Rend. Fis. Acc. Lincei s. 9, v. 16:227-295 (2005) STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO NEL XI SECOLO D.C.: I POTERI INSITI NELLE PIETRE SECONDO MICHELE PSELLO Memoria (*) di ANNIBALE MOTTANA ABSTRACT. Ð History of ancient Mineralogy. I. Greek mineral science in 11th century's AD Byzantium: the powers of stones according to Michael Psellus. A new, full Italian translation is given of Michael Psellus' «On the powers of stones». This short text is cosidered to be the testimony of all knowledge on minerals surviving at Byzantium during the second half of 11th century, as it draws information from much older scientific texts, such as Xenocrates of Ephesus' Lithognomon and Dioscorides of Anazarba's «On medical matter», both written ca. 50-70 AD and summarized by the elder Pliny in his mighty encyclopedia. The former treatise did not reach us but for quotations by Latin, Greek and Arab writers; by contrast, the latter one is still existant, as it was used as the textbook on pharmacology in most European universities till well into the 17th century. Psellus briefly summarizes information on 24 stones he claims to be experienced of, and adds of his own only a few suggestions on their beneficial powers. His recipes are still free of the alchemical magics typically imbuing contemporaneous Arabic science, and recall some dubious therapeutical practices that Graeco-roman medical science had inherited from Chaldean and Egyptian experience. There is nothing added of the Christian tradition attached to stones. Therefore, Psellus' text actually uncovers the state of art of mineral understanding at the end of the «rationalistic» phase of Byzantine Renaissance (843-1025) i.e., just a few decades before most if not all sound Greek scientific tradition was lost under the ruin of the Byzantine civilisation that followed the conquest of the city by the crusaders (1204). Moreover, Psellus' work helps clarifying the role that Greek texts had in the development of mineral studies in medieval western Europe, before the entry of Arabic science which prompted its independent scientific revolution. KEY WORDS: Mineralogy; Gemmology; Medicine; Minerals; Gemstones. RIASSUNTO. Ð Sulla base di una nuova traduzione direttamente dal greco dell'operetta di Michele Psello «Sulle proprietaÁ delle pietre», ed inoltre di informazioni sull'autore e dello studio sulle sue fonti, eÁ valutato lo stato di sviluppo delle scienze mineralogiche a Costantinopoli alla fine del XI secolo d.C., al termine della grande stagione della Rinascenza Bizantina (843-1025) e prima del definitivo collasso della civiltaÁ bizantina conseguente alla quarta crociata (1204). Per quanto rimasto incompleto (quasi un abbozzo), il trattato di Psello dimostra che in quel periodo le nozioni sui minerali si rifacevano ancora alle conoscenze empiriche accumulate dagli scienziati ellenistici, fondandosi in particolare su compilazioni del periodo greco-romano come il Lithognomon di Senocrate da Efeso, scritto all'inizio dell'era volgare. Queste nozioni erano giaÁ in larga parte note anche nell'Europa occidentale per effetto della riduzione in latino dell'opera di Senocrate eseguita da Plinio il Vecchio. Esse erano integrate a Bisanzio con credenze sull'efficacia dei poteri terapeutici delle pietre rifacentisi non tanto al De materia medica di Dioscoride d'Anazarba, pure scritto all'inizio dell'era volgare, quanto piuttosto a superstizioni tra mediche e magiche ereditate da autori mediorientali ed egiziani d'etaÁ greco-romana, che avevano proposto l'utilizzo delle pietre per prevenire e proteggere dai malanni, oltre che per il loro benefico influsso astrale. Mancano evidenze di significativi influssi della tradizione mistica giudeo-cristiana relativa alle pietre bibliche e non c'eÁ neppure traccia della magia alchemica, che svilupperaÁ invece la sua influenza sulla Mineralogia europea a partire dalle traduzioni dall'arabo e continueraÁ a mantenerla sensibile per vari secoli a venire, fino a quando l'Occidente di lingua latina saraÁ maturato al punto da essere in grado di esprimere la sua propria rivoluzione scientifica. (*) Presentata nella seduta del 16 dicembre 2005. 228 A. MOTTANA 1. INTRODUZIONE: LO STATO DELLE CONOSCENZE SUI MINERALI IN EUROPA ALL'INIZIO DEL SECONDO MILLENNIO «There is no reliable published survey of the lapidary writings between late antiquity and the late eleventh century» (Kitson, 1978: p. 9). Questa affermazione di un profondo conoscitore della letteratura medievale pone un serio problema per chiunque voglia tracciare lo sviluppo storico della Mineralogia come scienza dalle origini ai tempi moderni. In realtaÁ, il problema eÁ incomparabilmente maggiore: c'eÁ, infatti, una quasi totale carenza di informazioni su tutto lo sviluppo culturale europeo durante l'alto Medioevo tra VI e XI secolo d.C., con l'eccezione, ovviamente, di cioÁ che riguarda la religione. Alcuni accantonano questa realtaÁ ricordando che, nei periodi bui seguiti alle invasioni barbariche, la cultura si era ridotta a mera ripetizione di alcune nozioni elementari, spesso mal comprese (Bischoff, 1951), altri addirittura sostengono che il declino era iniziato giaÁ al termine dell'ellenismo (Russo, 1996) ed era stato motivato dalla scarsa inclinazione dei Romani per la speculazione innovativa (Stahl, 1991); in tutti prevale l'opinione che la ripresa culturale europea fu rallentata e rinviata nel tempo a causa della diffusa inerzia spirituale indotta dalle previsioni millenaristiche. Quale che sia la ragione, eÁ incontestabile che la nostra conoscenza dello stato della cultura, ed in particolare della scienza, durante tutto l'alto Medioevo eÁ molto ridotta (RicheÂ, 1972; Irigoin, 1975; Haren, 1985). La ripresa culturale europea eÁ ben documentata solo a partire dal XII sec. e ha potuto avere inizio e poi consolidarsi soprattutto grazie ad un trasferimento di cultura che all'Europa di lingua latina provenne dagli Arabi attraverso la penisola iberica islamizzata («al-Andalus»: Vernet, 1999)(1). Fu questo trasferimento da Sud verso Nord ad innescare il rinnovamento culturale mettendo a disposizione degli studiosi medievali (e, tramite loro, all'emergente ceto mercantile laico) una parte della cultura greca antica: quella cultura che era andata dispersa nella sua parte migliore e innovativa durante i periodi piuÁ bui dell'alto Medioevo. In realtaÁ, la ripresa culturale europea, dopo il crollo dell'impero romano d'Occidente, fu un lento processo quasi millenario, in atto giaÁ da molto prima del XII sec., molto complesso e difficilmente delimitabile tanto nel tempo quanto nello spazio. Non eÁ infatti vero che l'alto Medioevo fu un periodo di decadenza completa. Una qualche forma di sopravvivenza della grande cultura antica si ebbe, anche se in tempi diversi e in aree marginali, come nella penisola iberica e nelle isole britanniche. Analogamente, non eÁ del tutto vero che la ripresa sia stata conseguenza solo dell'influsso culturale arabo. Il trasferimento di cultura dalla Spagna islamizzata l'acceleroÁ senz'altro (Vernet, 1999), poiche riguardava non solo la cultura greca classica ed ellenistica (VI-I sec. a.C.), nella forma rielaborata in epoca greco-romana (I sec. a.C. - VI sec. d.C.) in particolare in Siria, in Palestina e in Egitto, ma anche quella sviluppatasi qui in forma sincretica dopo la conquista islamica (VIII-XI sec. d.C.), grazie a contributi provenienti dalla Mesopotamia (1) EÁ questa la tesi ben motivata, ma avanzata in modo quasi provocatorio, di Haskins (1927). Secondo lui in Europa si ebbe un «Rinascimento del XII secolo» che precedette e per molti versi anticipoÁ, condizionandolo, quello poi verificatosi a cavallo dei secoli XV e XVI (che era stato definito giaÁ dal Burckhardt, 1860). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 229 e dalla Persia (Ullmann, 1972a), dall'India (Finot, 1896) e perfino da regioni asiatiche mai toccate dalla cultura greco-romana. Tuttavia, alla ripresa culturale europea in generale contribuõÁ anche, seppure in modo limitato, il travaso diretto di cultura greca, sia classica sia ellenistica sia bizantina, che avvenne da Est verso Ovest: in pratica, da Costantinopoli, centro dell'impero d'Oriente, verso un'Europa ormai etnicamente mista latinogermanica, ma culturalmente ancora uniformemente di lingua latina, sede di un nuovo impero che si proponeva come erede del demolito impero d'Occidente. Inizialmente, nel periodo dei torbidi religiosi a Bisanzio (VII-IX sec. d.C.), tale travaso fu scarsissimo, anche a causa di una cesura prodottasi tra le due parti dell'antico impero romano dopo che le invasioni germaniche prima e quelle arabe poi avevano espulso dall'Occidente i rappresentanti del solo impero sopravvissuto e ne avevano quindi rimosso l'influenza culturale residua. Solo in alcune zone marginali erano rimaste alcune isole di grecitaÁ (Apulia, Calabria, Sicilia). In Sicilia, in particolare, la breve dominazione araba lascioÁ sopravvivere la tradizione greca, mai obliterata totalmente durante l'impero romano e rivitalizzata, anzi, nei tre secoli della diretta dominazione bizantina (Irigoin, 1975; Tramontana, 1999). GiaÁ all'inizio del XI sec., peroÁ, le repubbliche marinare avevano cominciato ad essere molto attive nei loro rapporti commerciali con Bisanzio. Grazie a loro comincioÁ cosõÁ anche il trasferimento diretto di cultura dal mondo greco del levante a quello latino. In particolare, Venezia inizioÁ un commercio librario, reso possibile dai privilegi che le furono concessi da Alessio I Comneno con una crisobulla (1082), che portoÁ allo sviluppo di conoscenze di ogni genere. CioÁ avvenne in un momento (ca. 1115) quasi altrettanto precoce del trasferimento dal mondo islamico mediato attraverso gli Arabi e gli Ebrei di Spagna. Lo dimostrano i casi di Giovanni Afflacio, Giacomo da Venezia e Stefano d'Antiochia. L'influsso diretto duroÁ almeno fino al 1230 ca., vale a dire fino a Michele Scoto, passando per momenti molto significativi, come dimostrano le traduzioni di Eugenio l'Emiro e di Enrico Aristippo (Tramontana, 1999: pp. 35-37). Tuttavia, non ebbe ne lo spessore culturale ne l'effetto generale (e per conseguenza l'ampia diffusione) di quello indiretto, mediato dagli arabi e dagli ebrei, proveniente dalla Spagna e da Toledo in particolare, dove operoÁ, tra gli altri, Gherardo da Cremona, il cui ruolo per la rinascita culturale europea eÁ primario (Vernet, 1999: p. 171), anche se eÁ ora dimenticato dai piuÁ. Va sottolineato, in questo panorama sommario dei motivi della ripresa culturale europea all'inizio del basso Medioevo, che tutto cioÁ che di culturale riuscõÁ a passare da Bisanzio verso Occidente non riguardoÁ soltanto la grecitaÁ classica, che era stata quasi totalmente sopraffatta da una cristianizzazione particolarmente settaria, quanto piuttosto la sua elaborazione in senso cristiano e quelle innovazioni che a Bisanzio erano arrivate dal lontano Oriente ancora attraverso gli Arabi e che lõÁ erano state assimilate e perfezionate durante qualcuna delle brevi stagioni di rinascenza culturale che caratterizzarono l'impero bizantino durante la sua lunga e irreversibile decadenza (Kazhdan, 1995: p. 54). Accanto alla cultura in generale, anche alla Scienza avvenne di riprendere a svilupparsi dopo l'anno 1000 e, soprattutto, dopo il XII secolo. Allora, anzi, essa assunse un ruolo veramente rilevante nella rifondazione culturale dell'Europa latina (Grant, 1996): forse il ruolo piuÁ importante che essa abbia mai avuto prima della rivoluzione scientifica del XVII 230 A. MOTTANA sec. e della conseguente rivoluzione industriale. In particolare, le scienze mineraria e mineralogica si erano ridotte, dopo che le invasioni barbariche ebbero fatto crollare l'impero nell'Europa occidentale, ad una semplice ripetizione d'attivitaÁ sperimentali di livello poco piuÁ che artigianale, trasmesse quasi solamente attraverso un rapporto d'apprendistato. Tra le nozioni pratiche tramandate vi erano alcune tecniche metallurgiche che coinvolgevano l'uso o il riuso dei minerali metallici, poiche non cessoÁ mai lo sfruttamento dei giacimenti piuÁ importanti, anche se su piccola scala. Inoltre, non solo le gemme continuarono ad essere cercate ed usate, ma non mancoÁ l'applicazione di qualche tecnica volta al loro abbellimento artificiale, basata quindi su una conoscenza mineralogica pratica sõÁ, ma non del tutto elementare. Tutto cioÁ, peroÁ, costituisce tecnica artigiana, non scienza mineralogica. L'interesse per uno studio piuÁ approfondito dei minerali, che pure ci fu perche ne sono testimonianza le trascrizioni di trattati greci e romani e la realizzazione di compendi, fu scarso dovunque. Le stesse nozioni riguardo alle pietre preziose, per esempio, rimasero sempre confinate ad una ripetitiva descrizione letteraria, con relativa interpretazione allegorica, delle dodici gemme del «razionale», vale a dire del pettorale del sommo sacerdote ebreo descritto nell'Esodo (28.17-21; 39.10-13)(2), oppure di quelle citate nell'Apocalisse (21.19-20) come costituenti di prestigio delle strutture della cittaÁ di Dio (Ladner, 1942; Jart, 1970). Pure, da questa giustificazione religiosa nacque una tradizione di lapidari cristiani che duroÁ oltre un migliaio di anni (Baisier, 1936; Meier, 1977; Friess, 1980). Il primo autore di questa serie eÁ, probabilmente, Epifanio (ca. 308/315-405), vescovo di Costanza a Cipro, la cui elaborazione allegorica delle dodici gemme ci eÁ pervenuta solo frammentaria in greco (GuÈnther, 1898: pp. 743-773), ma eÁ integrabile grazie a varie antiche versioni ed epitomi: una latina (P.F. Foggini, 1743 in Dindorf, 1862: pp. 143-223) e altre in varie lingue orientali tra cui la siriana, georgiana, armena e copta (Blake, 1934)(3). Tolta di mezzo questa ripetitiva, quasi pedissequa, serie di descrizioni delle gemme bibliche in chiave allegorica, per tutto l'alto Medioevo vi sono solo pochissime e saltuarie prove documentarie di un interesse colto, che vada al di laÁ del superficiale. Solo due autori, in sostanza, hanno un certo spessore culturale: in ambito latino (2) Nove di queste pietre sono citate in Ezechiele (28.13) come oggetti a decoro per l'uomo nel paradiso terrestre, concessigli da Dio e successivamente revocatigli dopo la caduta. (3) Fanno parte della tradizione lapidaria cristiana anche gli Stromata di Clemente d'Alessandria (ca. 145/150 - ca. 211/215), in cui sette pietre del pettorale sono interpretate come rappresentanti le sette sfere planetarie (5.37, StaÈhlin e FruÈchtel, 1960: pp. 351-356) e la Clavis di Melitone, vescovo di Sardi (morto ca. 190) che eÁ la descrizione di un tesoro fatto di gemme e di metalli, di chiara derivazione ellenistica perche contiene elementi magici e astrologici, di ciascuno dei quali eÁ peroÁ data l'interpretazione allegorica in senso cristiano. La Clavis ci eÁ peroÁ pervenuta solo in traduzione latina (Pitra, 1884: t. II, pp. 6-154) e per molti eÁ un apocrifo medievale. La tradizione mineralogica greca d'ispirazione cristiana ha un seguito in epoca bizantina con la Quaestio XL di Anastasio il Sinaita, nel VII sec. d.C., e con il Chronicon (che peroÁ contiene solo un elenco) di Giorgio Monaco, nel IX sec. Entrambi questi autori apportarono piccole variazioni alla nomenclatura usata nella Bibbia dei Settanta che si rifletteranno anche su Psello e poi, soprattutto, su Teodoro Meliteniote (DoÈlger, 1919: p. 89). