I Principi del Processo Penale Minorile Prof. Avv.to PhD G.M.Patrizia Surace A P P R O F O N D I M E N T O T E M A T I C O Il processo penale minorile Il D.p.r. 22 settembre n. 448 del 1988 ha recepito le indicazioni delle principali fonti internazionali in materia minorile e della Costituzione, differenziandolo dal processo penale ordinario. Lo scopo è quello di finalizzare il processo alla responsabilizzazione e non alla punizione del minore, facilitando la riparazione dei danni e la risoluzione del conflitto generato dal reato. In conformità all'art. 31, comma 2, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere "la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo", l'ordinamento italiano disciplina l'esercizio della giurisdizione penale nei confronti dei minori autori di reato perseguendo non soltanto fini di punizione, ma anche e soprattutto finalità educative. Tali finalità nascono dalla necessità di adeguare l'intervento penale alle esigenze educative degli imputati minorenni, in conformità alla stessa funzione rieducativa della pena affermata nell'art. 27, comma 3 Costituzione. Per conseguire tali finalità, l'ordinamento giuridico ha istituito degli organi giurisdizionali specializzati, in aderenza al dettato dell'art. 102, comma 2 Cost., che prevede la possibilità di istituire delle sezioni specializzate per determinate materie presso gli organi giudiziari ordinari,. In particolare sono state adottate delle norme processuali idonee a favorire un'indagine accurata sulla personalità del minorenne, per evitare gli effetti stigmatizzanti derivanti dal contatto del minore imputato con la giustizia penale, e trasformare il processo in un'occasione per mettere in atto delle misure educative nei suoi confronti. In passato queste forme processuali erano previste dal r.d.l. 20 luglio 1934, n.1404 ("Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni"), il quale oltre a contenere norme sostanziali, prevedeva delle norme processuali appositamente create per i minori imputati, ottenute anche apportando le necessarie modifiche al codice di procedura penale del 1930. 1) Principio di adeguatezza Esso si ricava dall'art. 1, comma 1, d.p.r. n. 448 del 1988 il quale dispone: "Nel procedimento a carico di imputati minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne". Questo principio viene in rilievo in due modi diversi, poiché il concetto di adeguatezza fa riferimento non soltanto alle norme del codice di procedura penale, le quali si trovano in rapporto di sussidiarietà rispetto alle disposizioni del d.p.r. n. 448 del 1988, ma anche alle norme del processo penale minorile che devono essere applicate tenendo presente le esigenze educative del minore e in modo adeguato alla sua personalità. La funzione pedagogica del processo penale minorile emerge ancora dal già ricordato art. 1, il quale al comma 2, sancisce che "il giudice illustra all'imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico- sociali delle decisioni". Sempre in tale ottica, l'art. 10 dichiara l'inammissibilità nel processo penale minorile dell'esercizio dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato, ciò per evitare che un processo costruito con finalità educative sia snaturato da interessi meramente economici. Anche la disposizione contenuta nell'art. 19 stabilisce che il giudice nel disporre le misure cautelari, deve tenere conto "dell'esigenza di non interrompere i processi educativi in atto". 2) Principio di minima offensività del processo Questo principio si basa sulla constatazione che il processo in sé può causare all'imputato delle sofferenze, soprattutto per il minore imputato il processo se non adattato alle esigenze della sua età può essere causa di sofferenze indelebili. Proprio per questo il processo penale minorile ha introdotto delle disposizioni che hanno come scopo quello di arrecare il minor danno al minore imputato. A tale fine il d.p.r. n. 448 del 1988 prevede degli istituti processuali che tendono a porre fuori dal circuito penale il minore in modo anticipato. È il caso della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, emessa quando l'ulteriore corso del processo può arrecare pregiudizio alle esigenze educative del minore (art.27 c.p.p. min.). Questo istituto mette in evidenza la capacità offensiva che il processo come tale può avere nei confronti del minore, e ha come finalità l'eliminazione di un'inutile afflittività del processo in tutte quelle ipotesi, in cui la tenuità del fatto e l'occasionalità della condotta, non sia giustificata da una specifica finalità educativa e responsabilizzante, per questo motivo il legislatore ha previsto la necessità che il processo si concluda quando la sua prosecuzione non coincide con un'esigenza educativa del minore. Anche l'estinzione del reato per esito positivo della prova, evita al minore gli effetti stigmatizzanti di una condanna penale, quando il giudice ritiene opportuno esaminare la personalità del minore in maniera più compiuta. Inoltre, anche le misure cautelari devono essere attuate in modo da evitare il più possibile al minore, i disagi e le sofferenze materiali e psicologiche, che possono derivare dalla loro applicazione, avendo cura di non interrompere i processi educativi in corso. 3) Principio di de- stigmatizzazione Anche questo principio può essere inserito nella logica del principio di minima offensività, perché riguarda l'identità sociale del minore, che si vuole tutelare attraverso l'eliminazione di tutti quegli istituti che comportano una stigmatizzazione. Una speciale attenzione alla personalità dell'imputato, sia per le modalità processuali, che devono essere comunque tali da ridurre al minimo il danno che il processo penale ingenera per il fatto stesso d'essere impiantato, sia dal punto di vista esogeno della stigmatizzazione sociale, che da quello endogeno del trauma intrapsichico o del danno pedagogico che può causare. Sono espressione del principio di de- stigmatizzazione, gli istituti dell'irrilevanza del fatto e della messa alla prova, che limitano il contatto del minore con il sistema penale. Inoltre, sempre al fine di evitare al minore effetti stigmatizzanti, è stabilito che la sentenza che pronuncia l'estinzione del reato per esito positivo della prova non è iscritta nel casellario giudiziale. Inoltre, l'art. 13 c.p.p. min., sancisce il divieto di pubblicazione e di divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento. Anche la non pubblicità del dibattimento, stabilita dall'art. 33 