Rivista di educazione, formazione e cultura 2010_XIV_2 - € 9 Corpo a corpo. La madre Rivista trimestrale di educazione, formazione e cultura - Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 Sped. in abb. post. 45% ART.2, COMMA 20B, LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - ISSN 1593-2559 In caso di mancato recapito restituire al mittente presso CMP Alessandria che si impegna a pagare la tassa di restituzione Sono passati quarant’anni dalla stagione iniziale – e forse più interessante per la sua carica straordinaria di rottura e radicalità – del Movimento femminista e le donne sono cambiate. Sono cambiate innanzitutto nella percezione che hanno di loro stesse, nelle attese legate al presente, al futuro, nella vita affettiva e privata, nel sociale e nel lavoro, nelle relazioni cogli uomini, ma anche con le altre donne. Barbara Mapelli Sette vite come i gatti Generazioni, pensieri e storie di donne nel contemporaneo Prefazione di Carmen Leccardi Collana POLIS pp. 180, € 16,00 mail: [email protected] Rivista di educazione, formazione e cultura anno XIV, n°2 Aprile, Maggio, Giugno 2010 Pedagogika.it/2010/XIV_2 Rivista di educazione, formazione e cultura esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni Anno XIV, n° 2 – Aprile/Maggio/Giugno 2010 Direttrice responsabile Maria Piacente [email protected] Progetto grafico/Art direction Raul Jannone - [email protected] Redazione Fabio Degani, Marco Taddei, Mario Conti, Dafne Guida Conti, Nicoletta Re Cecconi, Carlo Ventrella, Mariarosaria Monaco, Liliana Leotta, Cristiana La Capria, Laura Conti, Coordinamento pedagogico Coop. Stripes. Promozione e diffusione Fabio Degani, Federica Rivolta Comitato scientifico Silvia Vegetti Finzi, Fulvio Scaparro, Duccio Demetrio, Don Gino Rigoldi, Eugenio Rossi, Alfio Lucchini, Pino Centomani, Ambrogio Cozzi, Salvatore Guida, Pietro Modini, Antonio Erbetta, Angela Nava Mambretti, Anna Rezzara, Lea Melandri, Angelo Villa Registrazione Tribunale di Milano n.187 del 29/3/1997 - Sped. in abb. post. 45% ART. 2, COMMA 20B LEGGE 662/96 FILIALE DI MILANO - issn 1593-2559 Hanno collaborato Chiara Saraceno, Anna Bravo, Veronica Pravadelli, Rossana di Silvio, Graziella Bonansea, Giancarla Codrignani, Fabrizio Chello, Angelo Villa, Francesca Dionigi, Davide Scheriani, Manuela Fraire, Lella Ravasi Bellocchio, Laura Cuppini, Anais Ginori Edito da Stripes Coop. Sociale Onlus - www.stripes.it Direzione e Redazione Via Papa Giovanni XXIII n.2 - 20017 Rho (MI) Tel. 02/9316667 - Fax 02/93507057 e-mail: [email protected] Sito web: www.pedagogia.it 2 Responsabile testata on-line Igor Guida - [email protected] Pubblicità Clara Bonfante, Daniela Colombo Stampa: Impressionigrafiche S.c.s. Acquiterme (Al) - Tel. 0144-313350 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione - Via F. Argelati, 35 - Milano Fotografie: stock.xchng é possibile proporre propri contributi inviandoli all’indirizzo della redazione - [email protected] I testi pervenuti sono soggetti all’insindacabile giudizio della Direzione e del Comitato di redazione e in ogni caso non saranno restituiti agli autori Questo periodico è iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana Pedagogika.it/2010/XIV_2/sommario s o m m a r i o 5 Editoriale La spinta ad esistere Maria Piacente ../dossier/Corpo a corpo. La madre 10 Introduzione/introduction 12 La pluralizzazione delle figure materne Chiara Saraceno 22 Fra maternità ed emancipazione: Sibilla Aleramo e Maria Montessori Anna Bravo 62 La sessualità della madre Angelo Villa 68 Il lutto della madre Francesca Dionigi 74 Mammismo! Davide Scheriani 81 Disfare la madre, rifare la madre Manuela Fraire 88 Di madre in figlia. Storia di un’analisi Lella Ravasi Bellocchio ../cultura 31 Ruolo materno nelle pratiche e nelle teorie filmiche Veronica Pravadelli 40 From mother to mothering Rossana di Silvio 47 Madri/non madri: una discussione a partire dal libro Perché non abbiamo avuto figli? Graziella Bonansea 51 Stato interessante Giancarla Codrignani 56 Eva o la nascita come esilio Fabrizio Chello 103 A due voci Angelo Villa, Ambrogio Cozzi 107 Scelti per voi, Libri Ambrogio Cozzi (a cura di), Cinema, Cristiana La Capria (a cura di), Musica, Angelo Villa (a cura di) 116 Arrivati in redazione ../In_breve 119 Uno, nessuno, centomila… ruoli per l’educatore. ../In_vista 120 La libera Università dell’Autobiografia 3 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ ABBONARSI è IMPORTANTE Piano editoriale 2010 ...erranze ...migrazioni Corpo a corpo. La madre Internet e nuove tecnologie, relazioni e linguaggi Frontiere reali, immaginate, immaginarie Rivista di educazione, formazione e cultura Numero di c/c postale 36094233 intestato a Stripes Coop. Sociale ONLUS via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) L’abbonamento annuale per 4 numeri è: € 30 privati € 60 Enti e Associazioni € 90 Sostenitori Pedagogika.it è disponibile presso tutte le librerie Feltrinelli d’Italia e in altre librerie il cui elenco è consultabile sul sito www.pedagogia.it Insieme alla ricevuta di avvenuto pagamento inviare il coupon presente all’interno della rivista, una volta compilatolo, al n° di fax 02-93507057 o per posta ordinaria al seguente indirizzo: Redazione Pedagogika.it, via Papa Giovanni XXIII, 2 - 20017 Rho (Mi) 4 Per informazioni: Redazione Pedagogika.it Tel. 02/93.16.667 - Fax 02/93.50.70.57 - www.pedagogia.it - [email protected] Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ La spinta ad esistere Maria Piacente In questo dossier dedicato alla figura della madre vorrei fare una riflessione su come il divenire madre è, quasi sempre, in connessione con il divenire un’opera per sé. Su come il divenire madre ha a che fare con il divenire quel che si è, su come il destino del divenire madre si intrecci, inesorabilmente, con quella parte che ogni donna che è divenuta madre ha dovuto esplorare, a volte solo inconsciamente, prima di mettere al mondo un essere umano, un figlio, una figlia. E, ancora, su quanto la misura del desiderio, come spinta incontenibile nello stare al mondo, debba fare i conti con la brama di “occupare” uno spazio del mondo, nel mondo. Per fare questo, tra le tante ascoltate, mi viene in aiuto la storia di Belinda: bella ragazza, occhi azzurri, ciglia nere nere, capelli castani, un po’ olivastra, con qualcosa di esotico. Forse sarebbe meglio dire una ragazza di una spiccata soggettività. Forse era quello che la rendeva unica. Unica, come ognuno di noi, certo. Ma ora stiamo parlando di lei. Allora, Belinda, poco più che ventenne, stava intraprendendo la strada per divenire una brava avvocata. Tutte le mattine, insieme ai suoi testi di diritto, cingeva con l’elastico per i libri anche qualche foglio di appunti, spiegazzato, con dentro i suoi pensieri notturni scarabocchiati qua e la. Era bella, elegante, corteggiata e, come si suol dire, con “tutta la vita davanti”. Di mettere al mondo un figlio, lei non lo sapeva, lo aveva deciso una mattina, guardando fuori dalla finestra dall’aula di una università. Il suo sguardo, nonostante tutti gli sforzi, non riusciva a spingersi oltre ad una poderosa e magnifica betulla, che in quella stagione estiva poteva fare bella mostra delle sue verdi foglie. Nei suoi pensieri, quella mattina, ma anche quasi tutte le altre, ci stavano anche le arringhe che sognava di fare ad occhi aperti, quando sarebbe diventata, ormai da li a qualche anno, una brava avvocata, come sua madre, con la differenza che lei si sarebbe, finalmente, occupata degli ultimi. Si stava avvicinando il periodo delle mestruazioni e Belinda era piuttosto inquieta: come al solito sarebbero arrivate, uffa ! Niente di nuovo sotto il sole ! Invece di nuovo c’era che Oreste, responsabile delle attività culturali dell’Oratorio della Parrocchia più grande, stava organizzando un’uscita nel Pavese con i ragazzini dell’oratorio, quelli che in comune chiamavano “Casi Sociali”; insomma avrebbero fatto una gita fuori porta con intenti educativi a favore di tutta la famiglia. E poi c’era da discutere di un mondo di cose: prima di tutto di politica, visti i tempi dell’epoca “I favolosi anni ‘70”; volendo in quel periodo c’era un gran da fare, ma Belinda amava sentirsi indispensabile, unica; e così, sempre alle prese con queste “ossessioni”, voleva fare delle cose che nessuno aveva voglia di fare. Alla fine le proposte di Don Gino, i pomeriggi passati a discutere su chi è più ultimo degli ultimi ebbero la meglio e Belinda si propose come accompagnatrice dei “Casi Sociali” dell’Oratorio. Va detto, però, che sulla sua decisione molto aveva pesato la presenza di Oreste, che aveva quel non so che: un mix di sacro e profano che alla 5 Pedagogika.it/2010/XIV_2/editoriale fine lo rendeva particolarmente affascinante. Quell’anno trascorreva davvero bene, era stato bello. Il libretto degli esami si andava riempendo di buoni voti. L’amore si stava svelando. A Belinda piaceva cantare a squarciagola sul pullman, insieme ai ragazzini accompagnati, le solite canzoni da gita fuori porta. A Belinda però mancava qualcosa... Qualcosa mancava, come quando un bimbo o una bimba piccola, che sanno di poterlo chiedere e non avendo bisogno di nulla di contingente o di particolare, chiedono alla mamma o al papà : “dammi qualcosa”. Ed il papà o la mamma danno loro qualcosa, ben sapendo che che non è quello che manca al loro bambino. Nei “favolosi anni ‘7O”, Belinda, taglia 44, altezza ragguardevole, nel recarsi in università indossava un bell’abito color corallo, un robe-manteau di crepella, tagliato in sbieco che accompagnava i suoi passi muovendosi sinuoso e catturando gli sguardi birichini dei compagni più sfacciati. Ciò che metteva la ragazza in imbarazzo, come in quella celebre foto di Ruth Orkin, American girl in Italy. A Belinda però non interessava. Belinda aspettava qualcosa. Cosa vuole Belinda? Cosa manca alla nostra poco più che ventenne ragazza? Passa un po’ di tempo e qualcosa succede. Non importa sapere se desiderio e realtà coincidano, stiano sulla stessa strada. La spinta ad esistere per Belinda sembra in ogni caso, in quel particolare momento della sua vita, che possa avere luogo solo attraverso la realizzazione di una sua particolare ed unica opera d’arte e cioè quella di avere una bambina o una bambino. Il mettere al mondo il figlio fantasticato diventa in quel momento per Belinda il modo di mettere al mondo il mondo. Anzi, di “creare” in parte il mondo facendolo abitare da una creatura viva: un ponte tra natura e cultura, un esserci ed estendere di più la propria presenza. Ora questa opera d’arte, questo divenire madre è intriso di una notevole cifra di investimento. Sotto molti profili, però. Vorrei per una volta sfatare il mito della madre oblativa e amorosa, della madre che tutto dà e nulla chiede. Il desiderare la maternità, il farsi “fare” madre da un figlio o da una figlia - ed in questo secondo caso, sappiamo quanto è più difficile il rapporto che in seguito si instaurerà con la figlia - ha una potente valenza generatrice di un rapporto unico, irripetibile e singolare, investito anche narcisisticamente di tutto ciò che in quel particolare momento della propria vita si desidera. E credo che non ci si debba scandalizzare. Quello che dico corrisponde al vero, se per verità intendiamo gli scambi autentici che in molti incontri noi donne abbiamo avuto con altre donne, con le quali abbiamo parlato di maternità; e si è ripetuto e si ripeterà ancora molte volte. Tra donne si parlava una volta e ancora si parla tanto. Al di là delle molte tipologie di madri amorose o delle Medee che abitano il mondo, quando le madri parlano tra di loro, sanno della potenza che le parole hanno. Sanno cosa vuol dire una madre quando, rivolta all’altro ed indicando il/la proprio/a figlio/a, con una punta di sussiego dice: “guarda cosa ho fatto, guarda di cosa sono stata capace!”. La spinta ad esistere - dicevo - che, con la nostra venuta al mondo strutturalmente possedia- 6 Pedagogika.it/2010/XIV_2/editoriale mo, ci porta oltre il desiderio che prima ancora di noi ci ha portato al mondo. Un desiderio con il quale fare i conti un'eros che ci porta altrove. E questo altrove può essere o non essere l’altrove che si chiama fare un figlio. è il desiderio che ci porta altrove e che ci fa divenire quello che siamo. E che non possiamo non ascoltare. È la ricerca di quella felicità, di quello stare al mondo che la differenza sessuale ed il pensiero della differenza lasciano anche attraverso alle donne la possibilità di generare un altro essere umano. Di fare la madre o di disfare la madre. Allora non andrei più alla ricerca esasperata del significato dell’essere o del non essere madre, di quando e di quanto esserlo. In un recente libro, uscito in Francia ma non ancora tradotto in Italiano, di Elisabeth Badinter dal titolo Le conflit, la femme e la mere la filosofa francese esplora la profonda crisi tra l’identità della donna contemporanea, combattuta tra il desiderio di maternità ed il bisogno di realizzarsi nella sua professione e la difficoltà di tenere insieme figli e lavoro. Una ipotesi potrebbe essere oggi quella di non fare più figli... Io non la metterei proprio così. Oggi le donne, in Europa, in Occidente, possono costruire tante case. Che le costruiscano! A lungo ne ha parlato un’altra grande filosofa Luce Irigaray. Che le costruiscano, alla giusta distanza dal Padre e all’inevitabile ombra della Madre. Di una madre che saprà rinunciare all’onnipotenza del materno, questione cruciale in particolare per la bambina per la quale il primo oggetto d’amore è dello stesso sesso. Farsi mettere al mondo dal proprio figlio/a, farsi madre, ha che fare con la potenza dell’indicibile. Con la ricerca della felicità, con il mistero della vita, con la vulnerabilità dell’umano, con la bellezza e con le arti. Con quel sapere dell’anima che la condizione umana ci ha trasmesso ancora prima della nostra nascita e che dovrebbe farci anche accettare la sofferenza ed il dolore insiti nella vita stessa, che amore, inteso come a-mors, mancanza di morte, ci spinge a vivere. 