia: Lesley ha la stessa età che
aveva la madre all’epoca della guerra e attraverso i suoi occhi vediamo l’effetto devastante del
passato sul presente. Lesley adora la sua bellissima e affascinante madre, che come Sherazade,
racconta storie incredibilmente affascinanti e
fantasiose sulla vita in Germania e Ungheria,
ed è proprio attraverso le sue storie che prende
corpo La foresta dei Girasoli: un inno cantato
alla vita, al futuro, alla luce e al colore in tempi
da “lupi”. Ma l’antica ferita inconfessabile che
Mara si porta nel cuore diventa giorno dopo
giorno un’ossessione e Lesley fa di tutto per
cercare di comprendere i comportamenti sempre più strani, quei “momenti della mamma”:
“Credevo che tutte le madri si comportassero così.
Dovevo avere dieci o undici anni quando scoprii
che le altre madri non lo facevano”. Non si può
non rimanere affascinati dalle protagoniste
femminili del romanzo: la forza, la fragilità
e l’innocenza rendono Mara un personaggio
vivo, reale, mentre colpisce la dolcezza e la premura dell’adolescente Lesley tesa nella tensione
tra l’accudimento della madre - Lesley a livello
simbolico rappresenta la madre di sua madre
– e la ricerca del proprio essere donna lontana
dall’ingombrante passato familiare. Un intreccio
di personaggi femminili nel quale trova spazio
un’unica figura maschile, il padre O’Malley, un
uomo che non ha mai fatto granché nella vita
salvo amare Mara incondizionatamente e starle
sempre vicino per combattere i suoi fantasmi:
“Non so quale conclusione trarre: Ora non posso
far altro che vedere gli errori della mamma. Voglio
Cultura 111
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continuarle a volerle bene, sul serio, ma non posso
impedirmi di pensare che buona parte di questo
disastro è stata opera sua” dice Lesley. Risponde
suo padre: “Non so. Quel che so è che non amiamo le persone perché sono perfette. Se fosse così non
ameremmo nessuno”. Ribatte Lesley:“Ma qual’è
il punto?Tutto ti ferisce alla fine. Se l’amore non
è il rimedio, se l’amore non cambia gli errori delle persone e non le rende migliori, se continuano
a soffrire e tu ti senti solo ferito, perché darsi da
fare?” Risponde O’Malley: “Perché abbiamo la
possibilità di scegliere. Questa è la vita, Lesley: che
cosa fai con le tue scelte. Puoi scegliere di amare tua
madre invece di odiarla. Proprio come tua madre
scelse di vedere girasoli invece che lupi. Così riuscì
a sopravvivere. Così riuscì a non farsi distruggere
da quello che le accadeva e, no, non era perfetto,
ma nemmeno il mondo lo è. Scegliere come vederlo è l’unico vero potere che abbiamo”.
Laura Conti
Elisabeth Badinter
Le conflit.
La femme et la mere
Flammarion Lettres,
Paris, pp. 256, € 18,00
Abbiamo un nuovo
reato, l’ apologia della
Madre Perfetta. Elisabeth Badinter è convinta che dovrebbe essere perseguito come un vero crimine. Nel
suo nuovo saggio, la filosofa francese insorge
contro i nuovi modelli femminili che mettono al centro di ogni cosa la maternità felice.
«Sono una madre mediocre e rivendico il diritto a esserlo», spiega invece lei, femminista
storica e mamma di tre figli. Il libro arriverà
nelle librerie francesi tra pochi giorni ma le
prime anticipazioni hanno già provocato
spaccato in due l’ opinione pubblica, divisa
tra elogi e contumelie. Il Conflitto. La don-
112
na e la madre, pubblicato da Flammarion,
è un lungo atto d’ accusa contro la retorica
familistica imperante. Ma è anche un’ amara presa d’ atto. La famosa conciliazione tra
lavoro e famiglia, tanto auspicata alla fine
degli anni Settanta, è ancora impossibile. La
rivoluzione femminile non ha portato pari
opportunità nel mondo del lavoro e così
spesso le donne devono scegliere tra professione e desiderio di maternità: diventano,
scrive Badinter, ostaggio di questo conflitto.