c.p.p. min., serve a mantenere una percezione sociale positiva del minore, la stessa deroga a questo principio, prevista dal secondo comma, è concessa dal collegio giudicante solo nell'esclusivo interesse del minore. Sempre al fine di ridurre gli effetti stigmatizzanti che derivano dal processo, il codice di procedura penale minorile prevede delle disposizioni restrittive riguardanti le iscrizioni nel casellario giudiziale. Anche l'obbligo previsto per la polizia giudiziaria, dall'art. 20 disp. att. min., di adottare le opportune cautele nell'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, è funzionale a tutelare il minore dalla curiosità del pubblico, e quindi a ridurre i rischi di una stigmatizzazione. L'intervento penale dunque non si configura come un intervento meramente segregante e stigmatizzante, bensì teso al recupero di quel processo educativo interrotto o deviato. Il nuovo processo penale, infatti, "offre delle occasioni educative". Si punta dunque su un processo inteso come momento importante per fare chiarezza insieme al minore, per aiutarlo ad interiorizzare le regole fondamentali del vivere civile. 4) Principio di auto selettività Il processo penale minorile conosce dei meccanismi deflattivi maggiori rispetto al processo penale ordinario. Ne sono espressione i già ricordati istituti dell'irrilevanza del fatto e la sospensione del processo per messa alla prova. 5) Principio di indisponibilità del rito e dell'esito del processo. A differenza di quanto previsto per il processo penale ordinario, il processo penale minorile è dominato dal principio d'indisponibilità del rito, poiché il giudice può disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato non comparso, così come stabilisce il primo comma dell'art. 31 c.p.p. min. Altra conferma a tale principio deriva dal divieto per l'imputato minorenne di patteggiare la pena, contrariamente a quanto previsto per il processo penale ordinario. Anche il criterio dell'indisponibilità del rito e dell'esito evidenziano l'intenzionalità legislativa orientata a che il rito minorile non venga interpretato dal minorenne come strumento che può utilitaristicamente essere "aggiustato" ai propri fini. 6) Principio di residualità della detenzione. Ci sono tantissime disposizioni del d.p.r. 1988, n. 448 dal quale emerge la funzione di extrema ratio della pena detentiva. Questo principio risulta in maniera evidente dall'art. 16 c.p.p. min., che indica le condizioni per procedere all'arresto e al fermo, e dall'art. 23 c.p.p. min., per la custodia cautelare, e dall'ampia possibilità di ricorrere alle sanzioni sostitutive. Inoltre, la stessa Corte Costituzionale in molte pronunce ha avuto modo di ribadire tale principio, in particolare nella sentenza n. 412 del 1990, la Corte rileva come l'esigenza del recupero del minore è talmente preminente da prevalere sulla pretesa punitiva dello Stato, anche con riferimento a reati puniti con la pena dell'ergastolo, per cui si può dedurre che la pena detentiva va considerata come ultima ratio. Inoltre in un sistema di giustizia minorile teso al recupero sociale del minore deviante, vi è la necessità di risposte ai fatti di devianza minorile che prescindano dalla logica punitiva. Infatti, Pennisi afferma: Di qui, la necessità di trattare diversamente il minore, differenziando il regime sanzionatorio rispetto a quanto previsto dal sistema punitivo generale. Difatti, la diversità esistente tra minore ed adulto impone la creazione di un sistema ad hoc dove, peraltro, il ricorso alla pena detentiva svolga, effettivamente, il ruolo di ultima ratio. Inoltre la Corte con la sentenza n. 168 del 1994 ha denunciato, la radicale incompatibilità della previsione della pena dell'ergastolo anche nei confronti del minore, in violazione degli artt. 27, comma 3 e 31, comma 2 Cost. Il ruolo di ultima ratio della pena detentiva emerge ancora, dalla sentenza n. 450 del 1998, nella quale la Corte sollecita il legislatore a creare per i minori un regime differenziato di esecuzione delle pene e delle modalità di accesso alle misure alternative alla detenzione. La immediata declaratoria della non imputabilità L'art. 97 cod. penale dispone che non è imputabile chi, al momento del fatto, non aveva compiuto i quattordici anni. A tale fine, il d.p.r. n. 448 del 1988, ha previsto all'art. 26 che in ogni stato e grado del procedimento il giudice, quando accerta che l'imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche d'ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile. La capacità d'intendere e di volere del minore non può essere presunta, ma deve essere dimostrata nel caso concreto con ogni mezzo di prova, mediante una valutazione globale della personalità del minore. La capacità d'intendere e di volere del minore, che abbia compiuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto anni, non è presunta come per l'imputato maggiorenne, ma dev'essere obbligatoriamente accertata, a pena di nullità, in concreto e con riferimento al singolo episodio criminoso dal giudice di merito, il cui convincimento costituisce un apprezzamento di fatto insindacabile in cassazione se sorretto da adeguata motivazione, esente da vizi logici e giuridici. Il concetto d'incapacità d'intendere e di volere di cui all'art. 98 è diverso da quello indicato nell'art. 85 c.p. per l'imputato adulto. Esso si fonda sul concetto di maturità, avente natura psicologica, e contenuto ampio. La maturità del minore, si ricava non soltanto dallo sviluppo intellettivo dello stesso, ma anche dalla sua capacità di determinarsi e di capire il significato delle sue azioni, dalla capacità di valutare il carattere morale, e le conseguenze del fatto. La capacità su cui si radica l'imputabilità esige non solo un accertamento della capacità del minore di rendersi conto della significanza antisociale dell'atto che pone in essere ma anche la capacità di valutarne le conseguenze indirizzando la sua volontà in una direzione scelta con raziocinio e non sulla base di incontrollabili impulsi sostanzialmente infantili. La Cassazione a questo proposito ha stabilito che il giudice non è tenuto a nominare un perito per accertare la capacità di intendere e di volere del minore infradiciottenne, potendola accertare con altri mezzi e potendosi basare per tale accertamento sulla natura del reato, sulle modalità del fatto delittuoso, sul contegno del minore nel corso dell'impresa criminosa e durante il processo. Contrariamente all'infermità mentale, l'incapacità di intendere e di volere da