I Principi del Processo
Penale Minorile
Prof. Avv.to PhD G.M.Patrizia Surace
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Il processo penale minorile
Il D.p.r. 22 settembre n. 448 del 1988 ha recepito
le indicazioni delle principali fonti internazionali in
materia minorile e della Costituzione,
differenziandolo dal processo penale ordinario.
Lo scopo è quello di finalizzare il processo
alla responsabilizzazione e non alla
punizione del minore, facilitando la riparazione
dei danni e la risoluzione del conflitto generato
dal reato.

In conformità all'art. 31, comma 2, Cost., che impone alla Repubblica di
proteggere "la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo",
l'ordinamento italiano disciplina l'esercizio della giurisdizione penale nei
confronti dei minori autori di reato perseguendo non soltanto fini di
punizione, ma anche e soprattutto finalità educative. Tali finalità nascono
dalla necessità di adeguare l'intervento penale alle esigenze educative degli
imputati minorenni, in conformità alla stessa funzione rieducativa della
pena affermata nell'art. 27, comma 3 Costituzione. Per conseguire tali
finalità, l'ordinamento giuridico ha istituito degli organi giurisdizionali
specializzati, in aderenza al dettato dell'art. 102, comma 2 Cost., che
prevede la possibilità di istituire delle sezioni specializzate per determinate
materie presso gli organi giudiziari ordinari,.

In particolare sono state adottate delle norme processuali idonee a
favorire un'indagine accurata sulla personalità del minorenne, per evitare gli
effetti stigmatizzanti derivanti dal contatto del minore imputato con la
giustizia penale, e trasformare il processo in un'occasione per mettere in
atto delle misure educative nei suoi confronti. In passato queste forme
processuali erano previste dal r.d.l. 20 luglio 1934, n.1404 ("Istituzione e
funzionamento del tribunale per i minorenni"), il quale oltre a contenere
norme sostanziali, prevedeva delle norme processuali appositamente create
per i minori imputati, ottenute anche apportando le necessarie modifiche
al codice di procedura penale del 1930.
1) Principio di adeguatezza
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Esso si ricava dall'art. 1, comma 1, d.p.r. n. 448 del 1988 il quale dispone: "Nel
procedimento a carico di imputati minorenni si osservano le disposizioni del
presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di
procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla
personalità e alle esigenze educative del minorenne". Questo principio viene in
rilievo in due modi diversi, poiché il concetto di adeguatezza fa riferimento non
soltanto alle norme del codice di procedura penale, le quali si trovano in
rapporto di sussidiarietà rispetto alle disposizioni del d.p.r. n. 448 del 1988, ma
anche alle norme del processo penale minorile che devono essere applicate
tenendo presente le esigenze educative del minore e in modo adeguato alla sua
personalità.