Per la filosofa francese, il nuovo pamphlet è
il seguito ideale di L’ amore in più (1980)
che già si scagliava contro la teoria dell’istinto materno innato, sul quale le femministe
discutono da decenni. Ora invece denuncia
la cancellazione della “ambivalenza” nella
maternità. L’ essere madre oggi non prevede sfumature, contraddizioni. Soltanto un
modello di perfezione al quale omologarsi.
La conclusione è ironica, ma neanche troppo: il dominio maschile è stato sostituito
da quello del bambino, piccolo tiranno
che detta legge in casa. Al fondo di tutto
c’ è la colpevolizzazione delle donne. Che
si sentono sempre in affanno, inadeguate.
Badinter identifica nei primi anni ‘ 90 il
momento in cui è iniziato il declino. Con
la crisi economica di allora, le donne sono
state costrette a tornare tra le mura domestiche, ad accudire i figli. «Da quel momento
- analizza la filosofa - non siamo più andate
avanti». Le lavoratrici guadagnano ancora
il 20 per cento in meno dei colleghi, sono
le prime licenziate e hanno spesso impieghi
precari o part time. Nell’ultima parte del
libro, Elisabeth Badinter attribuisce colpe
e responsabilità di questa involuzione. Ed
è questo il passaggio che sta suscitando più
reazioni. A suo parere, le prime indiziate
sono le neofemministe che hanno sposato
la retorica familistica. Seguono poi alcuni
psicologi infantili, che scoraggiano le madri
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi
lavoratrici, fino ai militanti della Lega Latte
e persino agli ambientalisti che costringono
la donna a tornare nei ruoli più tradizionali.
«Badinter è una vetero-femminista che rifiuta
la maternità», ha commentato Edwige Antier, deputata del partito di destra Ump e
psicologa. «Forse - aggiunge - non ha capito che le donne oggi scelgono liberamente di
non rinunciare al desiderio di maternità. È
un progresso, non un arretramento». Anche la
leader dei Verdi, Cécile Duflot, si è sentita
chiamata in causa. Ha 34 anni, quattro figli,
eppure sta girando la Francia per la campagna elettorale delle regionali. «Rimettere
la natura al centro delle nostre vite non vuole
dire accettare per forza un modello patriarcale. Quello di Badinter - ha detto Duflot - mi
sembra un approccio sbagliato e soprattutto un
po’ datato». Anais Ginori
(Recensione apparsa su La Repubblica, 8 febbraio
2010 con il titolo Badinter e l’ elogio della madre
mediocre. Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione alla pubblicazione)
cinema
Un felice benvenuto a coloro che entrano in
questo luogo dedicato ai film e alla loro forza di formare. In appendice alla rivista e ai
confini con la sezione dedicata ai libri, se ne
apre un’altra destinata al cinema. Qui viene
proposto un film scelto tra quelli ritenuti più
capaci di attirare la nostra attenzione su visioni insolite. E’ ben specificare che, anche se in
questa sezione a farla da padrone è il film, in
realtà esso viene considerato solo una parte del
complicato dispositivo pedagogico che è il cinema. Cioè, l’oggetto dei nostri ragionamenti
saranno i film ma –sempre- terremo presente
la più ampia condizione percettiva ed estetica
creata dal cinema che, per la sua specificità,
risulta particolarmente capace di attivare processi formativi.
LO SPAZIO BIANCO
di Francesca Comencini
Italia, 2009
Produzione Fandango
Distribuzione
01 Distribution
La trasparenza della
madre
Lo spazio bianco è
un’interruzione, un fuori
campo, una pausa mentale che separa il presente dal futuro, una ferita,
un sospeso che tiene la madre vicina e lontana
dalla sua creatura. Lei, la madre, è Maria, ha
oltre quarant’anni, una casa in affitto, un lavoro come insegnante precaria, amori passeggeri.