immaturità ha carattere relativo, nel senso che, trattandosi di qualificazione fondata su elementi non soltanto biopsichici, ma anche socio- pedagogici, relativi all'età evolutiva, l'esame della maturità mentale del minore va compiuta con stretto riferimento al reato commesso. Nel caso di delitti contro la persona e la proprietà è sufficiente un grado di maturità meno spiccato rispetto a quello richiesto da altre condotte penalmente sanzionate la cui contrarietà alle esigenze della vita di relazione non è immediatamente evidente. L'irrilevanza del fatto Questo istituto poggia le sue basi sulla scarsa rilevanza sociale del fatto reato. Esso nasce nell'ambito del contesto culturale che accompagnò l'emanazione di documenti internazionali quali le "Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile", c.d. Regole di Pechino, emanate dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1985, e la Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 20 del 1987 sulle "Reazioni penali alla delinquenza minorile". Entrambi i documenti, incoraggiano gli Stati ad adottare nell'ambito della giustizia penale minorile delle misure di "diversion", cioè di degiurisdizionalizzazione. Con la legge 1992, n. 123 è stato aggiunto un quarto comma, che estende la previsione della sentenza di non luogo a procedere anche alla fase dell'udienza preliminare, al giudizio immediato e al giudizio direttissimo. Perciò, l'art. 27 dispone che, sia nel corso delle indagini preliminari (se vi è richiesta del pubblico ministero), sia nell'udienza preliminare, sia nel giudizio direttissimo, sia nel giudizio immediato (in questi casi senza richiesta del pubblico ministero), se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne. La sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto presuppone un fatto penalmente rilevante, positivamente accertato. La tenuità va riferita al fatto, da intendersi non in senso naturalistico (l'evento accaduto), ma il più latamente possibile: la condotta dell'agente e, quindi, la carica di oppositività dimostrato (intensità del dolo e grado della colpa), le circostanze dell'azione, le modalità e i mezzi utilizzati, il movente; il danno procurato alla vittima; l'allarme procurato alla società. Il secondo requisito, indicato nell'art. 27 c.p.p. min., è l'occasionalità del comportamento. Anche riguardo a questo requisito dottrina e giurisprudenza al loro interno hanno diversi orientamenti. L'occasionalità è comunque riferita al comportamento, e non al fatto. La dottrina maggioritaria ritiene che questo requisito non possa essere riferito a un criterio di seriazione dei fatti, cioè a un criterio cronologico dei fatti, né al criterio della recidiva. Piuttosto ritiene che sia un requisito di carattere psicologico, volto a valutare l'atteggiamento del minore rispetto all'azione delittuosa, solamente in questo modo le indagini sulla personalità del minore acquistano rilevanza. Palomba ritiene che il comportamento è occasionale quando: L'atto è frutto di circostanze particolari attinenti al momento, e quindi non è voluto o cercato o premeditato. Se così fosse, l'occasionalità potrebbe prestarsi ad essere valorizzata in rapporto alla particolare condizione di variabilità tipica dell'adolescente, che agisce sovente sulla base di pulsioni momentanee (occasionali) piuttosto che sulla base di progetti, programmi, disegni, piani, ragionamenti: di modo che il comportamento trasgressivo potrebbe considerarsi occasionale quando non è frutto di una scelta deviante precisa o sufficientemente orientata. Anche per una parte della giurisprudenza, l'occasionalità non può essere intesa in senso meramente cronologico, ma va considerata in senso psicologico, e quindi quando l'azione criminosa è frutto della condizione di variabilità tipica dell'adolescenza, senza che sia espressione di una scelta strutturata in senso trasgressivo. In questi casi, possiamo configurare l'irrilevanza del fatto come una rinuncia da parte dello Stato a perseguire l'autore del reato perché il comportamento dello stesso non mostra una personalità strutturata in modo deviante. Altra parte della giurisprudenza ritiene invece che il requisito dell'occasionalità sia legato alla valutazione della recidiva, considerandola un ostacolo per la concessione della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Un ulteriore requisito dell'istituto dell'irrilevanza del fatto è il pregiudizio per le esigenze educative del minorenne. La presenza dei requisiti oggettivi della tenuità del fatto e dell'occasionalità del comportamento, infatti, non è sufficiente a fondare la sentenza di non luogo a procedere. Il procedimento si deve chiudere solo se la sua prosecuzione è pregiudizievole per le esigenze educative del minorenne, per cui anche alla presenza di un fatto socialmente irrilevante esso potrebbe proseguire se tale requisito fosse assente. Per la dottrina la finalità deflattiva, tipica dell'irrilevanza del fatto, e l'esigenza della minima offensività del processo minorile devono essere entrambe presenti per potersi avere sentenza di non luogo a procedere, in caso contrario il processo potrebbe proseguire senza che ci sia un interesse dello Stato a perseguire un fatto giudicato come socialmente irrilevante. Perciò l'interpretazione più corretta sembra quella di ritenere che alla presenza dei due presupposti interagenti, la sentenza di non luogo a procedere non è emessa solo quando la prosecuzione del processo è considerata utile per le esigenze educative del minore. Solo se interpretata in questo modo, la norma è espressione dei principi di destigmatizzazione e di minima offensività. Per quanto riguarda il procedimento, l'art. 27 c.p.p. min. ne indica le linee portanti. Il comma 2, dell'art. 27 stabilisce che "sulla richiesta il giudice provvede in camera di consiglio sentiti il minorenne e l'esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato. Quando non accoglie la richiesta il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero". Il comma 1, dell'art. 27 c.p.p. min., sembra delineare un procedimento speciale, volto a ottenere una chiusura anticipata del procedimento nel corso dell'indagine preliminare, alla presenza di un fatto socialmente irrilevante. Solamente il Pubblico ministero può avanzare tale richiesta, in qualità di dominus dell'indagine preliminare. L'irrilevanza del fatto può tuttavia essere pronunciata anche in sede di udienza preliminare, ai sensi del primo comma dell'art. 32 c.p.p. min., oltre che in sede di giudizio