7 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ 30 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ Stato interessante di Giancarla Codrignani* “Stato interessante”, peccato che nessuno si chieda mai “per chi”. Infatti, nella stessa concezione dello Stato sembra che la donna abbia figli solo per suo dovere o, sublimando, piacere. Intanto le nazioni appaiono denominate dal verbo “nascere”, come a dire che sono generate dalle donne. Eppure le donne non hanno goduto della nazionalità, se è vero che assumevano automaticamente all’atto del matrimonio - e continuano ad assumere nei paesi di diritto patriarcale - quella del marito. Donna, come ti chiami? - Non lo so. Quando sei nata, da dove vieni? - Non lo so. Perche’ ti sei scavata una tana sottoterra? - Non lo so. Da quando ti nascondi qui? - Non lo so. Perche’ mi hai morso la mano? - Non lo so. Sai che non ti faremo del male? - Non lo so. Da che parte stai? - Non lo so. Ora c’e’ la guerra, devi scegliere. - Non lo so. Il tuo villaggio esiste ancora? - Non lo so. Questi sono i tuoi figli? - Sì. Wanda Szimborska Per parlare di maternità non solo in senso biologico si può partire di lontano, dai principi identitari codificati nel linguaggio dai fondatori delle istituzioni occidentali e che risultano immediatamente sessuati: proprio del padre è il patrimonium, della madre il matrimonium. L’uomo si riconosce nel potere proprietario, che comprende anche il possesso di una donna che gli dia dei figli legittimi (pare giusto pensare uxorem ducere?); mentre il potere della donna finisce in un ruolo che la subordina al marito. Infatti nel diritto romano l’adulterio è reato per la donna, perché la sua infedeltà può introdurre un individuo spurio a usurpare il patrimonio; il rigore della legge si perpetuerà fino all’ipocrita interpretazione ottocentesca che vuole la figura materna senza ombra di macchia, mentre all’uomo dà per scontata una natura incontinente e lo penalizza solo quando commetta “ingiuria grave” nei confronti della famiglia portando l’adulterio sotto il tetto coniugale. Così fino al 1968, anno della depenalizzazione in Italia dell’adulterio. Altre tracce connotano la costruzione della famiglia come struttura gerarchica che subordina la donna-madre al principio riproduttivo stabilito dall’uomo, che Aristotele certifica essere il solo protagonista della riproduzione, attivo rispetto alla passività del contenitore femminile. I figli, quindi, secondo il diritto, rimasero definiti da gerarchie di conservazione patrimoniale: legittimi e illegittimi, primogeniti Dossier 51 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/stato_interessante e cadetti, maschi e femmine. Il principio gerarchico comporta la discriminazione: il bastardo non diventa erede e per giunta nasce socialmente reietto; chi nasce per primo eredita titoli e beni anche se è meno capace rispetto agli altri; il padre può amare di più la figlia femmina, ma la dà ugualmente in moglie a prescindere dal suo gradimento. La famiglia è, per lunga tradizione, la struttura sociale più conservatrice e, nonostante l’evolversi della storia, il paterfamilias, che non è più il padrone della familia romana formata dall’insieme dei consanguinei e dei servi, neppure nel codice napoleonico lascia libera la donna, giuridicamente così incapace da ricevere un “curatore al ventre” se accade che, incinta, rimanga vedova. Il nuovo diritto di famiglia italiano (1975) ha eliminato la formula della “patria potestà” sostituendola con l’autorità genitoriale, ma ne resta tuttora difficile l’applicazione integrale, se è vero che l’espressione viene tuttora usata anche sulla stampa e nei tribunali alcuni giudici, vittime della propria appartenenza di genere, solidarizzano con l’autorità maritale. Ma è il rifiuto della maternità non voluta che fa comprendere quanto poco la donna sia padrona del suo corpo “destinato” a procreare. E’ evidente che, anche per chi ritenesse l’embrione un insieme cellulare irrilevante, abortire non è una “libera scelta”. Le donne che ricorrono all’aborto, qualunque giudizio esprimano sull’incipiente gravidanza, sono donne che hanno subito una lesione al loro desiderio (che finora non rappresenta in alcun modo una petizione di diritto) di non essere messe incinte; e poco importa se la causa è uno stupro di rapina o un’esuberanza maritale. Soprattutto da quando esistono i contraccettivi (pratica preventiva studiata già dai medici antichi e dalle streghe condannate al rogo), appare chiaro che avere (o non avere) un figlio per la donna non ricade sotto la categoria del diritto. Fino a pochi decenni fa la ragazza che “cadeva nel peccato” veniva caritatevolmente cacciata di casa perché la trasmissione della vita era virtuosa solo se produceva figli legittimi. Oggi non è più così; ma la maternità è tutto, meno che un diritto. Tanto è vero che, anche per l’operazione contrapposta all’aborto, la fecondazione assistita, sono necessarie leggi non solo che la consentano ad una coppia richiedente negandola alla single (a cui non si può vietare di essere ragazza-madre, ma secondo prassi “naturali” che, forse, ad una lesbica possono ripugnare), ma anche impediscano all’uomo che accetta la pratica eterologa di rifiutare il riconoscimento del figlio “non suo”. Che cosa mai significherà, pensando il giure al femminile, l’espressione habeas corpus? Norme tradizionali che intendevano lo stupro “reato contro la morale” e addebitavano il “debito coniugale” alla sola donna? Si possono comprendere le ragioni che impediscono il riconoscimento della maternità come potere: se accadesse, essendo quello riproduttivo - almeno per ora il potere più grande, le donne potrebbero fare tutto quello che vogliono. Il mondo che fin qui ha gestito tutte le categorie dei poteri non può ammetterlo, anche se, per la verità, si apre un’ulteriore questione: se sia vero che l’esperienza femminile, pur vissuta in termini di sottomissione, abbia consentito alle donne di avere un giudizio totalmente altro della categoria “potere”. Infatti, finora, nessuna madre, 52 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/stato_interessante mai, ha avanzato questo riconoscimento. “Stato interessante”, dunque; peccato che nessuno si chieda mai “per chi”. Infatti, nella stessa concezione dello Stato sembra che la donna abbia figli solo per suo dovere o, sublimando, piacere. Intanto le nazioni appaiono denominate dal verbo “nascere”, come a dire che sono generate dalle donne. Eppure le donne non hanno goduto della nazionalità, se è vero che assumevano automaticamente all’atto del matrimonio - e continuano ad assumere nei paesi di diritto patriarcale - quella del marito. La questione identitaria mi appassiona poco perché, strettamente intesa, porta al nazionalismo; tuttavia mi ha sgomentata, ai tempi della guerra in Bosnia, pensare che una serba, sposata ad un bosniaco e diventata bosniaca per matrimonio, poteva essere stata violentata da un serbo perché generasse un figlio serbo in seno all’etnia bosniaca. Dentro le identità rientrano anche i cognomi. Sembra fanatismo femminista l’ipotesi di scegliere tra due denominazioni della famiglia; ma è interessante notare come in Islanda i cognomi della donne evidenzino il padre (il suffisso -dottir significa “figlia di”), mentre in Francia, un tempo non così lontano, usava chiamare una signora sposata “madame François Mitterand” con anche il nome di battesimo del marito; in Spagna la donna mantiene il suo cognome (e lo trasmette ai figli) ma con la preposizione “de” che ribadisce il rapporto possessivo; e in Italia dicevamo Maria Rossi “in” Bianchi a indicare il suo ingresso in un’altra famiglia. E’ evidente che la storia rivela molte cose, anche che non esiste una bacchetta magica per fare come se non fossero accadute. Tuttavia quello “stato interessante” persiste nella sfera degli affetti e non comanda le strutture sociali. Esaltiamo la grandezza sublime della donna-madre, ma la riteniamo una cattiva lavoratrice perché può restare incinta. Se dobbiamo aiutare la famiglia, ricorriamo ad un’agevolazione fiscale di qualche euro, ma non rendiamo obbligatori quei servizi che, dal nido all’assistenza domiciliare agli anziani, sono necessari perché la donna possa avere la libertà di esercitare il diritto al lavoro. E così le donne non fanno i figli che vorrebbero, non li fanno da giovani, spesso non li fanno proprio. D’altra parte Elisabeth Badinter1 sostiene la presenza delle chidless (o childfree) che stanno costruendo una nuova identità femminile: “Sono le prime donne nella storia dell’umanità a riflettere serenamente sulle implicazioni e le conseguenze della maternità. E si astengono”. Discutibile; ma gli uomini non riflettono sulla qualità del futuro che li aspetta. Eppure il tempo per prevedere e prevenire non è molto: non solo la scienza ha predisposto il congelamento del materiale riproduttivo, la fecondazione in provetta e si cimenta con la costruzione dell’utero artificiale, ma studia anche l’autofertilizzazione femminile. Le scuole di pensiero si danno a immaginare: per qualcuna il maschio potrebbe diventare superfluo. Indipendentemente dalla fantascienza, fecondazione assistita e pillola abortiva ridomandano “di chi è il corpo della donna?”, che è un poco come chiederlo al militare quando “la patria” si appropria di quello 1 E.Badinter, Le conflit: la femme et la mère, Flammarion, 2009 Dossier 53 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/stato_interessante del maschio che ha giurato. Solo che i padri non si domandano nulla, mentre alle donne restano le soluzioni dei semi-liberi, dei servi: come l’aborto non costituiva problema - nonostante la violazione della legge che lo puniva - purché restasse clandestino, così se una donna oggi vuole soddisfare la sua più che legittima esigenza di gravidanza, può andare dove la pratica è consentita. Gli antichi - tutti gli antichi, anche in Africa o in America Latina - danno alla terra il nome di madre e si conservano simbolicamente i miti che fondano ogni genere di vita sul materno. Che non è la stessa cosa del femminile. Il divino, il sacro, le religioni e le tradizioni - nate con il sigillo maschile - onorano il femminile in quanto materno. Sul femminile l’ambiguità domina sovrana: “donna dice danno”, Eva è la madre dei viventi responsabile del peccato con lei connaturato all’umano, Pandora ha aperto agli umani il vaso dei mali; la stessa madre del dio cristiano incarnato diventa un idolo nella sublimazione irrevocabilmente maschile della vergine- madre. Ma la madre-terra subisce violenza, come le donne, che, anche quando erano dee, per secoli hanno partorito bambini e bambine non per sé, ma per la violenza voluta da una patria, da un mercato, dalla compravendita dei loro corpi. Anche per i padri, forse, oggi è ora non di limitarsi a dare alle donne l’omologazione al proprio modello: visto che nessuno sa bene che cosa sia la morte, perché non farsi corresponsabili della vita, che abita anche il loro corpo nella libertà? * Scrittrice, giornalista, politica, intellettuale, impegnata nel movimento femminista. 54 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ Dossier 55 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ Mammismo! La “sindrome del bamboccione” ha rilievo clinico? Una riflessione semiseria sulla centralità della figura materna nel sistema familiare contemporaneo. Scomodati illustri: Carl Gustav Jung, Charles Baudelaire, Erich Fromm, Aldo Busi, Piero Chiambretti e tanti altri… di Davide Scheriani* “Nella città dove sono nato vivevano due donne, madre e figlia, che camminavano nel sonno. Una notte, mentre il silenzio avvolgeva la terra, le due donne, camminando e dormendo, s’incontrarono nel giardino velato di nebbia leggera. E la madre parlò, e disse: - Finalmente, nemica mia, finalmente! Tu che hai distrutto la mia giovinezza, tu che hai costruito la tua vita sulle rovine della mia! Potessi ucciderti! E la figlia parlò, e disse: - Donna odiosa, vecchia ed egoista! Tu che ti ergi tra me e la libertà! E vorresti che la mia vita fosse un’eco della tua esistenza sfiorita! Vorrei che tu fossi morta! In quell’istante cantò un gallo, ed entrambe si svegliarono. Dolcemente, la madre disse: - Sei tu, tesoro? E dolcemente la figlia rispose: - Sì, cara”1 Kahlil Gibran, Il folle “C’è la madre a pezzi, logorata dalla deriva del figlio, che accenna ai presunti effetti dei drammi coniugali: è la nostra separazione che l’ha… da quando è morto suo padre lui non è più… C’è la madre umiliata dai consigli delle amiche i cui figli invece vanno bene o che, peggio ancora, evitano l’argomento con una discrezione quasi insultante… […] C’è quella che non ne fa una questione di persone, ma inveisce contro la società che si sgretola, l’istituzione che va a rotoli, il sistema che è marcio, la realtà, insomma, che non si adatta ai suoi sogni… C’è la madre furiosa con il proprio figlio: questo ragazzino che ha tutto e non fa niente, questo ragazzino che non fa niente e vuole tutto, questo ragazzino per cui abbiamo fatto di tutto e che non c’è verso che… mai una volta… non se ne può più! […] C’è la madre che teme la reazione del padre: questa volta a mio marito non andrà giù- […] C’è la madre ferrata in psicologia che dà una spiegazione a 1 Kahlil Gibran, Il folle, Mondatori, Milano, 1997, pag.17. 74 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo! tutto e si stupisce che non si trovi mai una soluzione a nulla, l’unica al mondo a capire il figlio, la figlia, gli amici del figlio e della figlia, e che nella sua eterna giovinezza di spirito (Vero che bisogna saper restare giovani?) si stupisce che il mondo sia diventato così vecchio, così incapace di comprendere i giovani. C’è la madre che piange, ti chiama e piange in silenzio, e si scusa di piangere… un insieme di pena, di preoccupazione e di vergogna… A dire il vero tutte provano un po’ di vergogna, e tutte sono preoccupate per il futuro del figlio. -Ma che cosa diventerà?-”2 Eccole, le mamme di oggi. Nevrotiche, preoccupate, sole. Le ricevo quotidianamente, esercitando la mia professione in ambito istituzionale e privato. Molto di frequente giungono al colloquio prive di accompagnatori (mariti, figli, padri), eppure la presenza/assenza di costoro è ridondante nelle loro narrazioni. In alcuni casi, viene descritta come una mancanza determinante (“Mio marito mi trascura, mio figlio mi evita”); in altri, invece, si configura come una relazione di tipo vagamente persecutorio… “Non riesco a staccarmeli di dosso, non ho mai tempo per me”. Il dibattito sulla centralità della figura materna nel sistema familiare nazionale contemporaneo ha varcato i confini della ricerca di settore, scagliandosi all’arrembaggio di una molteplicità di ambiti socio-antropologici e culturali, con i prevedibili effetti entropici e confusivi che si scatenano in questi frangenti: dai proclami dell’austero Ministro dell’Economia e Finanza, alle luci della ribalta mediatica nazionale, affollata di professionisti e sedicenti tali, ansiosi di sfoggiare cardigan color pastello, spiritose montature d’occhiali e illuminati pareri d’autore. Sforzandosi dunque di recuperare un’ottica meno compiacente ai dettami nazional-popolari (datosi peraltro che nemmeno il Festival della Canzone Melodica Italiana, da poco conclusosi, ha offerto lampanti prove di tenere in adeguata considerazione l’argomento in questione, preferendogli la “patria” e la “religione”, per bocca ed ugola di un regale interprete), vediamo cosa ne dicono gli Americani, i quali, ben si sa, hanno risorse materiali e intellettuali ben più estese delle nostre, per comprendere il Reale (quella categoria dell’Essere caro a Lacan, non il sopraccitato bamboccione di savoiarda schiatta, si intenda bene...): “It’s true Italy has a problem with sons never growing up in their mothers’ eyes. [...] Mammismo has its roots in the traditional role of the Italian (and Latin) woman, who often felt unfulfilled before career and divorce were options. She thus poured her love into her children. Over time, the son became a sort of husband to his mother, without the sexual component.