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 231 Isidoro(4) (ca. 560-636), vescovo di Siviglia, e in ambito greco Fozio(5) (ca. 810 - ca. 893), patriarca di Costantinopoli. Manca a tutt'oggi, almeno per l'ambito greco, l'evidenza di una ricerca pratica, che certamente vi fu perche nessun impero avrebbe potuto reggersi tanto a lungo se non avesse convenientemente utilizzato una risorsa primaria quali i prodotti delle miniere. Sono note, peroÁ, solo rielaborazioni erudite della grande tradizione antica, del tipo di enciclopedie come la Suda(6), per compilare le quali, tuttavia, si era prima resa necessaria la trascrizione degli scritti dal rotolo di papiro al codice in pergamena (Cavallo, 1975; Mango, 1998), perpetuandone cosõÁ la conservazione fino a quando i testi su questo nuovo supporto scrittorio non vennero a cadere nelle mani degli studiosi occidentali che fioccarono a depredarli nell'effimero impero latino d'Oriente(7). CioÁ che avvenne a Costantinopoli nel 1204 e dopo esce, peroÁ, dalle considerazioni che voglio sviluppare in questa nota, sia in ordine di tempo sia nel tipo d'influsso che ebbe sulla cultura europea occidentale, ormai volgente al XIII sec. e all'Umanesimo. Nella seconda metaÁ del XI sec., proprio poco prima di quell'anno 1100 da cui prende inizio, almeno formalmente, il «Rinascimento del XII secolo», si presentano due notevoli eccezioni allo stato di letargo in cui era caduto lo studio sui minerali in Europa. In ambito culturale di tradizione e di lingua latina la figura d'eccezione eÁ Marbodo, vescovo di Rennes (ca. 1035-1123), autore(8), tra il 1062 e il 1081, di un Liber lapidum seu de gemmis che ebbe amplissima risonanza per almeno quattro secoli; in quello di tradizione e di lingua greca l'uomo d'eccezione eÁ Michele Psello. (4) Un intero libro delle Etymologiarum libri XX eÁ dedicato alle pietre (t. XVI: De lapidibus et metallis), di cui un capitolo riguarda quelle piuÁ insigni. Si tratta sempre di brevissime definizioni, ma eÁ quanto di meglio gli studiosi di lingua latina medievali poterono disporre per almeno mezzo millennio. (5) La Bibliotheca (in parte pubblicata ora in italiano: Wilson, 1992) contiene vari riferimenti a metalli e gemme (magnete, smeraldo, oro ecc.) e ad autori antichi che li avevano studiati (Dioscoride, Galeno, Oribasio). Contiene anche alcuni particolari curiosi ricavati da opere ora perdute, come ad esempio quelle di Ctesia di Cnido, medico alla corte del re di Persia dal 405 al 397 a.C. (6) L'enciclopedia Suda (X sec.) eÁ piena di termini minerari anche antichissimi e di riferimenti alle gemme e ai minerali descritti in varie opere soprattutto ellenistiche e greco-romane (Adler, 1928-38). Anche il filone di studi che usa le pietre come farmaci o come amuleti per ottenere la guarigione (i cosiddetti «lapidari medici») ebbe un certo numero di seguaci bizantini (Aetio d'Amida, nel VI sec.; Paolo d'Egina, nel VII sec.; uno pseudoDioscoride e uno pseudo-Ippocrate tra il VII e il X sec.: cf. Wellmann, 1935; Wirbelauer, 1937), ma si trattoÁ sempre e solo di rielaborazioni piuÁ o meno fantasiose dell'opera di Dioscoride Peri+ y=lhQ i$ atrikh*Q (De materia medica: Wellmann, 1907-14; cf. Mattioli, 1557), la cui conoscenza a Bisanzio tra VI e XVII sec. ci eÁ assicurata dal fatto che era lõÁ conservato il celebre codice miniato che si trova ora a Vienna (Mazal, 1998; Mottana, 2002). (7) Massimo tra questi fu Guglielmo da Moerbeke (ca. 1215-1286). La sua grande attivitaÁ, che corona, emendandola, tutta l'attivitaÁ di traduzione svolta tra il 1100 e il 1275 nell'Europa di lingua latina, fu peroÁ conseguenza del fatto che gli Scolastici duecenteschi (in primis Tommaso d'Aquino) non si accontentavano piuÁ di cioÁ che era loro pervenuto attraverso la mediazione araba e volevano tornare alla fonte greca, cioeÁ all'originale, anche per meglio chiarirsi cioÁ che essi giaÁ conoscevano tramite i commentatori arabi ed ebrei e che, piuÁ o meno ingenuamente, ritenevano essere stato da loro frainteso, quando non alterato, laÁ dove ne riscontravano disaccordi con la rivelazione cristiana. (8) PiuÁ propriamente: versificatore, poiche il suo testo eÁ il rifacimento in esametri (anche se notevolmente modificato) di una versione latina dell'antico lapidario di Damigerone-Evace, scritto in greco all'inizio dell'era volgare e pervenutoci solo in tarde versioni latine in prosa (Halleux e Schamp, 1985). 232 A. MOTTANA Questi due personaggi sono contemporanei, ma vanno tenuti nettamente distinti tra loro, tanto piuÁ che non esiste neppure la minima evidenza che uno sapesse dell'esistenza dell'altro. Nessuno dei due fu un ricercatore in senso moderno, ne un erudito di conoscenza eccelsa. Tuttavia, per quanto modesti possano apparire nella valutazione di uno scienziato moderno, Marbodo e Psello sono due fari di luce nel buio generale del loro secolo. Proprio per le loro contemporaneitaÁ e analogia, infatti, le opere che hanno scritto sono in grado di fornirci un quadro dello stato delle conoscenze, degli interessi e dello sviluppo della cultura e della scienza in due aree molto distanti dell'Europa medievale e solo pochi decenni prima dell'influsso culturale proveniente dall'area araba. Che manchi questo influsso eÁ facilmente comprensibile per Marbodo, che viveva in un'area isolata della Francia centrale lontano dalla Spagna e dalla Sicilia; lo eÁ di meno per Psello, dato che esistevano relazioni continue tra l'impero bizantino e il mondo islamico, fosse esso il califfato oppure uno dei tanti sultanati in cui questo si era frazionato (Geanakoplos, 1979; Felix, 1981). In altra sede sto studiando l'opera e l'attivitaÁ di Marbodo. In questa mi concentreroÁ su Psello. In entrambi i casi ± ovviamente ± limiteroÁ il mio esame al contributo apportato alla scienza dei minerali, senza entrare in alcuna valutazione delle numerose altre opere di poesia religiosa che resero celebre l'uno, ne di quelle di filosofia e politica che fecero emergere l'altro. Nel caso di Psello, questa precisazione eÁ particolarmente opportuna, perche il suo testo piuÁ importante sulle pietre eÁ giaÁ stato oggetto recentemente di due studi a carattere interpretativo: il primo ne daÁ una lettura in chiave teologica (Galigani, 1980: p. 16) e il secondo tende a metterne in evidenza il contenuto di carattere medico (Volk, 1990: p. 137). Prima peroÁ di questi due aspetti, che pure sono senz'altro presenti nell'opera di Psello sulle pietre, considero non tanto opportuno, quanto assolutamente indispensabile affrontarne lo studio da un punto di vista materiale o, se si preferisce, sostanziale, vale a dire strettamente mineralogico: bisogna cercare di individuare che composto naturale fosse effettivamente quello che Psello voleva descrivere e al quale voleva poi attribuire risvolti medico-farmacologici e/o significati traslati. Condivido, infatti, l'ormai antica opinione dello Hiller (1931: p. 376): fin tanto che l'identificazione di una pietra non eÁ suffragata dall'esame oggettivo di fonti sicure non puoÁ essere considerata altro se non un'ipotesi di lavoro e questa puoÁ diventare fonte di speculazioni fantastiose. Il programma che mi sono posto non vuole affatto essere un tentativo di colmare la lacuna denunciata dal Kitson (1978), ma cerca solo di delimitarla con l'esame dettagliato di due opere di riferimento, scritte entrambe ad uno dei suoi due estremi temporali: quello a noi piuÁ vicino. In altre parole, intendo esaminare lo stato della scienza dei minerali nell'Europa cristiana alla fine del XI sec., prima dell'ingresso delle nuove conoscenze provenienti dalla Spagna arabizzata: conoscenze, queste, formatesi in parte su lontane premesse comuni a tutta l'Europa cristiana, perche derivate dalla speculazione greca rielaborata dal mondo greco-romano, in parte distinte ed autonome, che l'Islam aveva sviluppato direttamente oppure aveva mutuato da culture che non avevano avuto contatti con quella greco-romana. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 233 2. MICHELE PSELLO: UN PERSONAGGIO ESTREMAMENTE CONTROVERSO Costantino Psello (Kriaras, 1968), divenuto e rimasto noto nei secoli come Michele dal nome che s'era scelto nel farsi monaco quando, caduto in disgrazia per motivi politici, dovette rifugiarsi per un breve periodo nel monastero della Bella Fonte sul Monte Olimpo di Bitinia (luglio(9) 1054 - fine 1055), nacque in un sobborgo di Costantinopoli all'inizio del 1018(10) e morõÁ in luogo e in data non ancora ben chiariti e compresi in un intervallo di tempo incredibilmente lungo: tra 1078 e 1097(11). EÁ generalmente ammesso che egli fu la massima personalitaÁ culturale della seconda fase dell'Umanesimo bizantino: quel periodo di transizione tra la fine della dinastia Macedone e il consolidarsi di quella Comnena che fu di crisi politica profonda per l'impero, ma che coincise con un risveglio culturale cosõÁ intenso da far parlare perfino di un pre-Rinascimento, se non di un vero e proprio Rinascimento Bizantino (Browning, 1975; Guillou, 1978; Criscuolo, 1981; Ostrogorsky, 1993; Kazhdan, 1995: p. XV). Lo afferma Psello stesso: «Quella sapienza che trovai morente ± per quanto stava, almeno, ai suoi cultori ± io ravvivai con le mie sole forze ... sprezzando la pedanteria delle disquisizioni correnti, volli saperne di piuÁ ...» (XronograWi* a, Cronografia, 6.37, t. I, p. 285). (9) Oppure piuÁ in laÁ, a dicembre o verso la fine dell'anno: sicuramente dopo il 24 luglio 1054 e prima dell'11 gennaio 1055 (Criscuolo, 1990: p. 22). (10) Il luogo di nascita eÁ sicuro perche lo dice lui stesso (Sathas, 1875: t. V, n. 135, p. 378; cf. Criscuolo, 1990: p. 166): una casa presso il monastero di Narsete (Ta+ Narsoy&, Joannou, 1951: p. 285), alla periferia occidentale di Costantinopoli nel quartiere di Pege presso la porta urbica (Gautier, 1976), vale a dire, piuÁ precisamente, nel settore periferico compreso tra le mura costruite da Costantino e quelle, piuÁ potenti e durature, di Teodosio II (Mango, 1978: p. 18, cartina n. 1). (11) Anno e luogo di morte sono stati oggetto di lunghe controversie e non sono ancora pienamente concordati. Le due date sopra riportate, che sono tanto lontane tra loro da parere inaffidabili, debbono essere considerate solo come due estremi possibili dovuti a scarsezza di dati. In funzione loro cambia anche il luogo. Inizialmente, l'Usener (1876) propose che egli sia vissuto almeno fino al 1092 e, poco dopo, il Sonny (1894) precisoÁ che morõÁ nel 1096 o 1097 in un monastero lontano, nel quale s'era ritirato (o era stato confinato) dopo che il regime dei Comneni era definitivamente subentrato a quello dei Duca: in quegli anni, infatti, egli avrebbe scritto la prefazione ai Dioptra di Filippo Monotropo, che sono datati appunto 1096. Poi, e per un lungo periodo, eÁ prevalsa l'opinione del Seger (1893), basata sull'identificazione con Psello di un certo Michele oriundo di Nicomedia di cui parla il cronista contemporaneo Michele Attaliate, che era stato ucciso durante un tumulto nell'aprile-maggio 1078 (Gautier, 1966: p. 170; Volk, 1990). Altri, invece, lo hanno ritenuto vivo nell'aprile 1081 al momento dell'accessione al trono di Alessio I Comneno, per il quale avrebbe pronunciato un discorso augurale (Polemis, 1965; deVries-van der Velden, 1996). Ultimamente, lo Schminck (2001) ha riesaminato un trattato di cronologia d'incerto autore e i documenti ad esso connessi che lo attribuiscono a Psello, pubblicati dalla Redl (1927-30: pp. 255-256), li ha messi a confronto con le lettere di Psello nn. 117 e 228 pubblicate da Kurtz e Drexl (1941: t. II) e ha concluso, con molta verosimiglianza, che il luogo dove egli morõÁ fu il monastero della Bella Fonte sul Monte Olimpo di Bitinia (in cui egli si sarebbe ritirato dopo il definitivo rientro nella vita monastica), mentre la data della sua morte eÁ da circoscrivere tra l'autunno 1092 (precisamente dopo il 14 settembre, che eÁ espressamente citato in quel lavoro) e l'inverno 1092/93 (in ogni caso prima della Pasqua, che nell'anno 1093 fu il 27 marzo). Tutta la controversia non ha, in ogni modo, importanza ai fini di questo studio perche sembra certo che Psello non abbia piuÁ svolto alcuna attivitaÁ di carattere filosofico, storico o scientifico dopo il 1075 ca. (Sathas, 1874: t. I, p. CVI), essendosi egli spontaneamente distaccato per dedicarsi solo a soggetti d'interesse religioso. Il suo ritiro fu tanto precipitoso e definitivo che egli lascioÁ incompleta perfino la sua opera principale, alla quale affidava la memoria del suo operato: la Cronografia (Dario Del Corno in Michele Psello, 1984: t. I, p. XXXVI)! 