immediato e di giudizio direttissimo in conformità del quarto comma, dell'art. 27. Il perdono giudiziale L'istituto del perdono giudiziale è disciplinato nell'art. 169 codice penale, nel libro primo, titolo sesto, capo primo, relativo alla "estinzione del reato". L'istituto del perdono giudiziale risale al codice penale del 1930, per cui è anteriore alla nascita della giustizia minorile. In dottrina si è discusso sulla natura di questo istituto, come causa di estinzione del reato, oppure come una causa di estinzione della pena. Dalla sua collocazione sembra che esso sia da annoverare tra le cause di estinzione del reato, di conseguenza esso presuppone l'accertamento del reato, e un soggetto colpevole e responsabile, quindi un soggetto imputabile. Il perdono giudiziale è una causa di estinzione del reato che si applica solamente ai minori degli anni diciotto, in considerazione della particolare condizione adolescenziale. L'art. 169 cod. penale stabilisce che il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio o dal pronunciare condanna, e concedere il perdono se ritiene di dover applicare una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a 1.549,37 euro (anche se congiunta), quando avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, presume che il minore si asterrà dal commettere ulteriori reati. Nella commisurazione della pena, il giudice deve tenere conto anche della circostanza della minore età. Perciò, la concessione del perdono giudiziale, presuppone un giudizio prognostico sul futuro comportamento del minore e, quindi la convinzione da parte del giudice che la mancata irrogazione della pena sia un contributo al recupero sociale dello stesso. Tale valutazione presuppone l'esame del fatto -reato, il quale deve tenere conto degli indici di gravità del reato indicati nell'art. 133 cod. penale (gravità del reato e capacità a delinquere), oltre che un'attenta analisi della personalità del minore. Nel giudizio di valutazione il giudice può tenere in considerazione anche gli eventuali precedenti giudiziari del minore. Inoltre, dal combinato degli artt. 169, comma 3 e 164, comma 2, n.1 c.p., risulta che il perdono giudiziale non può essere concesso a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, né al delinquente o contravventore abituale o professionale. Il quarto comma dell'art. 169 cod. penale dispone che il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta. Tuttavia la concessione può essere reiterata, in seguito a una pronuncia della C. Cost., che ha dichiarato illegittimo questo comma, "nella parte in cui non consente che possa estendersi il perdono giudiziale ad altri reati che si legano col vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso il beneficio". Inoltre la stessa Corte ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 169, quarto comma codice penale nella parte in cui esclude che possa concedersi un nuovo perdono giudiziale nel caso di condanna per delitto commesso anteriormente alla prima sentenza di perdono, a pena che, cumulata con quella precedente, non superi i limiti per l'applicazione del beneficio La sospensione del processo e la messa alla prova È l'istituto più innovativo del processo penale minorile, previsto dagli artt. 28 e 29 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448. Esso trae la sua ispirazione dal probation anglosassone, affermatosi in seguito alla perdita di centralità della pena detentiva, e avente come finalità quella di evitare al minore imputato la condanna. L'istituto trae la sua legittimazione dalla lettera 'e' dell'art. 3 della legge delega n.81 del 1987, la quale stabilisce il "dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore sotto l'aspetto psichico, sociale e ambientale, anche ai fini dell'apprezzamento dei risultati degli interventi di sostegno disposti" e la "facoltà di sospendere il processo per un tempo determinato, nei casi suddetti". Per questo, il giudice, quando ritiene di dover valutare la personalità del minore, può disporre la sospensione del processo e affidare il minore ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, affinché procedano all'attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con lo stesso provvedimento il giudice può imporre al minore, prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. Il giudice legittimato a disporre la sospensione del processo ai sensi dell'art. 28, comma 1 c.p.p. min, è il Giudice dell'udienza preliminare e il Giudice del dibattimento, cioè un giudice collegiale che, grazie alla sua particolare composizione, ritiene opportuno nell'interesse del minore disporre la sospensione del processo. Tanto si desume dall'art. 29, ultima parte c.p.p. min, il quale dispone che in caso di esito negativo della prova, il giudice provveda a norma degli artt. 32 (provvedimenti a seguito di udienza preliminare) e 33 (udienza dibattimentale). Presupposto per la sospensione del processo è l'ingresso del minore nel circuito penale a seguito di una notizia di reato. La sospensione del processo con messa alla prova ha come finalità quella di impedire una pronuncia sul merito del caso e consentire al minore di uscire dal circuito penale per evitare gli effetti stigmatizzanti della condanna penale. Questo istituto può essere considerato come un procedimento incidentale che s'inserisce nella fase dell'udienza preliminare o del dibattimento e cui la dottrina attribuisce natura sostanziale. La sospensione del processo con messa alla prova non fa riferimento all'accertamento della responsabilità del minore, ma come scrive Palomba: la messa alla prova è una misura penale, anche se accompagnata da elementi di sostegno educativo. Essa, in quanto sostitutiva e impeditiva di una pronuncia di merito per il caso di esito positivo potrebbe assumere una valenza in qualche modo sanzionatoria ed afflittiva. Presupposto della sospensione del processo è la convinzione da parte del giudice della responsabilità del minore imputato in ordine al reato per cui si procede. La sospensione del processo è disposta quando il giudice ritiene opportuno esaminare la personalità del minore all'esito della prova. Essa può essere disposta per qualsiasi tipo di reato, anche per quelli per i quali è prevista la pena dell'ergastolo, purché il giudice ritenga opportuno valutare la personalità del minore. Infatti, ai sensi del primo comma dell'art. 28, seconda parte "il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione". Premessa indispensabile affinché il giudice possa emanare