[...] Italians with openly proud relationships with their mammas include former prime minister Silvio Berlusconi, journalist Paolo Brosio, art critic Vittorio Sgarbi, author Aldo Busi, comedian Gene Gnocchi, and TV host and showman Piero Chiambretti”3. Perbacco, nemmeno gli Americani si arrischiano nella traduzione terminologica 2 D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008, pp.41-42 3 Raeleen D’Agostino, Global Psyche: Forever Mamma’s Boy, in Psychology Today, Sussex, New York, Marzo 2008. Dossier 75 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo! di una sindrome talmente culture-related da rendere avventato qualsiasi paragone o generalizzazione categoriale (ne troveremo forse traccia nella prossima edizione del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”?). Ebbene, a fronte di tali sconsolanti evidenze, si sarebbe tentati di deporre le armi, arrendendosi all’evidenza di un trend psicologico, sociale e culturale che non ha precedenti nella storia moderna o in Paesi diversi dal nostro (rappresentati, va da sé, da ben altri modelli di homo politicus e televisivus). “Il codice materno antepone «naturalmente» il figlio a sé e possiede una sconfinata capacità di sacrificio che ne costituisce la vera grandezza. I padri notoriamente hanno meno pazienza, si stancano subito, sono meno adattabili e disposti alla rinuncia. Ma la mentalità educativa femminile contiene in sé anche il principio della sua pericolosità; se infatti non è fecondata dall’apporto maschile, tende a scivolare nella pericolosa china dell’annullamento di sé, alimentando nei figli pretese e richieste che rendono eccessivamente gravosi i rapporti. […]Poiché amare non è mai stato facile, non esistono rapporti buoni se non a prezzo di qualche fatica da affrontare o rinuncia da accettare. Nella misura in cui permettiamo che i figli disconoscano questa fondamentale espressione della giustizia relazionale, essi diventano approfittatori (della bontà, della pazienza, della comprensione, in ultima analisi dell’amore altrui) e progressivamente «uccidono» il loro oggetto d’amore. […]Se il dolore provocato interiormente nella mamma dall’eccessiva fatica della convivenza con il figlio non è ascoltato, se il non poterne più di lui […] non si traduce in intelligenza del proprio errore, non è possibile dare una svolta ai rapporti. Il pungolo della disperazione dice di una sofferenza malata, che non è realmente utile al figlio, di un amore geneticamente modificato, che lo ha reso infecondo. Se proprio le donne smarriscono l’intima convinzione che ciò che più conta è voler bene, e da mamme non insegneranno ai figli a non aver paura ad amare, tutto sarà perduto. Il regalo più bello che esse possono fare al mondo è un figlio capace di voler bene. Chi ci salverà se le donne, smarrendo il segreto della loro vera grandezza, non testimonieranno più questa verità?”4 E’ pur vero, però, che la spinosa questione del mammismo ha coinvolto un illustre luminare svizzero, in tempi e luoghi non sospetti. Figlio di un pastore protestante deluso dal matrimonio e con il quale il giovane Jung (ecco svelata l’identità del “mammone” ante litteram…!) non ebbe un facile rapporto, della madre invece maturò un ricordo più affettuoso: la definì “un’ottima madre, enormemente accogliente, di piacevole compagnia”5 e non pare sinceramente azzardato rintracciare una certa influenza di questo vissuto personale sull’evoluzione dell’archetipo materno, nella ricerca scientifica di uno dei padri della moderna psicoanalisi. “Poiché il concetto di complesso materno, è tratto dall’ambito della psicopatologia, esso è sempre associato con quello di danneggiamento e sofferenza. Se però noi lo sottraiamo all’ambito strettamente patologico per fornirgli una connotazione più ampia e più ricca, possiamo coglierne anche l’effetto positivo: nel figlio può ad esempio prodursi 4 Osvaldo Poli, Mamme che amano troppo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, pp.1-23 5 Maurizio Quilici (a cura di), Onora il padre e la madre, Bompiani, Milano 2001, p. 372 76 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo! […] uno sviluppo del gusto e del senso estetico al quale un certo elemento femminino non nuoce; delle virtù pedagogiche rese perfette dalla capacità femminile d’immedesimazione; un senso della storia conservatore nel senso migliore del termine, in quanto ha il culto dei valori del passato […] una pienezza di sentimento religioso che traduce in realtà l’ecclesia spiritualis; una ricettività spirituale, infine, che rende l’uomo sensibile alla Rivelazione. […] Abbiamo notato che nella figlia il complesso materno genera o un’ipertrofia del femminile o una corrispondente atrofia. L’eccessivo sviluppo del femminile comporta un rafforzamento di tutti gli istinti femminili, in primo luogo dell’istinto materno. L’aspetto negativo è costituito dalla donna il cui unico scopo è la procreazione. […] Questo tipo di donna prima fa i figli, poi ai figli si aggrappa, non avendo all’infuori di essi alcuna raison d’être. […] Questa donna infatti, malgrado tutta l’abnegazione di cui si dice capace, non è assolutamente in grado di compiere nessun sacrificio reale, ma impone il suo istinto materno con una volontà di potenza spesso sprezzante che giunge fino all’annientamento della sua personalità e della vita stessa dei figli. […] Così Plutone rapì Persefone all’inconsolabile Demetra, ma per decreto degli dei fu costretto a cedere all’inizio di ogni estate la sposa alla suocera (Il lettore noterà che simili leggende non nascono per caso)”6. Se dunque possiamo timidamente iniziare a relativizzare l’orrida piaga del mammismo, ponendola entro una cornice ben più ampia di quanto non sarebbe legittimamente consentito dalla nostra, povera, congiuntura spazio-temporale, infarcita di tronisti, sciampiste e pretendenti al Grande Fratello (trovandone traccia nientepopodimenoche nella mitologia classica, con buona pace di Jung), saremo quantomai rincuorati dalle accorate righe del più “maledetto tra i mammoni”. Per tutta la vita, infatti, Charles Baudelaire tenne un’amorosa corrispondenza con la madre. Orfano di padre a sei anni, nella madre, dalla quale fu quasi sempre lontano, cercò tutto l’amore e la tenerezza di cui il suo animo pieno di contraddizioni era in cerca, teso all’idealizzazione, entro una fusione diadica totale. Le lettere della maturità, angustiata dalle ristrettezze economiche e dai problemi di salute, umiliata dalla tutela giudiziaria che proprio l’adorata madre era stata costretta a pretendere, dopo che il figlio aveva già dilapidato l’eredità paterna, accumulando ingenti debiti, mescolano in pari misura affetto, rabbia, ammirazione, esaltazione e, last but not least, continue richieste di denaro. “Mia cara madre, se possiedi veramente il genio materno e non sei ancora stanca, vieni a Parigi, vieni a vedermi, ed anche a cercarmi. […] Alla fine di marzo, ti scrivevo: Ci rivedremo mai? Ero in una di quelle crisi in cui si vede la terribile verità. Darei non so che cosa per passare qualche giorno accanto a te, tu, l’unico essere a cui la mia vita è sospesa, otto giorni, tre giorni, qualche ora. […] Tutte le volte che prendo la penna per esporti la mia situazione, ho paura; ho paura di ucciderti, di distruggere il tuo debole corpo. […] Credo che tu mi ami appassionatamente; con animo cieco, così forte è il tuo carattere! Io, ti ho amata appassionatamente nella mia infanzia; più tardi, spinto dalle tue ingiustizie, ti ho mancato di rispetto, come se un’ingiustizia di madre 6 Carl Gustav Jung, L’archetipo della madre, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp.36-44 Dossier 77 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo! potesse autorizzare una mancanza di rispetto filiare; spesso me ne sono pentito, anche se, come è mia abitudine, non ne ho fatto parola. […] Ci fu, nella mia infanzia, un’epoca di amore appassionato per te; ascolta e leggi senza paura. Non te ne feci mai parola. Mi ricordo di una passeggiata in fiacre; uscivi da una casa di cura dove eri stata relegata, e mi mostrasti, per provare che avevi pensato a tuo figlio, dei disegni a penna che avevi fatto per me. Non credi che ho una memoria terribile? […] Ah! Questo fu per me il bel tempo delle tenerezze materne. Tu appartenevi soltanto a me. Idolo e compagno insieme eri per me. Forse ti stupirai che io possa parlare con passione di un tempo tanto remoto. Io stesso ne sono stupito. Forse perché ancora una volta, ho concepito il desiderio della morte, i fatti antichi mi si dipingono così vivi nel mio animo. […] Passo oltre rapidamente, perché indovino delle lacrime nei tuoi occhi”7. Basterebbe una rapida scorsa a queste righe, per solleticare l’occhio clinico (ornato di spiritosa montatura) di tanti colleghi. E’ evidente che ci troviamo in presenza di un legame diadico regressivo, improntato ad un narcisismo più tipico dell’adolescente immaturo, che dell’adulto adeguatamente separato/individuato. Ed è proprio nella fase dell’adolescenza che vengono alla luce (e, purtroppo, in taluni casi, si cronicizzano) i conflitti più aspri con la figura primaria di riferimento e di rifornimento affettivo. “Durante l’infanzia, il corpo e la sua superficie sono il luogo elettivo dell’interazione e dello scambio fra madre e figlio: le cure igieniche, le manipolazioni di indole estetica che rendono il figlio il capolavoro espressivo della madre e le miracolose cure materne della sofferenza del corpo durante le mille malattie dell’infanzia scorrono lungo tutta la sua superficie, estendendo il soffice dominio della madre e la sua colonizzazione del figlio. […] Sopraggiunge l’adolescenza e il figlio è costretto ad impossessarsi del corpo ottenuto in dotazione dalla madre: sa che appartiene alla madre, ma è costretto a rubarglielo poiché deve usarlo in modo clandestino e ciò che farà e subirà non riguarda più la madre se non in modo simbolico e nostalgico. Inizia così ad addobbarlo e ad usarlo come un luogo di importanti comunicazioni verso la microsocietà dei coetanei; i segni che gli infligge, i graffiti con cui lo disegna, gli abiti o gli emblemi di cui lo copre e che lo significano non sono messaggi per la madre, semmai sono rivolti contro la madre ed attuati in onore degli amici e delle amiche. Succederà che si decida a bucarlo in profondità per infilarvi in permanenza monili metallici, o che lo consegni a mani mercenarie che depositino sotto la cute inchiostri che disegnano tatuaggi esotici, nostrani segni di ingresso definitivo nel corpo e nella sua insostenibile essenza identificatoria. […] Molti bambini giungono all’ingresso in preadolescenza sovraccarichi di responsabilità assunte e messe in pratica nei confronti dei loro genitori o di uno dei due, generalmente la madre, ma negli ultimi anni a chiedere questo particolare tipo di assistenza che solo un figlio può erogare si sono affacciati anche molti padri in parte perché maternalizzati, in parte perché c’è qualcosa nel nuovo stile relazionale fra genitori e figli che rende molto responsabili i figli nei confronti della salute mentale dei genitori. Molti figli, trovandosi inscritti all’interno di un rapporto molto psicologizzato con i loro 7 Charles Baudelaire, Lettere alla madre, Mondadori, Milano, 1998, pp.124-125. 78 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo! genitori, finiscono per sviluppare una particolare sensibilità nei confronti della sofferenza psichica degli adulti di casa e assumono volentieri il compito di vedere cosa si possa fare: ciò che generalmente si può fare è cercare di distrarre il genitore male in arnese dal proprio cruccio, regalandogli un grosso lavoro da fare: ad esempio imponendogli un surmenage parentale attraverso anomalie della condotta di tutti i tipi, creando allarme sociale, ammalandosi il più enigmaticamente possibile, di modo che il male perduri e si riveli solo nelle occasioni in cui serva all’obiettivo prescelto”8. Ed eccoci di nuovo a parlare di questi maschi presenti/assenti, che lasciano alla consorte il pesante fardello della gestione affettiva del rapporto col “bamboccio”. Se in passato, infatti, questi incarnava maggiormente l’imago della “bambola” graziosa ed a-sessuata (erroneamente ritenuta tale, ci ha insegnato un certo Sigmund F.), ora è divenuta manifestamente e sfrontatamente ribelle agli imbellettamenti e alle carezze, preferendovi creste, piercing e tatuaggi. In questa spiazziante situazione, il “mammo” non può che amplificare i timori e le ansie che la mamma fisiologicamente avverte, contribuendo a consolidare la strutturazione di un sistema disfunzionale che non tollera la frustrazione e la negoziazione del conflitto. Ma vi sono, ahinoi, altre tipologie di famiglie, che indulgono nella “coazione a ripetere” rappresentata dall’abolizione coatta di qualunque “crisi” (anche di quelle utili alla crescita e all’evoluzione, direbbe Erikson). “Ci sono genitori, oggi, che vorrebbero avere un rapporto di amicizia con i figli: ma un padre o una madre non possono essere contemporaneamente gli amici del proprio figlio. L’amicizia presuppone un rapporto paritario, mentre, quando un genitore pretende l’amicizia del figlio, il risultato è un rapporto immaturo e squilibrato, in cui uno cerca l’amicizia di una persona parimenti inadatta ad offrirgliela, a causa della costellazione di esperienze emotive da genitore a figlio che si è consolidata negli anni dell’infanzia. L’unico posto che un figlio può occupare con reale soddisfazione reciproca nella vita del genitore è, appunto, quello di figlio. Non può, in aggiunta, fungere da risarcimento per quello che manca nella vita del genitore, per quanto ardentemente questi lo desideri. E l’unica cosa che un genitore può essere per il figlio è precisamente questa: […]una persona matura, che accetta con amore e comprensione le immaturità del figlio, che lo protegge dal sentirsi umiliato, e vigila inoltre perché non producano conseguenze dannose, mentre, al tempo stesso, gli fornisce quegli esempi di maturità che lo guideranno nel corso del suo autonomo sviluppo”9. “Una causa dello sviluppo nevrotico può risiedere nel fatto che un ragazzo ha una madre amorosa, ma troppo indulgente o troppo autoritaria ed un padre debole e distratto. In questo caso, può restare legato infantilmente alla madre e sviluppare una personalità subordinata ad essa; è un debole, ha bisogno di ricevere, di essere protetto, curato, e manca di qualità paterne: disciplina, indipendenza e capacità di costruirsi la vita da solo. Può trovare ‘madri’ in tutti, a volte in donne, e a volte in uomini dotati di autorità e di potere”10. 8 Gustavo Petropolli Charmet, I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida, Cortina, Milano 2000, pp.40-96. 9 Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano, 1988, pag.361. 10 Erich Fromm, L’arte di amare, CDE su lic. Il Saggiatore, Milano, 1983, pp.48-52. Dossier 79 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/mammismo! Alla luce di queste considerazioni, sembra ormai plausibile azzardare l’ipotesi che il mammismo sia ben lungi dal doversi considerare un male incurabile della nostra società contemporanea. In primo luogo perché esso è sempre esistito, laddove si sia insediato uno squilibrio di istanze parentali all’interno del sistema famigliare, premessa che lascia purtroppo più spazio alla cronicizzazione della reciproca dipendenza dei suoi membri, piuttosto che all’emancipazione e alla realizzazione delle individualità. In secondo luogo, il mammismo non deve essere demonizzato, ma nemmeno sottovalutato. “Occorrerebbe invece pensare a riformare il concetto stesso di educazione se si vuole smettere di castrare simbolicamente i bambini nelle loro potenzialità espressive e averne cura senza alterare lo sviluppo della personalità. Bisogna che i genitori e gli adulti in genere smettano di voler insegnare ai bambini a fare i bambini e agli adolescenti a fare gli adolescenti (cosa che bambini e adolescenti, se lasciati a sé stessi, sanno fare in modo eccellente). Una volta sciolti da simili impegni gravosi e giornalieri, che non hanno mai fine, padri e madri potrebbero dedicare tutto il loro tempo libero ad imparare a fare i genitori. Si dovrebbero creare delle scuole per genitori. Fino ad ora, pochi ci hanno riflettuto, ritenendo quasi che fosse sufficiente essere adulti e poter assolvere alla funzione biologica della riproduzione per saper anche allevare la prole”11. La figura materna è un territorio dai confini indistinti. Forse è proprio a causa di questa aleatorietà che oggi è divenuto così complesso identificare il discrimen che separa il “bamboccio” dall’adulto. Ciò non toglie che, per il nostro stesso benessere, sia imprescindibile (ieri, come oggi, come sempre) mantenere separati i sogni, il sonno, dalla realtà. Con buona pace di Chiambretti e Soci. *Psicologo clinico, Counsellor. Collaboratore Stripes Cooperativa Sociale ONLUS e co-fondatore di Spazio-Ars, Associazione Culturale per la promozione di terapia individuale e sistemica e la fruizione artistica e culturale. 