La funzione pedagogica del processo penale minorile emerge ancora dal già
ricordato art. 1, il quale al comma 2, sancisce che "il giudice illustra all'imputato
il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il
contenuto e le ragioni anche etico- sociali delle decisioni". Sempre in tale ottica,
l'art. 10 dichiara l'inammissibilità nel processo penale minorile dell'esercizio
dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal
reato, ciò per evitare che un processo costruito con finalità educative sia
snaturato da interessi meramente economici. Anche la disposizione contenuta
nell'art. 19 stabilisce che il giudice nel disporre le misure cautelari, deve tenere
conto "dell'esigenza di non interrompere i processi educativi in atto".
2) Principio di minima offensività del processo
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Questo principio si basa sulla constatazione che il processo in sé può
causare all'imputato delle sofferenze, soprattutto per il minore imputato
il processo se non adattato alle esigenze della sua età può essere causa
di sofferenze indelebili. Proprio per questo il processo penale minorile ha
introdotto delle disposizioni che hanno come scopo quello di arrecare il
minor danno al minore imputato. A tale fine il d.p.r. n. 448 del 1988
prevede degli istituti processuali che tendono a porre fuori dal circuito
penale il minore in modo anticipato. È il caso della sentenza di non
luogo a procedere per irrilevanza del fatto, emessa quando
l'ulteriore corso del processo può arrecare pregiudizio alle esigenze
educative del minore (art.27 c.p.p. min.). Questo istituto mette in
evidenza la capacità offensiva che il processo come tale può avere nei
confronti del minore, e ha come finalità l'eliminazione di un'inutile
afflittività del processo in tutte quelle ipotesi, in cui la tenuità del
fatto e l'occasionalità della condotta, non sia giustificata da una
specifica finalità educativa e responsabilizzante, per questo
motivo il legislatore ha previsto la necessità che il processo si concluda
quando la sua prosecuzione non coincide con un'esigenza educativa del
minore. Anche l'estinzione del reato per esito positivo della prova, evita
al minore gli effetti stigmatizzanti di una condanna penale, quando il
giudice ritiene opportuno esaminare la personalità del minore in maniera
più compiuta. Inoltre, anche le misure cautelari devono essere attuate in
modo da evitare il più possibile al minore, i disagi e le sofferenze
materiali e psicologiche, che possono derivare dalla loro applicazione,
avendo cura di non interrompere i processi educativi in corso.
3) Principio di de- stigmatizzazione
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Anche questo principio può essere inserito nella logica del principio di minima
offensività, perché riguarda l'identità sociale del minore, che si vuole tutelare attraverso
l'eliminazione di tutti quegli istituti che comportano una stigmatizzazione.
Una speciale attenzione alla personalità dell'imputato, sia per le modalità processuali, che
devono essere comunque tali da ridurre al minimo il danno che il processo penale
ingenera per il fatto stesso d'essere impiantato, sia dal punto di vista esogeno della
stigmatizzazione sociale, che da quello endogeno del trauma intrapsichico o del danno
pedagogico che può causare.
Sono espressione del principio di de- stigmatizzazione, gli istituti dell'irrilevanza del fatto
e della messa alla prova, che limitano il contatto del minore con il sistema penale. Inoltre,
sempre al fine di evitare al minore effetti stigmatizzanti, è stabilito che la sentenza che
pronuncia l'estinzione del reato per esito positivo della prova non è iscritta nel
casellario giudiziale. Inoltre, l'art. 13 c.p.p. min., sancisce il divieto di pubblicazione e di
divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini idonee a consentire
l'identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento. Anche la non
pubblicità del dibattimento, stabilita dall'art. 33 c.p.p. min., serve a mantenere una
percezione sociale positiva del minore, la stessa deroga a questo principio, prevista dal
secondo comma, è concessa dal collegio giudicante solo nell'esclusivo interesse del
minore. Sempre al fine di ridurre gli effetti stigmatizzanti che derivano dal processo, il
codice di procedura penale minorile prevede delle disposizioni restrittive riguardanti le
iscrizioni nel casellario giudiziale.
Anche l'obbligo previsto per la polizia giudiziaria, dall'art. 20 disp. att. min., di adottare le
opportune cautele nell'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, è
funzionale a tutelare il minore dalla curiosità del pubblico, e quindi a ridurre i rischi di
una stigmatizzazione.
L'intervento penale dunque non si configura come un intervento meramente segregante
e stigmatizzante, bensì teso al recupero di quel processo educativo interrotto o deviato.
Il nuovo processo penale, infatti, "offre delle occasioni educative". Si punta dunque su un
processo inteso come momento importante per fare chiarezza insieme al minore, per
aiutarlo ad interiorizzare le regole fondamentali del vivere civile.
4) Principio di auto selettività
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Il processo penale minorile conosce dei meccanismi deflattivi
maggiori rispetto al processo penale ordinario. Ne sono
espressione i già ricordati istituti dell'irrilevanza del fatto e la
sospensione del processo per messa alla prova.
5) Principio di indisponibilità del rito e dell'esito
del processo.
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A differenza di quanto previsto per il processo penale ordinario, il
processo penale minorile è dominato dal principio d'indisponibilità
del rito, poiché il giudice può disporre l'accompagnamento coattivo
dell'imputato non comparso, così come stabilisce il primo comma
dell'art. 31 c.p.p. min. Altra conferma a tale principio deriva dal
divieto per l'imputato minorenne di patteggiare la pena,
contrariamente a quanto previsto per il processo penale ordinario.
Anche il criterio dell'indisponibilità del rito e dell'esito evidenziano
l'intenzionalità legislativa orientata a che il rito minorile non venga
interpretato dal minorenne come strumento che può
utilitaristicamente essere "aggiustato" ai propri fini.
6) Principio di residualità della detenzione.
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Ci sono tantissime disposizioni del d.p.r. 1988, n. 448 dal quale emerge la
funzione di extrema ratio della pena detentiva. Questo principio risulta in
maniera evidente dall'art. 16 c.p.p. min., che indica le condizioni per
procedere all'arresto e al fermo, e dall'art. 23 c.p.p. min., per la custodia
cautelare, e dall'ampia possibilità di ricorrere alle sanzioni sostitutive.
Inoltre, la stessa Corte Costituzionale in molte pronunce ha avuto modo di
ribadire tale principio, in particolare nella sentenza n. 412 del 1990, la
Corte rileva come l'esigenza del recupero del minore è talmente
preminente da prevalere sulla pretesa punitiva dello Stato, anche con
riferimento a reati puniti con la pena dell'ergastolo, per cui si può dedurre
che la pena detentiva va considerata come ultima ratio.
Inoltre in un sistema di giustizia minorile teso al recupero sociale del
minore deviante, vi è la necessità di risposte ai fatti di devianza minorile
che prescindano dalla logica punitiva. Infatti, Pennisi afferma:
Di qui, la necessità di trattare diversamente il minore, differenziando il
regime sanzionatorio rispetto a quanto previsto dal sistema punitivo
generale. Difatti, la diversità esistente tra minore ed adulto impone la
creazione di un sistema ad hoc dove, peraltro, il ricorso alla pena detentiva
svolga, effettivamente, il ruolo di ultima ratio.
Inoltre la Corte con la sentenza n. 168 del 1994 ha denunciato, la radicale
incompatibilità della previsione della pena dell'ergastolo anche nei
confronti del minore, in violazione degli artt. 27, comma 3 e 31, comma 2
Cost.
Il ruolo di ultima ratio della pena detentiva emerge ancora, dalla sentenza n.
450 del 1998, nella quale la Corte sollecita il legislatore a creare per i
minori un regime differenziato di esecuzione delle pene e delle modalità di
accesso alle misure alternative alla detenzione.
La immediata declaratoria della non imputabilità
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L'art. 97 cod. penale dispone che non è imputabile chi, al momento del fatto, non aveva compiuto i quattordici anni.
A tale fine, il d.p.r. n. 448 del 1988, ha previsto all'art. 26 che in ogni stato e grado del procedimento il giudice,
quando accerta che l'imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche d'ufficio, sentenza di non luogo a
procedere trattandosi di persona non imputabile. La capacità d'intendere e di volere del minore non può essere
presunta, ma deve essere dimostrata nel caso concreto con ogni mezzo di prova, mediante una valutazione globale
della personalità del minore. La capacità d'intendere e di volere del minore, che abbia compiuto i quattordici anni
ma non ancora i diciotto anni, non è presunta come per l'imputato maggiorenne, ma dev'essere obbligatoriamente
accertata, a pena di nullità, in concreto e con riferimento al singolo episodio criminoso dal giudice di merito, il cui
convincimento costituisce un apprezzamento di fatto insindacabile in cassazione se sorretto da adeguata
motivazione, esente da vizi logici e giuridici.
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Il concetto d'incapacità d'intendere e di volere di cui all'art. 98 è diverso da quello indicato nell'art. 85 c.p. per
l'imputato adulto. Esso si fonda sul concetto di maturità, avente natura psicologica, e contenuto ampio. La maturità
del minore, si ricava non soltanto dallo sviluppo intellettivo dello stesso, ma anche dalla sua capacità di
determinarsi e di capire il significato delle sue azioni, dalla capacità di valutare il carattere morale, e le conseguenze
del fatto. La capacità su cui si radica l'imputabilità esige non solo un accertamento della capacità del minore di
rendersi conto della significanza antisociale dell'atto che pone in essere ma anche la capacità di valutarne le
conseguenze indirizzando la sua volontà in una direzione scelta con raziocinio e non sulla base di incontrollabili
impulsi sostanzialmente infantili.
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La Cassazione a questo proposito ha stabilito che il giudice non è tenuto a nominare un perito per accertare la
capacità di intendere e di volere del minore infradiciottenne, potendola accertare con altri mezzi e potendosi