ordinanza di sospensione del processo è l'elaborazione del progetto d'intervento per opera dei servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi degli enti locali, così come risulta dall'art. 27 disp. att. min. Il progetto, elaborato dai servizi, deve essere frutto di accettazione da parte del ragazzo e che al giudice non spetta il compito di formazione del progetto ma a lui compete il potere di prospettare modifiche e suggerire integrazioni, per farlo divenire quanto più possibile idoneo alle esigenze del minore. a. b. c. d. L'art. 27, comma 2, disp. att. min., mette in evidenza gli elementi fondamentali del progetto d'intervento, tra l'altro: Le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita. A tale fine, il consenso del minore al progetto deve essere pieno ed espressione di una totale partecipazione a esso, deve essere frutto di un'adesione spontanea e deve essere prestato solo dopo che egli sia stato informato delle conseguenze di un eventuale esito negativo della prova. Gli impegni specifici che il minorenne assume. Tali impegni devono essere adeguati alle sue esigenze e capacità, devono tener conto del tipo di reato commesso e basarsi sulle risorse che il territorio locale mette a disposizione per il minore. Le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell'ente locale. Tali soggetti dovranno specificare nel progetto le modalità della loro partecipazione, la quale deve essere improntata come una collaborazione, e cui è affidato il compito di tracciare per il minore un progetto d'intervento il più possibile flessibile, in modo da consentire modifiche ed essere adattato alle eventuali future esigenze del minore. Le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. Queste prescrizioni sono le uniche che sono demandate al potere del giudice. Inoltre, il giudice valuta, in collaborazione con i servizi, se la messa alla prova deve essere condotta in libertà oppure con l'integrazione di una misura cautelare. Il provvedimento che dispone la sospensione del processo con messa alla prova è un'ordinanza. Quest'ordinanza sembra avere una natura complessa, ossia: Definitoria relativamente all'accertamento del fatto, della responsabilità dell'imputato, della imputabilità; descrittiva con riguardo alla natura del progetto ed ai suoi contenuti; prescrittiva con riferimento alla riparazione-conciliazione; ordinatoria rispetto alla fissazione della nuova udienza. Il secondo comma dell'art. 28 c.p.p. min., stabilisce che "con l'ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno...". In particolare, il legislatore ha assegnato ai servizi sociali ministeriali un ruolo da protagonista, mentre ai servizi sociali dell'ente locale è affidato un ruolo di collaborazione, così facendo il legislatore è andato in direzione contraria alla scelta del decentramento amministrativo operata con il d.p.r. 616/77. I servizi, a norma del terzo comma dell'art. 27 disp. att. min., informano periodicamente il giudice dell'attività svolta e dell'evoluzione del caso, proponendo, dove lo ritengono necessario, modifiche al progetto, eventuali abbreviazioni di esso ovvero, in caso di ripetute e gravi trasgressioni, la revoca del provvedimento di sospensione. L'abbreviazione della messa alla prova, sarà chiesta quando l'impegno del minore e i risultati raggiunti sono tali da essere espressione di un processo di responsabilizzazione del minore, che non necessitano un ulteriore proseguimento della prova. La revoca, invece, ai sensi del quinto comma dell'art. 28 ha presupposti diversi, poiché a essa si può fare ricorso solo quando nel corso della messa alla prova, il minore ha dato luogo a 'ripetute' e 'gravi' violazioni delle prescrizioni imposte dal progetto. La valutazione della gravità delle trasgressioni è lasciata alla discrezionalità del giudice. Con l'ordinanza di sospensione il giudice può anche imporre al minore alcune prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. Questa è un'innovazione rilevante introdotta dal legislatore dell'ottantotto. Tuttavia il tentativo di conciliazione con la vittima incontra molti ostacoli, dovute alle difficoltà delle vittime di incontrare l'autore del reato. Trascorre molto tempo tra il momento del reato e quello del giudizio e questo può produrre notevoli mutamenti nel rapporto con la vittima. Talora, poi, manca proprio in alcune zone, in particolare nel Sud Italia una "cultura della riconciliazione": si dimentica completamente, così, la valenza educativa richiamata da questo aspetto della messa alla prova che consentirebbe invece un utile momento di autoresponsabilizzazione e maturazione da parte del minore. Nonostante ciò, è frequente l'introduzione nei progetti di messa alla prova di prescrizioni riguardanti l'attività di volontariato, che mostra un crescente interesse verso una forma di risarcimento indiretto, del danno arrecato dal reato. L'ordinanza deve indicare anche il periodo di durata della messa alla prova, poiché questa serve al minore ad avere un obiettivo per un periodo certo, pur potendo essere oggetto di modifiche. La durata della messa alla prova deve essere commisurata al tipo di reato, e alla personalità del minorenne, che si presume, evolverà in senso positivo. Ai sensi del terzo comma dell'art. 28 c.p.p. min., "contro l'ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l'imputato e il suo difensore", mentre il quarto comma stabilisce che "la sospensione non può essere disposta se l'imputato chiede il giudizio abbreviato o il giudizio immediato". Dopo la scadenza del periodo di prova, il presidente del collegio fissa l'udienza per la valutazione della prova. In caso di esito negativo della prova, il processo deve riprendere da dove era stato interrotto, e si avrà un rinvio a giudizio del minore, poiché appare improbabile una richiesta di non luogo a procedere per non imputabilità, o una condizione d'improcedibilità dell'azione. L'art. 29 c.p.p. min., stabilisce che la valutazione positiva della prova dipende da due accertamenti: il primo riguarda la valutazione del 'comportamento del minore', e il secondo attiene alla 'evoluzione della sua personalità'. A tale fine, i servizi presentano al giudice una relazione sul comportamento del minore e una valutazione della sua personalità. Nel valutare il comportamento del minore bisogna fare riferimento all'impegno dimostrato nel corso della prova: Sicuramente è un dato indicativo della buona riuscita della prova il fatto che il minore, nel corso della stessa, abbia mostrato costanza e