11 Tilde Giani Gallino, Il complesso di Laio, Einaudi, Torino, 1978, p. 57. 80 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/ Disfare la madre, rifare la madre La fantasia di sostituire i pezzi difettosi del nostro corpo (i trapianti sono un esempio significativo) porta traccia di un corpo, preverbale, fatto di parti non integrate tra loro che lo sguardo di un altro ha riunificato in una forma riconoscibile perché simile alla propria. “ Tu sei il mio bambino” significa “tu sei come me”, della stessa specie cioè. di Manuela Fraire* Per queste note relative alla madre, il suo ruolo e la sua funzione mi sono ispirata innanzitutto al pensiero di Piera Aulagnier e in seconda istanza a Lacan, suo maestro. Per via del peso che nel loro discorso ha il linguaggio. Tuttavia tra i due autori vi sono differenze sostanziali la prima delle quali è quella che interessa qui: per Aulagnier la madre è una persona di sesso femminile oltre che una funzione, mentre per Lacan la madre è l’Altro adulto che supplisce alla prematurità dell’infans ma nel suo pensiero non è chiaramente riferita alla donna la funzione identificante che l’Altro svolge. Aulagnier definisce significativamente “portaparola” la madre e discorso materno l’insieme degli enunciati attraverso cui identifica colui a cui quel discorso è destinato. Altrettanto fondamentale è per l’autrice la relazione dell’Io con la propria immagine nel senso in cui ad essa si riferisce Lacan nello “Stadio dello specchio” e cioè “l’emergere nello specchio di una immagine che la psiche riconosce come propria.” 1 Il posto assegnato alla madre come origine dello psichismo umano è sinteticamente espresso nelle seguenti righe: “Non soltanto non è in potere del bambino scegliere la madre, ma non è in suo potere non investirla, e non è nemmeno in suo potere distribuire il suo investimento su altri oggetti che permettano di moderarne l’intensità.”2 Le identificazioni veicolate dagli enunciati identificatori della madre, sono i mattoni necessari alla futura costruzione dell’Io dell’infans in quanto primi messa in forma e significato attribuiti dalla madre alle sensazioni senza nome esperite dal bambino. Esse sostanziano la funzione anticipatrice della madre attiva ancor prima della nascita del bambino, durante la gravidanza. Quel “quando…” fantasticato dalle madri riferito al nascituro che precorre ciò che egli sarà modellandolo sul proprio desiderio. L’infans dunque incontra un prima di se stesso, un già-lì del suo corpo e dei suoi bisogni costituito dalla voce e dal corpo di colei che è il supporto dei suoi investimenti. Il piccolo umano viene dunque provvisto dal discorso e perfino dall’intonazione della voce materni delle rappresentazioni che significheranno - una volta che avrà fatto suo quel discorso - il corpo da cui e di cui parla, le sue modificazioni, le sue fluttuazioni segnate da cadute di senso, deformazioni, spostamenti, tutta una 1 P. Aulagnier (1992), La violenza dell’interpretazione, Borla, Roma 1994. p. 232 2 P. Aulagnier (1977-78), I destini del piacere, Borla, Roma 2002 Dossier 81 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/disfare_la_madre,_rifare_la_madre morfologia dell’aberrazione che trova nel discorso materno un ancoraggio. Da quanto detto si può comprendere l’importanza che la categoria di incontro assume nel pensiero dell’autrice: esso è infatti il risultato dell’incontro di due spazi psichici nei quali una stessa esperienza si inscrive usando però due differenti scritture. L’infans è obbligato dalla sua prematurità ad accogliere il supporto che gli viene dall’Io materno anche quando questo si rivela un avversario invece che un alleato come - nei casi più estremi - avviene nella psicosi. Un momento cruciale nella vicenda psichica dell’infans è rappresentato dal passaggio dall’essere un corpo - momento della pura sensorialità - all’avere un corpo, primo possesso che l’Io esperisce. “Io sono colui che possiede questo corpo” è una formulazione che stabilisce una relazione tra due entità, l’Io e il suo corpo. Ciò significa anche “occupare un posto nel campo dell’osservabile, dell’esistente, del differenziabile per lo sguardo dell’altro.3 Alla nascita c’è dunque un momento della parola che è di dominio assoluto dell’Io materno (il portaparola) e un momento dell’immagine, momento figurale, relativo al nostro proprio corpo - l’ancoraggio più arcaico all’esperienza che facciamo di noi stessi - in relazione allo sguardo, innanzitutto quello della madre che conferma a colui che fissa l’immagine di un bambino nello specchio che quella immagine “è lui”. La conferma permette al bambino di assumere l’immagine riflessa nello specchio come propria. Detto questo resta inesplorata l’area relativa alla conferma che lo sguardo materno occupa nella costituzione dell’Io di un uomo e di una donna poiché non si può dare per scontato che le vicissitudini di ambedue questi Io non siano differenziate sin dalla nascita e forse anche prima della nascita. Alla luce di queste considerazioni le nuove vie d’accesso alla procreazione e di conseguenza la costituzione di inediti nuclei familiari (monogenitoriali, coppie di persone dello stesso sesso, ecc) mi sembra che lasciano spesso sullo sfondo il fatto che anche un utero “in affitto” è alloggiato nel corpo di una procreatrice che ha avuto quel corpo in eredità dalla propria madre porta-parola. Alla madre non si può, né conviene, dunque sfuggire e tuttavia - o forse proprio per questo - le migliori facoltà dell’Io si manifestano proprio attraverso lo sforzo continuo di smarcarsi dall’Io materno. Ribadisco dall’Io della madre, dal suo discorso, innanzitutto quello che ci ha definiti come un Io-corpo. Questo prima che il suo corpo diventi significativo per la psiche dell’infans. La madre-corpo - soprattutto corpo - è in larga misura un’invenzione dettata dal timore che la potenza materna non può che generare. Anche Winnicott, che pure assegna alla funzione dello handling tanta importanza, sottolinea l’importanza che lo sguardo materno - il volto della madre con la sua gamma espressiva - comunica al bambino di ciò che ella vede in lui e di lui. La cosa singolare propria dell’umano è che per avere un corpo c’è bisogno di una doppia alienazione: il mio corpo diventa un mio possesso, un mio bene solo se le circostanze nelle quali nasco mi permettono di investirlo libidicamente, insomma se è uno strumento di piacere per il mio Io e dunque da esso distinto anche se non separato. Questo piacere 3 Ibidem, p. 112 82 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/disfare_la_madre,_rifare_la_madre d’altra parte è ben lontano dall’essere la pura traduzione sensoriale dell’eccitamento che il corpo della madre mi procura, esso ha infatti bisogno anche di un apparato psichico che mi permetta di riferire al mio Io il piacere che il mio corpo esperisce. Si deve a Lacan il merito - con il suo contributo sullo “stadio dello specchio”- di aver tracciato una linea di demarcazione tra corpo reale e corpo immaginario, e di aver sottolineato che ad entrare nei dispositivi di linguaggio è solo quello immaginario mentre il corpo reale resiste alla significazione. Il fenomeno dell’invecchiamento è una circostanza in cui il corpo immaginario salta in primo piano. Col passare del tempo infatti la separazione del nostro Io da un corpo reale che invecchia aumenta al punto da escludere dalla nostra immagine le parti che, a nostro parere, la de-formano. Una ruga, un afflosciamento dei tessuti, una modificazione della struttura ossea ecc., vengono rifiutate dal nostro sguardo come non appartenenti a noi stessi al punto da rendersi necessario un nuovo “montaggio” delle diverse parti che formano l’immagine integrata del nostro corpo. La consistenza biologica dei corpi presa in sé nulla dice del corpo storico, quello a cui ci si riferisce quando si dice “partire da sé”, poiché il corpo biologico è opaco al linguaggio, ostico alla significazione resistente anche alla sessuazione. E’ l’entità a cui si riferisce il “reale” che mette in scacco il processo di simbolizzazione a cui è giunto Lacan al termine del suo viaggio. La procreazione è forse l’unica azione umana ad avere una significanza preverbale poiché immette nella realtà la cosa-viva che ha la doppia potenzialità di soggetto oltre che di oggetto, di parlante oltre che di parlato, di creazione oltre che di creatura. Ma anche la procreazione intanto è qualcosa di più che un puro evento in quanto ad essere simbolizzato è anche in questo caso l’incontro tra due esseri distinti da cui si genera il terzo, forse l’unico vero terzo della vicenda umana, il frutto dell’accoppiamento tra un maschio e una femmina. Il carattere essenziale del “fatto procreativo” (e non della procreatività che categorizza ciò che invece attiene alla singolarità dell’esperienza di ogni donna) consiste nell’essere la traccia extra-verbale dell’incontro dei due sessi. L’affermazione di Freud che “l’anatomia è un destino” 4 non avrebbe senso se corpo e linguaggio non si mettessero reciprocamente alla prova. Perché vi sia un “vissuto” del corpo c’è necessità di un Io che possa pensare quel corpo, ma è altrettanto vero che la capacità di pensare è una conquista che si fa strada attraverso l’esperienza di una sensorialità priva di pensieri e rappresentazioni se non quelli che ci fornisce l’altro materno. L’aspetto destinale non sta dunque nel corpo in sé ma nella sua intraducibilità nei codici della psiche. I greci avevano due termini per designare la vita: zoé e bios, la vita animale e la vita nella sua specificità umana. Il destino sta dal lato animale, la tirannia della vita che fa fallire i nostri tentativi di padroneggiarla, rispetto alla quale spesso si infrangono le leggi che regolano il pensiero. La parola destino allude al fatto che il corpo biologicamente inteso immette nella vita della mente un elemento di imponderabilità che si dovrà prima o poi riferire alla mortalità. 4 S. Freud, Il tramonto del complesso edipico, in Opere, vol. X, Boringhieri, Milano, 1978. Dossier 83 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/disfare_la_madre,_rifare_la_madre La fantasia di poter cancellare i segni del tempo - il linguaggio figurale del corpo storico - più che un rifiuto dell’invecchiamento in sé e per sé ha a che fare con il ritorno di un rimosso che affonda le sue radici nell’origine stessa dell’Io. La fantasia di sostituire i pezzi difettosi del nostro corpo (i trapianti sono un esempio significativo) porta traccia di un corpo, preverbale, fatto di parti non integrate tra loro che lo sguardo di un altro ha riunificato in una forma riconoscibile perché simile alla propria. “Tu sei il mio bambino” significa “tu sei come me”, della stessa specie cioè. Il riferimento al momento del riconoscimento del bambino da parte della madre rinvia alla funzione strutturante che nell’economia del mio discorso fanno della presenza e dello sguardo materni i primi fattori identificanti su cui la psiche nascente può fare presa. La madre come persona quindi e non solo come funzione è colei a cui spetta di identificare il figlio come l’altro che condivide con lei l’appartenenza alla stessa gestalt della specie umana mentre nell’epoca prenatale c’era stata anche una condivisione dei corpi. Ma - e qui è il punto problematico - perché questo altro che ha la funzione di primo identificante non è intercambiabile con una persona di sesso maschile? E questo è poi vero? La relazione dell’Io con l’immagine nasce nel momento definito da Lacan come stadio dello specchio. Incontro decisivo tra chi guarda e il suo riflesso, un incontro tuttavia che assume il suo vero significato solo se si tiene conto di “quel movimento dello sguardo del bambino che si scopre nello specchio, che lo conduce verso lo sguardo della madre alla ricerca della conferma della bellezza dell’immagine, prima di ritornare allo specchio e al suo riflesso speculare.”5 Notiamo che a quell’età ci vuole una persona adulta alle spalle del bambino che lo sostenga e gli dia così modo di osservarsi nello specchio stando in piedi, posizione che la sua motricità ancora non gli consente. Nello specchio si riflettono dunque due figure di cui una, più piccola, sovrapposta e in qualche modo “incorniciata” dalla figura più grande. Vi sono anche due sguardi che si cercano, precursori di ogni altro desiderio di “essere cercati con gli occhi” come si dice degli innammorati. Tutto questo però non dimostra che l’appoggio al bambino sia necessariamente quello fornito dalla madre. Tuttavia se lo stadio dello specchio è preso anche nel suo significato metaforico si comprenderà meglio perché la “tonalità” dello sguardo che conferma il bambino deve essere carica di significati che apparterranno solo in un secondo tempo al mondo immaginario del bambino. Davanti allo specchio si verifica un evento che virtualizza il parto, la separazione cioè di due corpi di cui uno dei due conteneva l’altro. L’evento della nascita è estraniante soprattutto per la madre che deve riconoscere come parte di sé un altro divenuto la proiezione esternalizzata di una parte di sé.6 5 P. Aulagnier, Op. cit., p. 232 6 Oltre il discorso lacaniano, anche se a partire da esso, si colloca la mia ipotesi: l’immagine che fonda l’io individuale è un’immagine composta da due entità. Ne dà conto in modo suggestivo 84 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/disfare_la_madre,_rifare_la_madre Anche immaginando una donna che nello specchio cerchi se stessa oltre il bambino che sostiene, metafora di una donna che non è tutta dentro la funzione materna, si deve ammettere che lo stadio dello specchio non definisce univocamente la funzione della madre in relazione alla prematurità del bambino bensì adombra uno scarto, un intervallo, uno spazio-tempo che ha innanzitutto il significato dell’interruzione della continuità tra i due corpi. Potremmo ipotizzare addirittura che è nel momento della specularità raddoppiata- madre e figlio davanti allo specchio- che lei non meno di lui deve compiere un autoriconoscimento e che per fare questo ha bisogno dell’altra immagine che oscura parzialmente la sua. Non più un intero che contiene un tesoro segreto bensì un due in sovrapposizione, esposto allo sguardo dell’altro, degli altri. La madre che nello specchio cerca se stessa mentre sostiene il figlio è ben rappresentata dalla madre self-absorbed di Pontalis7, che nel suo non esserci tutta lascia vacante lo spazio nel quale il bambino incontrerà il proprio desiderio, innanzitutto l’averla tutta per sé, a disposizione del gioco solitario in cui è il padrone assoluto. Ma il tempo che passa è il vero padrone di tutti e non risparmia neanche la madre più devota e il bambino più innamorato. Basti pensare al doloroso stupore con cui inevitabilmente scorgiamo nello specchio l’immagine di noi all’improvviso “vecchi”, come fosse accaduto d’un colpo. L’esperienza dice che la prima reazione è il misconoscimento del fatto che quelli riflessi nello specchio siamo noi. Non ci riconosciamo e scorgiamo all’improvviso lo spavento della dif-formità dell’immagine che lo specchio ci rimanda da quella che abbiamo gelosamente custodito fin lì. Momento terribile legato alla “maturità” per almeno due motivi: uno è che avviene nell’età cosiddetta matura e l’altro è che è una possibilità di maturare un nuovo incontro con noi stessi. Tuttavia perché questo sia possibile c’è necessità di nuove esperienze di rispecchiamento nello sguardo di un altro che ci identifica e ci riconosce come appartenenti alla sua stessa “specie”. Una funzione identificante che si rinnova all’infinito nelle nostre vite e che rende sempre attuale il “bisogno di madre”. Eppure non è affatto probabile né auspicabile che sia proprio la madre dell’origine a svolgere la funzione identificante, né tuttavia è così semplice trovare quella stessa funzione in un altro per significativo che sia. Ci vuole infatti che in qualche modo sia andata “distrutta” la madre dell’origine perché si possa ricostruire - nel corso delle varie epoche della vita - la nuova madre, quella che sostenga insieme a noi il turbamento prodotto da un’immagine di noi stessi irriconoscibile. Freud comprende questo evento acutamente quanto dolorosamente quando conia il concetto di “perturbante”. Il rifacimento della madre ha piuttosto a che fare con un altro che riconosce e identifica il nostro l’iconografia sacra della cristianità che rappresenta la Madonna con il bambino: essi costituiscono un’ unica immagine contenuta entro un solo perimetro. La precisazione è necessaria per comprendere come all’interno della relazione madre-figlio sia già presente un terzo elemento che precede l’Edipo e che riguarda la triangolarità istituita dalla madre, dal bambino e dalla loro immagine.. 