basare per tale accertamento sulla natura del reato, sulle modalità del fatto delittuoso, sul contegno del minore nel
corso dell'impresa criminosa e durante il processo.
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Contrariamente all'infermità mentale, l'incapacità di intendere e di volere da immaturità ha carattere relativo, nel
senso che, trattandosi di qualificazione fondata su elementi non soltanto biopsichici, ma anche socio- pedagogici,
relativi all'età evolutiva, l'esame della maturità mentale del minore va compiuta con stretto riferimento al reato
commesso. Nel caso di delitti contro la persona e la proprietà è sufficiente un grado di maturità meno spiccato
rispetto a quello richiesto da altre condotte penalmente sanzionate la cui contrarietà alle esigenze della vita di
relazione non è immediatamente evidente.
L'irrilevanza del fatto
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Questo istituto poggia le sue basi sulla scarsa rilevanza sociale del fatto reato. Esso nasce
nell'ambito del contesto culturale che accompagnò l'emanazione di documenti
internazionali quali le "Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile", c.d.
Regole di Pechino, emanate dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1985, e la
Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 20 del 1987 sulle "Reazioni penali alla
delinquenza minorile". Entrambi i documenti, incoraggiano gli Stati ad adottare nell'ambito
della giustizia penale minorile delle misure di "diversion", cioè di degiurisdizionalizzazione.
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Con la legge 1992, n. 123 è stato aggiunto un quarto comma, che estende la previsione
della sentenza di non luogo a procedere anche alla fase dell'udienza preliminare, al giudizio
immediato e al giudizio direttissimo. Perciò, l'art. 27 dispone che, sia nel corso delle
indagini preliminari (se vi è richiesta del pubblico ministero), sia nell'udienza preliminare,
sia nel giudizio direttissimo, sia nel giudizio immediato (in questi casi senza richiesta del
pubblico ministero), se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del
comportamento, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza
del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del
minorenne. La sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto presuppone un fatto
penalmente rilevante, positivamente accertato.
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La tenuità va riferita al fatto, da intendersi non in senso naturalistico (l'evento
accaduto), ma il più latamente possibile: la condotta dell'agente e, quindi, la carica di
oppositività dimostrato (intensità del dolo e grado della colpa), le circostanze dell'azione,
le modalità e i mezzi utilizzati, il movente; il danno procurato alla vittima; l'allarme
procurato alla società.
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Il secondo requisito, indicato nell'art. 27 c.p.p. min., è l'occasionalità del
comportamento. Anche riguardo a questo requisito dottrina e giurisprudenza
al loro interno hanno diversi orientamenti. L'occasionalità è comunque riferita
al comportamento, e non al fatto. La dottrina maggioritaria ritiene che questo
requisito non possa essere riferito a un criterio di seriazione dei fatti, cioè a un
criterio cronologico dei fatti, né al criterio della recidiva. Piuttosto ritiene che
sia un requisito di carattere psicologico, volto a valutare l'atteggiamento del
minore rispetto all'azione delittuosa, solamente in questo modo le indagini
sulla personalità del minore acquistano rilevanza. Palomba ritiene che il
comportamento è occasionale quando:
L'atto è frutto di circostanze particolari attinenti al momento, e quindi non è
voluto o cercato o premeditato. Se così fosse, l'occasionalità potrebbe
prestarsi ad essere valorizzata in rapporto alla particolare condizione di
variabilità tipica dell'adolescente, che agisce sovente sulla base di pulsioni
momentanee (occasionali) piuttosto che sulla base di progetti, programmi,
disegni, piani, ragionamenti: di modo che il comportamento trasgressivo
potrebbe considerarsi occasionale quando non è frutto di una scelta deviante
precisa o sufficientemente orientata.
Anche per una parte della giurisprudenza, l'occasionalità non può essere intesa
in senso meramente cronologico, ma va considerata in senso psicologico, e
quindi quando l'azione criminosa è frutto della condizione di variabilità tipica
dell'adolescenza, senza che sia espressione di una scelta strutturata in senso
trasgressivo. In questi casi, possiamo configurare l'irrilevanza del fatto come
una rinuncia da parte dello Stato a perseguire l'autore del reato perché il
comportamento dello stesso non mostra una personalità strutturata in modo
deviante. Altra parte della giurisprudenza ritiene invece che il requisito
dell'occasionalità sia legato alla valutazione della recidiva, considerandola un
ostacolo per la concessione della sentenza di non luogo a procedere per
irrilevanza del fatto.
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Un ulteriore requisito dell'istituto dell'irrilevanza del fatto è il pregiudizio per le esigenze
educative del minorenne. La presenza dei requisiti oggettivi della tenuità del fatto e
dell'occasionalità del comportamento, infatti, non è sufficiente a fondare la sentenza di non
luogo a procedere. Il procedimento si deve chiudere solo se la sua prosecuzione è
pregiudizievole per le esigenze educative del minorenne, per cui anche alla presenza di un
fatto socialmente irrilevante esso potrebbe proseguire se tale requisito fosse assente. Per la
dottrina la finalità deflattiva, tipica dell'irrilevanza del fatto, e l'esigenza della minima offensività
del processo minorile devono essere entrambe presenti per potersi avere sentenza di non
luogo a procedere, in caso contrario il processo potrebbe proseguire senza che ci sia un
interesse dello Stato a perseguire un fatto giudicato come socialmente irrilevante. Perciò
l'interpretazione più corretta sembra quella di ritenere che alla presenza dei due
presupposti interagenti, la sentenza di non luogo a procedere non è emessa solo
quando la prosecuzione del processo è considerata utile per le esigenze educative
del minore. Solo se interpretata in questo modo, la norma è espressione dei principi di
destigmatizzazione e di minima offensività.
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Per quanto riguarda il procedimento, l'art. 27 c.p.p. min. ne indica le linee portanti. Il comma 2,
dell'art. 27 stabilisce che "sulla richiesta il giudice provvede in camera di consiglio sentiti il
minorenne e l'esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato. Quando
non accoglie la richiesta il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico
ministero". Il comma 1, dell'art. 27 c.p.p. min., sembra delineare un procedimento speciale,
volto a ottenere una chiusura anticipata del procedimento nel corso dell'indagine preliminare,
alla presenza di un fatto socialmente irrilevante. Solamente il Pubblico ministero può avanzare
tale richiesta, in qualità di dominus dell'indagine preliminare. L'irrilevanza del fatto può tuttavia
essere pronunciata anche in sede di udienza preliminare, ai sensi del primo comma dell'art. 32
c.p.p. min., oltre che in sede di giudizio immediato e di giudizio direttissimo in conformità del
quarto comma, dell'art. 27.
Il perdono giudiziale
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L'istituto del perdono giudiziale è disciplinato nell'art. 169 codice penale, nel libro primo, titolo sesto, capo primo,
relativo alla "estinzione del reato". L'istituto del perdono giudiziale risale al codice penale del 1930, per cui è
anteriore alla nascita della giustizia minorile. In dottrina si è discusso sulla natura di questo istituto, come causa di
estinzione del reato, oppure come una causa di estinzione della pena. Dalla sua collocazione sembra che esso sia da
annoverare tra le cause di estinzione del reato, di conseguenza esso presuppone l'accertamento del reato, e un
soggetto colpevole e responsabile, quindi un soggetto imputabile. Il perdono giudiziale è una causa di estinzione del
reato che si applica solamente ai minori degli anni diciotto, in considerazione della particolare condizione
adolescenziale.
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L'art. 169 cod. penale stabilisce che il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio o dal pronunciare
condanna, e concedere il perdono se ritiene di dover applicare una pena restrittiva della libertà personale non
superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a 1.549,37 euro (anche
se congiunta), quando avuto riguardo alle circostanze indicate nell'art. 133, presume che il minore si asterrà dal
commettere ulteriori reati. Nella commisurazione della pena, il giudice deve tenere conto anche della circostanza
della minore età. Perciò, la concessione del perdono giudiziale, presuppone un giudizio prognostico sul futuro
comportamento del minore e, quindi la convinzione da parte del giudice che la mancata irrogazione della pena sia
un contributo al recupero sociale dello stesso. Tale valutazione presuppone l'esame del fatto -reato, il quale deve
tenere conto degli indici di gravità del reato indicati nell'art. 133 cod. penale (gravità del reato e capacità a
delinquere), oltre che un'attenta analisi della personalità del minore. Nel giudizio di valutazione il giudice può
tenere in considerazione anche gli eventuali precedenti giudiziari del minore. Inoltre, dal combinato degli artt. 169,
comma 3 e 164, comma 2, n.1 c.p., risulta che il perdono giudiziale non può essere concesso a chi ha riportato una
precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, né al delinquente o
contravventore abituale o professionale.
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Il quarto comma dell'art. 169 cod. penale dispone che il perdono giudiziale non può essere concesso più di una
volta. Tuttavia la concessione può essere reiterata, in seguito a una pronuncia della C. Cost., che ha dichiarato
illegittimo questo comma, "nella parte in cui non consente che possa estendersi il perdono giudiziale ad altri reati
che si legano col vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso il beneficio". Inoltre la stessa
Corte ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 169, quarto comma codice penale nella parte in cui esclude che possa
concedersi un nuovo perdono giudiziale nel caso di condanna per delitto commesso anteriormente alla prima
sentenza di perdono, a pena che, cumulata con quella precedente, non superi i limiti per l'applicazione del beneficio
La sospensione del processo e la messa alla prova