Vive una vita stretta nel perimetro del presente,
la macchina da presa ce la presenta nel suo rituale quotidiano: preparare la colazione al mattino, andare al cinema di pomeriggio, insegnare
al corso serale dopo il tramonto. Ogni giorno,
senza rumore, senza colore, in totale solitudine,
la sua vita. Napoli è la città in cui scorre la vicenda, la metropoli fa da sfondo, lascia da parte
il suo protagonismo e fa spazio, con modestia e
generosità, alla scia emotiva di Maria, una scia
che penetra nelle urgenze metropolitane. Poi
un incontro, la gravidanza. “Sono ormai vecchia per avere figli e per le pene d’amore”, dice
lei. Dopo un primo piano, muto, dell’ecografia
del feto e del controcampo del volto assorto di
lei, lo schermo si fa bianco. Veniamo trasportati
di colpo sei mesi più avanti.
Maria è in una sala di ospedale dalle pareti bianche, tra infermieri in camice bianco che la accompagnano accanto all’incubatrice di sua figlia,
nata prematura e bisognosa di ossigeno. Passa
notti in bianco accanto alla figlia. Di lei non
vuole pronunciare neppure il nome per paura
di affermare l’esistenza di una nascitura che non
promette che nascerà. Il suo nome è Irene.
In bilico tra il dentro e il fuori assistiamo impotenti all’attesa di un evento che non possiamo
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114
dai figli), scrive la filosofa francese. Maria è
stretta nella morsa di queste due tipologie: il
senza figli come libertà o il senza figli come
carenza? Lasciamoci aperta la domanda. Il
film indica il dolore nel suo semplice fluire,
ma pure la bellezza del soffrire per amore.
ONGAKU
Sarà la musica che gira intorno, come canta
Fossati, sarà l’acqua sporca della musica, come
stigmatizza Kundera, sarà quel che sarà...
Ma la musica, le canzoni costituiscono qualcosa di più di una semplice colonna sonora che
accompagna la nostra esistenza. In luogo di
starsene tranquille in disparte, come un’ombra
emotiva ma discreta, loro ci entrano dentro, ci
segnano, ci possiedono. E noi ricambiano la
loro seducente invadenza con una fedeltà che
la memoria sigilla con un timbro indelebile.
Passano gli anni, le ore, talvolta solo i minuti,
e dimentichiamo tutto, quello che vogliamo
dimenticare, ma soprattutto quello che non
desideriamo cancellare.
Con un motivo musicale, una canzone, no: è
diverso! Restano in mente ritornelli stupidi,
nenie infantili che sconfiggono il tempo, se la
ridono di lui e di noi. Come se ci provocassero. Succede addirittura, però, che inventino
miracoli...
Cristiano De André
De André canta De
André. Live
Etichetta Family srl,
2009, € 20,90
Siamo il buio, la notte che vuole regnare sovrana, ignorando il
pensiero dell’alba. Siamo gli effluvi che la
terra accompagna con rumori, frastuoni assordanti. Siamo la vicina del piano di sotto
che strepita e grida e non sa nemmeno, forse,
musica
prevedere. Siamo tutti nel bianco che accoglie
e mescola tutti i colori; un bianco che è un potenziale tutto. O niente. E noi assistiamo come
dall’interno ad un percorso di formazione:
come se ci venisse resa trasparente l’ultima fase
della gravidanza, i vetri ci rendono visibile il
percorso fisiologico di crescita della bimba dentro all’incubatrice (che, poi, è un utero esterno),
ci rendono limpidi i pensieri aggrovigliati della
donna che si chiede se sua figlia nascerà o morirà. Sospesi tra il dentro e il fuori della mente
e del corpo di Maria. Siamo sul filo, stiamo alimentando una creatura che non ci assicura di
venire alla luce sana e salva. Ma quale gravidanza ci assicura che sarà sana e salva?