7 Jean Baptiste Pontalis , Perdere di vista, Borla, Roma, 1993, p. 192 e sg. Dossier 85 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/disfare_la_madre,_rifare_la_madre essere cambiati come compatibile con l’insieme a cui sentiamo di appartenere. E’ una delle illusioni sostenute dall’affermazione che “mater semper certa est” che ci inchioda lei e noi alla letteralità del corpo biologico della madre, mettendo così in scacco la qualità simbolica dell’azione identificante svolta dalla madre dell’origine. L’esperienza che fonda l’Io, anche se non l’unica ad avere questa funzione, si ripresenta ad un certo punto della vita sotto forma rovesciata: guardandoci nello specchio - o peggio ancora negli occhi di un altro che non ci riconosce - arretriamo nel tentativo di mettere fuori fuoco, fino a farla scomparire, l’immagine perturbante. Solo successivamente accettiamo che lì di fronte c’è qualcosa di noi. Il fatto di riconoscere solo parti di noi ci riporta ad un’immagine corporea frammentata come quella dell’infans prima che lo sguardo della madre lo raccogliesse in una forma compiuta anche se per motivi opposti: invece che la prematurazione la eccessiva maturazione. Questo inevitabile accadimento ci pone di fronte all’avvenuta distruzione della madre che sostenne la nostra prima messa in forma. Davanti allo specchio della nostra maturità siamo dunque soli e disorientati per via di una nuova alienazione rispetto a quella originaria del corpo rispetto all’immagine, questa volta è relativa alla necessità di riconoscere l’alienazione dell’immagine che portiamo con noi rispetto a quella che ci fissa dallo specchio. E’ proprio all’assunzione di nuove immagini che l’Io resiste. Della sua origine relazionale l’Io non vuole saper\ne e quell’alter-in-azione che gli sta di fronte viene rigettato quando non odiato. E’ quindi tanto più arduo stabilire come e quando ha inizio l’esperienza della differenza sessuale. Questo però, ormai lo sappiamo, non è vero per la madre. Includere nei confini del proprio Io l’immagine di una bambina o di un bambino carica necessariamente di diverse intonazioni lo sguardo materno. Nella costituzione dell’Io vi è una doppia illusione: la prima è relativa all’immagine riflessa nello specchio che assumiamo ingannevolmente come facente parte di noi senza renderci conto della s-corporazione pagata come tributo alla necessità di dare un ordine al “disordine” che il corpo immette nei nostri processi mentali. La seconda illusione, quella meno esplorata e più segreta, è relativa al fatto che all’origine dell’Io singolare vi è in realtà un due, l’immagine sovrapposta di una donna e un bambino, che fa la parte dell’uno. Sembra plausibile che quell’immagine che lo specchio rinvia all’infans rimanga a fondamento di un Io mai veramente uno. L’altro che tormenta le nostre notti composto cioè di due entità che si confermano e autorizzano vicendevolmente. L’immagine che fonda l’Io af-fonda le sue radici nella perdita del fronteggiamento ipnotico che caratterizza le prime e più precoci fasi del rapporto madre-bambino. All’origine della prerogativa, solo umana, di pronunciare la parola Io, principio di delimitazione e libertà, radice della nostra soggettività vi è dunque un ombra che non ha a che fare con la patologia poiché fonda e non altera. Ombra che ci oscura nei momenti della differenziazione, come se dovesse ripetersi quell’oscuramento originario, quel gettare la nostra ombra su di lei e quel suo essere oscurata parzialmente da noi. Cosa vediamo nello specchio del tempo se non la sua sagoma oscurata? Il mal d’immagine come si sa appartiene ad ogni età e sempre la formula 86 Pedagogika.it/2010/XIV_2/corpo_a_corpo.la_madre/disfare_la_madre,_rifare_la_madre è “ormai è troppo tardi”. Ma tardi rispetto a cosa, se questa frase viene pronunciata anche dagli adolescenti? E’ tardi per sostare nell’illusione dell’origine, di un due che mette in scacco la castrazione. Ma l’immagine che generò l’Io è il polo non di una dualità bensì di una triangolarità: lei, noi più la nostra immagine congiunta e non un due che fa la funzione dell’uno. Se all’origine del nostro io vi è la coppia madre-bambino che favorisce l’instaurarsi di quella gestalt che ci permette di dire ‘quello sono io’, cosa ci sosterrà quando la nostra immagine, si de-formerà (cambierà la forma originaria) per via dell’età? Cosa rende sempre presente e attuale il “bisogno di madre” che attraversa ogni età? L’immagine congiunta di madre e figlio rappresenta un primo insieme che inganna sulla singolarità del nostro Io. La madre con la sua immagine presiede – che lo voglia o no - alla costituzione dell’inganno necessario che sostiene la nostra pretesa di singolarità ed è per via del prestito che la sua presenza fa all’illusione di essere solidamente uno davanti allo specchio della storia che la ricerchiamo sempre, ovunque e comunque. Deve ancora essere una donna a fare da sfondo al rinnovarsi dell’esperienza del rispecchiamento che le diverse epoche della vita richiedono come principio di continuità di noi stessi. Se tuttavia questa funzione strutturante è legata al corpo della donna, irrevocabilmente non resta - alle donne - che fare da sfondo al costituirsi dell’Io dell’altro, accontentandosi della consapevolezza dell’illusione che lo sostiene. Saremmo però nel paradosso assoluto poiché anche la donna - pur nella sua veste di madre - partecipa di un due che è rimasto nascosto allo sguardo della storia. Ecco dunque che una via nuova si apre alla ricerca: la consapevolezza femminile che il saperne di più dell’altro dell’illusione che lo costituisce non è più sufficiente a garantire il mantenimento dell’illusione. Il cambiamento sta avvenendo soprattutto a livello dell’immaginario, cambiano pertanto anche le rappresentazioni che l’insieme di cui facciamo parte propone della donna e della madre. La problematica identificatoria, ancorché intrappolata nella relazione immaginaria, è messa al lavoro dalle modificazioni socioculturali. La più imponente sembra tuttavia riguardare la sproporzione che c’è tra la madre e il padre. Lasciando per il momento da parte la problematica relativa alla “evanescenza” del padre - di cui ha scritto Recalcati su queste pagine -, il tema che ho cercato di proporre riguarda piuttosto le problematiche identificatorie relative alla madre, che non rappresenta più il polo della natura a fronte di quello della cultura rappresentato dal padre. Mi domando invece se i processi identificatori che sono all’origine del nostro Io e che ho cercato sommariamente di descrivere appartengono costitutivamente allo psichismo umano, se hanno cioè una dimensione metastorica o se anche essi non sono il frutto della lenta e inesorabile erosione che la complessità della storia umana compie su ogni certezza. * Psicoanalista, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Esponente di rilievo del movimento delle donne. Dossier 87 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura 102 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/ Inizio subito bene, cioè male, ricorrendo Per quale motivo, leggendo le poesie a una tautologia: una poesia è una poe- della Szymborska, abbiamo l’impressia. Già, bella pensata, ancora una così sione di trovarci di fronte alla grande e ti candidano per il Nobel, mugugna letteratura, quella che può avere un sarcastico il bastian contrario di turno. peso reale nella vita di chi legge, che Bondi avrebbe reso l’idea molto meglio, contiene i germi del cambiamento e sciorinandoci uno di quei versi deliziosi delle risposte di cui ognuno va in cere appena appena un filino enfatici di cui ca? Probabilmente perché i suoi testi noi, consumati lettori di Vanity fair, co- contengono un invito sottile quanminciamo a sentire la nostalgia. Come to rigoroso ad aprire gli occhi sulla si può dargli torto? realtà, a prendere Al bastian contrario, coscienza dei limiintendo. Un attimo, ti ineludibili del però, calma, che mi nostro esistere, ma spiego. Una poesia è anche della prouna poesia vuol dire, fondità indicibile ad esempio, che ogni della condizione genere letterario è una umana e del nostro struttura a sé. E che, comune destino. quindi, per scendere La poesia che ne sulla terra, leggere una scaturisce, cruda, poesia suppone una concreta, lineadisposizione diversa re, ironica, giundi quella che richiede ge sempre ad un lo svolgimento della punto di stupore medesima operazione perché, come afcon un romanzo, un ferma nel discorracconto o un saggio. so pronunciato E’, forse, l’assenza di in occasione del questa disposizione, conferimento del non mi viene un alNobel, “il nostro tro termine, che alstupore esiste per se Szymborska Wislawa lontana dalla poesia stesso e non deriva La gioia di scrivere. persino le schiere di da alcun paragone Tutte le poesie per sé non folte dei con alcunché e poi (1945-2009) frequentatori della perché il mondo, Adelphi, Milano 2010 letteratura in generaqualunque cosa pp. LIV-774 p.,€ 19,00 le. Sì, lo so, conosco noi ne pensiamo, l’obiezione che viespaventati dalla Ambrogio Cozzi Angelo Villa A due Voci Cultura 103 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci ne abitualmente mossa contro la poesia, quella della sua incomprensibilità. Il poeta sembra talvolta parlare solo a se stesso, come se il suo testo fosse la pagina di un suo diario personale, tal altra, invece, si perde in funambolismi verbali, ora desueti ora ostaggio di un estetismo all’apparenza sterile. Ma, secondo me, può darsi che il disagio, l’imbarazzo nei riguardi della poesia si nutra anche di un’ulteriore ragione. Insomma, c’è dell’altro, come soleva puntualmente (o sadicamente?) ribadire il mio analista, quando mi beavo d’avere conquistato una briciola di verità dopo un lungo peregrinare e rovistare tra le nefandezze del mio inconscio. E’ l’enigma che mi rinvia al tema della disposizione. Leggere una poesia pone il lettore dinanzi a una temporalità inusuale che lo introduce a un diverso rapporto con il testo e con la realtà. Un racconto, un romanzo riempiono. Quando appassionano non si vede l’ora di terminarli, presi all’amo della storia. Pagina dopo pagina. La poesia, invece, non chiede d’essere seguita, ma accolta. Lei è già lì, come un grumo di sangue rappreso, nel suo darsi, esporsi. Di fronte a questa sorta di condensata precipitazione, di esplosione temporale, il lettore si trova impreparato, smarrito. I più educati dicono “sì, bella” e voltano pagina. I più ingenui sbottano: sì, è tutto qui? E allora? In un certo senso, la poesia è finita prima d’essere cominciata. O, più esattamente, contempla la sua fine nel suo inizio. Non vuole narrare, raccontare una vicenda. O se lo fa, non più di tanto. Essa mira ad attraversare la storia, a penetrarla da parte a parte, a isolarne il suo cuore invisibile. Fateci caso. La poesia, la buona poesia sembra stac- 104 sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte ad esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali, qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle, stelle intorno a cui si sono giá cominciati a scoprire pianeti (giá morti? Ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui abbiamo sí il biglietto d’ingresso, ma con una validità ridicolmente breve, limitata da due date categoriche, qualunque cosa noi pensassimo di questo mondo – esso è stupefacente”. Questo stupore si declina nella sua poesia lungo l’asse del tempo, dello scorrere del tempo, non inteso come rassegnazione, ma come invito all’attenzione, per cogliere in questo scorrere le possibilità della bellezza, per svelare il mistero di ogni singola esistenza, di ogni istante, perché la vita è formata da piccole eternità piene di pallottole in volo. Questa consapevolezza diviene allora invito ad immergersi nella realtà, un fondamento per una speranza solida di sapersi riconoscere, di incontrarci, coscienti di un limite che non diviene prigione ma consapevolezza della fine, eppure in questa consapevolezza si ritrova la dimensione della speranza ... Vivevano nella vita/Permeati da un grande vento /Con sorti giá decise./ Fin dalla nascita in corpi da commiato. /Ma c’era in loro un’umida speranza,/una fiammella nutrita del proprio luccichio. / Loro sapevano cos’è davvero un istante,/oh, almeno uno, uno qualunque prima di – […] (“Monologo per Cassandra”). Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci carsi dalla realtà, come se vi si chiamasse fuori, non aderendovi, non inventandola. Salvo poi, con un movimento successivo, ritornarvi per coglierla, fissarla in quel che contiene di più veridico e di essenziale. Il primo passaggio fa tutt’uno con il secondo, la messa a distanza si ritrova, ritorna nella messa in profondità. Il ritmo, le parole ben scelte organizzano l’andata e il ritorno. L’effetto che ne deriva è quello proprio di un’illuminazione, di una capacità di vedere con altri occhi una realtà che era orfana di un senso nuovo e vitale. Perché ciò accada occorre però che il lettore si ponga nella “giusta” disposizione. Legga il testo magari più d’una volta. Sospenda la fretta, una poesia di solito è breve, lasci che la poesia venga verso di lui. E non faccia il contrario. E’ nell’incontro destabilizzante con questo gioco di estraniazione e prossimità che la poesia gli regalerà del nuovo. Si offrirà come un dono impagabile. Provate… Se poi cercate un testo meraviglioso con cui affinare la vostra disponibilità psichica, mentale alla poesia, non ho dubbi in proposito. De Andrè citava spesso un’affermazione di Benedetto Croce secondo la quale dopo una certa età, diciamo passata (ammesso che passi, non è scontato… ) l’adolescenza, chi scrive poesie o è un poeta o è un cretino. Per l’autrice di cui consigliamo la lettura non sussiste dubbio alcuno. Per una poetessa come lei gli aggettivi giustamente si sprecano. E’ semplicemente bravissima, è polacca e porta un nome al limite del pronunciabile: Wislawa Szymborska. L’editore Adelphi ha fatto opera meritoria raccogliendo le sue poesie scritte tra il ’45 e il 2009, rieditando- Il tempo è anche il tempo dell’attimo, dell’evento che non ritorna, e che pure può essere colto nella sua dimensione irripetibile, in quel che ritorna si introduce una differenza, uno scarto che è proprio la dimensione del tempo, di un tempo che non è solo cronologia, ma una sorta di epifania, che nella differenza richiama alla necessità di mettersi in gioco Nulla due volte accade / né accadrà. Per tale ragione / si nasce senza esperienza, / si muore senza assuefazione. / Anche agli alunni più ottusi / della scuola del pianeta / di ripeter non è dato / e stagioni del passato. / Non c’è giorno che ritorni, / non due notti uguali uguali, / né due baci somiglianti, / né due sguardi tali e quali. Occorre allora saper guardare il mondo, lasciarsi cogliere dalla sorpresa, lasciarsi sorprendere un miracolo, basta guardarsi intorno: / il mondo onnipresente (“La fiera dei miracoli”) Così la poesia indica una via che vada temporalmente oltre la morte, parole come traccia di chi ci ha preceduto, di chi vive la nostra epoca, di chi anche distante ci è contemporaneo e vicino, ma per far questo la lingua si deve mettere in gioco, deve saper osare, perché anche la memoria se non si mette in gioco non accede al ricordo, rischia di diventare pura registrazione. Occorre osare verso l’impensabile, come il poeta che bussa alla pietra dicendo “fammi entrare” per penetrarne il mistero […]non c’è senso che possa sostituirti quello del partecipare./ Anche una vista affilata fino all’onniveggenza / non ti servirá a nulla senza il senso del partecipare./ Cultura 105 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/a_due_voci le in un volume che porta il bel titolo: La gioia di scrivere. Sono poesie leggibilissime che non si prestano a quelle obiezioni cui poc’anzi accennavo. Di cosa parlano? Ricorro non casualmente al verbo parlare, perché è, in fondo, il più corretto, il più idoneo per rendere ragione dello stile quasi colloquiale della poetessa polacca. I suoi scritti parlano delle cose che fanno, che ci fanno o che dovrebbero farci parlare: le solite. E cioè, bisogna proprio dirlo?, l’amore, l’amicizia, la sofferenza, l’undici settembre… Importante è il tocco, lo sguardo. E, per noi, il luogo dove la sua scrittura ci invita, per fare un’esperienza che ci permetta di rileggere le nostre esperienze, ora ritrovandoci ora rendendoci estranei a noi stessi, quel che basta. Cito i versi con cui lei conclude la poesia “Un minuto di silenzio per Ludwika Wawrzynska”: “Conosciamo noi stessi solo fin dove / siamo stati messi alla prova ./ Ve lo dico / dal mio cuore sconosciuto/”. Credo che per il tramite delle parole, la poesia della Szymborska ci riporti, in maniera mediata, proprio lì. A rivivere, a risentire quella prova… Una prova che è , semplicemente, il senso del nostro esserci, le tracce del nostro vivere. Che cos’è la gioia di scrivere se non il dono che qualcuno ci affida solo perché, come una coppia di amanti, nell’altro gli venga incontro il desiderio atteso: la gioia di leggere. 106 Non entrerai, non hai che una sensazione di quel senso, appena un germe, una parvenza. […] (“Conversazione con una pietra”). Il germe, la parvenza diventano segni, segni di un reale irraggiungibile, ma che non si smette di cercare, di inseguire per trattenerlo attraverso le parole, per poter esclamare tutto è mio, niente mi appartiene di ciò che ci circonda. Ma questo parlare sottotraccia ritorna con ironia anche nella dimensione pubblica di una poetessa che prima del Nobel quasi nessuno conosceva, e che preferisce ancora parlare attraverso le sue poesie, sottraendosi alla dimensione pubblica, rivendicando una preminenza del testo rispetto all’autore, l’autonomia delle poesie rispetto al viso, alla storia e alle opinioni sulla letteratura e sulla società di colui che le scrive. Per dirla tutta, ella non ama neppure le serate d’autore, anzi se ne fa beffe Ci sono dodici persone ad ascoltare, è tempo ormai di cominciare. Metà è venuta perché piove, gli altri sono parenti. O Musa. […] In prima fila un vecchietto dolcemente sogna che la moglie buonanima, rediviva, gli sta per cuocere la crostata di prugne. Con calore, ma non troppo, ché il dolce non bruci, cominciamo a leggere. O Musa – (“Serata d’autore”). Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura Scelti per voi libri a cura di Ambrogio Cozzi Davide Lopez La potenza dell’illusione: l’amore Angelo Colla Editore, Vicenza 2010 pp. 176, € 15,90 Il testo di Lopez non è un testo facile, richiede un certo impegno di lettura, ed è difficile presentarlo senza scadere in ovvietà, senza ridurlo a sterili ripetizioni cui credo si ribellerebbe l’autore stesso. D’altra parte la presenza di una forte vis polemica (a volte un po’ eccessiva) rende un po’ più difficoltoso seguire l’autore senza perdersi. Eppure ci sembra di poter individuare un percorso, un nodo centrale che percorre tutto il libro, senza forzare eccessivamente l’interpretazione parlando d’altro. Esso è’ strutturato in due forme di scrittura, una per aforismi, l’altra per paragrafi ampi in cui il filo del pensiero si snoda in modo più disteso. Eppure tra le due forme mi sembra di rintracciare un filo di continuità, che mi pare di rintracciare a partire dall’etimo di aforisma che nella sua derivazione da aphorismos significa “porre i termini”, “limitare”. Allora, dicevamo, un filo di lettura si può rintracciare nel porre un limite, limite che si incontra nelle parti dedicate al rapporto tra legge e giustizia (si pensi al paragrafo dedicato alla sentenza di un tribunale rumeno), limite nel rapporto tra le persone, limite nelle rappresentazioni del rapporto tra i sessi. Proprio da quest’ultimo inizia il testo, propo- nendo una lettura del mito dell’androgino di Platone come elemento fondatore di un intervento degli dei per spingere gli umani, attraverso la differenza tra i sessi a cercarsi. Ma la condanna originaria diviene punto di partenza per una riflessione sulla sessualità più ampia, tale da includere le declinazioni che assume la differenza sessuale nelle diverse epoche storiche. Insieme a questo primo aspetto mi pare centrale l’individuazione di un punto di passaggio dalla società patriarcale a quella di Gesù bambino dove “si assiste al ritorno dell’importanza prevalente del rapporto madre-bambino e, perfino, della simbiosi fusionale, quale estrema regressione di questo rapporto”. Riflessione che ben si adatta a questo numero monografico della rivista dedicato alla madre e che mi pare ritorni in alcuni articoli. Merito dell’autore è quello di non cadere nel facile rimpianto dei bei tempi andati, sottolineando invece quanto in autori dei bei tempi andati fosse presente una sottovalutazione del ruolo della donna ma anche come la soluzione non consista nel ridurre la donna a madre, facendo coincidere le due figure e quindi negando la prima nella seconda. Un altro filo che mi è sembrato di intravvedere parte dalla nozione di colpa. Ci sarebbe molto da scrivere, ma vorrei limitarmi ad un commento a partire dall’aforisma 83 a pagina 139. “Un modo perverso di asserire e affermare la propria libertà è quello di infierire contro se stessi, moltiplicando e trasformando per orgoglio narcisistico i colpi che si sono ricevuti dall’esterno in colpe sacrificali”. Il legame tra i due elementi, colpi e colpe, mi pare tenga attraverso il termine orgoglio narcisistico, che pur di eliminare la presenza del caso nell’esistenza, e quindi esporsi responsabilmente alla precarietà dell’esistenza, preferisce assumere su di sé le colpe, per mantenere l’illusione del controllo sul mondo, l’illusione di centralità. Appare ora un nuovo nesso tra il limite che l’aforisma stabilisce e l’invito ad osare che per- Cultura 107 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi corre tutto il testo, un invito ad osare nel limite, nelle parole che configurano un mondo possibile, possibile per la convivenza, dove la legge non è un assoluto che soverchia, ma un invito a pensare la possibilità del legame sociale, a stabilirne i confini per renderli pensabili, guardando ad un orizzonte per prefigurare un oltre, un passaggio difficoltoso ma possibile. Il limite non come impedimento ma come confine, come orizzonte che rende possibile l’esistenza. Allora l’invito ad osare che percorre il testo è un invito all’assunzione di responsabilità, come ricerca delle risposte, come invito ad uscire: in fondo è solo mettendoci in strada che possiamo incontrare colui che è offeso o colui che ci accompagnerà nel viaggio. Non sta forse in questo desiderio il primo passo verso l’amore? “Con un atto istantaneo di comprensione e consapevolezza si annulla tutto il mondo della colpa”. Forse questo è il miglior viatico per poter osare, comprendendo ed essendo consapevoli, ma l’autore lo dice meglio di me. Ambrogio Cozzi Barbara Mapelli Sette vite come i gatti. Generazioni, pensieri e storie di donne nel contemporaneo Stripes Ed., Rho (MI) 2010, pp. 180, € 16,00 Quattro donne, quattro diverse generazioni. Storie personali che trovano nuovo significato nel rapporto reciproco. Con questa immagine, una foto di famiglia di qualche decennio fa, Barbara Mapelli accoglie il lettore o la lettrice di Sette vite come i gatti. Generazioni, pensieri e storie di donne nel contemporaneo (Stripes Edizioni, 2010). Un approccio anche emotivo per un libro che parla alle donne italiane, ma anche agli uomi- 108 ni, partendo da una questione non facile: che cosa hanno lasciato il movimento femminista e le riflessioni che ne sono seguite? Un’eredità non scontata e che non può essere racchiusa in un’esperienza storica ben conclusa e archiviata. Al contrario un punto di partenza che offre spunti importanti per il presente. Tanto più che viviamo un’epoca ricca di contraddizioni, dove le politiche per le donne sono drammaticamente carenti: interventi per madri che lavorano, sostegno alle famiglie nella cura di bambini, anziani, malati. Attività tradizionalmente riservate alle donne e oggi in alcuni casi assegnate a quelle che Mapelli chiama “le altre”, le straniere che lavorano nelle nostre case. Costoro aprono importanti e feconde possibilità di trovare nuove strade nella definizione sociale di donna o meglio nella narrazione delle singole biografie. Narrazione che può diventare – ed è questo uno dei lasciti del Movimento femminista – un racconto collettivo che non esclude ma include, non giudica secondo modelli ma vuole creare nuovi modelli. Dunque madre e lavoratrice. E’ la donna di oggi, che appartiene ad almeno tre generazioni: le nate negli anni ‘40-‘50, ‘60-‘70, ‘80-‘90. Ecco la mescolanza inattesa tra due ambiti considerati separati (la dimensione pubblica del lavoro e quella privata della cura familiare e domestica), tradizionalmente affidati il primo agli uomini e il secondo alle donne. Ecco il regalo che le nostre madri, nonne in alcuni casi, ci hanno fatto (ma in tanti casi è un dono che porta la firma anche dei padri): il superamento del modello univoco dentro-fuori, privato-pubblico, donne-uomini. La possibilità di essere in modi inediti, di conciliare realizzazione professionale e personale con il desiderio di prendersi cura della famiglia. Una doppia presenza, un’ambivalenza – caratteristiche tipicamente femminili ampiamente citate nel libro – che pongono nuove sfide e che consentono di percorrere più strade contemporaneamente. Sfide che vanno Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi anche raccontate e quindi condivise, con parole in parte ancora da trovare. Perché la nuova identità delle donne è irta di ostacoli e di difficoltà che in parte derivano dal passato, dalla fatica o non volontà di cambiare punti di vista, certezze assodate. Ecco allora che emergono storie di violenze, spesso tra le mura domestiche, soprusi, discriminazioni. C’è la questione dei corpi, l’esigenza di corrispondere a certi dettami sociali, l’“inganno della taglia 42”, il “contesto prostituzionale”, ovvero l’allusione erotica usata come risorsa economica. Ecco le donne desessualizzate delle pubblicità, dove i corpi “perfetti” e i volti inespressivi parlano di una seduzione decisa altrove (in questo caso dal soggetto maschile che guarda). La riflessione di Barbara Mapelli è complessa, accoglie piani diversi di lettura e propone innumerevoli spunti. Immaginando un cammino in cui alla foto delle quattro generazioni di donne si affianchi quella delle corrispettive generazioni di uomini. Entrambi liberi, ci si augura, di sperimentare nuove strade per agire insieme, senza il bisogno di ricorrere a facili modelli o a rifiuti che portano sulla strada della violenza. Laura Cuppini Ezia Palma La stanza della sabbia. Un caso clinico di sandplay therapy Morgana Ed. Firenze 2008, pp.112, € 15,00 Il libro di Ezia Palma, psicologa psicoterapeuta di formazione junghiana, è una interessante riflessione sulla ricchezza e la complessità dell’incontro con l’altro. E’ un libro che sollecita molteplici spunti di riflessione e che condensa più aspetti narrativi. Il più immediato è di rilevanza visiva, e si esplica attraverso le immagini che iniziano con la stanza della sabbia e la varietà degli oggetti in essa contenuti e si va a sviluppare in un percorso narrativo con la sequenza dei quadri di sabbie. Le immagini di “Sand Play”, poco colorate e contenute delle prime sequenze diventano sempre più ricche di elementi, di colori e di emozioni; e via via che ci si addentra nel percorso terapeutico, esse rendono partecipe il lettore, lo portano dentro la storia consentendogli di seguire l’evolversi del processo di cura di Elia. Il suo cammino inizia “...da una città triste e desolata” e approda “a una città ideale protetta dagli dei”. Il caso clinico narrato e trattato con il “Gioco della sabbia” è quello di un bambino di 8 anni che arriva ad incontrare la psicoterapia in una situazione di irrequietezza e paura, una storia ingarbugliata che attraverso l’incontro con l’analista nella stanza della sabbia prende senso e si evolve. Il racconto è la narrazione di una esperienza condivisa che, come avverte l’autrice nell’introduzione, vuol essere un “... dare corpo alle vicissitudini che avevano segnato il ‘romanzo individuale’ di un giovane paziente”, non con una semplice registrazione di eventi, ma con un susseguirsi di eventi vissuti e raccontati per un altro che ascolta, accoglie, custodisce, rivive... Pertanto, si può partecipare e leggere la storia riportata “come un dispiegarsi di scenari simbolici che nel loro divenire si fanno novella” e consentono di guardare al disagio psichico in modo diverso. Il libro si sviluppa in tre parti: dopo la breve introduzione e la presentazione della “storia di Elia”, si percorre, l’evolversi della terapia attraverso il susseguirsi di sabbie. La successiva riflessione sulle fasi del processo consente di comprendere il setting e le potenzialità del trattamento con la “Sand Play Therapy” e di passare ad un approfondimento della metodologia attraverso l’esperienza personale dell’autrice. L’incontro dell’autrice con Dora Kalff apre un interessante capitolo sul metodo del gioco della sabbia ma soprattutto sulla formazione a questo approccio terapeutico. “Dora Kalff usava un me- Cultura 109 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi todo di insegnamento che ricordava gli antichi maestri, un modo di sfogliare le pagine del suo sapere e quindi di fare teoria che era rivolto non tanto verso l’esposizione di concetti teorici razionalmente acquisiti, ma orientava il suo insegnamento verso campi sperimentali nuovi, dove i concetti e le nozioni si animavano e si espletavano non attraverso il dire, ma attraverso il fare. Un fare dinamico che coinvolgeva la totalità dell’essere in una azione sperimentale continua e da cui scaturiva un’ulteriore rielaborazione sia dei concetti che delle nozioni”(pag.90). Il ricordo di Dora Kalff a vent’anni dalla sua morte è il tema della postfazione di Marco Garzonio e nelle pagine che ricordano lo spirito di Zollikon, la casa e i luoghi di formazione della fondatrice si ritrova l’incoraggiamento a praticare la “Sand Play”, ma anche a scoprire la ricchezza dell’incontro con l’altro “...