È l'istituto più innovativo del processo penale minorile, previsto dagli artt. 28 e 29 D.P.R.
22 settembre 1988, n. 448. Esso trae la sua ispirazione dal probation anglosassone,
affermatosi in seguito alla perdita di centralità della pena detentiva, e avente come
finalità quella di evitare al minore imputato la condanna. L'istituto trae la sua
legittimazione dalla lettera 'e' dell'art. 3 della legge delega n.81 del 1987, la quale
stabilisce il "dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore
sotto l'aspetto psichico, sociale e ambientale, anche ai fini dell'apprezzamento dei
risultati degli interventi di sostegno disposti" e la "facoltà di sospendere il processo per
un tempo determinato, nei casi suddetti". Per questo, il giudice, quando ritiene di dover
valutare la personalità del minore, può disporre la sospensione del processo e affidare il
minore ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, affinché procedano
all'attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con lo stesso provvedimento il
giudice può imporre al minore, prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e
a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. Il giudice legittimato
a disporre la sospensione del processo ai sensi dell'art. 28, comma 1 c.p.p. min, è il
Giudice dell'udienza preliminare e il Giudice del dibattimento, cioè un giudice collegiale
che, grazie alla sua particolare composizione, ritiene opportuno nell'interesse del
minore disporre la sospensione del processo. Tanto si desume dall'art. 29, ultima parte
c.p.p. min, il quale dispone che in caso di esito negativo della prova, il giudice provveda a
norma degli artt. 32 (provvedimenti a seguito di udienza preliminare) e 33 (udienza
dibattimentale). Presupposto per la sospensione del processo è l'ingresso del minore nel
circuito penale a seguito di una notizia di reato. La sospensione del processo con messa
alla prova ha come finalità quella di impedire una pronuncia sul merito del caso e
consentire al minore di uscire dal circuito penale per evitare gli effetti stigmatizzanti
della condanna penale. Questo istituto può essere considerato come un procedimento
incidentale che s'inserisce nella fase dell'udienza preliminare o del dibattimento e cui la
dottrina attribuisce natura sostanziale. La sospensione del processo con messa alla
prova non fa riferimento all'accertamento della responsabilità del minore, ma come
scrive Palomba: la messa alla prova è una misura penale, anche se accompagnata da
elementi di sostegno educativo. Essa, in quanto sostitutiva e impeditiva di una pronuncia
di merito per il caso di esito positivo potrebbe assumere una valenza in qualche modo
sanzionatoria ed afflittiva.