234 A. MOTTANA Personalmente, peroÁ, egli eÁ sempre visto come un personaggio dalle molte facce, un cortigiano privo di scrupoli, un ambiguo campione di trasformismo, un politico spregiudicato, ma poco capace ± insomma: il prototipo negativo dell'intellettuale senza convinzioni radicate, teso solo a salvaguardare se stesso e il proprio stile di vita comodo e brillante in una societaÁ superficiale e in un paese mal governato avviato alla catastrofe (Kazhdan, 1995: p. 49). Tutto cioÁ gli sarebbe derivato da un senso d'inferioritaÁ acquisito durante l'infanzia(12): egli rimase, infatti, orfano di padre appena adolescente e, essendo di famiglia modesta, fu costretto a sforzi estremi per emergere. Anche dopo essere emerso, poco piuÁ che ventenne, dovette sottoporsi a difficili equilibrismi per consolidare e mantenere le posizioni raggiunte e tutto questo ebbe luogo durante un trentennio in cui si succedettero vari imperatori, le congiure di palazzo e gli scontri coi patriarchi furono continui, avvenne lo scisma definitivo tra cattolici ed ortodossi (24 luglio 1054, Michel, 1954: p. 430) e si verificoÁ la disastrosa sconfitta di Manzikert, inflitta dai turchi a Romano IV Diogene (26 agosto 1071, Gautier, 1966: p. 157), che pose fine per sempre al ruolo di potenza dominante d'Oriente che l'impero bizantino aveva faticosamente riconquistato grazie alle brillanti campagne di Basilio II il Bulgaroctono (976-1025). Perfino i suoi critici piuÁ aspri, peroÁ, riconoscono a Psello un'erudizione ampia e versatile sia nella patristica sia nei classici, una grande capacitaÁ d'insegnamento e un notevole acume filosofico. Inoltre, sono concordi nell'ammettere (taluni quasi a malincuore; e.g., TheÂodorideÁs, 1963: p. 448; Anastasi, 1968: p. 53; Ostrogorsky, 1993: p. 3000(13); Kazhdan, 1995: p. 163) che, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, il suo interesse per le scienze della natura, intese come via per conoscere la vera causa degli eventi senza ricorrere al miracolo, fu sincero e duraturo. Egli sarebbe, dunque, il maggior esponente e quasi il vero campione del cosiddetto «razionalismo bizantino»! Questo suo razionalismo si manifesterebbe non solo nel cercare spiegazioni semplici a fatti che sembrano misteriosi (Praechter, 1931: p. 12), ma nell'assumere toni ironici, spesso addirittura sarcastici, tutte le volte che si trovava a riportare informazioni raccolte da altri che non lo convincevano e che non trovavano, a suo giudizio, una spiegazione logica (Volk, 1990: p. 451). In sostanza, il giudizio che su Psello danno gli studiosi oscilla tra due estremi veramente lontanissimi tra loro: se quello piuÁ positivo lo valuta, appunto, come il campione del razionalismo bizantino, per quello piuÁ negativo egli «non eÁ altro se non un compilatore di altri compilatori» (J. Freind, 1727; tradotto da come eÁ riportato da Volk, 1990: p. 453, nota 24). In una posizione intermedia, ma sostanzialmente sul negativo, eÁ l'opinione di coloro che ritengono che egli sia un poligrafo, abile sõÁ nella compilazione, ma ancor piuÁ abile nel volgarizzare(14) quanto ha raccolto e sunteggiato in (12) Nel primo Novecento, sotto l'influsso della psicanalisi freudiana, c'eÁ chi vi ha visto l'effetto di un complesso edipico (Del Medico, 1932). Quale fosse la valutazione che Psello aveva di se stesso emerge chiaramente dalle pagine conclusive del suo encomio per la madre (Criscuolo, 1990: pp. 214-220). (13) Ne riporto qui la frase che rappresenta l'essenza del suo pensiero: «Psello aveva con l'antica cultura un rapporto particolare, piuÁ diretto, e allo stesso tempo piuÁ profondo. Lo studio dei neoplatonici non gli bastava, egli studiava direttamente le fonti originarie, studioÁ e fece conoscere Platone. Egli fu il piuÁ grande filosofo bizantino e il primo grande umanista». (14) Ora si direbbe: «un divulgatore», con tutto cioÁ di buono e di cattivo che il termine comporta. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 235 una forma chiara ed immediatamente percettibile dai suoi lettori. Egli, quindi, sarebbe da apprezzare sõÁ, ma solo per la forma e non per il contenuto originale dei suoi scritti. Tra le numerosissime opere di Psello, che nella Patrologia graeca occupano quasi per intero un grosso volume (Migne, 1864: t. CXXII, coll. 477-1186) e che, saltuariamente, ancora sono scoperte e pubblicate, eÁ abbastanza frequente incontrare riferimenti ai minerali ed al loro trattamento, talora con qualche allusione alle loro relazioni con l'alchimia, una forma di studio delle sostanze che, allora, era nelle fasi iniziali e che, quindi, presentava aspetti altamente ipotetici. Le principali opere di questo tipo sono la Crisopea (Peri+ xrysopoii* aQ o De auri fabrica oppure De auri conficiendi ratione: Albini, 1988; cf. Bidez, 1928: pp. 1-43), un breve trattato in forma di lettera indirizzata a Michele Cerulario(15) (patriarca di Costantinopoli dal 1043 all'8 novembre 1058) che descrive varie ricette per fabbricare l'oro, ma in cui si accenna anche, di sfuggita, ai minerali e ai composti chimici da essi derivati (giacinto, smeraldo, perla, berillo, cinabro, allume, sale(16)) come di cose ben note al suo lettore, e la stessa Cronografia (Michele Psello, 1984), dove l'interesse curioso soprattutto per le gemme eÁ messo in evidenza come un carattere generale dell'allora dominante aristocrazia di corte, oltre che della famiglia imperiale. In aggiunta ± o, forse, a chiarimento ± dei riferimenti sparsi nelle opere di cui sopra, Psello scrisse anche alcuni brevi testi specifici sui minerali che sono chiaramente opere di compilazione e che rappresentano, quindi, il frutto delle sue molteplici, voraci e non sempre abbastanza meditate letture. In essi l'influsso dell'alchimia non eÁ piuÁ evidente, anche se qua e laÁ contengono pregiudizi di tipo ermetico d'origine tardo greco-romana. Il principale di questi trattatelli eÁ il Peri+ li* uvn dyna*mevn (De lapidum virtutibus), che fu scritto dopo che egli lascioÁ il monastero per la prima volta, quindi dopo il 1055. La data della composizione non eÁ meglio precisabile a meno di non riuscire ad identificare con esattezza a chi fu dedicato. L'operetta eÁ, infatti, un tipico esempio di lettera didascalica ed eÁ indirizzata ad un «tu» che eÁ stato identificato dal Ruelle (1889: p. 266) e dal Bidez (1928: p. 73) di nuovo in Michele Cerulario che (come s'eÁ visto sopra) era un esperto di pietre preziose e d'alchimia e che aveva, tra l'altro, spiccate preferenze per le forme delle pietre, una forte inclinazione per il loro uso e perfino una capacitaÁ manuale nel trattarle(17). (15) L'identificazione del destinatario eÁ probabile, ma non eÁ del tutto sicura. L'umanista Domenico Pizimenti, il primo a pubblicare questo trattato e a tradurlo in latino (1573), pensava che fosse indirizzata a Michele Sifilino, patriarca di Costantinopoli dal 1064 al 1075, equivocando peroÁ sul nome da lui assunto quando aveva abbracciato lo stato monastico, che era Giovanni. CosõÁ riporta ancora una recente traduzione in francese (Anonyme, 1993: pp. 129-143). Non ci sono peroÁ prove che quell'austero ecclesiastico avesse le stesse curiositaÁ alchemiche che il Cerulario, invece, aveva ampiamente dimostrato. Per il Ruelle (1889: p. 264), quindi, non c'eÁ dubbio che la lettera sia stata indirizzata al Cerulario nei primi anni del suo patriarcato e che sia un lavoro giovanile di Psello che, infatti, vi afferma: «j'eÂtais alors un eÂpheÁbe ou meÃme encore moins aÃge» (Anonyme, 1993: p. 132). (16) Mi limito qui a riportare i termini usati da Psello, praticamente traslitterandoli; quanto al loro significato effettivo in senso mineralogico moderno, rinvio al commento. (17) EÁ la ba*nayson te*xnhn di cui lo loda Psello nella lettera n. 11 (Sathas, 1875: t. V, pp. 241-245; Volk, 1990: p. 130, nota 4). 236 A. MOTTANA Psello gli aveva giaÁ reso un omaggio cortigiano dedicandogli la Crisopea ed inoltre almeno due altri brevi lavori: uno d'argomento abbastanza simile (Peri+ parado*jvn a$koysma*tvn: De incredibilibus lectionibus: Duffy, 1992: n. 32, pp. 109-113; Musso, 1977(18)) e un altro dedicato alla pratica della predizione degli eventi, tanto divinatoria quanto in relazione alla mantica aruspicina (Peri+ v$moplatoskopi* aQ kai+ oi$ vnoskopi* aQ: De scapularum et avium inspectione: Duffy, 1992: n. 33, pp. 113-116; Hercher, 1853). Tuttavia, Psello non esitoÁ ad attaccarlo, quando le ragioni politiche lo richiesero, componendo una veemente requisitoria (Accusatio in Michaelis Coerularium o Accusatio patriarchae: Kurtz e Drexl, 1936: t. I, pp. 232-328; cf. Bidez, 1928: pp. 71-89) in cui era anche usato come capo d'accusa proprio il suo interesse per la fabbricazione dell'oro, interpretato come prova certa del suo coinvolgimento nella magia alchimistica. Questa requisitoria, peroÁ, non fu mai pronunciata da Psello poiche il patriarca venne a morire (21 gennaio 1059) un mese circa dopo essere stato deposto da un sinodo appositamente convocato: molto tempestivamente, quindi, per l'imperatore Isacco I Comneno che, arrivato al potere tre anni dopo lo scisma del 24 luglio 1054 voluto proprio dal Cerulario e in pieno accordo con lui, che l'aveva anzi sostenuto nel complotto organizzato per detronizzare Michele VI Strationico e, quindi, l'aveva incoronato (1 settembre 1057), se ne era trovato quasi subito in rotta aperta per aver tentato di rimpinguare l'esausto erario statale attingendo alle ricchezze della chiesa. In questa circostanza con l'imperatore si allineoÁ il compiacente cortigiano Psello, con il quale l'autoritario patriarca aveva giaÁ avuto forti dissapori, fino al punto di costringerlo a fare un'umiliante professione di fede (Michel, 1954: pp. 429-433; Garzya, 1966-67) e addirittura abbandonare la corte per rifugiarsi nel monastero(19). Se, quindi, il dedicatario del De lapidum virtutibus fosse davvero il Cerulario, la data di composizione del trattatello andrebbe compresa tra il luglio/dicembre 1054 (monacazione di Psello) e la fine del 1057 (quando si guastarono le relazioni tra patriarca e imperatore). Dopo questa data Psello non aveva piuÁ ragioni per ingraziarsi il Cerulario; anzi, pote liberamente rifarsi su di lui per le accuse di eresia che gli aveva fatte e ribatterle elencando le ragioni dello stato contro quelle della chiesa (Criscuolo, 1991). Attaccandolo, inoltre, Psello poteva anche liberarsi di una possibile accusa di complicitaÁ (o almeno di compiacenza) con lui per le pratiche alchemiche e mantiche di cui egli stesso l'aveva informato. (18) Il Musso (1977) ritiene, peroÁ, che il dedicatario di questa raccolta di nozioni paradossali sia il suo allievo alla scuola superiore di corte Michele Duca, diventato poi imperatore col nome di Michele VII (vedi oltre). (19) Quello, appunto, della Bella Fonte sul Monte Olimpo, dove egli aveva assunto il nome di Michele (Joannou, 1951: p. 285). Dopo il suo ritorno a Costantinopoli, e dopo un primo periodo di rientro a corte durante il quale perfino pronuncioÁ ± sfrontatamente ± l'elogio del Cerulario venuto a morire, Psello fu di nuovo confinato, questa volta nel monastero di Narsete (Joannou, 1951: pp. 286-287), per ordine del patriarca Costantino Licudi (dicembre 1058 - agosto 1063), suo buon amico, ma inflessibile nell'esigerne la buona condotta. Vi fu trattato duramente per aver cercato di venir meno ai suoi doveri monastici e ci rimase fino all'elezione del nuovo patriarca Michele Sifilino (gennaio 1064), altro suo grande amico, ma piuÁ accomodante e piuÁ sensibile ai suoi problemi personali (Criscuolo, 1975). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 237 Fig. 1. ± Miniatura rappresentante Michele Psello, vestito da monaco, che impartisce istruzioni all'imperatore Michele VII Duca, giaÁ suo studente, in un manoscritto greco del XII-XIII sec. d.C. conservato al Monastero del Pantocratore sul Monte Athos. Il Galigani(20) (pp. 26-28) ritiene, peroÁ, che il dedicatario del trattatello possa piuttosto essere Michele VII Duca, imperatore dal 1071 al 1078, oppure, piuÁ probabilmente, suo zio: il cesare Giovanni, fratello dell'imperatore Costantino X Duca (1059-1067). Il primo era stato allievo della scuola superiore di filosofia del palazzo imperiale di cui Psello era stato direttore (fig. 1). Il maestro gli dedicoÁ vari trattati su argomenti di interesse soprattutto scientifico (e.g., De omnifaria doctrina, o Didaskali* a pantodaph+ kai+ pa*nte a$nagkaista*th e$ n e< kato+n e$ nenh*konta pro+Q toi& Q te*ssarsi keWalai* siQ uevroyme* nh: Mussini, 1990); inoltre, in vari punti della Cronografia ne mise in evidenza i vasti interessi culturali (e.g., 7.c 4, t. II, pp. 362-377). Col secondo, Psello ebbe un lungo scambio di lettere (Migne, 1864: t. CXXII, coll. 1169-1186), che il cesare accuratamente fece raccogliere in un volume (Leib, 1950). In una di esse Psello parla di oro, ambra, zaffiro, giacinto e altre pietre diverse per colori e proprietaÁ (Migne, 1864: t. CXXII, col. 1181a; cf. Gautier, 1986: pp. 135-136) (20) L'edizione critica del Galigani (1980), che eÁ di riferimento per questo commento (vedi oltre), saraÁ d'ora in poi citata solo per pagine, senza indicazione della data di pubblicazione. 