Il bello di questo film è la sua capacità di
offrire allo sguardo i pensieri non parlati di
una donna che vuole e non vuole la nascita
di sua figlia, che accetta e rifiuta la maternità. I suoi sono pensieri non tradotti che
ci arrivano agli occhi per mezzo del volto
di lei, appoggiata al silenzio delle musiche
incalzanti della colonna sonora.
La donna che mette in discussione il suo
potenziale di madre è figlia di questi tempi:
lo voglio o non lo voglio, un figlio? Me lo
posso permettere? Tra quanto tempo? Sarò
in grado di fare spazio a una creatura appena nata, io che non ho spazio per me? Se
la maternità è una scelta, è una scelta assai
difficile tra le donne immerse nel vortice di
lavori a termine, con relazioni a termine e
abitazioni a termine. Ce lo ricorda la filosofa Elisabeth Badinter con il suo ultimo
libro Conflit, la Femme et la Mere dove il
conflitto, interiore ed esteriore, è vissuto
dalle donne madri che rinunciano al lavoro
perché sono asfissiate dal senso di colpa di
non fare abbastanza per il neonato ed è vissuto dalle donne che non diventano madri
perché non vogliono rinunciare al lavoro.
Ci sono donne childless (donne a cui mancano i figli) e donne childfree (donne libere
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con chi e perché, mentre tu guardi il soffitto e imprechi senza che il soffitto ti risponda e i tuoi occhi si chiudano arrendendosi
al sonno. Siamo la menzogna a cui fingiamo
di credere solo per evitare che la verità ci si
pari davanti come un terrorista incappucciato con il mitra spianato. Siamo la piuma a
cui si aggrappava Dumbo, ma siamo anche
Dumbo che, sfidando le leggi di gravità, cerca di volare. Siamo il fondo, tetro, insieme al
suo opposto, uno spiraglio di luce, mai del
tutto chiaro, pasticciato, ambiguo. Seppure
a tratti luminoso.
Che c’entra, direte voi questa manfrina con
l’ultimo cd di Cristiano De André, dal titolo De Andrè canta De André? Eppure sì,
c’entra, fidatevi… Il cd di Cristiano paga il
suo tributo a due demoni contraddittori, in
conflitto tra di loro. Il primo è quello che
veste i panni del re dell’improbabile.
Che senso ha un cd del genere? Per lui, per
il pubblico che è accorso ai suoi concerti, per
noi? Il figlio canta le canzoni del padre, quasi
prendendosi per lui o, comunque, alimentando un equivoco che la gente impietosamente e a gran voce esige. Un padre geniale,
indubbiamente, quanto non poco distruttivo, devastante nel suo ruolo paterno. L’irritante beatificazione del grande cantautore
genovese rende un pessimo servizio alla sua
stessa figura ed all’intelligenza di chi lo ama.
L’ansiosa retorica che ormai domina ogni discorso su di lui esaspera quel che di per sé
è già, per sua natura, esasperante: il rifiuto
testardo del lutto, la non accettazione della
caducità che marca l’esistenza. Il pubblico
non vuol saperne della morte, di quella di
Fabrizio “Faber” De André. E, dietro di lui,
della propria. Cristiano fa del suo meglio per
riprendere le canzoni del padre. Sembra un
equilibrista in bilico su una fune: deve essere simile al padre e, nel contempo, differenziarsi. Impresa impossibile, non invidiabile.
La sua voce si tiene lontana dalla gravità di
quella del padre, fenomeno che lo danneggia
in alcuni pezzi come “Smisurata preghiera”;
così come, invece, tradisce spesso timbri del
tutto simili, quasi indifferenziabili con quella
di Faber. Dà i brividi, ad esempio, ascoltare
“Amico fragile”, la canzone più autobiografica di Fabrizio. “Chi” la canta, in definitiva? E
cosa prova Cristiano nell’eseguirla? Il pubblico applaude, domanda il bis. Tutto sembra
un po’ irreale, estraniante, come se qualcosa
andasse confuso… Un confine si smarrisse.