Presupposto della sospensione del processo è la convinzione da parte del
giudice della responsabilità del minore imputato in ordine al reato per cui
si procede. La sospensione del processo è disposta quando il giudice
ritiene opportuno esaminare la personalità del minore all'esito della prova.
Essa può essere disposta per qualsiasi tipo di reato, anche per quelli per i
quali è prevista la pena dell'ergastolo, purché il giudice ritenga opportuno
valutare la personalità del minore. Infatti, ai sensi del primo comma dell'art.
28, seconda parte "il processo è sospeso per un periodo non superiore a
tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena
dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni;
negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale
periodo è sospeso il corso della prescrizione". Premessa indispensabile
affinché il giudice possa emanare ordinanza di sospensione del processo è
l'elaborazione del progetto d'intervento per opera dei servizi minorili
dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi degli enti
locali, così come risulta dall'art. 27 disp. att. min.

Il progetto, elaborato dai servizi, deve essere frutto di accettazione da
parte del ragazzo e che al giudice non spetta il compito di formazione del
progetto ma a lui compete il potere di prospettare modifiche e suggerire
integrazioni, per farlo divenire quanto più possibile idoneo alle esigenze del
minore.
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L'art. 27, comma 2, disp. att. min., mette in evidenza gli elementi fondamentali del
progetto d'intervento, tra l'altro:
Le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo
ambiente di vita. A tale fine, il consenso del minore al progetto deve essere pieno ed
espressione di una totale partecipazione a esso, deve essere frutto di un'adesione
spontanea e deve essere prestato solo dopo che egli sia stato informato delle
conseguenze di un eventuale esito negativo della prova.
Gli impegni specifici che il minorenne assume. Tali impegni devono essere adeguati alle
sue esigenze e capacità, devono tener conto del tipo di reato commesso e basarsi sulle
risorse che il territorio locale mette a disposizione per il minore.
Le modalità di partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell'ente locale.
Tali soggetti dovranno specificare nel progetto le modalità della loro partecipazione, la
quale deve essere improntata come una collaborazione, e cui è affidato il compito di
tracciare per il minore un progetto d'intervento il più possibile flessibile, in modo da
consentire modifiche ed essere adattato alle eventuali future esigenze del minore.
Le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a
promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. Queste prescrizioni
sono le uniche che sono demandate al potere del giudice.
Inoltre, il giudice valuta, in collaborazione con i servizi, se la messa alla prova deve essere
condotta in libertà oppure con l'integrazione di una misura cautelare. Il provvedimento
che dispone la sospensione del processo con messa alla prova è un'ordinanza.
Quest'ordinanza sembra avere una natura complessa, ossia:
Definitoria relativamente all'accertamento del fatto, della responsabilità dell'imputato,
della imputabilità; descrittiva con riguardo alla natura del progetto ed ai suoi contenuti;
prescrittiva con riferimento alla riparazione-conciliazione; ordinatoria rispetto alla
fissazione della nuova udienza.
Il secondo comma dell'art. 28 c.p.p. min., stabilisce che "con l'ordinanza di
sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell'amministrazione
della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle
opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno...". In particolare, il
legislatore ha assegnato ai servizi sociali ministeriali un ruolo da protagonista,
mentre ai servizi sociali dell'ente locale è affidato un ruolo di collaborazione, così
facendo il legislatore è andato in direzione contraria alla scelta del decentramento
amministrativo operata con il d.p.r. 616/77.
 I servizi, a norma del terzo comma dell'art. 27 disp. att. min., informano
periodicamente il giudice dell'attività svolta e dell'evoluzione del caso, proponendo,
dove lo ritengono necessario, modifiche al progetto, eventuali abbreviazioni di esso
ovvero, in caso di ripetute e gravi trasgressioni, la revoca del provvedimento di
sospensione. L'abbreviazione della messa alla prova, sarà chiesta quando l'impegno
del minore e i risultati raggiunti sono tali da essere espressione di un processo di
responsabilizzazione del minore, che non necessitano un ulteriore proseguimento
della prova.
 La revoca, invece, ai sensi del quinto comma dell'art. 28 ha presupposti diversi,
poiché a essa si può fare ricorso solo quando nel corso della messa alla prova, il
minore ha dato luogo a 'ripetute' e 'gravi' violazioni delle prescrizioni imposte dal
progetto. La valutazione della gravità delle trasgressioni è lasciata alla
discrezionalità del giudice.


Con l'ordinanza di sospensione il giudice può anche imporre al minore alcune prescrizioni dirette a
riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona
offesa dal reato. Questa è un'innovazione rilevante introdotta dal legislatore dell'ottantotto. Tuttavia il
tentativo di conciliazione con la vittima incontra molti ostacoli, dovute alle difficoltà delle vittime di
incontrare l'autore del reato.

Trascorre molto tempo tra il momento del reato e quello del giudizio e questo può produrre
notevoli mutamenti nel rapporto con la vittima. Talora, poi, manca proprio in alcune zone, in
particolare nel Sud Italia una "cultura della riconciliazione": si dimentica completamente, così, la
valenza educativa richiamata da questo aspetto della messa alla prova che consentirebbe invece un
utile momento di autoresponsabilizzazione e maturazione da parte del minore.

Nonostante ciò, è frequente l'introduzione nei progetti di messa alla prova di prescrizioni riguardanti
l'attività di volontariato, che mostra un crescente interesse verso una forma di risarcimento indiretto,
del danno arrecato dal reato.

L'ordinanza deve indicare anche il periodo di durata della messa alla prova, poiché questa serve al
minore ad avere un obiettivo per un periodo certo, pur potendo essere oggetto di modifiche. La
durata della messa alla prova deve essere commisurata al tipo di reato, e alla personalità del
minorenne, che si presume, evolverà in senso positivo. Ai sensi del terzo comma dell'art. 28 c.p.p.
min., "contro l'ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l'imputato e il suo
difensore", mentre il quarto comma stabilisce che "la sospensione non può essere disposta se
l'imputato chiede il giudizio abbreviato o il giudizio immediato".

Dopo la scadenza del periodo di prova, il presidente del collegio fissa l'udienza per la valutazione
della prova. In caso di esito negativo della prova, il processo deve riprendere da dove era stato
interrotto, e si avrà un rinvio a giudizio del minore, poiché appare improbabile una richiesta di non
luogo a procedere per non imputabilità, o una condizione d'improcedibilità dell'azione.

L'art. 29 c.p.p. min., stabilisce che la valutazione positiva della prova dipende da due accertamenti:
il primo riguarda la valutazione del 'comportamento del minore', e il secondo attiene
alla 'evoluzione della sua personalità'. A tale fine, i servizi presentano al giudice una
relazione sul comportamento del minore e una valutazione della sua personalità. Nel valutare il
comportamento del minore bisogna fare riferimento all'impegno dimostrato nel corso della
prova:

Sicuramente è un dato indicativo della buona riuscita della prova il fatto che il minore, nel corso
della stessa, abbia mostrato costanza e impegno nel partecipare ai programmi educativi, alle
attività e ai percorsi lavorativi predisposti dai servizi minorili.

Per quanto attiene alla valutazione dell'evoluzione della personalità del minore, essa dipende dalle
caratteristiche del progetto d'intervento. Se il progetto è stato costruito in modo da essere
praticabile e flessibile, e utilizzando tutte le risorse ambientali e familiari del minore, il suo esito
sarà sicuramente positivo. L'evoluzione della personalità del minore si ricava dal comportamento
tenuto dal minore nel corso della prova, come la sua capacità di accettare i cambiamenti della
sua personalità.

In breve, quando ciò è avvenuto, ed è stata così verificata la capacità del minore non solo di non
commettere più reati, ma di sapersi complessivamente adeguare a quel progetto di impegno cui
ha dato il proprio assenso, allora si può dire che l'esito della prova è stato positivo.