è il fare che diventa parola , è la parola che si fa nell’esperienza del mettere le mani nella terra. E’ un pensare per immagini”. Emilia Canato Veronica Ornaghi, Ilaria Grazzani Gavazzi La comprensione della mente nei bambini. Un laboratorio linguistico con storie per la scuola dell’infanzia Edizioni Erickson, Trento 2009, pp. 108, tavole 113, € 19.00 “Nella versione originaria di Wimmer e Perner al bambino viene presentato il seguente scenario: un bambino di nome Max ripone la sua tavoletta di cioccolato nell’armadietto verde della cucina e poi si reca al parco giochi. Nel frattempo, mentre Max è fuori a giocare, la sua mamma sposta la tavoletta di cioccolato dall’armadietto verde all’armadietto blu ed esce in giardino. Quando Max rientra a casa, vuole mangiare il suo cioccolato. A questo punto 110 al bambino viene posta la seguente domanda: “Dove cercherà Max la sua tavoletta di cioccolato”. In genere, i bambini di 3 anni rispondono erroneamente alla domanda, sostenendo che Max cercherà la sua tavoletta di cioccolato nell’armadietto blu, ovvero dove si trova realmente e non dove Max l’aveva riposto prima di andare al parco giochi. In tal modo, essi dimostrano di non essere ancora in grado di attribuire a Max una falsa credenza rispetto a come le cose stanno nella realtà (…) Al contrario la maggior parte dei bambini di 4 anni risponde correttamente alla domanda, ovvero dicendo che Max cercherà il cioccolato nell’armadietto verde dove era stato messo prima dello spostamento”. (pagg. 12, 13). Questo è il paradigma più noto, quello del compito di falsa credenza, della prima fase di ricerca sullo sviluppo di una teoria della mente (ToM, dall’inglese Theory of Mind), iniziata negli anni ottanta, indirizzata a dimostrare la presenza, in bambini di circa 4 anni, della capacità di rappresentarsi l’altro come persona che possiede stati mentali suoi propri (desideri, credenze, false credenze, etc.). Negli anni successivi, fino ad arrivare ad oggi, gli studi e le ricerche in questo settore si sono via via sviluppate ed articolate puntando sull’indagine del legame tra la capacità, da parte del bambino, di comprendere i propri e gli altrui stati mentali e lo sviluppo di altre competenze, tra cui quelle sociali, emotivo-affettive e linguistiche (i correlati). Il libro di Veronica Ornaghi e Ilaria Grazzani Gavazzi, la prima ricercatrice, l’altra Professore associato, entrambe presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, si inserisce all’interno di questo panorama di ricerche e approfondisce, da un punto di vista teorico e applicativo, la relazione tra sviluppo della comprensione della mente e linguaggio, focalizzandosi in particolare sul cosiddetto lessico psicologico, sulla base del riconoscimento del ruolo decisivo che, nel binomio, il secondo ha sul primo. Il testo si divide in tre parti. La prima è artico- Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi lata a sua volta in tre capitoli, Lo sfondo teorico, nel quale si descrivono gli sviluppi degli studi sulla ToM e i correlati (in particolare Tom e linguaggio-lessico psicologico); L’esperienza di training con i bambini: la ricerca, che illustra un’esperienza condotta in alcune scuole dell’infanzia di Milano e provincia sul rapporto tra lessico psicologico e sviluppo della ToM; Il laboratorio sull’uso del lessico psicologico, la presentazione di una proposta educativa, rivolta ai bambini della scuola dell’infanzia, per l’uso del lessico psicologico finalizzato a migliorare le competenze legate allo sviluppo della ToM. Segue una corposa bibliografia. La seconda parte, Appendice A, contiene 16 storie, Le avventure di Jack e Teo, che forniscono lo spunto per i giochi linguistici con il lessico psicologico, accompagnate da altrettante schede per le attività di gioco linguistico e di discussione. La terza parte, Appendice B, è composta da illustrazioni colorate che facilitano la realizzazione del percorso. Marco Taddei Torey L. Hayden La foresta dei girasoli Che cosa nascondono le storie che una madre racconta? Corbaccio, Milano 2009 pp. 389, € 19,60 Nel suo ultimo romanzo, La Foresta dei girasoli, Torey L. Hayden riporta alla luce l’orrore della guerra e della crudeltà nazista attraverso le memorie della protagonista. Ma, contrariamente a quanto verrebbe istintivo pensare, l’autrice non ci parla dell’orrore della Shoah; sceglie invece di raccontarci del perverso e forse meno conosciuto progetto hitleriano dal bel nome di Lebensborn, la Fonte della Vita. Anche gli “ariani”, ci ricorda la Hayden, han- no subito violenza e gli occhi di Mara, donna bellissima di origine ungherese, non possono dimenticare il Male e le atrocità commesse. Il suo cuore e la sua mente sono ormai marchiati a fuoco dalla Storia, perché Mara ha subito quella violenza indicibile per una donna, la più umiliante e psicologicamente devastante di chi ha subito a soli diciassette anni gli orrori di Lebensborn. La storia di Mara è raccontata dalla voce della figlia: Lesley ha la stessa età che aveva la madre all’epoca della guerra e attraverso i suoi occhi vediamo l’effetto devastante del passato sul presente. Lesley adora la sua bellissima e affascinante madre, che come Sherazade, racconta storie incredibilmente affascinanti e fantasiose sulla vita in Germania e Ungheria, ed è proprio attraverso le sue storie che prende corpo La foresta dei Girasoli: un inno cantato alla vita, al futuro, alla luce e al colore in tempi da “lupi”. Ma l’antica ferita inconfessabile che Mara si porta nel cuore diventa giorno dopo giorno un’ossessione e Lesley fa di tutto per cercare di comprendere i comportamenti sempre più strani, quei “momenti della mamma”: “Credevo che tutte le madri si comportassero così. Dovevo avere dieci o undici anni quando scoprii che le altre madri non lo facevano”. Non si può non rimanere affascinati dalle protagoniste femminili del romanzo: la forza, la fragilità e l’innocenza rendono Mara un personaggio vivo, reale, mentre colpisce la dolcezza e la premura dell’adolescente Lesley tesa nella tensione tra l’accudimento della madre - Lesley a livello simbolico rappresenta la madre di sua madre – e la ricerca del proprio essere donna lontana dall’ingombrante passato familiare. Un intreccio di personaggi femminili nel quale trova spazio un’unica figura maschile, il padre O’Malley, un uomo che non ha mai fatto granché nella vita salvo amare Mara incondizionatamente e starle sempre vicino per combattere i suoi fantasmi: “Non so quale conclusione trarre: Ora non posso far altro che vedere gli errori della mamma. Voglio Cultura 111 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi continuarle a volerle bene, sul serio, ma non posso impedirmi di pensare che buona parte di questo disastro è stata opera sua” dice Lesley. Risponde suo padre: “Non so. Quel che so è che non amiamo le persone perché sono perfette. Se fosse così non ameremmo nessuno”. Ribatte Lesley:“Ma qual’è il punto?Tutto ti ferisce alla fine. Se l’amore non è il rimedio, se l’amore non cambia gli errori delle persone e non le rende migliori, se continuano a soffrire e tu ti senti solo ferito, perché darsi da fare?” Risponde O’Malley: “Perché abbiamo la possibilità di scegliere. Questa è la vita, Lesley: che cosa fai con le tue scelte. Puoi scegliere di amare tua madre invece di odiarla. Proprio come tua madre scelse di vedere girasoli invece che lupi. Così riuscì a sopravvivere. Così riuscì a non farsi distruggere da quello che le accadeva e, no, non era perfetto, ma nemmeno il mondo lo è. Scegliere come vederlo è l’unico vero potere che abbiamo”. Laura Conti Elisabeth Badinter Le conflit. La femme et la mere Flammarion Lettres, Paris, pp. 256, € 18,00 Abbiamo un nuovo reato, l’ apologia della Madre Perfetta. Elisabeth Badinter è convinta che dovrebbe essere perseguito come un vero crimine. Nel suo nuovo saggio, la filosofa francese insorge contro i nuovi modelli femminili che mettono al centro di ogni cosa la maternità felice. «Sono una madre mediocre e rivendico il diritto a esserlo», spiega invece lei, femminista storica e mamma di tre figli. Il libro arriverà nelle librerie francesi tra pochi giorni ma le prime anticipazioni hanno già provocato spaccato in due l’ opinione pubblica, divisa tra elogi e contumelie. Il Conflitto. La don- 112 na e la madre, pubblicato da Flammarion, è un lungo atto d’ accusa contro la retorica familistica imperante. Ma è anche un’ amara presa d’ atto. La famosa conciliazione tra lavoro e famiglia, tanto auspicata alla fine degli anni Settanta, è ancora impossibile. La rivoluzione femminile non ha portato pari opportunità nel mondo del lavoro e così spesso le donne devono scegliere tra professione e desiderio di maternità: diventano, scrive Badinter, ostaggio di questo conflitto. Per la filosofa francese, il nuovo pamphlet è il seguito ideale di L’ amore in più (1980) che già si scagliava contro la teoria dell’istinto materno innato, sul quale le femministe discutono da decenni. Ora invece denuncia la cancellazione della “ambivalenza” nella maternità. L’ essere madre oggi non prevede sfumature, contraddizioni. Soltanto un modello di perfezione al quale omologarsi. La conclusione è ironica, ma neanche troppo: il dominio maschile è stato sostituito da quello del bambino, piccolo tiranno che detta legge in casa. Al fondo di tutto c’ è la colpevolizzazione delle donne. Che si sentono sempre in affanno, inadeguate. Badinter identifica nei primi anni ‘ 90 il momento in cui è iniziato il declino. Con la crisi economica di allora, le donne sono state costrette a tornare tra le mura domestiche, ad accudire i figli. «Da quel momento - analizza la filosofa - non siamo più andate avanti». Le lavoratrici guadagnano ancora il 20 per cento in meno dei colleghi, sono le prime licenziate e hanno spesso impieghi precari o part time. Nell’ultima parte del libro, Elisabeth Badinter attribuisce colpe e responsabilità di questa involuzione. Ed è questo il passaggio che sta suscitando più reazioni. A suo parere, le prime indiziate sono le neofemministe che hanno sposato la retorica familistica. Seguono poi alcuni psicologi infantili, che scoraggiano le madri Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi lavoratrici, fino ai militanti della Lega Latte e persino agli ambientalisti che costringono la donna a tornare nei ruoli più tradizionali. «Badinter è una vetero-femminista che rifiuta la maternità», ha commentato Edwige Antier, deputata del partito di destra Ump e psicologa. «Forse - aggiunge - non ha capito che le donne oggi scelgono liberamente di non rinunciare al desiderio di maternità. È un progresso, non un arretramento». Anche la leader dei Verdi, Cécile Duflot, si è sentita chiamata in causa. Ha 34 anni, quattro figli, eppure sta girando la Francia per la campagna elettorale delle regionali. «Rimettere la natura al centro delle nostre vite non vuole dire accettare per forza un modello patriarcale. Quello di Badinter - ha detto Duflot - mi sembra un approccio sbagliato e soprattutto un po’ datato». Anais Ginori (Recensione apparsa su La Repubblica, 8 febbraio 2010 con il titolo Badinter e l’ elogio della madre mediocre. Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione alla pubblicazione) cinema Un felice benvenuto a coloro che entrano in questo luogo dedicato ai film e alla loro forza di formare. In appendice alla rivista e ai confini con la sezione dedicata ai libri, se ne apre un’altra destinata al cinema. Qui viene proposto un film scelto tra quelli ritenuti più capaci di attirare la nostra attenzione su visioni insolite. E’ ben specificare che, anche se in questa sezione a farla da padrone è il film, in realtà esso viene considerato solo una parte del complicato dispositivo pedagogico che è il cinema. Cioè, l’oggetto dei nostri ragionamenti saranno i film ma –sempre- terremo presente la più ampia condizione percettiva ed estetica creata dal cinema che, per la sua specificità, risulta particolarmente capace di attivare processi formativi. LO SPAZIO BIANCO di Francesca Comencini Italia, 2009 Produzione Fandango Distribuzione 01 Distribution La trasparenza della madre Lo spazio bianco è un’interruzione, un fuori campo, una pausa mentale che separa il presente dal futuro, una ferita, un sospeso che tiene la madre vicina e lontana dalla sua creatura. Lei, la madre, è Maria, ha oltre quarant’anni, una casa in affitto, un lavoro come insegnante precaria, amori passeggeri. Vive una vita stretta nel perimetro del presente, la macchina da presa ce la presenta nel suo rituale quotidiano: preparare la colazione al mattino, andare al cinema di pomeriggio, insegnare al corso serale dopo il tramonto. Ogni giorno, senza rumore, senza colore, in totale solitudine, la sua vita. Napoli è la città in cui scorre la vicenda, la metropoli fa da sfondo, lascia da parte il suo protagonismo e fa spazio, con modestia e generosità, alla scia emotiva di Maria, una scia che penetra nelle urgenze metropolitane. Poi un incontro, la gravidanza. “Sono ormai vecchia per avere figli e per le pene d’amore”, dice lei. Dopo un primo piano, muto, dell’ecografia del feto e del controcampo del volto assorto di lei, lo schermo si fa bianco. Veniamo trasportati di colpo sei mesi più avanti. Maria è in una sala di ospedale dalle pareti bianche, tra infermieri in camice bianco che la accompagnano accanto all’incubatrice di sua figlia, nata prematura e bisognosa di ossigeno. Passa notti in bianco accanto alla figlia. Di lei non vuole pronunciare neppure il nome per paura di affermare l’esistenza di una nascitura che non promette che nascerà. Il suo nome è Irene. In bilico tra il dentro e il fuori assistiamo impotenti all’attesa di un evento che non possiamo Cultura 113 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi 114 dai figli), scrive la filosofa francese. Maria è stretta nella morsa di queste due tipologie: il senza figli come libertà o il senza figli come carenza? Lasciamoci aperta la domanda. Il film indica il dolore nel suo semplice fluire, ma pure la bellezza del soffrire per amore. ONGAKU Sarà la musica che gira intorno, come canta Fossati, sarà l’acqua sporca della musica, come stigmatizza Kundera, sarà quel che sarà... Ma la musica, le canzoni costituiscono qualcosa di più di una semplice colonna sonora che accompagna la nostra esistenza. In