Nel dvd allegato al cd, Cristiano si appella
a un passaggio di testimone, dal padre a lui,
ma si ha la sensazione opposta, come se l’impasse avesse la meglio… Un passaggio suppone una rottura, un taglio, un tradimento,
non una riproduzione.
Il secondo demone è quello che, invece,
presiede alla necessità della vita. Ora riarrangiate, ora meno, le canzoni circolano. In
questa reiterazione del prima, del già sentito
ritorna pur tuttavia la poesia di Faber ed è
quel che fa sempre bene alla testa e al cuore.
Ciascuno vi prende e vi ritrova un attimo
di bellezza, di quella che incanta e nutre.
Quasi fosse un filo rosso che, insinuandosi nell’improbabile, mantiene aperte strade
nuove o ancora tutte da percorrere o che
magicamente resistono a quell’incuria cui
la quotidianità ci abitua. Sottratte al ricatto
della nostalgia, le canzoni di Faber possono
così acquistare forza, lottare per ambire a
una loro rinnovata autonomia. Dimenticando quel che occorre dimenticare per provare
a sorprendersi. Ciò è salutare per chi ascolta, ma anche per chi, forse, canta. Cristiano dichiara nel dvd che sta preparando un
suo cd per l’anno prossimo. E’ una notizia
che ci rallegra. Mai disperare. Facciamogli
auguri e aspettiamo un nuovo lavoro tutto
suo. Buona fortuna, coraggio.
Angelo Villa
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ARRIVATI_IN_REDAZIONE
Luc de Brabandere
Pensiero magico pensiero logico.
Piccola filosofia della creatività
Ed. Castelvecchi,
Roma 2010, pp. 182, € 16,50
Nel regno del pensiero umano esiste un territorio ancora inesplorato:
un luogo dai confini indefiniti dove si nascondono opportunità dal
valore incalcolabile e nuove possibilità. E è proprio questo, secondo
Lue de Brabandere, indiscussa autorità mondiale nell’applicazione
della creatività al business, il luogo con cui bisogna confrontarsi
quando, negli affari o nella vita di tutti i giorni, l’innovazione smette
di essere un semplice bisogno per diventare una necessità...
Luigi Ballerini
Parole di traverso.
Racconti da non prendere alla lettera
Ed. Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 72, € 14,50
In questo libro sono raccolte sei storie bizzarre, originali e divertenti,
ognuna basata su un modo di dire che, anziché essere compreso
in quanto tale, viene preso alla lettera dai protagonisti, portando
a simpatici fraintendimenti. Sei storie e sette bambini, impegnati
nel trovare una soluzione a questioni per loro molto importanti: c’è
Filippo che ha una famiglia che “va a rotoli”, nel senso che trae dai
rotoli l’energia per muoversi, parlare, vivere...
Elena Madrussan
Forme del tempo. Modi dell’io.
Educazione e scrittura diaristica
Ibis, Como-Pavia 2009, pp. 150, € 15,00
Il diario è da sempre riconosciuto come il luogo della conoscenza
intima di sé, ma la sua pratica oggi pare irrimediabilmente viziata
dal venir meno dei suoi presupposti fondamentali: il tempo per la
scrittura; la formazione di un io solido; l’esercizio della verità. A
partire dalle alterazioni della tradizione letteraria diaristica e attraverso
l’analisi delle possibilità autoeducative di questa pratica affascinante,
l’Autrice propone un nuovo modo di concepire il diario...