Se il minore ha compreso le ragioni per le quali fu disposta la sospensione, se vi ha risposto
positivamente e se il consenso da lui mostrato all'atto della accettazione si è mantenuto
costante. Se tali condizioni si sono avverate allora è evidente che il periodo di sospensione ha in
lui prodotto effetti positivi e cambiamenti che possono ritenersi stabili.

In caso di esito positivo della prova, il giudice dichiara con sentenza
estinto il reato. Se la dichiarazione è fatta in sede di udienza preliminare, è emessa
sentenza di non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., se, invece, avviene in sede
dibattimentale, è emessa sentenza di non doversi procedere ai sensi dell'art. 531
c.p.p. In caso di esito negativo della prova, l'art. 29, ultima parte, c.p.p. min., stabilisce
che il giudice 'provvede a norma degli articoli 32 e 33'. La sentenza di non luogo a
procedere per esito positivo della prova, non va iscritta nel casellario giudiziale
essendosi estinto il reato.

Negli ultimi anni le indagini sullo stato di applicazione della messa alla prova, hanno
reso evidente come essa è applicata a minori nei quali si rilevano indici prognostici
favorevoli, perché in possesso di migliori risorse familiari e sociali. Restano esclusi
dalla sua applicazione i minori stranieri, in particolare nomadi ed
extracomunitari, per mancanza di risorse familiari cui fare affidamento.
In questo modo si vengono a creare delle disparità di trattamento
nell'accesso a tale istituto, che pure negli ultimi anni ha avuto
un'applicazione molto estesa.
Patrizia Surace, avvocato criminologo
Mediazione penale tra esigenze di
deflazione giudiziaria ed obiettivi
di pacificazione sociale
21
L’obiettivo sociale
Così primo presupposto meritorio dovrebbe essere la
pacificazione sociale (con la vittima e l’ambiente
immediato del reato) da perseguirsi con la riparazione, il
risarcimento del danno ovvero con l’adoperarsi del reo a
favore dell’offeso.
Dunque meno carcere e più punitività non detentiva,
meno indulgenzialismo criminogeno e più premialità
meritata.
22
L’ontologia mediativa
La necessità di superare la contrapposizione ideologica
ed etica tra reo e vittima ed avvicinare l’intera comunità
alla difficile gestione della devianza, è frutto della
consapevole inefficacia del sistema penale come solo
strumento di prevenzione dei reati e degli approfonditi
studi sulla vittimologia.
L’attuazione dell’intervento mediativo è fondata su un
complesso di regole e modelli organizzativi finalizzati ad
un percorso di responsabilizzazione che si articola in più
momenti comunicativi diretti alla reciproca comprensione
tra le parti (vittima e reo).
23
L’ottica mediativa
• Il reato come fatto “emergente nel sociale”.
• La società è chiamata a compiere un imponente sforzo diretto alla
individuazione di valori specifici da perseguire mediante un cammino
di consapevolezza e di educazione alla solidarietà ed alla tolleranza.
• Nel delicato cammino riconciliativo il mediatore funge da
“catalizzatore” capace di condurre o accompagnare il processo in
corso, preparando le parti al confronto ed aiutandole a trarre
autonomamente gli elementi positivi e utili alla risoluzione del
conflitto.
• Il danno complessivo subito dalla persona offesa, impone un’ottica
risarcitoria più ampia di quella esclusivamente giuridico-economica.
Significa anzitutto capire la sofferenza fisica e psicologica della
vittima, e instaurare perciò una strategia "riparativa" adeguata a
tutti gli aspetti del danno subito (CERETTI - cit. ; ROSSI, 1999). 24
La valenza mediativa
La valenza terapeutica che si suole associare
all’intervento riparativo è perciò biunivoca: orientata, da
un lato, al soddisfacimento dei bisogni e alla promozione
del senso di sicurezza delle vittime, dall’altro
all’autoresponsabilizzazione ed alla presa in carico delle
conseguenze globali del reato (danno alla vittima e alla
comunità) da parte del reo.
25
Gli effetti concreti
1. La responsabilizzazione dell’autore di reato, poiché l’incontro
diretto con la vittima permette all’individuo di prendere coscienza
delle conseguenze concrete del proprio gesto. La
responsabilizzazione dell’autore di reato comporta poi una
diminuzione della recidiva;
2. La soddisfazione della vittima, che spesso sente il bisogno di
trovarsi di fronte all’autore del reato per capire le ragioni del suo
gesto, per avere un risarcimento del danno derivante dal reato o,
semplicemente, per esprimere la propria sofferenza direttamente a
chi l’ha causata. La soddisfazione può consistere in una
compensazione economica o in una riparazione simbolica;
26
Gli effetti concreti
3. la deflazione giudiziaria, poiché, soprattutto per i reati minori, ma
estremamente diffusi, consente di ridurre il carico di processi e quindi
di migliorare l’efficacia del sistema della giustizia in termini di
rapidità e qualità della risposta;
4. infine, sotto il profilo sociale in senso lato, la mediazione avvicina
la comunità al sistema penale, grazie alla partecipazione di
mediatori volontari ed ai programmi realizzati da agenzie o
associazioni di volontariato. Il coinvolgimento della comunità può
indubbiamente portare ad una maggiore consapevolezza della
pubblica opinione sulle conseguenze del crimine e della devianza e,
parallelamente, incoraggiare la comunità a sostenere le vittime,
riabilitare il reo ed attivarsi per la prevenzione del crimine.
27
La mediazione penale in ambito
europeo
PREMESSE: all’obiettivo di alleggerire il peso incombente sulla
giustizia contenziosa si aggiunge, altresì, una più celere soddisfazione
degli interessi della vittima (a cui può non sempre giovare l’inflizione
della sanzione penale al reo quanto, semmai, la riparazione della lesione
sofferta). Ciò ovviamente vale solo per i reati di minore rilievo ove il
conflitto generato dal fatto delittuoso può essere ricondotto e gestito
allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra
le parti e, soprattutto, il recupero del senso di sicurezza collettiva.
La nuova visione adottata dalla giustizia riparativa si propone di superare
la “logica del castigo” per giungere ad una lettura sociologicorelazionale del fatto costituente reato, ove il carattere afflittivo della
risposta sanzionatoria è sostituito dall’attivazione di forme di
riparazione del danno poste volutamente dal reo.
28
La mediazione penale in ambito