impegno nel partecipare ai programmi educativi, alle attività e ai percorsi lavorativi predisposti dai servizi minorili. Per quanto attiene alla valutazione dell'evoluzione della personalità del minore, essa dipende dalle caratteristiche del progetto d'intervento. Se il progetto è stato costruito in modo da essere praticabile e flessibile, e utilizzando tutte le risorse ambientali e familiari del minore, il suo esito sarà sicuramente positivo. L'evoluzione della personalità del minore si ricava dal comportamento tenuto dal minore nel corso della prova, come la sua capacità di accettare i cambiamenti della sua personalità. In breve, quando ciò è avvenuto, ed è stata così verificata la capacità del minore non solo di non commettere più reati, ma di sapersi complessivamente adeguare a quel progetto di impegno cui ha dato il proprio assenso, allora si può dire che l'esito della prova è stato positivo. Se il minore ha compreso le ragioni per le quali fu disposta la sospensione, se vi ha risposto positivamente e se il consenso da lui mostrato all'atto della accettazione si è mantenuto costante. Se tali condizioni si sono avverate allora è evidente che il periodo di sospensione ha in lui prodotto effetti positivi e cambiamenti che possono ritenersi stabili. In caso di esito positivo della prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato. Se la dichiarazione è fatta in sede di udienza preliminare, è emessa sentenza di non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., se, invece, avviene in sede dibattimentale, è emessa sentenza di non doversi procedere ai sensi dell'art. 531 c.p.p. In caso di esito negativo della prova, l'art. 29, ultima parte, c.p.p. min., stabilisce che il giudice 'provvede a norma degli articoli 32 e 33'. La sentenza di non luogo a procedere per esito positivo della prova, non va iscritta nel casellario giudiziale essendosi estinto il reato. Negli ultimi anni le indagini sullo stato di applicazione della messa alla prova, hanno reso evidente come essa è applicata a minori nei quali si rilevano indici prognostici favorevoli, perché in possesso di migliori risorse familiari e sociali. Restano esclusi dalla sua applicazione i minori stranieri, in particolare nomadi ed extracomunitari, per mancanza di risorse familiari cui fare affidamento. In questo modo si vengono a creare delle disparità di trattamento nell'accesso a tale istituto, che pure negli ultimi anni ha avuto un'applicazione molto estesa. Patrizia Surace, avvocato criminologo Mediazione penale tra esigenze di deflazione giudiziaria ed obiettivi di pacificazione sociale 21 L’obiettivo sociale Così primo presupposto meritorio dovrebbe essere la pacificazione sociale (con la vittima e l’ambiente immediato del reato) da perseguirsi con la riparazione, il risarcimento del danno ovvero con l’adoperarsi del reo a favore dell’offeso. Dunque meno carcere e più punitività non detentiva, meno indulgenzialismo criminogeno e più premialità meritata. 22 L’ontologia mediativa La necessità di superare la contrapposizione ideologica ed etica tra reo e vittima ed avvicinare l’intera comunità alla difficile gestione della devianza, è frutto della consapevole inefficacia del sistema penale come solo strumento di prevenzione dei reati e degli approfonditi studi sulla vittimologia. L’attuazione dell’intervento mediativo è fondata su un complesso di regole e modelli organizzativi finalizzati ad un percorso di responsabilizzazione che si articola in più momenti comunicativi diretti alla reciproca comprensione tra le parti (vittima e reo). 23 L’ottica mediativa • Il reato come fatto “emergente nel sociale”. • La società è chiamata a compiere un imponente sforzo diretto alla individuazione di valori specifici da perseguire mediante un cammino di consapevolezza e di educazione alla solidarietà ed alla tolleranza. • Nel delicato cammino riconciliativo il mediatore funge da “catalizzatore” capace di condurre o accompagnare il processo in corso, preparando le parti al confronto ed aiutandole a trarre autonomamente gli elementi positivi e utili alla risoluzione del conflitto. • Il danno complessivo subito dalla persona offesa, impone un’ottica risarcitoria più ampia di quella esclusivamente giuridico-economica. Significa anzitutto capire la sofferenza fisica e psicologica della vittima, e instaurare perciò una strategia "riparativa" adeguata a tutti gli aspetti del danno subito (CERETTI - cit. ; ROSSI, 1999). 24 La valenza mediativa La valenza terapeutica che si suole associare all’intervento riparativo è perciò biunivoca: orientata, da un lato, al soddisfacimento dei bisogni e alla promozione del senso di sicurezza delle vittime, dall’altro all’autoresponsabilizzazione ed alla presa in carico delle conseguenze globali del reato (danno alla vittima e alla comunità) da parte del reo. 25 Gli effetti concreti 1. La responsabilizzazione dell’autore di reato, poiché l’incontro diretto con la vittima permette all’individuo di prendere coscienza delle conseguenze concrete del proprio gesto. La responsabilizzazione dell’autore di reato comporta poi una diminuzione della recidiva; 2. La soddisfazione della vittima, che spesso sente il bisogno di trovarsi di fronte all’autore del reato per capire le ragioni del suo gesto, per avere un risarcimento del danno derivante dal reato o, semplicemente, per esprimere la propria sofferenza direttamente a chi l’ha causata. La soddisfazione può consistere in una compensazione economica o in una riparazione simbolica; 26 Gli effetti concreti 3. la deflazione giudiziaria, poiché, soprattutto per i reati minori, ma estremamente diffusi, consente di ridurre il carico di processi e quindi di migliorare l’efficacia del sistema della giustizia in termini di rapidità e qualità della risposta; 4. infine, sotto il profilo sociale in senso lato, la mediazione avvicina la comunità al sistema penale, grazie alla partecipazione di mediatori volontari ed ai programmi realizzati da agenzie o associazioni di volontariato. Il coinvolgimento della comunità può indubbiamente portare ad una maggiore consapevolezza della pubblica opinione sulle conseguenze del crimine e della devianza e, parallelamente, incoraggiare la comunità a sostenere le vittime, riabilitare il reo ed attivarsi per la prevenzione del crimine. 