238 A. MOTTANA e in un'altra approva la sua predilezione per le cose belle, tra cui segnale perle, zaffiro e giacinto (Kurtz e Drexl, 1941: t. II, ep. 231, pp. 276-278). Giovanni Duca era quindi un cultore di Mineralogia oppure, se non proprio di essa, almeno di Gemmologia, che ne eÁ una parte non trascurabile. Se l'ipotesi del Galigani fosse giusta, la composizione del trattato dovrebbe scivolare in avanti di alcuni anni: per quanto egli confermi il suo giudizio e ± piuÁ avanti ± ne faccia risalire la composizione al periodo tra il 1055 e il 1078 (Galigani, 1980: p. 30), appare probabile che si debba andare a dopo il 1059, quando Isacco I Comneno fu rovesciato e Costantino X Duca salõÁ al potere coinvolgendovi il fratello, e a non molto piuÁ in laÁ del 1070(21), quando i due Duca furono distratti da qualsiasi tipo di studi dalla necessitaÁ di curare l'attivitaÁ politica in una situazione che, per loro, stava rapidamente deteriorandosi e che ne porteraÁ all'emarginazione. Che il destinatario sia Giovanni Duca, come pensava il Galigani, oppure Michele Cerulario, come ± dopo aver discusso questa ed altre ipotesi ± torna ancora a concludere ultimamente il Volk (1990: p. 134), che liquida piuttosto bruscamente il trattatello come un lavoro giovanile privo d'originalitaÁ (22), il De lapidum virtutibus rappresenta, in ogni caso, uno valido specchio della cultura mineralogica bizantina del XI sec., intrisa di nozionismo e astratta dalla pratica, ma molto interessata alle pietre preziose come oggetto d'esibizione e attenta anche alle loro possibili applicazioni mediche, pur restando sempre vigile, peroÁ, a non lasciarsi coinvolgere in questioni di tipo magico che potessero portare a un'accusa di irreligiositaÁ. Il De lapidus virtutibus eÁ, comunque, solo un piccolo contributo all'interno di una serie di studi che fecero di Psello un cultore appassionato di Medicina, pur non essendo un medico professionale ne diventando mai un esperto approfondito del settore, anche se questi studi egli perseguõÁ per tutta la vita (Volk, 1990: pp. 455-459). EÁ anche una prova del suo persistente interesse per la Scienza dei minerali, che eÁ confermato dagli altri suoi scritti minori. Talvolta questo suo interesse si estese anche agli usi magici delle pietre, come traspare dalla sua interazione col Cerulario e soprattutto da alcuni passi del De incredibilibus lectionibus, a lui dedicato (vedi sopra). Questo libretto eÁ fatto tutto di notizie curiose ed eÁ frutto di una compilazione dagli autori piuÁ disparati. In particolare, Psello vi riferisce che Teucro di Babilonia (un astrologo vissuto alla fine del I sec. a.C.) aveva scritto un libro sulle figure e immagini da incidere nei castoni degli anelli per (21) Psello ci fornisce i ritratti dei due personaggi nelle ultime pagine della sua Cronografia (7.c 1-11: t. II, pp. 362-377; 7.c 16-17: t. II, pp. 382-385), che sono aggiuntive e probabilmente scritte di getto senza troppo meditare. Le espressioni che egli usa sono adulatorie, ma la sostanza eÁ spregiativa per entrambi. La loro totale inadeguatezza, inoltre, risulta chiaramente dalle vicende storiche, che in breve tempo (1067-1078 d.C.) videro la definitiva destituzione della dinastia Duca ed il ritorno dei Comneni, con un completo cambiamento di regime: dal predominio dell'oligarchia burocratica della capitale con i suoi «eunuchi e oratori di palazzo» (Kazhdan, 1995: p. 49) a quello dell'aristocrazia provinciale ben dotata di terre, con milizie ereditarie che su di esse risiedevano e che per esse erano disposti a combattere, anche contrapponendosi ai mercenari di palazzo, per altro poco invogliati al rischio perche l'erario li lasciava spesso senza paga. (22) Con cioÁ, il Volk non fa altro che confermare un'icastica valutazione negativa giaÁ espressa dal Wellmann (1935: p. 437, «aÈusserst duÈrftig»). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 239 stornare le disgrazie e vi descrive vari materiali artificiali derivati dal trattamento di minerali (e.g., nitro, litargirio, calcanto, sandracca, allume): tra questi, anche imitazioni di gemme frutto di contraffazione (e.g., giacinto, smeraldo, sardonica). Sono sommariamente descritti anche piccoli esperimenti da eseguirsi a fuoco (e.g., su oro, piombo e stagno) e semplici reazioni chimiche (e.g.: il ferro combinato con la sandracca reagisce facilmente con aceto in cui sia stato dissolto zolfo). Psello, infine, indugia a descrivere il diffuso uso della pietra gagate per verificare la condotta delle donne, dimostrandosi con cioÁ pronto a trasmettere insulsi pregiudizi, quando vuole affascinare un uditorio sempre morbosamente interessato a un tale argomento. Simili notizie curiose si trovano anche in una lettera a Costantino, un nipote del patriarca Michele Cerulario (Sathas, 1876-94: t. V, ep. 86, p. 326), dove Psello peroÁ giunge anche a una affermazione che merita di essere riportata come testimonianza conclusiva della sua filosofia della natura: «Ci sono forze e proprietaÁ comuni agli animali, alle pietre ed alle erbe che sono straordinarie e che non sono ancora ben conosciute da tutti». In questo contesto, non si puoÁ non ricordare che l'interesse di Psello per la natura non si limitoÁ ai minerali, ma spazioÁ anche su argomenti geologici e meteorologici come comete, tuoni e terremoti (Duffy, 1992: nn. 25-30, pp. 92-106). Tuttavia, non saraÁ inutile riportare anche un'altra sua affermazione, contenuta nell'autobiografia giovanile e quindi databile all'inizio del 1055 (Criscuolo, 1990: 28d rr. 1786-1790), relativa a quella che egli chiama «arte ieratica»: «Ho appreso che si attribuiscono poteri ineffabili a pietre ed erbe, ma ne ho respinto decisamente l'inutile uso. Detesto gli amuleti, il diamante e il corallo; irrido alle pietre cadute dal cielo» (traduzione di Ugo Criscuolo, 1990: pp. 217). 3. METODO DI STUDIO E BASI DOCUMENTARIE L'opera dello studioso di storia della Scienza antica dipende in modo decisivo da quella del filologo: non eÁ, infatti, ne opportuno ne ragionevole studiare il contenuto scientifico di un testo se questo non eÁ stato anzitutto stabilito nella sua forma piuÁ corretta da un competente nella tradizione dei manoscritti e nel linguaggio, e non soltanto di quello proprio dell'autore quanto di tutto quello dell'epoca in cui il testo eÁ stato scritto. Tutto cioÁ eÁ compito ± indubbiamente ± del filologo. Tuttavia, spesso il filologo non si accontenta di stabilire il testo, ma va oltre ed allora dimostra di non essere sempre in grado di unire ad un testo rigoroso dal punto di vista linguistico formale un'altrettanta rigorosa interpretazione. CioÁ avviene non solo nella redazione del commento, ma soprattutto quando al testo, che egli stesso ha studiato, collazionato ed edito con grande acribia, il filologo allega una traduzione che, pur rigorosa nei termini, non eÁ quasi mai indenne da incomprensioni ed errori scientifici. In realtaÁ, accertare cioÁ che uno scienziato antico voleva comunicare e, da qui, stabilire lo stato di sviluppo di una determinata branca della Scienza al momento in cui l'autore scriveva non eÁ, e non deve essere, ne fine ne compito del filologo. Questo lavoro, infatti, spetta ad un altro tipo di studioso: lo storico della Scienza, appunto, meglio ancora se esperto della disciplina di cui tratta. A titolo d'esempio, voglio ricordare un intoppo con 240 A. MOTTANA cui mi sono dovuto cimentare nel corso di un mio studio su Teofrasto come metallurgista (Mottana, 2001: pp. 144 e 211-214). La corretta ricostruzione, da parte di filologi, di un termine che era stato malamente trascritto nei manoscritti (pykno*tetoQ, pyknoÂtetos, al posto del traÂdito pikro*tetoQ, pikroÂtetos) ha certamente migliorato il contenuto scientifico dell'originale, ma il fatto che essi abbiano poi tradotto il vocabolo con «densitaÁ», con il significato che essa ha normalmente (Montanari, 1995: p. 1766), quando invece in un contesto mineralogico antico sta ad indicare la «compattezza»(23) del materiale, ha creato un notevole problema per la comprensione del ragionamento logico che Teofrasto voleva sviluppare (e questa incomprensione, inizialmente e per un po', si eÁ riverberata anche su di me). Ho potuto correggermi solo dopo un attento esame di confronto con altri testi di Teofrasto e di Aristotele. Per questo motivo, dunque, ritengo utile specificare di quali testi mi sono avvalso in questo studio che, come ho giaÁ detto, intende sviscerare un momento nella storia delle scienze mineralogiche, ma per poterlo fare non puoÁ correre il rischio di essere pregiudicato da una scelta malfatta sotto l'aspetto filologico del materiale da analizzare. Se, infatti, ho interpretato male il testo, di sicuro eÁ colpa mia, ma se colui che ha operato male eÁ il filologo che ha ricostruito il testo sul quale mi sono basato, la colpa dell'errore storico che l'interpretazione comporteraÁ non puoÁ gravare tutta solo su di me: va per lo meno condivisa. Per il De lapidum virtutibus, mi sono avvalso dell'edizione critica curata da Pierpaolo Galigani (24), anche se non eÁ la piuÁ recente in ordine di tempo, essendo poi apparsa l'edizione del Duffy (1992: n. 34, pp. 116-119). L'edizione del Galigani eÁ la quinta a partire dall'editio princeps di Philippe Jacob de Maussac (Maussacus, 1615: pp. 345-357; fig. 2). A parere del Galigani, l'edizione del Maussac, giaÁ viziata all'origine da una scelta (23) Il Montanari (1995: p. 1766), per vero dire, fornisce anche per il lemma pykno*thQ la traduzione «compattezza», ma con riferimento alle formazioni militari. DensitaÁ, comunque, nel significato scientifico, eÁ tutt'altra cosa (g cm-3). (24) L'edizione critica del Galigani eÁ basata sulla recensio di sette dei 15 codici da lui visionati (p. 71), a due dei quali egli ha attribuito maggior peso. Il primo eÁ il Parisinus graecus 1630 (P), bombicino della seconda metaÁ del XIV sec. (probabilmente proprio della metaÁ), conservato nella BibliotheÁque Nationale de France di Parigi; il trattato occupa le cc. 224r-226r di un codice miscellaneo ed eÁ accompagnato da due altri scritti di Psello; eÁ lo stesso codice che il Duffy indica con Q e considera procul dubio optimus (1992: p. XXV) e che quindi usa in modo pressoche esclusivo. Il secondo eÁ il Laurentianus LXX 5 (L) cartaceo della metaÁ del XIV sec. (non oltre il terzo quarto), conservato nella Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze alla quale pervenne da Creta prima del 1495; il trattato occupa le cc. 196v-197 ed eÁ accompagnato da due altri testi di Psello (diversi da quelli parigini), pur essendo il codice nel suo complesso dedicato alle storie d'Appiano. Il Duffy eÁ a conoscenza anche di questo codice, ma non sembra considerarlo fondamentale, anzi nel suo stemma lo pone allato (1992: p. XXIV). Il Galigani inoltre afferma (pp. 51-56) di avere visionato ben 15 altri codici contenenti il trattato ed anzi ne ricostruisce lo stemma (p. 63), che differisce da quello del Duffy nel delineare quattro rami di tradizione invece di tre. Sostiene, peroÁ, di non aver voluto tenere conto di un buon numero di loro poiche li considera tutti deteriores (p. 23). Tra questi include, in particolare, quello ora perduto che era servito per l'editio princeps, che ritiene dovesse essere molto vicino al codice Berolinensis graecus 204, del XV-XVI sec., ancora disponibile, che fa parte di una tradizione indipendente tanto da P quanto da L. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 241 Fig. 2. ± La prima pagina dell'editio princeps del De lapidum virtutibus libellus di Michele Psello, posta da Philippe Jacob de Maussac in appendice a un volume miscellaneo da lui stampato a Tolosa nel 1615. Il testo eÁ alle pp. 345-357 del volume miscellaneo che inizia col De fluviis dello Pseudo-Plutarco (pp. 1-96), seguito dal Liber de fluminibus di Vibio Sequestre (pp. 97-126) e da note di commento ad entrambi (pp. 127-333). Il trattato di Psello, in greco (a sinistra) e in latino (a destra, nella traduzione del Maussac) eÁ su due colonne parallele ed eÁ preceduto da una lettera di presentazione a Gilberto Gualmino (pp. 337-343) e seguito da castigationes (pp. 358361). Segue infine (pp. 361-375) un'appendice su note di Arpocrazione. poco felice del manoscritto di riferimento, sarebbe stata poi o semplicemente ricopiata oppure migliorata solo di pochissimo dalle quattro edizioni (25) che seguirono, mentre la (25) In ordine di tempo, sono dovute a: Bernard (Bernardus, 1745: pp. 1-45), Ideler (1841: pp. 244-247), Migne (1864: t. CXXII, coll. 887-900) e de MeÂly e Ruelle (1898: t. II. 1, pp. 201-204). Il Duffy, che le menziona 242 A. MOTTANA Fig. 3. ± Frontespizio dell'edizione critica di Pierpaolo Galigani del testo di Michele Psello, seguita in questo studio per la traduzione e per il commento. sua sarebbe stata eseguita con le migliori e piuÁ aggiornate procedure. Il Duffy, invece, che pure non commenta su questo punto, conferma che la sua edizione si rifaÁ sostanzialmente a quella dell'Ideler (1841: pp. 244-247) il quale peroÁ, secondo il Galigani (1980: p. 67), non voleva fare un'edizione critica ma solo raccogliere quanti piuÁ testi poteva in una miscellanea di testi medici. Rebus sic stantibus, ho deciso di condurre la mia traduzione ed interpretazione sulla base del testo greco edito dal Galigani (1980: pp. 71-76, fig. 3), tutte e che cita anche quella del Galigani (1992: p. XXV), precisa che il Bernard (fig. 5) ha ripreso quella del Maussac con poche emendationes, che l'Ideler e il Migne hanno copiato il Bernard senza particolari modifiche, e che de MeÂly e Ruelle hanno seguito l'Ideler collazionandolo con Q e, in parte, con un codice tardivo: il Monacensis graecus 105. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 243 Fig. 4. ± Frontespizio del testo miscellaneo edito da John M. Duffy in cui sono raccolti gli scritti di Michele Psello relativi ad argomenti scientifici di tipo mineralogico (al n. 34 il De lapidum virtutibus e al n. 35 il De succino). considerandolo il piuÁ moderno e affidabile, trascurando quello del Duffy (1992) come privo di un'adeguata recensio ed essenzialmente documentario. Della traduzione del Galigani (1980: pp. 77-80) e del suo commento (pp. 83-121) mi sono anche avvalso come guida linguistica. Confermo che non sono un filologo e che quindi mi considero inadatto 244 A. MOTTANA Fig. 5. ± Frontespizio del volume di Jean Etienne Bernard in cui, per la prima volta (1745), il testo di Michele Psello viene stampato da solo. Il titolo stesso, tuttavia, riconosce che si tratta sostanzialmente, di una ristampa del testo edito da Philippe Jacob de Maussac (1615). ad esprimere una valutazione di qualitaÁ, eppure asserisco che ritengo valido il lavoro complessivo di un grecista come il Galigani, cosicche solo in pochi punti mi sono sentito autorizzato ad apportare variazioni alla sua versione. Lo stile della mia traduzione eÁ letterale, quasi pedissequo, peroÁ eÁ indiscutibilmente mio, cosõÁ come mio e originale eÁ l'intero commento, che si discosta notevolmente da quello del Galigani, proprio perche io sono un mineralista e intendo fare valere la mia competenza in questo campo. Per completare il quadro delle conoscenze mineralogiche di Psello, prenderoÁ in STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 245 considerazione anche le citazioni di minerali sparse in altre sue opere. Esse sono frutto non di una sua scelta indirizzata a fini scientifici, ma sono inserite in contesti variabili a seconda delle circostanze. Tra le altre sue opere, richiamo l'attenzione in particolare sul Peri+ h$le* ktroy o De succino, edito dal Duffy (1992: n. 35, pp. 119-120; fig. 4). Si tratta di un breve testo sicuramente di Psello il cui titolo fa pensare ad un contenuto mineralogico che poi non viene confermato dall'analisi del testo. La sua edizione eÁ basata su tre dei quattro i codici esistenti (sostanzialmente indipendenti tra loro e tutti piuttosto tardi) e tiene conto anche dell'estratto dell'Indika di Ctesia riportato da Fozio (n. 72, Wilson, 1992: pp. 137-148) per la parte citata da Psello, che eÁ stata anche edita dal Maas (1924). 