Sabrina Avakian
Bambini al rogo
Salani Editore, Milano 2010, pp. 127, € 12,00
In Angola è ancora viva una tradizione secondo la quale in presenza
del ‘male’ si deve trovare un capro espiatorio. Le vittime sono
per la maggior parte bambini, spesso piccolissimi, che una volta
accusati subiscono ogni genere di soprusi: dai maltrattamenti agli
abusi, dall’allontanamento dalle proprie famiglie e dalla comunità
di appartenenza, allo sfruttamento fino ad arrivare, in casi troppo
spesso frequenti, anche alla loro uccisione...
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Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/arrivati_in_redazione
Matteo Negro, Fabio Claramelli, Giudo Nicolosi
Figure della corporeità.
L’esperienza del corpo nell’era delle biotecnologie.
Ed. Città Aperta, Troiana (EN) 2009, pp. 212, € 20,00
Le trasformazioni di carattere tecnologico e antropologico che la
nostra civiltà subisce e nello stesso tempo promuove a un ritmo
incessante suscitano una lunga serie di interrogativi inediti, di cui
la ricerca teorica non può non tener conto. È urgente innescare una
riflessione profonda attorno al vissuto della corporeità e alla sua
frammentazione, accentuata dai progressi delle biotecnologie...
Simona Alberti
Pratiche filosofiche a scuola.
La classe, l’ascolto,
il racconto autobiografico, il pensare simbolico
Ipoc Editore, Bologna 2009, pp.288, € 22,00
Un’insegnante della scuola superiore racconta la sua esperienza
di praticante filosofa con gli studenti; la pratica filosofica è
caratterizzata dalla dimensione comunitaria, e una classe di studenti
con il loro insegnante è proprio una comunità contraddistinta dalla
comunicazione, dal dialogo e dal confronto che si svolgono in uno
spazio e in un tempo comuni...
P. Rossi
Fine del diritto?
Il Mulino, Bologna 2009, pp. 102, € 10,00
L’immagine del diritto come sistema di norme disposte
gerarchicamente, riconducibili tutte a una fonte unica, appare in
declino, non solo perché all’attività legislativa statale si affiancano
altre fonti subnazionali e sopranazionali, ma anche perché l’attività
legislativa stessa procede attraverso decretazione, sotto la spinta
di interessi e posizioni ideologiche, senza assicurarsi spesso la
compatibilità con le leggi vigenti....
Ferdinando Pellegrino
La malattia di Alzheimer.
Comunicare la diagnosi
Carocci Editore, Roma 2009, pp. 131, € 12,50
Professione, comunicazione e malattia sono le parole chiave di questo
libro scritto pensando a come, nella pratica professionale, la relazione
tra il medico ed il paziente abbia luogo attraverso la comunicazione: le
parole del medico fanno guarire o ammalare, ridanno speranza dove
il vuoto dell’esistenza si avvicina inesorabile. In una prassi medica in
cui prevale il tecnicismo l’assistenza al paziente con Alzheimer diventa
un importante momento di riflessione per recuperare la dimensione
antropologica del rapporto medico-paziente e per valutare ogni
opportunità che consenta al paziente e ai suoi familiari di tendere a
obiettivi in grado di assicurare sostenibili livelli di qualità di vita...
Cultura 117
Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/arrivati_in_redazione
C. Widmann
Il male. Categoria morale, patologia psichica, realtà umana
Editore Ma.Gi, Roma 2009, pp. 220, € 18,00
Figure sinistre grondano sangue di stragi familiari, tramano
nell’ombra un terrore internazionale, s’inebriano di sesso estremo;
pedofili rapiscono bambini, madri di morte abbandonano neonati,
signori della guerra prosperano di cadaveri... In questo saggio la
psicologia del profondo scruta il lato oscuro della psiche, dove la
follia confina con la malvagità. Il male sgorga da quelle profondità
d’ombra e intreccia relazioni costanti con le sfere luminose della
coscienza e dell’io...
Novelletto Arnaldo
L’ adolescente.