27 La mediazione penale in ambito europeo PREMESSE: all’obiettivo di alleggerire il peso incombente sulla giustizia contenziosa si aggiunge, altresì, una più celere soddisfazione degli interessi della vittima (a cui può non sempre giovare l’inflizione della sanzione penale al reo quanto, semmai, la riparazione della lesione sofferta). Ciò ovviamente vale solo per i reati di minore rilievo ove il conflitto generato dal fatto delittuoso può essere ricondotto e gestito allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e, soprattutto, il recupero del senso di sicurezza collettiva. La nuova visione adottata dalla giustizia riparativa si propone di superare la “logica del castigo” per giungere ad una lettura sociologicorelazionale del fatto costituente reato, ove il carattere afflittivo della risposta sanzionatoria è sostituito dall’attivazione di forme di riparazione del danno poste volutamente dal reo. 28 La mediazione penale in ambito europeo La comunità internazionale, attenta osservatrice delle istanze sociali emergenti, propone nuovi strumenti per intervenire nella giustizia penale al fine di renderla più costruttiva e meno repressiva. Nel nostro sistema penale, senza abdicare al principio ineliminabile della responsabilità penale personale e colpevole (art.27 commi 1 e 3 Cost.) di colui che viola le norme penali, nei casi in cui si è in presenza di un reato di minima offensività, appare auspicabile ridurre gli interventi giudiziari, in particolare quelli di natura coercitiva o restrittiva. Di recente sono state adottate la Raccomandazione del Consiglio d’ Europa n. (99) 19 sulla mediazione in materia penale e le Regole minime delle Nazioni Unite sull’uso dei programmi di giustizia riparativa nell’ambito penale, sviluppate nel corso dell’ultimo Congresso mondiale sulla prevenzione del crimine ed il 29 trattamento dei delinquenti (Vienna 2000). Linee guida La Raccomandazione e le Regole minime stabiliscono che i programmi di giustizia riparativa siano “generalmente fruibili ed utilizzabili in ogni stato e grado del processo”, auspicando inoltre la rilevanza della mediazione, sia essa pubblica o privata, attraverso il riconoscimento ufficiale dei pubblici poteri. In tal senso i centri di mediazione devono agire in un contesto pubblicistico offrendo conseguentemente prestazioni gratuite lontane da logiche di mercato che pericolosamente potrebbero ricondurre tale servizio, ricco di implicazioni giuridico-sociali, in un’ottica imprenditoriale pervasa da mere valutazioni quantitative. 30 Linee guida Nella delicata e difficile gestione dei conflitti determinati dalla commissione di un reato ruolo determinante è attribuito ai mediatori, chiamati ad “orientare” emozioni e sentimenti, talvolta distruttivi, espressi dall’autore del reato e dalla vittima, con il fine di dirimere il contrasto sorto a seguito del fatto lesivo. In tal senso la Raccomandazione puntualizza la seria, profonda e continua opera di formazione che vede coinvolte le figure dei mediatori i quali “dovrebbero essere reperiti in tutte le aree sociali e possedere generalmente una buona conoscenza delle culture locali e comunitarie” (art. 22 Racc). 31 Linee guida Essenziali ed irrinunciabili taluni elementi caratterizzanti il procedimento mediativo, qualunque sia la fase in cui esso si attiva: - la mediazione deve basarsi sulla piena volontarietà delle parti, poiché questo requisito ne rappresenta uno dei tratti distintivi rispetto al processo penale tradizionale; - è necessaria, per poter esperire la procedura, l'ammissione da parte dell'autore di aver causato un danno. Pur senza violare il principio costituzionale della presunzione di innocenza (art. 27 Cost), è necessario che il convenuto ammetta quanto meno la sua responsabilità per ciò che è successo. Si tratta di un riconoscimento di colpa di carattere informale ed extragiudiziale che non può essere usato contro il soggetto nel caso in cui la mediazione fallisca. Il carattere confidenziale del processo di mediazione rappresenta il presupposto per uno scambio proficuo e un risultato costruttivo; pertanto la procedura non dovrebbe essere pubblica a meno che le parti non vi acconsentano 32 Linee guida -E’ opportuno che il servizio di mediazione sia pienamente comprensibile alle parti per ragioni di uguaglianza e di accesso alla giustizia; - le parti dovrebbero ricevere una completa informazione sulla procedura di mediazione, esse dovrebbero cioè avere diritto ad una spiegazione esauriente ed esaustiva su come si svolge la procedura di mediazione, da quale servizio e da chi viene gestita, sulle sue possibili conseguenze in termini di risvolti penali, e sui risultati concreti che si possono ottenere. Le informazioni dovrebbero essere fornite nella forma più obiettiva possibile, garantendo che le parti non siano soggette ad alcuna forma di pressione, così come è necessario che il mediatore stesso si assicuri che nessuna delle due parti coinvolte nel conflitto riesca ad esercitare alcun tipo di pressione o minaccia; 33 Tipologie (Censis) Mediazione vittima-autore di reato Il modello più usuale di mediazione è quella vittima - autore del reato (victim-offender mediation), che coinvolge direttamente le parti: ne esistono numerosi esempi nel Regno Unito (v. tra tutti, l’Home-Office founded project), in Germania (come il Weisser-Ring, Arbeitskreis der Opferhilfen in Deutchland), in Belgio (Slachtofferhulp Vlaanderen V.Z.W. voor Slachtofferhulp).La mediazione si può svolgere in presenza di entrambe le parti coinvolte (mediazione diretta) o, nel caso in cui la vittima non intenda incontrare l'aggressore, in incontri separati tra il mediatore e ciascuna delle parti (mediazione indiretta). Esistono comunque diverse varianti di questo modello 34 Tipologie di Restorative Justice Programs (indicati dall’Intemational Scientific and Professional Advisorv Council – ISPAC-) In accordo con quanto suggerito dal § 7 della risoluzione dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite 53/10 del 9 Dicembre 1998 e dei §§ 5 e 11 della risoluzione 54/12.5 del 17 Dicembre 1999, i singoli tipi di Restorative Justice Programs risultano: 35 Apology (scuse formali) comunicazione verbale o scritta indirizzata alla vittima, in cui l’autore del reato descrive il proprio comportamento e dichiara di esserne pienamente responsabile. Community family Group Mediazione "allargata" a tutti i soggetti che sono stati Conferencing (dialogo esteso ai coinvolti dalla commissione di un reato (il reo e la vittima, gruppi parentali) in primis, ma anche i familiari delle parti in conflitto). Fase pre-processuale Community/neighborhood victim Descrizione da parte di una vittima individuale o anche Impact Statements (VIS) della comunità, degli