4. L'AMBIENTE CULTURALE DI PSELLO Nessun pensatore, scientifico o umanistico che sia, eÁ avulso dal proprio tempo e, per quanto innovativo possa poi essere, riflette anzitutto lo stato delle conoscenze della propria epoca, nella misura in cui egli stesso era stato in grado di impadronirsene. Questo fatto risulta proporzionale non solo alle sue capacitaÁ personali, ma anche al suo inserimento nei circoli culturali dell'epoca ed alla sua capacitaÁ di accedere alle fonti. Ottimale fu, quindi, la situazione in cui pote maturare la cultura di Psello. Egli crebbe nell'ambiente fervido della Rinascenza bizantina, che era allora molto piuÁ ricco di quello occidentale tanto nella cultura patristica quanto nell'attenzione rivolta ai classici antichi. A Costantinopoli, capitale dell'unico impero erede diretto di quello romano, non era mai cessata, infatti, la trasmissione della cultura classica pagana, soprattutto greca, neppure nei periodi piuÁ bui della «crisi iconoclastica» (711-843) ed anzi, terminata questa crisi, le biblioteche erano state sistematicamente riordinate e rifornite per tutto il periodo che fu, a tutti gli effetti, l'etaÁ d'oro dell'impero bizantino (843-1025: Ostrogorsky, 1993)(26). Nato quasi al termine di questa etaÁ felice, quando l'estenuata dinastia Macedone con vari artifici, anche matrimoniali, sembrava ancora riuscire a resistere all'urto della burocrazia di corte prima e dell'aristocrazia militare poi, Psello pote avvalersi nel periodo della sua formazione di quanto di meglio e di piuÁ completo si era conservato della cultura antica(27), sia nella biblioteca imperiale sia in quella del patriarcato, e lo fece. Egli stesso ci attesta, in quella che a tutti gli effetti eÁ la sua prima autobiografia (Encomium in matrem o $ Egkv*mion t|& mhtri* : Criscuolo, 1990), di avere letto tutti gli scritti su cui aveva potuto mettere le mani giaÁ prima di entrare al servizio del governo imperiale e (26) Attente e dettagliate panoramiche sulla situazione culturale a Bisanzio nelle fasi successive alla crisi iconoclastica e precedenti o contemporanee all'epoca di Psello si trovano nel volume composito coordinato da Guillou (1978). PiuÁ brevi, ma molto acute, sono le osservazioni bibliologiche di Wilson (1993). (27) A metaÁ del secolo precedente Costantino VII Porfirogenito (913-959) aveva disposto un'azione di raccolta e trascrizione, anche se spesso ridotta ad excerpta per motivi sia di costo sia di comodo, di una serie di scritti scientifici di vario argomento, con il chiaro fine pratico di attuare un programma didattico utile a continuare la favorevole congiuntura economica che aveva caratterizzato il periodo in cui alla guida effettiva dello stato fu il suo collega Romano I Lecapeno (920-944) e che aveva permesso a questi una serie straordinaria di successi militari. CosõÁ, in effetti, avvenne: prima con Niceforo II Foca (963-969) e poi con Basilio II (976-1025) il Bulgaroctono. 246 A. MOTTANA di aver continuato a documentarsi sulle fonti originarie, con una ben maggiore mole di materiale a disposizione, anche dopo che, appena venticinquenne (1043), era stato nominato segretario personale dell'imperatore Costantino IX Monomaco e, poco dopo (1045), «console dei filosofi» (y%patoQ tv&n Wiloso*Wvn), vale a dire direttore della sezione di filosofia della ricostituita alta scuola di formazione dei funzionari della capitale, strutturata secondo il sistema del trivio e del quadrivio (Wolska-Conus, 1976, 1979; Anastasi, 1979). Tuttavia, l'effettiva consistenza libraria delle biblioteche costantinopolitane (sia di quella imperiale, sia di quella patriarcale, sia di quelle, piuÁ piccole, ma non meno importanti, dei numerosi monasteri) ci eÁ sconosciuta, o meglio: ci eÁ conosciuta solo in forma sporadica per alcuni testi fortunosamente arrivati fino a noi (Wilson, 1993). In particolare, mancano inventari librari paragonabili a quelli dell'Europa latina contemporanea, forse a causa del saccheggio effettuato dai Crociati nel 1204, e sono disponibili solamente alcuni inventari di raccolte private (Lemerle, 1977) e monastiche (Wilson, 1993). Possiamo, quindi, solo congetturare che Psello avesse certamente accesso a tutta la letteratura greca classica e cristiana di cui attualmente disponiamo e, probabilmente, a parecchio di piuÁ. Sicuramente, ad esempio, egli poteva leggere per intero le opere di quegli scrittori bizantini che stavano allora redigendo gli excerpta dei testi antichi e i loro commenti a questi testi, cioeÁ molto di piuÁ di cioÁ che ci eÁ poi arrivato per tradizione diretta. Non vi erano state, infatti, fino ad allora a Costantinopoli quelle discontinuitaÁ culturale e linguistica che si resero inevitabili, anche per motivi etnici, nell'Occidente latino e vi favorirono la nascita e lo sviluppo dei particolarismi locali (Irigoin, 1975; Mango, 1981). Un ulteriore, importante elemento di valutazione dell'ambiente culturale in cui Psello era maturato deriva dall'aver coscienza che non esiste nessuna prova che egli conoscesse o meno il latino (Renauld, 1920), mentre eÁ certo che non lo amava e che non gli voleva riconoscere la supremazia sul greco neppure nel settore del diritto, di cui non poteva misconoscere la derivazione romana (Anastasi, 1974). Passando alle possibili fonti delle sue conoscenze mineralogiche e alchemiche, in particolare per quanto riguarda l'uso terapeutico dei minerali, al termine del De lapidum virtutibus (Galigani, 1980: p. 76, [Z] rr. 118-119(28)), Psello menziona tre pensatori presocratici che, a suo dire, s'interessarono di minerali: Anassagora, Empedocle e Democrito. Non si tratta, peroÁ, delle sue fonti, bensõÁ di tre nomi d'effetto. Difatti, negli scarsi frammenti delle loro opere che ci sono pervenuti, l'interesse dei tre presocratici per la parte solida della Terra appare scarsissimo, sovrastato com'eÁ, in tutti loro, da quello ± di portata piuÁ generale e piuÁ consono al loro modo di pensare ± sull'essenza stessa del mondo naturale (Diels e Krantz, 196612, 1981). La fonte di Psello potrebbe, allora, essere il quarto autore che egli cita ([Z], r. 120) e (28) Il testo greco del Galigani eÁ diviso in capoversi (in tutto 24, pari al numero delle pietre descritte) con in piuÁ un passo d'inizio e uno di fine, questi due notevolmente piuÁ lunghi degli altri. Tutti sono numerati secondo righe consecutive (124 in tutto). Io faroÁ riferimento agli uni con un numero ([n.]), fuorche ai due passi iniziale e finale, ai quali per comoditaÁ ho assegnato le lettere [A] e [Z], e alle altre con l'indicazione della riga (r.), sempre secondo l'opportunitaÁ. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 247 verso il quale egli usa un'espressione di rispetto: Alessandro d'Afrodisia, il commentatore d'Aristotele attivo ad Atene tra la fine del II e l'inizio del III sec. d.C. Ad Alessandro si riconosce ora il merito della seconda rinascita d'interesse per le dottrine peripatetiche, dopo la prima loro divulgazione che eÁ legata all'edizione degli scritti acroamatici curata da Andronico da Rodi (I sec. a.C.). Alessandro, peroÁ, eÁ anche colui che fu responsabile di un sostanziale travisamento di quelle dottrine, perche fece prevalere l'aspetto della «filosofia prima» su quello dello studio organico della natura che era stato il fondamentale motivo delle divergenze ± e conseguente separazione ± tra Aristotele e Platone (Moraux, 1973-84, 2000). L'opera di Alessandro d'Afrodisia ci eÁ pervenuta in misura ben maggiore di quella dei tre presocratici, ma la Mineralogia che contiene eÁ del tutto trascurabile e non poteva non esserlo, non solo perche gli interessi dell'autore erano altri, ma anche perche Aristotele stesso aveva preso in considerazione i minerali solo alla fine del III libro dei Meteorologica (378a13-378b6)(29), molto brevemente e senza entrare in particolari, promettendo di farlo nel libro successivo oppure, forse, in un'opera apposita. Questa trattazione approfondita non compare ne nel IV libro, che pure contiene numerosi spunti che hanno fatto parlare di un Aristotele «precursore della Chimica dei minerali» (Multhauf, 1958), ne nelle altre sue opere, mentre figura tra quelle di Teofrasto (De lapidibus: cf. Mottana e Napolitano, 1997), altra opera di cui Alessandro era ben a conoscenza perche ne fornisce alcuni dettagli esplicativi (Mottana, 2001: pp. 178-179), ma che non commenta estesamente in nessuno dei suoi libri. In conclusione, quindi, anche il nome di Alessandro d'Afrodisia eÁ usato da Psello come falsa fonte: quanto di mineralogico eÁ contenuto nelle sue opere arrivate fino a noi non trova riscontro nel De lapidum virtutibus. A furia di indagare, tuttavia, i commentatori moderni hanno trovato nel trattato di Psello un riferimento indiretto che li ha ben indirizzati nella loro ricerca della fonte effettiva da lui taciuta. Quando Psello descrive le proprietaÁ del carbonchio (n. 4), motiva perche non ne riporti nessuna di tipo farmacologico con il fatto che ne erano prive le sue fonti e chiama queste cosõÁ: oi< liuognv*moneQ (r. 27), cioeÁ «i conoscitori di pietre». A questo nome si rifaÁ il titolo di un trattato (Liuognv*mvn) che, secondo Origene(30) (Commentarii in Psalmos, 118, 127, in Pitra, 1884: p. 341), era stato scritto da Senocrate, cioeÁ dello stesso autore di cui Origene si era servito per la descrizione dell'isola Topazio(31) nel Mar Rosso e della pesca (29) Alessandro li analizza dettagliatamente nei suoi in Aristotelis Meteorologicorum libros commentaria, che ci sono pervenuti integralmente (Hayduck, 1899; Coutant, 1936; Smet, 1968). (30) Anche due padri della chiesa latina dimostrano di conoscere Senocrate. Girolamo, probabilmente riprendendo Origene, riferisce «de Xenocrate, qui scripsit super lapidum gemmarumque naturis» (Commentarii in Amos propheta, 3.7: Migne, 1857: t. XXV, col. 1075) e ne riporta, nella sua traduzione latina, venti righe di descrizione del diamante (dove ± correttamente dal punto di vista etimologico ± propone di tradurre il nome greco con indomitum!) che appaiono molto simili a quelle di Plinio. Ambrogio (Expositio in psalmum CXVIII, s. 16, c. 41-42: Migne, 1857: t. XV, coll. 1438-1439) riporta una descrizione della scoperta della gemma nell'isola Topazion (sic!) che contiene particolari mancanti tanto in Origene quanto in Girolamo e che sono, quindi, derivati da lui direttamente dall'opera di Senocrate, che poteva leggere, conoscendo egli bene il greco (Buecheler, 1885: p. 305, nota 1). (31) Attualmente Zabargad, in passato chiamata anche isola di San Giovanni (Cadiou, 1937): 23ë37' N, 36ë12' E, cioeÁ a ca. 50 km a W dell'asse del bacino. Plinio (35.39), sull'autoritaÁ di Giuba, cita un'isola Topazo 248 A. MOTTANA delle perle (Commentarii in Matthaeum, 10.7: Migne, 1857: t. XIII, coll. 848-849; cf. Girod, 1970). L'identificazione di questo Senocrate eÁ oscura e molto dibattuta, anche se ora (Kudlien, 1967; Ullmann, 1974) eÁ prevalentemente identificato col figlio di Zenone originario di Efeso vivente al tempo in cui Plinio il Vecchio scriveva la sua Naturalis Historia (37.37(32)), cioeÁ poco prima del 77 d.C. Plinio lo cita spesso: non solo nel suo primo libro in posizione preminente tra le fonti straniere per quanto riguarda il libro 37, ma anche piuÁ oltre, in questo libro, ripetutamente, quando fa riferimento a vari minerali (cristallo di rocca: 37.25; ambra: 37.37, 37.40; sarda: 37.173) e, una volta, ad una roccia (ossidiana: 36.197). Il nome di Senocrate, peroÁ, non compare nella descrizione che egli fa proprio del carbonchio (37.92-98). L'Oehmichen (1880), che fu il primo a sostenere che la fonte di Psello eÁ il trattato di Senocrate, crede, tuttavia, di riconoscere in certe frasi usate da Plinio una stretta corrispondenza linguistica con quelle di Psello e interpreta tutto cioÁ, appunto, con la comune derivazione da Senocrate (Galigani, 1980: p. 98). L'importanza di Senocrate per Plinio eÁ generalmente ammessa non solo dagli autori antichi (greci, latini e arabi), ma anche da quasi tutti i commentatori moderni (e.g., Buecheler, 1885; Cadiou, 1937; Jaeger, 1948; Girod, 1970). L'argomento del contendere eÁ, semmai, chi fosse esattamente il Senocrate da cui Psello(33) trasse le sue informazioni sui minerali, che sono in prevalenza di tipo farmacologico (Hohlweg, 1988). L'identificazione eÁ, infatti, resa complicata dal fatto che Plinio cita ripetutamente anche un altro Senocrate, medico, di Afrodisia, vissuto a Roma ai tempi di Augusto e Tiberio, autore di varie opere di farmacologia, in nessuna delle quali, tuttavia, sembra che egli abbia fatto uso di minerali, ma piuttosto di erbe officinali, sia coltivate (20.155, 20.218, 20.227, 21.181, 22.72, 22.87) sia spontanee (27.89). Eppure eÁ proprio verso questo Senocrate d'Afrodisia che s'indirizzarono importanti studiosi, tra cui il Wellmann (1907: p. 629, 1935: pp. 86-87), lo Ziegler (1967: col. 1529, n. 7) e, recentemente, anche il Galigani (1980: pp. 41-45), con una serie di argomenti che peroÁ non appaiono persuasivi e per i quali rimando ai loro lavori(34). Ora, infatti, eÁ dato per scontato che la fonte di Plinio per i minerali sia il Senocrate di Efeso e non quello d'Afrodisia (Kudlien, 1967: col. 1531, n. 8; Halleux e Schamp, 1985: p. XIX). Quale che sia il Senocrate che eÁ fonte di Psello, il suo trattato eÁ attualmente perduto, (sic!) nel mar Rosso, peroÁ solo come luogo in cui si rinvengono allo stato naturale ocra e sandracca, due sostanze che non erano allora importate a Roma. (32) Le numerosi citazioni di quest'opera che seguiranno, per libro e per capoverso, sono sempre riferite all'edizione bilingue in cinque volumi diretta da G.B. Conte, con la collaborazione di A. Barchiesi, G. Ranucci e altri, per la Giulio Einaudi Editore (1982-88). (33) Che Psello conoscesse bene almeno un Senocrate non eÁ messo in discussione da nessuno: egli stesso lo cita, infatti, come esempio di compostezza filosofica nella sua Cronografia (7.47, t. II, p. 239). Non si tratta peroÁ del Senocrate mineralogista, bensõÁ dell'allievo di Platone, originario di Calcedonia, che fu a capo dell'Accademia dal 338 al 313 a.C. (34) Plinio cita anche un terzo Senocrate, di Atene, scultore e pittore e autore di trattati sulle due arti, ma questo non ha sicuramente niente a che fare con Psello. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 249 ma eÁ stato per lungo tempo il testo di riferimento sulle pietre per gli autori di lingua greca. Non solo, infatti, egli eÁ sovente citato, ma informazioni tratte dal suo lavoro sono riconoscibili nelle opere di scrittori greci molto diversi tra loro, come Epifanio, il giaÁ citato vescovo del IV sec., ed Aetio d'Amida, il medico del VI sec. (Olivieri, 1935-50). Il trattato di Senocrate eÁ sicuramente rimasto a lungo disponibile agli studiosi bizantini: tutto fino al XII sec., quando eÁ ancora citato da Giovanni Tzetze (Leone, 1968), e poi, almeno in parte, fino al XIV sec., quando Teodoro Meliteniote, un vescovo poeta attivo tra il 1360 e il 1388 (DoÈlger, 1934), lo utilizzoÁ per la sua descrizione delle pietre preziose che decorano il letto d'argento e d'oro della Saggezza (DoÈlger, 1919; Wellmann, 1935; SchoÈnauer, 1996: pp. 5-20). Nel trattato di Senocrate le pietre erano descritte in ordine alfabetico e questo ordine si ritrova anche sia in Psello (solo per le prime 18 pietre) sia in Plinio (che peroÁ ne traspone alcune dando la precedenza a quelle di maggiore valore venale). Non eÁ, inoltre, da escludere che ci sia pervenuta un'ulteriore parte del trattato di Senocrate, anche se rielaborata e probabilmente molto alterata nel corso della tradizione, se eÁ fondata un'ipotesi che eÁ stata avanzata dal Wirbelauer (1937). A suo parere i Kerygmata ([ $ OrWe* vQ liuika+] khry*gmata), che sono un riassunto in prosa effettuato nel IV sec. d.C. del Lapidario orfico o Lihica ([ $ OrWe* vQ] Liuika* (35)), avrebbero subito, nella loro parte finale (capitoli dal 26 al 53: Halleux e Schamp, 1985: pp. 166-177; cf. Bianco, 1992: pp. 123-135) e in un momento ancora piuÁ tardo, ma imprecisato, della loro tradizione, la contaminazione da parte di un altro lapidario, a sua volta risultante dalla fusione, effettuata nel II sec. d.C., di due lapidari piuÁ antichi: uno magico e uno astrologico. Questa seconda sezione dei Kerygmata (vale a dire del suddetto lapidario composito) eÁ attribuita, in un codice della fine del XIV secolo (Vaticanus graecus 578) in cui ha il titolo Peri+ li* uvn, a tali Socrate e Dionisio, non meglio noti. Nel nome del primo il Wirbelauer (1937: p. 42) ha creduto di riconoscere la corruzione del nome Senocrate. In effetti, parecchi punti toccati nella parte finale dei Kerygmata si ritrovano non solo nei testi di vari scrittori greci tardi (inclusi i giaÁ ricordati Epifanio e Teodoro), ma anche nel libro 37 dell'enciclopedia di Plinio, che eÁ sicuramente precedente alla data presunta della fusione dei diversi pezzi dei Kerygmata. Rimane, tuttavia, un punto oscuro: non vi eÁ mai una corrispondenza esatta tra i punti trattati nel lapidario detto di Socrate e Dionisio e i sicuri frammenti di Senocrate che si sono conservati in arabo. Il trattato di questi, infatti, pote essere consultato, estesamente copiato e tradotto a Costantinopoli nel XII sec. dal medico andaluso AbuÅ Ja'far Ahmad Ç aÅfiqõÅ (36) (morto in Spagna nel 1165 d.C.). In arabo, quindi, eÁ stato ibn Muhammad al-G (35) Si tratta di un poema greco della prima metaÁ del II sec., sul quale ritorneremo piuÁ avanti. (36) L'Ullmann (1972a: p. 52, nota 27) riporta questa affermazione del Wellmann (1935: p. 447), ma con una nota di dissenso di cui fornisce la spiegazione solo nel lavoro successivo (Ullmann, 1972b: p. 63): la prima citazione di Senocrate da lui rinvenuta (Ullmann, 1972b: fr. 4, p. 58) eÁ in un'opera di ar-RaÅzõÅ (Rhazes), morto nel 923 d.C. Ullmann ne deduce che una traduzione araba almeno parziale del libro di Senocrate doveva essere stata eseguita giaÁ nel IX sec. e conferma tutto cioÁ nel lavoro ancora seguente (Ullmann, 1973: p. 62), datando tale traduzione al passaggio tra VIII e IX sec. d.C. Il Volk (1990: p. 135), invece, riferisce la traduzione come opera del solo al-GaÅfiqõÅ, precisando che il suo trattato aveva il titolo De simplicibus medicinalibus. Non sono riuscito a 250 A. MOTTANA possibile identificare ed estrarre numerosi lunghi frammenti (Ullmann, 1972a, b, 1973) da confrontare con le citazioni greco-latine. Il problema resta aperto, dunque, ma appare probabile che il trattato di Senocrate, che Psello conosceva, contenesse informazioni, che ora si ritrovano nel lapidario di Socrate e Dionisio, oppure fosse stato utilizzato da Dionisio ± se pur fu lui ± come fonte parziale della sua compilazione, non senza avergli fatto esplicito riconoscimento nel titolo. La versione attualmente disponibile storpia il nome della fonte, forse involontariamente o forse per darsi maggior credito col richiamarsi al celebre filosofo del IV sec. a.C. Oltre che ai conoscitori di pietre, all'inizio del De lapidum virtutibus Psello fa esplicita critica «dei dogmatici» (tv&n dogmatikv&n: [A] r. 3), ai quali attribuisce il difetto della prope* teia, vale a dire «precipitazione» (o volubilitaÁ o temerarietaÁ: sono queste le accezioni alternative del termine). Non si tratta quindi di una fonte d'informazione, ma di un riferimento ad un metodo d'analisi scientifica. Il medesimo termine, con la stessa polemica accusa, ricorre infatti in Sesto Empirico (ca. 180-220 d.C.) per indicare filosofi di varie scuole come «quelle di Aristotele, di Epicuro, degli stoici e altre» (Adversus mathematicos, IX. 49, 331; Bury, 1933) e anche «di Empedocle ... Democrito ... Anassagora» (Hypotiposes pyrrhonicae, I. 20, 177 e III. 2, 280; Bury, 1949), quindi praticamente di tutte le tendenze filosofiche greche fuorche di quella scettica nella quale si identificava. Di tutte, Sesto Empirico attacca i criteri di classificazione e le tecniche di dimostrazione. Per Psello, che era un platonico (Zervos, 1919), tacciare un pensatore di precipitazione non era certo un cantarne la lode! Proprio alla critica di Sesto Empirico dei metodi di definizione adottati da certi filosofi egli doveva percioÁ pensare al momento di dare inizio al suo trattatello: infatti, s'affretta a dichiarare di avere verificato tutto cioÁ che esporraÁ in seguito e di aver volutamente tralasciato una serie di pietre di cui conosce solo il nome e che non gli era mai capitato di vedere e provare. L'affermazione eÁ importante, poiche dovrebbe confermare il comportamento «scientifico» di Psello, ma va presa con beneficio d'inventario: ben poche delle «virtuÁ»(37) che egli poi attribuiraÁ alle pietre, che pure dice essere le piuÁ comuni e piuÁ sperimentate, possono trovare conferma in un contesto scientifico moderno. Per tutte vale o l'effetto «placebo» oppure la suggestione, grazie alla quale si svilupperaÁ quella pseudoscienza, ancora viva e vegeta, che saraÁ chiamata Litoterapia (FuÈhner, 1902; Riddle, 1970). La fonte del De succino (altro breve testo di Psello dall'attraente titolo mineralogico) eÁ sicuramente il libro di Ctesia sull'India ($ Indika*), che forse egli poteva ancora consultare in originale, ma che piuÁ probabilmente confrontoÁ con l'estratto contenuto nella Bibliotheca di Fozio (Wilson, 1992), un trattato che gli era certamente familiare, perche rintracciare tale testo ne nell'originale (Kitab al-adwiyya al-mufrada, stampato al Cairo nel 1932) ne in traduzione: dispongo solo degli estratti tradotti dall'Ullmann (1972a: p. 99, 1972b: pp. 53-55, 1973: pp. 67-73). (37) Non nascondo la mia difficoltaÁ a tradurre dyna*meiQ, che Maussac ha tradotto con virtutes: «virtuÁ» eÁ banale (ed eÁ in ogni caso un latinismo), «proprietaÁ» ha un significato preciso nella scienza moderna non esattamente riconducibile a quello antico; forse «poteri attivi» eÁ il termine che si avvicina di piuÁ a cioÁ che Psello intendeva quando enunciava il giovamento che le pietre potevano dare a chi le portava, che non era solo di tipo medico, terapeutico e profilattico, ma anche aveva l'effetto di influire sul comportamento altrui. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 251 opera di un patriarca per molti versi precursore del Michele Cerulario di cui egli era sodale. La Bibliotheca fu concepita da Fozio come compendio di tutte le sue letture e consiste in 279 schede(38) che egli afferma di aver dovuto compilare in gran fretta essendo in attesa di partire per un'ambasceria da cui poteva forse non tornare. Conseguentemente, eÁ piuttosto disordinata, alternando passi brevi a lunghi, autori religiosi e profani, e selezionando argomenti molti diversi tra loro, anche nello stesso testo che recensisce. Nel caso della scheda n. 72, che recensisce tutta l'opera di Ctesia, Fozio seleziona anzitutto (35b-45a) il testo che tratta della storia dei Persiani(39) (Persika*), per passare poi (45a50a) alla descrizione dell'India ($ Indika*), che Ctesia aveva affrontata non su basi storiche, ma naturalistiche, nella maggior parte dei casi fantasiose e bramose di stupire. Nelle altre opere di Psello figurano accidentalmente indicazioni di fonti diverse e talvolta piuÁ interessanti, anche se per vari motivi inaffidabili. Ad esempio, egli fa esplicito riferimento a Teofrasto nella sua Accusatio patriarchae (Bidez, 1928: p. 86), ma lo paragona a Zosimo(40) e gli attribuisce interessi per l'alchimia che il fedele interprete di Aristotele, suo successore alla guida del Peripato, non poteva avere (Mottana, 2001: p. 188). Questi nomi lasciati cadere quasi a caso sono forme sfrontate di sostenere le proprie idee con autorevoli autori del passato, non piuÁ rintracciabili comunemente nelle biblioteche; esse erano diventate prassi comune dei compilatori proprio durante la decadenza culturale seguita alla dissoluzione dell'impero romano (Holmyard, 1957: p. 28). Riassumendo: che Psello abbia come fonte primaria della sua cultura mineralogica uno o piuÁ autori classici che arrivano fino al periodo greco-romano eÁ palese e che il principale di questi sia Senocrate eÁ probabile. Quale sia questo Senocrate eÁ oggetto di discussione, ma si tratta senz'altro dello stesso che fu anche la fonte di Plinio e, indicativamente, quello che ci eÁ stato conservato parzialmente, anche se corrotto e modificato, da Aetio d'Amida, da Socrate e Dionisio e nei Kerygmata, oltre che in una o piuÁ traduzioni in arabo. Tutto cioÁ inserisce la cultura mineralogica di Psello nella migliore tradizione della scienza greca (tab. I), anche se piuttosto tarda e, in una certa misura, alterata rispetto a quella ellenistica, quando la genialitaÁ scientifica greca raggiunse il suo massimo fulgore. Ovviamente, la scienza di partenza era totalmente priva di connotazioni (38) Comprendono in tutto le recensioni di 386 libri, poiche ognuna scheda si riferisce ad un autore e non ad un'opera (Wilson, 1992: p. 27): 239 sono testi teologici e 147 laici. Nel trarre le conclusioni, al termine della sua intera opera, Fozio asserisce di avere «esclusi quelli il cui uso e la cui pratica consentono di esercitare le varie arti e scienze» (Wilson, 1992: p. 461), ricordandoci quindi che i suoi interessi erano eruditi e non pratici. (39) Omette percioÁ i primi sei libri, sulle vicende dell'Assiria, che peroÁ sono stati tramandati da Diodoro Siculo (Bibliotheca historica, 2.1-32), e prosegue sunteggiando i residui 17 libri in dieci lunghi capoversi. Per contro, relazionando sull'India, ne sunteggia l'unico libro in ben dieci dei suoi capoversi. Il diverso trattamento indica, chiaramente, un diverso tipo d'interesse da parte di Fozio e lascia pensare che quanto riporta sull'India corrisponda molto piuÁ da vicino all'originale perduto (Momigliano, 1931). Un breve passo (48b) sembra addirittura trascritto direttamente dall'originale, avendo per soggetto un «io» che non puoÁ essere altri se non Ctesia stesso (Wilson, 1992: p. 145, nota 2). (40) Alchimista alessandrino del III-IV sec. d.C., eÁ il primo autore greco di trattati alchemici di cui possediamo parte degli scritti autentici. 252 A. MOTTANA TABELLA I. ± Testi greci e latini di riferimento per ricostruire le influenze mineralogiche e mediche su Michele Psello. Testo Epoca Autore Lingua Riferimento (filologico) Esodo Lithognomon III sec. a.C. I sec. d.C. in. De materia medica ca. 50 d.C. Naturalis Historia 77 d.C. Apocalisse ca. 95 d.C. Lithica II sec. d.C. in. Kerygmata II - XIV sec. d.C. epitomatore greco bizantino I - III sec. d.C. Socrate & greco Dionisio I sec. d.C. Plutarco greco De lapidibus De fluviis Note ? Senocrate da Efeso Dioscoride d'Anazarba Plinio il Vecchio Giovanni (da Patmo?) greco greco (vari: vedi nel testo) traduzione dall'ebraico solo frammenti greco Wellmann, 1907-14 completo latino Conte et al., 1988 completo Orfeo greco greco Halleux e Schamp, 1985 apocrifo rimaneggiato fino dopo 372 Halleux e Schamp, 1985 fusione Lithica + Socrate & Dionisio Halleux e Schamp, 1985 scritto forse in oriente Lapidario nautico III sec. d.C.? Papyrus holmiensis post 296 d.C. De gemmis 396 d.C. greco greco greco De lapidibus latino apocrifo forse del III IV sec. Halleux e Schamp, 1985 apocrifo bizantino Halleux, 1981 traduzionedall'egiziano? Blake, 1934 ricostruito da frammenti in varie lingue Halleux e Schamp, 1985 traduzione dal greco greco Olivieri, 1935-50 greco Heiberg, 1924 greco de MeÂly e Ruelle, 1898 greco de MeÂly e Ruelle, 1898 greco Wilson, 1992 Libri medicinales Pharmaca simplicia s.n. Ricettario medico Bibliotheca Astrampsico ? Epifanio di Costanza V - VI sec. d.C. Damigerone & Evace VI sec. d.C. Aetio d'Amida VII sec. d.C. Paolo d'Egina VII - X sec. pseudoDioscoride VII - X sec. pseudoIppocrate IX sec. d.C. Fozio de MeÂly, 1902 compilazione di ricette di Dioscoride e di Aetio compilazione di dati d'incerta origine pietistiche e solo marginalmente fu rivisitata da Psello sotto il punto di vista cristiano di uno scrittore bizantino, come poi avverraÁ invece nel poema che il Meliteniote compose quando l'impero era ormai ridotto alla cittaÁ e a pochi avamposti, ma ancora si crogiolava nell'orgoglio della sua antica tradizione gloriosa. 