Una prospettiva psicoanalitica
Astrolabio Ubaldini, Roma 2009, pp. 363, € 29,00
Pioniere e maestro nel campo della psicoanalisi dell’adolescenza,
Novelletto è stato il primo in Italia a porre l’attenzione sulle
profonde differenze tra infanzia e adolescenza, evidenziando
nettamente le peculiarità dell’approccio clinico agli adolescenti. Gli
scritti qui pubblicati affrontano una varietà di tematiche teoricocliniche che testimoniano l’ampiezza del suo orizzonte: la mente
adolescente infatti non si esaurisce nell’arco evolutivo di qualche
anno, non è solo un transito fra l’infanzia e l’età adulta, ma uno
stato presente in tutti noi e potenzialmente attivo...
C. Larmore
Dare ragioni.
Il soggetto, l’etica, la politica
Rosenberg & Sellier, Torino 2008, pp. 152, € 14,00
Un volume edito solo in italiano, in cui il noto filosofo americano
condensa il suo percorso che si misura con le grandi questioni
dell’etica, della verità, del soggetto, della politica. Senza essere
scettico, il suo approccio soppesa le ragioni di una scelta filosofica
riconoscendo che altre scelte hanno anch’esse buone ragioni per
esser fatte valere: è ciò che egli chiama la “legge della conservazione
dell’imbarazzo”...
Henrich Dieter
Metafisica e modernità.
Il soggetto di fronte all’assoluto
Rosenberg & Sellier, Torino 2008, pp. 144 , € 15,00
Uno dei più autorevoli filosofi tedeschi contemporanei ricostruisce
come un archeologo il senso complessivo dell’idealismo
analizzandone i testi fondatori e il contesto culturale in cui si sono
formati. Ma questa ricostruzione, pur minuziosa, non ha carattere
filologico. L’idealismo mostra qui la sua attualità non esaurita, e
riformula la questione dell’assoluto nel tempo della modernità, ossia
nel tempo che ha nel soggetto un proprio motivo centrale...
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SOCIETÀ DI PEDAGOGIA E DIDATTICA DELLA SCRITTURA
Scrittura e professioni di cura
ANGHIARI 14 - 15 MAGGIO 2010
14 MAGGIO - Castello di Sorci
Ore 15,00 - Apertura del Simposio:
Saluti delle Autorità
Franco Frabboni, Presidente di Graphein
Duccio Demetrio, Direttore scientifico di Graphein
Ore 16,00 - Scrittura e cura: punti di vista a confronto
Introduce: Vanna Iori
Ne parlano: Gemma Martino
Luigina Mortari
Sergio Tramma
Lucia Zannini
Ore 18,00 - Apertura dei gruppi di lavoro
1° Gruppo: Scrittura e cura nei contesti educativo-sanitari
Coordinano: Alessandra Augelli, Daniele Bruzzone
e Elisabetta Musi
2° Gruppo: Scrittura e cura nella scuola
Coordinano: Elisabetta Nigris e Cosimo Laneve
3° Gruppo: Scritture e cura nel lavoro sociale
Coordinano: Pierangelo Barone e Riccardo Pagano
4° Gruppo: Scrittura e cura nei luoghi di segregazione
Coordinano: Laura Formenti e Beppe Pasini
5° Gruppo: Scrittura e cura nelle esperienze di malattia
e di perdita
Coordinano: Maria Antonella Galanti e Nicola Ferrari
Ore 19,30 - Presentazione del secondo volume
per la collana Egoscritture, edizioni Erickson
Laura Formenti presenta: Attraversare la cura
Ore 20,30
Cena al Castello di Sorci
15 MAGGIO - Teatro Piazza IV Novembre
Ore 9,00 - 12,30
Prosecuzione dei Gruppi di lavoro
Ore 12,30
Conferimento del Premio Graphein a Domenico
Ore 13,30
Chiusura dei lavori
PER INFORMAZIONI:
www.graphein.it
[email protected]
Starnone
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Corpo a corpo. La madre