effetti e condizionamenti di un Fase processuale determinato reato. Il VIS, redatto in forma scritta o orale, costituisce fonte di informazione per la Corte competente a conoscere del fatto di reato oppure per l’Ufficio del Parole. Esso viene utilizzato come parte del fascicolo del giudice che decide sulla pena (pre-sentence report) ovvero come fonte di dati e informazioni sul reo (preparole investigation). Community Restorative Board Gruppo di cittadini, previamente preparato, con il compito di svolgere una serie di colloqui con il reo circa la natura del reato e le conseguenze dannose di esso allo scopo di proporre azioni riparative che il reo si impegna a 36 compiere Community Sentencing Circles (consigli commisurativi) Peacemaking Si sostanzia in una sorta di partnership della comunità nella gestione del "processo"(commisurazione della pena in senso lato) attraverso la quale si cerca di raggiungere un accordo su un programma sanzionatorio a contenuto riparativo che tenga conto dei bisogni di tutte le parti interessate da una conflitto. Community Service Prestazione, da parte dell’autore del reato, di una attività lavorativa a favore della comunità Compensation Programs Programmi di compensazione dei danni da reato (spese per assistenza medica o psicologica, vitalizi per vittime divenute disabili) predisposti esclusivamente dallo Stato. Diversion Fase pre-processuale o post-processuale (diversion after conviction) Termine generalissimo che indica ogni tecnica volta ad evitare che l’autore di un reato entri nel circuito penale-processuale Financial Restitution to Victims Procedimento attraverso il quale la Corte competente a conoscere di un reato, avvalendosi anche del Vitcim Impact Statements quantifica il danno provocato derivante dall’illecito ed impone al reo il pagamento di una corrispondente somma di denaro. 37 In Italia Il principio della obbligatorietà dell’azione penale, pur escludendo la legittimità di pratiche mediative come meri strumenti di riduzione delle complesse procedure processuali, consente, nell’ambito del processo penale minorile, la possibilità di ridisegnare i confini dell’intervento penale. Difatti il legislatore italiano, rifacendosi ai modelli di diversion e probation adottati da molti paesi europei e dagli Stati Uniti, ha individuato taluni settori per eventuali interventi di conciliazione e riparazione precedenti il dibattimento ed il giudizio. 38 In Italia: la G.R. per i minori PROGRESSIONE ASCENDENTE Mediazione Mera riparazione Lavoro x comunità Riparazione globale dell’offesa Riparazione materiale Riparazione simbolica 39 In Italia: la G.R. per i minori Non esiste un numerus clausus sui reati mediabili. Le fattispecie codicistiche astrattamente “mediabili” sono: delitti contro l’onore (es. ingiuria e diffamazione -artt. 594 e 595 c.p.); delitti offensivi di interessi individuali disponibili, si pensi al furto, alla sottrazione di cose comuni, al danneggiamento, al deturpamento e imbrattamento di cose altrui(artt. 624, 627, 635 e 639 c.p.);delitti offensivi di interessi personali indisponibili, (es. lesioni personali artt. 582, 590 c.p.). 40 In Italia: la G.R. per i minori In fase pre-processuale: articolo 9 del D.P.R. 448/1988, comma 1 “il Pubblico Ministero e il Giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili”. L’indagine in esso prevista è multifattoriale: grado di imputabilità e formulazione del giudizio di colpevolezza; decisione in merito alla rilevanza sociale del fatto [articolo 27 D.P.R. 448/1988]; individuazione e/o applicazione delle misure cautelari; definizione del complesso di prescrizioni per la sospensione del processo con messa alla prova [articolo 28 D.P.R. 448/1988]; scelta delle sanzioni sostitutive da applicare in caso di condanna. 41 In Italia: la G.R. per i minori In fase pre-processuale: articolo 9 del D.P.R. 448/1988, comma 2 “il Pubblico Ministero o il Giudice possono avvalersi, oltre che degli strumenti di accertamento ordinari anche di informazioni assunte da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne servendosi, altresì, del parere di esperti senza alcuna formalità” UFFICIO MEDIAZIONE Responsabilità (STATICA) per il passato: reato commesso Minore parte attiva Responsabilità (DINAMICA) per il futuro: nei confronti della vittima 42 In Italia Ben conosciuto ed ormai consolidato l’ambito operativo cui si riferiscono gli artt. 9 e 27 del DPR 448/88 per i quali è proprio durante l’accertamento dell’imputabilità e l’acquisizione di elementi circa le condizioni e le risorse dei minori, che P.M. e Giudice possono cogliere l’intento dell’imputato di riparare al danno compiuto, prediligendo così la finalità di giungere ad un proscioglimento per irrilevanza del fatto. Inoltre, a norma dell’art. 28 del DPR 448/88 la mediazione può inserirsi nell’ambito della sospensione del processo e conseguente messa in prova: essa costituisce allora una delle prescrizioni del Giudice diretta alla riparazione delle conseguenze del reato o alla promozione della conciliazione del minore con l’offeso. La mediazione, dunque, si pone come un sistema complementare al procedimento penale tradizionale od anche un’alternativa ad esso. Grazie alla sua flessibilità ed alla sua natura partecipativa essa ha anche il pregio di ridurre i provvedimenti di natura cautelativa e di conseguenza i costi della custodia cautelare, nonché di 43 snellire le procedure e diminuire il carico giudiziario. In Italia: la G.R. per i minori La mediazione può svolgersi anche in riferimento al perdono giudiziale. Il P.G., ex art. 169 c.p., è un istituto di carattere generale applicabile, anche più di una volta, quando il reato per cui si procede è punibile in concreto con una pena non superiore a due [2] anni ed è concedibile a condizione che si possa formulare un giudizio prognostico positivo in riferimento alla non recidivazione della condotta deviante del minore. Questo giudizio è ricavabile dai parametri di cui all’articolo 133 c.p (tuttavia il giudice minorile che non volesse ricorrere al perdono giudiziale -provvedimento irrevocabile- ben potrebbe applicare il 164 c.p. concedendo così la sospensione condizionale della pena che, invece, può essere revocata e che già solo per questo può motivare il minore a tenere un comportamento conforme al diritto (Cfr.Cass. Pen., 10 44 febbraio 1992) In Italia: la G.R. per i minori Mediatore “specchio” ed “equiprossimo” (Ceretti) L’essenza spazio-temporale: hic et nunc dell’incontro IL “TEMPO NUOVO”: IL MOMENTO PRESENTE (LENZI) 45