5. IL TESTO Del sapientissimo ed eccellentissimo Psello sui poteri delle pietre [A] Io non mi arrischierei a ricercare per te le cause dei poteri che [sono] nelle pietre, ne imiteroÁ in questa parte la precipitazione dei dogmatici, [pur] potendo inventare molte cose [nuove] per ciascuna [di esse]. Al contrario, ti sveleroÁ i poteri insiti in ciascuna delle pietre da noi esaminate accuratamente e [in] quelle che noi uomini prediligiamo soprattutto, affinche tu li usi nei momenti opportuni e [possa] trarre da esse un vantaggio e, perche io tralascio le STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 253 pietre a noi ignote [come] l'onocardio e l'olcade e la spongite, e la limoniate e il lincurio, e la triglite e il trioftalmio, e il socondio e [la] siringite e lo scisto e tutte quante quelle simili, di cui conosciamo solo i nomi, senza che tuttavia ci capiti in ogni modo di imbatterci in queste, cominceroÁ da quelle a noi piuÁ conosciute. [1] Per incominciare il diamante: questo [minerale] ha un aspetto [superficiale] che tende al vetro ed [eÁ] lucente, eÁ forte e difficile a rompersi; portato appeso al collo fa cessare le febbri semiterzane. [2] L'ematite: si chiama cosõÁ perche inumidita con acqua lascia apparire una superficie sanguigna; impastata con acqua guarisce le malattie degli occhi. [3] L'ametista eÁ d'aspetto simile al giacinto nel colore, ma guarisce i mali di testa e protegge i bevitori di vino, donde [viene] a questa anche il nome. [4] Il carbonchio ha la genesi nelle Indie, eÁ somigliante ai carboni, e mentre un [tipo] eÁ di chiarore femminile, un altro eÁ invece un po' piuÁ scuro; osservato contro sole eÁ di colore rosso cupo, si trova in montagna [poicheÂ] brilla in risposta ai raggi solari, e gli esperti di pietre lo conoscono di vario colore, peroÁ non ne sanno le proprietaÁ, e [non] dicono [altro] se non solo che l'antracite proveniente dal [paese dei] Tesproti, quella che ha meno la lucentezza del fuoco, cura i mali di testa bruciando presso il malato. [5] L'agata: eÁ variegata nell'aspetto e traslucida; ed eÁ ora alquanto pallida, ora rosso-ocra quella simile alla sarda. Cura i flussi dagli occhi e i mali di testa, trattiene anche il flusso delle donne ed eÁ antidoto all'idropisia umida e tanto grande ad essa eÁ l'intorno della virtuÁ disseccante che puoÁ perfino assorbire acqua e svuotare il recipiente. [6] Il berillo: tre [sono] le forme di questa pietra, e di esse una eÁ olivastra nell'aspetto, una somigliante al mare, una rilucente per effetti di luce e omogenea e splendente da lontano. Questa pietra, dunque, cura rigiditaÁ e spasimi e dolori degli occhi e itterizia. [7] La galattite, misteriosamente, eÁ piena di latte: donde, infatti, le [viene] anche il nome; e provoca l'effusione di latte alle donne, e causa dimenticanza delle cose cattive e ricordo delle cose belle; eÁ rimedio anche alle ferite degli animali feroci, se appesa [al collo]. [8] L'ambra: alcuna eÁ indiana, altra eÁ ligure; sia gli Sciti sia gli Etiopi vivono con essa; e si trova presso il fiume Eridano. Taluni anche dicono che eÁ proprio la lacrima [= secrezione] di un qualche albero: eÁ, infatti, leggera e brucia come l'incenso e la mastica [di lentisco]. Portata appesa [al collo], cura la difficoltaÁ di orinare e manda via le febbri e arresta il flusso di stomaco; e anche spalmata sugli occhi favorisce l'acutezza della vista. [9] Il diaspro [eÁ] per natura simile al cristallo, un po' piuÁ carico nel colore; e il [tipo] migliore eÁ quello che si colora lievemente di purpureo, il secondo quello piuÁ simile al flegma(41) e tendente al bianco, e qualcuno eÁ anche simile all'aria; frena i flussi di testa e scaccia gli incubi, e si oppone a malattie pestilenziali ed epilettiche. C'eÁ anche un diaspro che somiglia a smeraldo, uno somigliante a neve, e un altro ancora rassomigliante a cervello d'agnello, di cui finora nessuno conobbe il potere. (41) Il flegma eÁ uno dei quattro umori fondamentali della medicina antica, riferiti ai quattro elementi aristotelici (sangue = aria; bile gialla = fuoco; bile nera = terra; flegma = acqua). Non eÁ direttamente riconducibile a nessuna delle secrezioni reali del corpo umano, anche se spesso il termine si trova tradotto con catarro o muco. 254 A. MOTTANA [10] Il dattilo ideo ha origine nel [monte] Ida di Creta ed eÁ, nella forma, somigliante a un dito pollice, [mentre] nell'aspetto [eÁ] ferrigno. Questa pietra eÁ la piuÁ giusta di tutte le pietre: porta infatti a termine le procreazioni generate da unioni giuste, e manda invece in rovina quelle inique e illegali. [11] Il cristallo assomiglia ad acqua pura, ma, surriscaldato ad opera del sole, prende l'aspetto di ametista, e [se l'aspetto] eÁ volto allo scuro diventa simile a diaspro. Questa [pietra] sfregata tiene lontani i tremiti e gli indebolimenti dei tendini. [12] La licnite: una [varietaÁ] eÁ simile al guscio di una conchiglia, e una diventa purpurea mentre un'altra eÁ trasparente; appesa al collo cura le cecitaÁ notturne, e frena i flussi degli occhi [quando eÁ] posta attorno alla fronte in una fettuccia di lino. [13] La pietra magnete eÁ nera e pesante e irregolare; e mentre una [varietaÁ] attira il ferro, un'altra [lo] respinge; sciolta poi con latte fa la vista acuta e cura l'umor nero. [14] L'onice eÁ piuttosto grande, cosõÁ che gli Indiani [possono] intagliare da qui anche piedi di letto; sospeso verso i raggi del sole rivela all'interno un molteplice aspetto: infatti uno [eÁ] nero come il carbone, un [altro] nero scuro, uno carnicino; disciolto frena visioni notturne, e sfregato daÁ sollievo ai denti che hanno un flusso [= pus?]. [15] Lo zaffiro arresta i flussi degli occhi [quando eÁ] eÁ applicato attorno alla fronte; cura ulcerazioni [quando eÁ] bevuto insieme col latte; eÁ sia disseccante sia astringente sia contrario alle febbri acute. [16] Sardonica: questa pietra ha a metaÁ una traccia bianca; ed eÁ sia d'un solo colore sia variamente colorata; e mentre quella d'un solo colore cura i flussi degli occhi e [portata] legata alla vita trattiene lo scivolamento dei feti [= l'aborto], quella variopinta, invece, [portata] appesa aiuta i malinconici. [17] La selenite: si chiama cosõÁ perche avendo una specie di occhio mostra questo cresciuto e diminuito insieme con le [fasi] crescenti e calanti della luna. [18] Lo smeraldo eÁ [di colore] simile al porro e lievemente tendente al dorato e mostrante anche un po' di colore glauco [= verdazzurro]; e lo generano l'Etiopia e l'Egitto e la Persia e qualche montagna dell'Attica. Lo stesso, impastato con acqua come cataplasma, daÁ beneficio ai malati di elefantiasi, e bevuto con acqua frena le perdite di sangue. [19] Giacinto. Questo genera la [terra] degli Indiani; ed eÁ dell'aspetto del mare; e cura i gonfiori [dovuti all'aria] e le fratture e fa cessare l'umor nero bevuto con aceto. [20] Crisolito [eÁ] un antidoto a tutti i malanni degli occhi. [21] Criselettro: questa [pietra] portata attorno al collo spegne le febbri. [22] Crisoprasio: questa [pietra] portata attorno ai polsi procura vista acuta, e cura gli stomaci che soffrono di bruciori ed evacua i gonfiori. [23] Calazia: questa [pietra] eÁ bianca e dura e simile a un piccolo cristallo. Attaccata attorno [alla vita?] cura i colpi degli scorpioni. [24] La pietra topazio eÁ trasparente, pressoche identica al vetro; eÁ generata [in qualche parte del] golfo Arabico in un'isola di mare aperto, e di giorno non si vede: il sole, infatti, ne nasconde lo scintillio; mentre di notte brilla da lontano. Ed eÁ trovata ruvida e irregolare, ma eÁ levigata con strumenti fatti a regola d'arte. Questa [pietra] tritata e bevuta cura coloro che delirano; ma fa lo stesso anche [se eÁ] appesa [al collo]. 255 STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... [Z] Di questi poteri [insiti] nelle pietre, molti pensarono di dare le cause: dei saggi piuÁ antichi Anassagora ed Empedocle e Democrito e di coloro [vissuti] non molto prima di noi Alessandro d'Afrodisia, uomo dispostissimo a parlare chiaramente su tutte le cose, persino dei segreti della natura. A te sia [di] bastevole [utilitaÁ] il potere e la forza [attiva] di ciascuna delle pietre: lascia tra i tesori su [in cielo] le ragioni di loro e le cause. 6. COMMENTO: Á DELLE PIETRE DI NOMI E IDENTITA PSELLO Psello espone le pietre secondo un ordine(42) che non appare razionalizzabile in alcun modo, ne secondo le norme dell'epoca ne sulla base dei principi sistematici attuali (tab. II): le prime diciotto pietre che descrive sono in ordine alfabetico (pur se con ampie lacune, se le confrontiamo ± ad esempio ± con le 60 gemme del lapidario di Damigerone ed Evace: cf. Halleux e Schamp, 1985: pp. 230-290), le ultime cinque in un ordine approssimativamente inverso rispetto alle ultime lettere dell'alfabeto greco. Tra il primo e il secondo gruppo, inoltre, mancano i nomi di numerose pietre che pure gli dovevano essere note perche sono citate in varie fonti bizantine(43). La sequenza adottata da Psello non eÁ confrontabile con quelle contenute in testi greci tardi come quelli attribuiti a Orfeo, Socrate e Dionisio e DamigeroneEvace e non appare razionalizzabile ne per confronto con la tradizione, ne in nessun'altra forma. Addirittura, l'ultima pietra descritta (il topazio) inizia con la lettera T, che nella chiesa greca indica la croce e che era usata spesso in chiusura di testi di cui che si voleva affermare la correttezza sotto l'aspetto della dottrina cristiana(44). Pertanto non vi eÁ alcuna maniera apparente di esporla ora se non ripetendola tal quale oppure nell'ordine alfabetico esatto. Tuttavia, prima di arrivare a quest'ultimo, che eÁ comodo e pratico, ma eÁ per se stesso un riconoscimento d'inettitudine, si puoÁ tentare di avvalersi delle descrizioni contenute nel suo scritto per proporre identificazioni su basi moderne, almeno per quanto cioÁ eÁ possibile (Hiller, 1931). Purtroppo, infatti, le descrizioni di Psello sono sempre molto concise e in alcuni casi mancano del tutto(45). Di conseguenza, questo processo di razionalizzazione su basi diagnostiche implicheraÁ la (42) Psello scriveva mille anni dopo Dioscoride, l'unico scienziato greco a noi noto che abbia tentato di raggruppare i minerali secondo un ordine logico basato sull'effetto fisiologico della medicina per la quale li utilizzava e quindi, sostanzialmente, sul catione in essi contenuto e prevalente (Riddle, 1985: p. 147). Il metodo di Dioscoride, puramente empirico ma efficace per la medicina, non fu per niente capito dai suoi successori, che si affrettarono a produrre una nuova versione del De materia medica secondo l'ordine alfabetico delle piante e dei minerali. La versione alfabetica soppiantoÁ quella originale e fu molto piuÁ diffusa di questa durante tutto il Medioevo, anche se la fortuna ha voluto che quella originale ci sia stata conservata (cf. Mottana, 2002). (43) La tabella II riporta tra parentesi, dopo le pietre descritte da Psello nel testo in esame, anche quelle che egli menziona ma non descrive, in questa come pure in altre sue opere. (44) Devo questa osservazione, di carattere storico-letterario, ma anche simbolico in senso cristiano secondo usi a me non familiari, all'acume del Prof. Massimo Peri. (45) Mi riferisco, in particolare, alle ultime cinque pietre (quelle in ordine alfabetico inverso), delle quali Psello fornisce solo le presunte proprietaÁ terapeutiche, trascurando completamente le descrizioni dei caratteri oggettivi. 256 A. MOTTANA TABELLA II. ± Confronto tra nomenclature mineralogiche: greca di Psello, latina di Plinio, italiana approssimativamente traslitterata e la relativa interpretazione moderna. N. Psello Plinio Trascrizione Identificazione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 a$da*maQ ai< mati* thQ a$me*uysoQ a>nuraj a$xa*thQ bh*rylloQ galakti* thQ h>lektron i> aspiQ i$ dai& oQ da&ktyloQ kry*stalloQ lyxyi* thQ ma*gnhQ li* uoQ o>vyj sa*pWeiroQ sardv*nyj selhni* thQ sma*ragdoQ y<a*kinuoQ xruso*liuoQ xrysh*lekroQ xryso*prasoQ xalazi* aQ topa*zion anuraki* thQ (o$noka*rdioQ) (o<lka*Q) (spoggi* thQ) (leimvnia*thQ) (lygkoy*rioQ) (trigli* thQ) (trio*WtalmoQ) (soko*ndioQ) (syriggi* thQ) (sxisto*Q) (gaga*thQ) adamas haematitis amethystis carbunculus achates berullus galactitis succinum iaspis idaeus dactylus crystallus lichnis magnes onyx sappirus sardonyx selenitis smaragdus hyacinthus chrysolithus chryselectrum chrysoprasum chalazias topazum anthracitis onocardia Ð spongitis limoniatis lyncurium triglitis triophtalmos socondios syringitis schistos gagates diamante ematite ametista carbonchio agata berillo galattite succino, ambra diaspro dattilo ideo cristallo licnite magnete onice zaffiro sardonica selenite smeraldo giacinto crisolito criselettro crisoprasio calazia topazio antracite onocardio olcade spongite limoniate lincurio triglite trioftalmo socondio siringite scisto gagate corindone «leucozaffiro» ematite quarzo «ametista» corindone «rubino» quarzo «agata» berillo (tre varietaÁ) zeolite? ambra diaspro rostro di belemnite quarzo «cristallo di rocca» tormalina rossa? roccia a magnetite onice lapislazzuli sardonica ortoclasio «lunaria» smithsonite zircone rosso forsterite «crisolito» ambra gialla quarzo «crisoprasio» diamante? forsterite «peridoto» carbone «antracite» ? ? spicola di spugna pietra verde? tormalina rossa ? onice «triocchiato» quarzo «ametista» rossastro stalattite scisto giaietto generazione di una nuova sequenza di nomi che saraÁ sõÁ impostata e commentata secondo i principi sistematici moderni, ma saraÁ comunque arbitraria rispetto alla sequenza originale e ± quasi sicuramente ± agli intendimenti dell'autore. Ho deciso, comunque, di basarmi su quanto descritto da Psello, di costruire in base a questo l'identificazione piuÁ oggettiva possibile in termini moderni e di rifarmi al sistema mineralogico piuÁ recente, che eÁ basato sulla cristallochimica e che, pertanto, non presenta nessuna relazione scientifica con le conoscenze che potevano avere gli studiosi del XI sec. d.C. o le loro fonti, ma ha il vantaggio di essere condivisibile da tutti allo stato attuale delle conoscenze scientifiche. Si tratta della classificazione sistematica impostata da Hugo Strunz nel 1942, non secondo la versione iniziale, ma secondo la versione attualizzata da lui stesso (Strunz e Nickel, 2001). Su queste stesse basi concettuali si basa, sostan- STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 257 zialmente anche se non ufficialmente, il sistema adottato dalla International Mineralogical Association (I.M.A.) per il riconoscimento delle nuove specie minerali. In base a questa classificazione, peroÁ, delle pietre descritte da Psello solo 15 risultano essere autentiche specie minerali; altre quattro sono semplici varietaÁ microcristalline colorate di quarzo, una eÁ una concrezione e due addirittura sono rocce. Psello descrive, inoltre, almeno due materiali organici che non rientrano in nessuna classificazione mineralogica moderna e nel suo elenco piuÁ di una pietra eÁ veramente ardua da classificare, poiche la descrizione che l'accompagna non solo non eÁ determinante per una identificazione corretta, ma non eÁ neppure sufficiente per avanzare un'interpretazione approssimativa. 