europeo
La comunità internazionale, attenta osservatrice delle istanze sociali
emergenti, propone nuovi strumenti per intervenire nella giustizia
penale al fine di renderla più costruttiva e meno repressiva.
Nel nostro sistema penale, senza abdicare al principio ineliminabile
della responsabilità penale personale e colpevole (art.27 commi 1 e 3
Cost.) di colui che viola le norme penali, nei casi in cui si è in
presenza di un reato di minima offensività, appare auspicabile ridurre
gli interventi giudiziari, in particolare quelli di natura coercitiva o
restrittiva. Di recente sono state adottate la Raccomandazione del
Consiglio d’ Europa n. (99) 19 sulla mediazione in materia penale e
le Regole minime delle Nazioni Unite sull’uso dei programmi di
giustizia riparativa nell’ambito penale, sviluppate nel corso
dell’ultimo Congresso mondiale sulla prevenzione del crimine ed il
29
trattamento dei delinquenti (Vienna 2000).
Linee guida
La Raccomandazione e le Regole minime stabiliscono che i
programmi di giustizia riparativa siano “generalmente fruibili ed
utilizzabili in ogni stato e grado del processo”, auspicando inoltre
la rilevanza della mediazione, sia essa pubblica o privata, attraverso
il riconoscimento ufficiale dei pubblici poteri.
In tal senso i centri di mediazione devono agire in un contesto
pubblicistico offrendo conseguentemente prestazioni gratuite lontane
da logiche di mercato che pericolosamente potrebbero ricondurre
tale servizio, ricco di implicazioni giuridico-sociali, in un’ottica
imprenditoriale pervasa da mere valutazioni quantitative.
30
Linee guida
Nella delicata e difficile gestione dei conflitti determinati dalla
commissione di un reato ruolo determinante è attribuito ai mediatori,
chiamati ad “orientare” emozioni e sentimenti, talvolta distruttivi,
espressi dall’autore del reato e dalla vittima, con il fine di dirimere il
contrasto sorto a seguito del fatto lesivo.
In tal senso la Raccomandazione puntualizza la seria, profonda e
continua opera di formazione che vede coinvolte le figure dei
mediatori i quali “dovrebbero essere reperiti in tutte le aree
sociali e possedere generalmente una buona conoscenza delle
culture locali e comunitarie” (art. 22 Racc).
31
Linee guida
Essenziali ed irrinunciabili taluni elementi caratterizzanti il procedimento
mediativo, qualunque sia la fase in cui esso si attiva:
- la mediazione deve basarsi sulla piena volontarietà delle parti, poiché questo
requisito ne rappresenta uno dei tratti distintivi rispetto al processo penale
tradizionale;
- è necessaria, per poter esperire la procedura, l'ammissione da parte dell'autore
di aver causato un danno. Pur senza violare il principio costituzionale della
presunzione di innocenza (art. 27 Cost), è necessario che il convenuto ammetta
quanto meno la sua responsabilità per ciò che è successo. Si tratta di un
riconoscimento di colpa di carattere informale ed extragiudiziale che non può
essere usato contro il soggetto nel caso in cui la mediazione fallisca. Il carattere
confidenziale del processo di mediazione rappresenta il presupposto per uno
scambio proficuo e un risultato costruttivo; pertanto la procedura non dovrebbe
essere pubblica a meno che le parti non vi acconsentano
32
Linee guida
-E’ opportuno che il servizio di mediazione sia pienamente
comprensibile alle parti per ragioni di uguaglianza e di accesso alla
giustizia;
- le parti dovrebbero ricevere una completa informazione sulla
procedura di mediazione, esse dovrebbero cioè avere diritto ad una
spiegazione esauriente ed esaustiva su come si svolge la procedura di
mediazione, da quale servizio e da chi viene gestita, sulle sue possibili
conseguenze in termini di risvolti penali, e sui risultati concreti che si
possono ottenere. Le informazioni dovrebbero essere fornite nella forma
più obiettiva possibile, garantendo che le parti non siano soggette ad
alcuna forma di pressione, così come è necessario che il mediatore stesso
si assicuri che nessuna delle due parti coinvolte nel conflitto riesca ad
esercitare alcun tipo di pressione o minaccia;
33
Tipologie (Censis)
Mediazione vittima-autore di reato
Il modello più usuale di mediazione è quella vittima - autore del reato
(victim-offender mediation), che coinvolge direttamente le parti: ne
esistono numerosi esempi nel Regno Unito (v. tra tutti, l’Home-Office
founded project), in Germania (come il Weisser-Ring, Arbeitskreis der
Opferhilfen in Deutchland), in Belgio (Slachtofferhulp Vlaanderen
V.Z.W. voor Slachtofferhulp).La mediazione si può svolgere in
presenza di entrambe le parti coinvolte (mediazione diretta) o, nel
caso in cui la vittima non intenda incontrare l'aggressore, in incontri
separati tra il mediatore e ciascuna delle parti (mediazione indiretta).
Esistono comunque diverse varianti di questo modello
34
Tipologie di Restorative Justice Programs (indicati
dall’Intemational Scientific and Professional Advisorv Council –
ISPAC-)
In accordo con quanto suggerito dal § 7 della risoluzione dell’
Assemblea Generale delle Nazioni Unite 53/10 del 9 Dicembre
1998 e dei §§ 5 e 11 della risoluzione 54/12.5 del 17 Dicembre
1999, i singoli tipi di Restorative Justice Programs risultano:
35
Apology (scuse formali)
comunicazione verbale o scritta indirizzata alla vittima,
in cui l’autore del reato descrive il proprio
comportamento e dichiara di esserne pienamente
responsabile.
Community
family
Group Mediazione "allargata" a tutti i soggetti che sono stati
Conferencing (dialogo esteso ai coinvolti dalla commissione di un reato (il reo e la vittima,
gruppi parentali)
in primis, ma anche i familiari delle parti in conflitto).
Fase pre-processuale
Community/neighborhood victim Descrizione da parte di una vittima individuale o anche
Impact Statements (VIS)
della comunità, degli effetti e condizionamenti di un
Fase processuale
determinato reato. Il VIS, redatto in forma scritta o orale,
costituisce fonte di informazione per la Corte competente
a conoscere del fatto di reato oppure per l’Ufficio del
Parole. Esso viene utilizzato come parte del fascicolo del
giudice che decide sulla pena (pre-sentence report) ovvero
come fonte di dati e informazioni sul reo (preparole
investigation).
Community Restorative Board
Gruppo di cittadini, previamente preparato, con il
compito di svolgere una serie di colloqui con il reo circa la