luogo di starsene tranquille in disparte, come un’ombra emotiva ma discreta, loro ci entrano dentro, ci segnano, ci possiedono. E noi ricambiano la loro seducente invadenza con una fedeltà che la memoria sigilla con un timbro indelebile. Passano gli anni, le ore, talvolta solo i minuti, e dimentichiamo tutto, quello che vogliamo dimenticare, ma soprattutto quello che non desideriamo cancellare. Con un motivo musicale, una canzone, no: è diverso! Restano in mente ritornelli stupidi, nenie infantili che sconfiggono il tempo, se la ridono di lui e di noi. Come se ci provocassero. Succede addirittura, però, che inventino miracoli... Cristiano De André De André canta De André. Live Etichetta Family srl, 2009, € 20,90 Siamo il buio, la notte che vuole regnare sovrana, ignorando il pensiero dell’alba. Siamo gli effluvi che la terra accompagna con rumori, frastuoni assordanti. Siamo la vicina del piano di sotto che strepita e grida e non sa nemmeno, forse, musica prevedere. Siamo tutti nel bianco che accoglie e mescola tutti i colori; un bianco che è un potenziale tutto. O niente. E noi assistiamo come dall’interno ad un percorso di formazione: come se ci venisse resa trasparente l’ultima fase della gravidanza, i vetri ci rendono visibile il percorso fisiologico di crescita della bimba dentro all’incubatrice (che, poi, è un utero esterno), ci rendono limpidi i pensieri aggrovigliati della donna che si chiede se sua figlia nascerà o morirà. Sospesi tra il dentro e il fuori della mente e del corpo di Maria. Siamo sul filo, stiamo alimentando una creatura che non ci assicura di venire alla luce sana e salva. Ma quale gravidanza ci assicura che sarà sana e salva? Il bello di questo film è la sua capacità di offrire allo sguardo i pensieri non parlati di una donna che vuole e non vuole la nascita di sua figlia, che accetta e rifiuta la maternità. I suoi sono pensieri non tradotti che ci arrivano agli occhi per mezzo del volto di lei, appoggiata al silenzio delle musiche incalzanti della colonna sonora. La donna che mette in discussione il suo potenziale di madre è figlia di questi tempi: lo voglio o non lo voglio, un figlio? Me lo posso permettere? Tra quanto tempo? Sarò in grado di fare spazio a una creatura appena nata, io che non ho spazio per me? Se la maternità è una scelta, è una scelta assai difficile tra le donne immerse nel vortice di lavori a termine, con relazioni a termine e abitazioni a termine. Ce lo ricorda la filosofa Elisabeth Badinter con il suo ultimo libro Conflit, la Femme et la Mere dove il conflitto, interiore ed esteriore, è vissuto dalle donne madri che rinunciano al lavoro perché sono asfissiate dal senso di colpa di non fare abbastanza per il neonato ed è vissuto dalle donne che non diventano madri perché non vogliono rinunciare al lavoro. Ci sono donne childless (donne a cui mancano i figli) e donne childfree (donne libere Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/scelti_per_voi con chi e perché, mentre tu guardi il soffitto e imprechi senza che il soffitto ti risponda e i tuoi occhi si chiudano arrendendosi al sonno. Siamo la menzogna a cui fingiamo di credere solo per evitare che la verità ci si pari davanti come un terrorista incappucciato con il mitra spianato. Siamo la piuma a cui si aggrappava Dumbo, ma siamo anche Dumbo che, sfidando le leggi di gravità, cerca di volare. Siamo il fondo, tetro, insieme al suo opposto, uno spiraglio di luce, mai del tutto chiaro, pasticciato, ambiguo. Seppure a tratti luminoso. Che c’entra, direte voi questa manfrina con l’ultimo cd di Cristiano De André, dal titolo De Andrè canta De André? Eppure sì, c’entra, fidatevi… Il cd di Cristiano paga il suo tributo a due demoni contraddittori, in conflitto tra di loro. Il primo è quello che veste i panni del re dell’improbabile. Che senso ha un cd del genere? Per lui, per il pubblico che è accorso ai suoi concerti, per noi? Il figlio canta le canzoni del padre, quasi prendendosi per lui o, comunque, alimentando un equivoco che la gente impietosamente e a gran voce esige. Un padre geniale, indubbiamente, quanto non poco distruttivo, devastante nel suo ruolo paterno. L’irritante beatificazione del grande cantautore genovese rende un pessimo servizio alla sua stessa figura ed all’intelligenza di chi lo ama. L’ansiosa retorica che ormai domina ogni discorso su di lui esaspera quel che di per sé è già, per sua natura, esasperante: il rifiuto testardo del lutto, la non accettazione della caducità che marca l’esistenza. Il pubblico non vuol saperne della morte, di quella di Fabrizio “Faber” De André. E, dietro di lui, della propria. Cristiano fa del suo meglio per riprendere le canzoni del padre. Sembra un equilibrista in bilico su una fune: deve essere simile al padre e, nel contempo, differenziarsi. Impresa impossibile, non invidiabile. La sua voce si tiene lontana dalla gravità di quella del padre, fenomeno che lo danneggia in alcuni pezzi come “Smisurata preghiera”; così come, invece, tradisce spesso timbri del tutto simili, quasi indifferenziabili con quella di Faber. Dà i brividi, ad esempio, ascoltare “Amico fragile”, la canzone più autobiografica di Fabrizio. “Chi” la canta, in definitiva? E cosa prova Cristiano nell’eseguirla? Il pubblico applaude, domanda il bis. Tutto sembra un po’ irreale, estraniante, come se qualcosa andasse confuso… Un confine si smarrisse. Nel dvd allegato al cd, Cristiano si appella a un passaggio di testimone, dal padre a lui, ma si ha la sensazione opposta, come se l’impasse avesse la meglio… Un passaggio suppone una rottura, un taglio, un tradimento, non una riproduzione. Il secondo demone è quello che, invece, presiede alla necessità della vita. Ora riarrangiate, ora meno, le canzoni circolano. In questa reiterazione del prima, del già sentito ritorna pur tuttavia la poesia di Faber ed è quel che fa sempre bene alla testa e al cuore. Ciascuno vi prende e vi ritrova un attimo di bellezza, di quella che incanta e nutre. Quasi fosse un filo rosso che, insinuandosi nell’improbabile, mantiene aperte strade nuove o ancora tutte da percorrere o che magicamente resistono a quell’incuria cui la quotidianità ci abitua. Sottratte al ricatto della nostalgia, le canzoni di Faber possono così acquistare forza, lottare per ambire a una loro rinnovata autonomia. Dimenticando quel che occorre dimenticare per provare a sorprendersi. Ciò è salutare per chi ascolta, ma anche per chi, forse, canta. Cristiano dichiara nel dvd che sta preparando un suo cd per l’anno prossimo. E’ una notizia che ci rallegra. Mai disperare. Facciamogli auguri e aspettiamo un nuovo lavoro tutto suo. Buona fortuna, coraggio. Angelo Villa Cultura 115 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura ARRIVATI_IN_REDAZIONE Luc de Brabandere Pensiero magico pensiero logico. Piccola filosofia della creatività Ed. Castelvecchi, Roma 2010, pp. 182, € 16,50 Nel regno del pensiero umano esiste un territorio ancora inesplorato: un luogo dai confini indefiniti dove si nascondono opportunità dal valore incalcolabile e nuove possibilità. E è proprio questo, secondo Lue de Brabandere, indiscussa autorità mondiale nell’applicazione della creatività al business, il luogo con cui bisogna confrontarsi quando, negli affari o nella vita di tutti i giorni, l’innovazione smette di essere un semplice bisogno per diventare una necessità... Luigi Ballerini Parole di traverso. Racconti da non prendere alla lettera Ed. Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 72, € 14,50 In questo libro sono raccolte sei storie bizzarre, originali e divertenti, ognuna basata su un modo di dire che, anziché essere compreso in quanto tale, viene preso alla lettera dai protagonisti, portando a simpatici fraintendimenti. Sei storie e sette bambini, impegnati nel trovare una soluzione a questioni per loro molto importanti: c’è Filippo che ha una famiglia che “va a rotoli”, nel senso che trae dai rotoli l’energia per muoversi, parlare, vivere... Elena Madrussan Forme del tempo. Modi dell’io. Educazione e scrittura diaristica Ibis, Como-Pavia 2009, pp. 150, € 15,00 Il diario è da sempre riconosciuto come il luogo della conoscenza intima di sé, ma la sua pratica oggi pare irrimediabilmente viziata dal venir meno dei suoi presupposti fondamentali: il tempo per la scrittura; la formazione di un io solido; l’esercizio della verità. A partire dalle alterazioni della tradizione letteraria diaristica e attraverso l’analisi delle possibilità autoeducative di questa pratica affascinante, l’Autrice propone un nuovo modo di concepire il diario... Sabrina Avakian Bambini al rogo Salani Editore, Milano 2010, pp. 127, € 12,00 In Angola è ancora viva una tradizione secondo la quale in presenza del ‘male’ si deve trovare un capro espiatorio. Le vittime sono per la maggior parte bambini, spesso piccolissimi, che una volta accusati subiscono ogni genere di soprusi: dai maltrattamenti agli abusi, dall’allontanamento dalle proprie famiglie e dalla comunità di appartenenza, allo sfruttamento fino ad arrivare, in casi troppo spesso frequenti, anche alla loro uccisione... 116 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/arrivati_in_redazione Matteo Negro, Fabio Claramelli, Giudo Nicolosi Figure della corporeità. L’esperienza del corpo nell’era delle biotecnologie. Ed. Città Aperta, Troiana (EN) 2009, pp. 212, € 20,00 Le trasformazioni di carattere tecnologico e antropologico che la nostra civiltà subisce e nello stesso tempo promuove a un ritmo incessante suscitano una lunga serie di interrogativi inediti, di cui la ricerca teorica non può non tener conto. È urgente innescare una riflessione profonda attorno al vissuto della corporeità e alla sua frammentazione, accentuata dai progressi delle biotecnologie... Simona Alberti Pratiche filosofiche a scuola. La classe, l’ascolto, il racconto autobiografico, il pensare simbolico Ipoc Editore, Bologna 2009, pp.288, € 22,00 Un’insegnante della scuola superiore racconta la sua esperienza di praticante filosofa con gli studenti; la pratica filosofica è caratterizzata dalla dimensione comunitaria, e una classe di studenti con il loro insegnante è proprio una comunità contraddistinta dalla comunicazione, dal dialogo e dal confronto che si svolgono in uno spazio e in un tempo comuni... P. Rossi Fine del diritto? Il Mulino, Bologna 2009, pp. 102, € 10,00 L’immagine del diritto come sistema di norme disposte gerarchicamente, riconducibili tutte a una fonte unica, appare in declino, non solo perché all’attività legislativa statale si affiancano altre fonti subnazionali e sopranazionali, ma anche perché l’attività legislativa stessa procede attraverso decretazione, sotto la spinta di interessi e posizioni ideologiche, senza assicurarsi spesso la compatibilità con le leggi vigenti.... Ferdinando Pellegrino La malattia di Alzheimer. Comunicare la diagnosi Carocci Editore, Roma 2009, pp. 131, € 12,50 Professione, comunicazione e malattia sono le parole chiave di questo libro scritto pensando a come, nella pratica professionale, la relazione tra il medico ed il paziente abbia luogo attraverso la comunicazione: le parole del medico fanno guarire o ammalare, ridanno speranza dove il vuoto dell’esistenza si avvicina inesorabile. In una prassi medica in cui prevale il tecnicismo l’assistenza al paziente con Alzheimer diventa un importante momento di riflessione per recuperare la dimensione antropologica del rapporto medico-paziente e per valutare ogni opportunità che consenta al paziente e ai suoi familiari di tendere a obiettivi in grado di assicurare sostenibili livelli di qualità di vita... Cultura 117 Pedagogika.it/2010/XIV_2/cultura/arrivati_in_redazione C. Widmann Il male. Categoria morale, patologia psichica, realtà umana Editore Ma.Gi, Roma 2009, pp. 220, € 18,00 Figure sinistre grondano sangue di stragi familiari, tramano nell’ombra un terrore internazionale, s’inebriano di sesso estremo; pedofili rapiscono bambini, madri di morte abbandonano neonati, signori della guerra prosperano di cadaveri... In questo saggio la psicologia del profondo scruta il lato oscuro della psiche, dove la follia confina con la malvagità. Il male sgorga da quelle profondità d’ombra e intreccia relazioni costanti con le sfere luminose della coscienza e dell’io... Novelletto Arnaldo L’ adolescente. Una prospettiva psicoanalitica Astrolabio Ubaldini, Roma 2009, pp. 363, € 29,00 Pioniere e maestro nel campo della psicoanalisi dell’adolescenza, Novelletto è stato il primo in Italia a porre l’attenzione sulle profonde differenze tra infanzia e adolescenza, evidenziando nettamente le peculiarità dell’approccio clinico agli adolescenti. Gli scritti qui pubblicati affrontano una varietà di tematiche teoricocliniche che testimoniano l’ampiezza del suo orizzonte: la mente adolescente infatti non si esaurisce nell’arco evolutivo di qualche anno, non è solo un transito fra l’infanzia e l’età adulta, ma uno stato presente in tutti noi e potenzialmente attivo... C. Larmore Dare ragioni. Il soggetto, l’etica, la politica Rosenberg & Sellier, Torino 2008, pp. 152, € 14,00 Un volume edito solo in italiano, in cui il noto filosofo americano condensa il suo percorso che si misura con le grandi questioni dell’etica, della verità, del soggetto, della politica. Senza essere scettico, il suo approccio soppesa le ragioni di una scelta filosofica riconoscendo che altre scelte hanno anch’esse buone ragioni per esser fatte valere: è ciò che egli chiama la “legge della conservazione dell’imbarazzo”... Henrich Dieter Metafisica e modernità. Il soggetto di fronte all’assoluto Rosenberg & Sellier, Torino 2008, pp. 144 , € 15,00 Uno dei più autorevoli filosofi tedeschi contemporanei ricostruisce come un archeologo il senso complessivo dell’idealismo analizzandone i testi fondatori e il contesto culturale in cui si sono formati. Ma questa ricostruzione, pur minuziosa, non ha carattere filologico. L’idealismo mostra qui la sua attualità non esaurita, e riformula la questione dell’assoluto nel tempo della modernità, ossia nel tempo che ha nel soggetto un proprio motivo centrale... 118 SOCIETÀ DI PEDAGOGIA E DIDATTICA DELLA SCRITTURA Scrittura e professioni di cura ANGHIARI 14 - 15 MAGGIO 2010 14 MAGGIO - Castello di Sorci Ore 15,00 - Apertura del Simposio: Saluti delle Autorità Franco Frabboni, Presidente di Graphein Duccio Demetrio, Direttore scientifico di Graphein Ore 16,00 - Scrittura e cura: punti di vista a confronto Introduce: Vanna Iori Ne parlano: Gemma Martino Luigina Mortari Sergio Tramma Lucia Zannini Ore 18,00 - Apertura dei gruppi di lavoro 1° Gruppo: Scrittura e cura nei contesti educativo-sanitari Coordinano: Alessandra Augelli, Daniele Bruzzone e Elisabetta Musi 2° Gruppo: Scrittura e cura nella scuola Coordinano: Elisabetta Nigris e Cosimo Laneve 3° Gruppo: Scritture e cura nel lavoro sociale Coordinano: Pierangelo Barone e Riccardo Pagano 4° Gruppo: Scrittura e cura nei luoghi di segregazione Coordinano: Laura Formenti e Beppe Pasini 5° Gruppo: Scrittura e cura nelle esperienze di malattia e di perdita Coordinano: Maria Antonella Galanti e Nicola Ferrari Ore 19,30 - Presentazione del secondo volume per la collana Egoscritture, edizioni Erickson Laura Formenti presenta: Attraversare la cura Ore 20,30 Cena al Castello di Sorci 15 MAGGIO - Teatro Piazza IV Novembre Ore 9,00 - 12,30 Prosecuzione dei Gruppi di lavoro Ore 12,30 Conferimento del Premio Graphein a Domenico Ore 13,30 Chiusura dei lavori PER INFORMAZIONI: www.graphein.it [email protected] Starnone