natura del reato e le conseguenze dannose di esso allo
scopo di proporre azioni riparative che il reo si impegna a
36
compiere
Community
Sentencing
Circles
(consigli commisurativi)
Peacemaking Si sostanzia in una sorta di partnership della
comunità nella gestione del
"processo"(commisurazione della pena in senso lato)
attraverso la quale si cerca di raggiungere un accordo
su un programma sanzionatorio a contenuto
riparativo che tenga conto dei bisogni di tutte le parti
interessate da una conflitto.
Community Service
Prestazione, da parte dell’autore del reato, di una
attività lavorativa a favore della comunità
Compensation Programs
Programmi di compensazione dei danni da reato
(spese per assistenza medica o psicologica, vitalizi
per
vittime
divenute
disabili)
predisposti
esclusivamente dallo Stato.
Diversion
Fase pre-processuale o post-processuale
(diversion after conviction)
Termine generalissimo che indica ogni tecnica volta
ad evitare che l’autore di un reato entri nel circuito
penale-processuale
Financial Restitution to Victims
Procedimento attraverso il quale la Corte competente
a conoscere di un reato, avvalendosi anche del Vitcim
Impact Statements quantifica il danno provocato
derivante dall’illecito ed impone al reo il pagamento
di una corrispondente somma di denaro.
37
In Italia
Il principio della obbligatorietà dell’azione penale, pur escludendo la
legittimità di pratiche mediative come meri strumenti di riduzione
delle complesse procedure processuali, consente, nell’ambito del
processo penale minorile, la possibilità di ridisegnare i confini
dell’intervento penale.
Difatti il legislatore italiano, rifacendosi ai modelli di diversion e
probation adottati da molti paesi europei e dagli Stati Uniti, ha
individuato taluni settori per eventuali interventi di conciliazione e
riparazione precedenti il dibattimento ed il giudizio.
38
In Italia: la G.R. per i minori
PROGRESSIONE ASCENDENTE
Mediazione
Mera riparazione
Lavoro x
comunità
Riparazione globale
dell’offesa
Riparazione materiale
Riparazione simbolica
39
In Italia: la G.R. per i minori
Non esiste un numerus clausus sui reati
mediabili. Le fattispecie codicistiche
astrattamente “mediabili” sono: delitti contro
l’onore (es. ingiuria e diffamazione -artt. 594 e
595 c.p.); delitti offensivi di interessi
individuali disponibili, si pensi al furto, alla
sottrazione di cose comuni, al
danneggiamento, al deturpamento e
imbrattamento di cose altrui(artt. 624, 627,
635 e 639 c.p.);delitti offensivi di interessi
personali indisponibili, (es. lesioni personali artt. 582, 590 c.p.).
40
In Italia: la G.R. per i minori
In fase pre-processuale: articolo 9 del D.P.R. 448/1988,
comma 1 “il Pubblico Ministero e il Giudice
acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse
personali, familiari, sociali e ambientali del
minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il
grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale
del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e
adottare gli eventuali provvedimenti civili”.
L’indagine in esso prevista è multifattoriale: grado di imputabilità
e formulazione del giudizio di colpevolezza; decisione in merito alla
rilevanza sociale del fatto [articolo 27 D.P.R. 448/1988];
individuazione e/o applicazione delle misure cautelari; definizione del
complesso di prescrizioni per la sospensione del processo con messa
alla prova [articolo 28 D.P.R. 448/1988]; scelta delle sanzioni
sostitutive da applicare in caso di condanna.
41
In Italia: la G.R. per i minori
In fase pre-processuale: articolo 9 del D.P.R. 448/1988,
comma 2 “il Pubblico Ministero o il Giudice possono avvalersi,
oltre che degli strumenti di accertamento ordinari anche di
informazioni assunte da persone che abbiano avuto rapporti con
il minorenne servendosi, altresì, del parere di esperti senza
alcuna formalità”
UFFICIO MEDIAZIONE
Responsabilità (STATICA) per
il passato: reato commesso
Minore
parte attiva
Responsabilità (DINAMICA)
per il futuro: nei confronti della
vittima
42
In Italia
Ben conosciuto ed ormai consolidato l’ambito operativo cui si riferiscono gli artt. 9
e 27 del DPR 448/88 per i quali è proprio durante l’accertamento dell’imputabilità
e l’acquisizione di elementi circa le condizioni e le risorse dei minori, che P.M. e
Giudice possono cogliere l’intento dell’imputato di riparare al danno compiuto,
prediligendo così la finalità di giungere ad un proscioglimento per irrilevanza del
fatto.
Inoltre, a norma dell’art. 28 del DPR 448/88 la mediazione può inserirsi
nell’ambito della sospensione del processo e conseguente messa in prova: essa
costituisce allora una delle prescrizioni del Giudice diretta alla riparazione delle
conseguenze del reato o alla promozione della conciliazione del minore con
l’offeso.
La mediazione, dunque, si pone come un sistema complementare al procedimento
penale tradizionale od anche un’alternativa ad esso. Grazie alla sua flessibilità ed
alla sua natura partecipativa essa ha anche il pregio di ridurre i provvedimenti di
natura cautelativa e di conseguenza i costi della custodia cautelare, nonché di
43
snellire le procedure e diminuire il carico giudiziario.
In Italia: la G.R. per i minori
La mediazione può svolgersi anche in riferimento al perdono
giudiziale.
Il P.G., ex art. 169 c.p., è un istituto di carattere generale
applicabile, anche più di una volta, quando il reato per cui si
procede è punibile in concreto con una pena non superiore a
due [2] anni ed è concedibile a condizione che si possa
formulare un giudizio prognostico positivo in riferimento alla
non recidivazione della condotta deviante del minore. Questo
giudizio è ricavabile dai parametri di cui all’articolo 133 c.p
(tuttavia il giudice minorile che non volesse ricorrere al
perdono giudiziale -provvedimento irrevocabile- ben potrebbe
applicare il 164 c.p. concedendo così la sospensione
condizionale della pena che, invece, può essere revocata e che
già solo per questo può motivare il minore a tenere un
comportamento conforme al diritto (Cfr.Cass. Pen., 10
44
febbraio 1992)
In Italia: la G.R. per i minori
Mediatore “specchio” ed
“equiprossimo” (Ceretti)
L’essenza spazio-temporale:
hic et nunc dell’incontro
IL “TEMPO NUOVO”: IL
MOMENTO PRESENTE
(LENZI)
45
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Il processo penale minorile - Dipartimento di Scienze Politiche e