6.1. Diamante (= corindone ialino) (n. 1, rr. 14-16). Le caratteristiche fisiche indicate da Psello indicano che, sicuramente, egli non si rifaÁ allo a$da*maQ o «adamante» di Platone(46) (Timaeus, 59b-c), ma che si riferisce piuttosto a una pietra limpida e trasparente: forse eÁ la stessa dell'attuale, ma a quell'epoca si trattava ancora, piuÁ probabilmente e come nella maggior parte dei casi citati dagli autori classici, di corindone ialino, chiamato anche «leucozaffiro» (Al2O3-R 3c). Questa gemma presenta le caratteristiche d'elevata durezza (9 nella scala di Mohs), di tenacitaÁ (dovuta all'assenza di sfaldatura), di trasparenza ed inoltre di buona lucentezza citate da Psello, per cui ha potuto essere usata, per molto tempo e fino al secolo scorso, come imitazione del diamante(47). La sua lucentezza, peroÁ, eÁ nettamente inferiore a quella del diamante, col risultato che il corindone ialino, anche di ottima qualitaÁ, ha un aspetto vitreo e privo di fuoco pur se la sua birifrangenza eÁ notevolmente elevata (Mottana et al., 1977: n. 65; Webster, 1994: pp. 101-103). In un simile contesto oggettivo, quindi, interpreto il termine xroia* in modo diverso dal Galigani (1980: p. 76): a mio parere Psello non intendeva riferirsi al colore della pietra(48), bensõÁ alla sua apparenza (aspetto) esteriore. CosõÁ, del resto, intendevano il colore i pitagorici (Aetio 1, 15, 2, Diels, 19292: p. 313; cf. anche Aristotele, De sensu 439a30: pelle). La pietra, quindi, di qualunque specie mineralogica essa sia realmente, eÁ descritta da Psello come vitrea e lucente senza una specificazione cromatica, anche se il colore, di fatto, eÁ una delle sue caratteristiche piuÁ immediatamente percettibili. Psello stesso, nel capitolo del suo zibaldone De omnifaria doctrina (Mussini, 1990: § 89) (46) Si tratta o di un acciaio (Barb, 1969) o di una lega metallica del tipo Fe+PGM (= «platinum group metals») non di origine naturale, ma che residua nel crogiolo dopo il trattamento di raffinazione dell'oro con cui era in lega (Mottana e Napolitano, 1997: p. 178). (47) Fino agli anni `50 questi corindoni erano tagliati a brillante oppure a rosetta. Quando non erano fatti passare per diamanti, essi erano commercializzati come pietra sostitutiva col nome di «zaffiro d'acqua». (48) A maggior ragione, quindi, non le attribuisco la specifica di «verde», come nella traduzione del Galigani (1980: p. 77), che non compare nel testo greco: probabilmente il Galigani eÁ stato tratto in inganno dall'aggettivo y<eli* zoysan, che sta per vitreo traslucido e non per verde bottiglia. Quest'ultima sfumatura non avrebbe nessuna motivazione ne scientifica ne storica, poiche eÁ molto rara tanto nel corindone quanto nel diamante. Plinio, accenna alla tonalitaÁ rossastra solo per alcuni diamanti degeneri: forse si trattava quarzi. Volk (1990: p. 139) traduce «schimmernde Farbe», quindi accetta che Psello parli di colore, ma solo in quanto luccicante. 258 A. MOTTANA intitolato Peri+ xrvma*tvn ossia «sui colori», definisce il colore come una proprietaÁ visibile della superficie dei corpi, in cioÁ riferendosi non tanto ai pitagorici(49), quanto piuttosto a Platone (Timaeus 67C-68D) di cui era seguace nella filosofia e grande ammiratore. Nei due rinvii citati dal Galigani (1980: p. 94) a sostegno della sua traduzione, inoltre, si parla non di xroia*, ma di xrv*ma: questo sõÁ, indiscutibilmente, eÁ il colore e questo, infatti, eÁ il termine usato da Psello quando vuole indicare proprio il colore (r. 95). Plinio si diffonde sul diamante, che considera gemma «regale», cioeÁ quella di piuÁ alto valore (37.55-61); non fa, peroÁ, riferimento a nessun autore greco e tanto meno a Senocrate, ne accenna a un suo uso in Medicina. Quanto alle proprietaÁ profilattiche indicate da Psello, per certo esse non sono tratte da Dioscoride (che di diamante non parla per nulla), ma da un qualche scritto greco tardo e rielaborato in un contesto magico o asiatico o egizio: ha, infatti, una connotazione chiaramente superstiziosa d'ascendenza orientale la prescrizione di portare la pietra appesa al collo come un amuleto per farle sviluppare al meglio la propria efficacia di antidoto contro le febbri malariche. L'Ullmann (1972b: p. 63), infine, richiama l'attenzione su un passo di al-QazwõÅnõÅ (50) che, senza citare la sua fonte, riferisce che il diamante incide l'incudine su cui eÁ colpito col martello quasi negli stessi termini di Girolamo (Commentarii in Amos propheta, 3.7: Migne, 1857: t. XXV, col. 1075). Questi, come abbiamo giaÁ visto, l'attribuiva a Senocrate. Questa informazione errata non viene ripresa da Psello: cioÁ puoÁ forse confermare che egli avesse verificato sperimentalmente che eÁ falsa, vale a dire che egli abbia effettivamente eseguito quei controlli che afferma nell'introduzione al trattatello (r. 5). Il termine a$da*maQ ricorre in quasi tutti i lapidari antichi, con varie descrizioni ed accezioni che sembrano indicare piuÁ una citazione per sentito dire che una conoscenza diretta. Raramente ha implicazioni mediche, fuorche nel lapidario di Damigerone-Evace (3, Halleux e Schamp, 1985: pp. 238-239) in cui gli si attribuisce il potere di allontanare gli incubi notturni. 6.2. Carbonchio (= corindone «rubino»?) (n. 4, rr. 23-31). Questo termine antiquato traspone (male) in italiano il carbunculus di Plinio (37.92), che eÁ la traduzione di a>nuraj. La pietra descritta da Psello eÁ di difficile identificazione, anche perche nell'antichitaÁ uno stesso nome era usato per pietre diverse che avessero tutte l'aspetto di un tizzone ardente, anche quando non potevano essere confuse tra loro(51) per altre proprietaÁ. GiaÁ Plinio, infatti, distingueva il carbonchio in «maschio» e «femmina» (37.93) sulla base del colore piuÁ o meno scuro che presentava, e chiaramente intendeva due pietre tra loro diverse. CioÁ nonostante, eÁ pressoche impossibile un'univoca assegnazione del carbonchio di Psello a una delle specie mineralogiche attuali: potrebbe trattarsi di un granato piropo o di uno spinello «balascio» o, ancora, di un corindone (Harden, 1960). L'identificazione piuÁ (49) Se cosõÁ fosse, eÁ probabile che li conoscesse tramite Plutarco (Placita, 1.15), che li cita espressamente. (50) Studioso arabo di scienza naturale e di filosofia morto nel 1283 d.C. (51) Certe limitazioni di vocabolario, in latino e in greco, non sono rare. Ad esempio: Teofrasto usa il nome xalko*Q indifferentemente per rame e bronzo, salvo poi precisare il primo con l'aggettivo e$ ryuro*Q, rosso (Mottana, 2001: p. 145); Plinio usa lo stesso sostantivo plumbum per piombo e stagno e per marcare la distinzione tra i due metalli fa ricorso ad aggettivi: nigrum per il Pb ed album per lo Sn (Mottana, 1999: p. 183). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 259 di comunemente accettata eÁ col «rubino» (varietaÁ cromifera di corindone, Al2O3-R 3c, colore rosso vivace), ma cioÁ solo per l'aspetto, che Psello precisa esser simile al carbone ardente, cioeÁ brillante e vivace, perche non eÁ degna di affidamento la sua affermazione che proviene dalle Indie. EÁ ben vero che Ceylon (Sri Lanka) era ed eÁ una delle principali fonti di «rubini», ma il termine «Indie», giaÁ nell'antichitaÁ classica (e, quindi, sicuramente anche in epoca bizantina), stava a identificare indifferentemente tutti i paesi asiatici meridionali ad Est della Persia, dove sono estremamente diffusi anche spinelli e granati. CioÁ premesso, questo passo deve comunque essere analizzato con cura poiche eÁ critico per l'individuazione della fonte di Psello (vedi sopra). Presenta una stretta corrispondenza col testo di Plinio (37.92-98) e si presume che derivi dalla stessa fonte, e tuttavia Plinio non accenna a Senocrate, ma riferisce solo che le osservazioni da cui trae il suo racconto sono di Teofrasto, Callistrato e Archelao. Teofrasto, in realtaÁ, nel descrivere lo a>nuraQ (De lapidibus, II. 18; Mottana e Napolitano, 1997: pp. 180-183(52)), ne cita tre possibili provenienze, ma le specifiche che ne daÁ sono abbastanza equivoche e possono adattarsi sia al granato sia al corindone. Fa eccezione la varietaÁ che egli chiama «milesia» (III. 19), che eÁ sicuramente «rubino» poicheÂ, oltre ad essere incombustibile, si presenta in cristalli esagonali angolosi. Quanto a Callistrato e Archelao, non sappiamo nulla delle loro conoscenze fuorche quanto eÁ riportato da Plinio (37.94-95): che i carbonchi presentano un elevato splendore e un colore variabile dal bianco candido al rosso intenso. EÁ decisamente troppo poco per arrivare a una diagnosi tra le tre specie mineralogiche. L'analisi del passo di Psello evidenzia, ad ogni buon conto, alcune peculiaritaÁ. Anzitutto, egli esordisce citando la provenienza della pietra: caso abbastanza raro (sette volte nel corso del trattatello), ma che gli permette, poi, di fare luce sulla differenza che esiste tra il carbonchio cui fa riferimento e un altro tipo, che gli eÁ simile solo nominalmente: questa pietra eÁ, infatti, l'antracite (nome che dal greco «antrace» eÁ in diretta derivazione), che proviene da tutt'altra localitaÁ come la Tesprozia (Plinio, 37.99). GiaÁ Psello era pienamente conscio, dunque, che l'antracite eÁ un'altra pietra, perche egli stesso osserva che, in contrasto al «rubino» che eÁ assolutamente refrattario al calore, essa eÁ combustibile(53), al punto da poter servire per suffumigi contro il mal di testa. Qui sta la seconda peculiaritaÁ del passo: nella sua citazione del carbonchio p.d. Psello non cita nessuna «virtuÁ» della pietra o meglio, afferma che non eÁ in grado di farlo perche gli «esperti di pietre» non gliene forniscono la possibilitaÁ, non essendo loro stessi in grado di precisarne nessuna. Se l'esperto che fu la sua fonte era effettivamente Senocrate, costui, evidentemente, doveva aver reperito informazioni sui caratteri esteriori dai tre autori ripresi poi da Plinio, ma non era a conoscenza ne del «Lapidario nautico» (Halleux e Schamp, 1985: pp. 181-189), rara opera di chiara derivazione astrologica orientale attribuita ad un mago di nome (52) Nel citare Teofrasto, mi riferisco sempre, per il greco, all'edizione critica curata dall'Eichholz (1965) e per la traduzione italiana a quella effettuata sulla base di questa da Michele Napolitano (in Mottana e Napolitano, 1997). Al mio commento, invece, si riferisce l'eventuale indicazione di pagina che segue. (53) EÁ quindi insostenibile la sua identificazione col «rubino spinello» proposta dal Galigani (1980: p. 100), perche anche lo spinello rosso eÁ refrattario e incombustibile. 260 A. MOTTANA Astrampsico(54), dove si afferma (cap. 1) che il portare il carbonchio impedisce di affogare in caso di naufragio, ne del Satiricon di Petronio (m. 66 d.C.), dove al carbonchio eÁ attribuita le virtuÁ di evidenziare l'onestaÁ femminile (cap. 55). Questa presunta proprietaÁ, anche se ignota a Senocrate, avrebbe dovuto esserlo a Plinio, che certamente aveva conosciuto Petronio di persona e ne aveva forse letto il libro, ma poteva non essere mai arrivata a Costantinopoli all'attenzione di Psello che, per quanto coltissimo, non conosceva la letteratura latina profana per il semplice fatto che, quasi sicuramente, non intendeva il latino. 6.3. Ematite (n. 2, rr. 17-19). La mia interpretazione di xroia* nel senso di aspetto superficiale (cf. 6.1) mi condiziona nel dare un significato moderno ai caratteri di questa pietra cosõÁ come essi sono descritti da Psello e mi porta a conclusioni diverse da quelle del Galigani (1980: p. 77): non di un'emissione di colore da parte di essa si tratta, se bagnata, ma di un'evidenziazione del suo colore proprio, che eÁ il rosso, dovuta all'attenuazione della riflessione diffusa, che si verifica quando l'acqua che impregna la pietra ne livella le asperitaÁ di superficie, soprattutto se rotta di fresco. EÁ ben noto, infatti, che l'ematite eÁ allocromatica: nera o bruno scura in massa, diventa rosso sangue o rosso ciliegia scuro una volta ridotta in polvere (o alla prova dello striscio: Mottana et al., 1977: n. 66), cosõÁ come eÁ ben noto che il colore di una lastra di pietra bagnata appare piuÁ vivace di quello della stessa lastra quando eÁ asciutta. Quanto all'utilitaÁ della sospensione d'ematite minutamente polverizzata in acqua per la cura delle malattie degli occhi, essa eÁ motivata forse dal fatto che l'intruglio presenta proprietaÁ astringenti e depurative, come Dioscoride conferma anche per altre applicazioni (De materia medica, 5.126(55)). Questa interpretazione eÁ rafforzata dal fatto che anche Senocrate, probabile fonte di Psello, in un frammento sopravvissuto in arabo che mostra molte corrispondenze con i testi di Plinio e di Dioscoride (fr. 3 in Ullmann, 1972b: pp. 55-58), sostiene che essa serve a contenere l'orina e come antidoto ai veleno dei serpenti, oltre ad essere efficace contro le emorragie. Va aggiunto che Senocrate riporta anche alcune osservazioni sull'uso della «ruggine di ferro» come farmaco (fr. 4 in Ullmann, 1972b: p. 58), senza peroÁ rendersi conto, probabilmente a causa della marcata differenza d'origine del materiale, che si tratta di ematite polverizzata e mischiata con limonite. Si noti, inoltre, che Psello sembra conoscere solo una delle numerose indicazioni mediche presenti nel Lithica attribuito a Orfeo (vv. 642-690: Halleux e Schamp, 1985: pp. 117-119; cf. Bianco, 1992: pp. 9496)(56), appunto la prima: che l'ematite, se «sciolta» in acqua e usata per abluzioni, eÁ utile (54) L'esistenza di un mago di questo nome, che sarebbe vissuto a cavallo dell'era volgare, eÁ attestata da Diogene Laerzio (II sec. d.C.) e dalla Suda (X sec.): cf. Halleux e Schamp (1985: p. 183, nota 6). L'opera pervenutaci eÁ stata, in ogni caso, rielaborata nel testo per un paio di secoli almeno. (55) Tutti i miei rinvii a Dioscoride fanno riferimento all'edizione del De materia medica curata dal Wellmann (1906-14), che ho integrato con la traduzione italiana commentata di Pietro Andrea Mattioli (1557). Dove possibile, ho fatto riferimento alle figure dell'antico codice miniato di Anicia Giuliana (Mazal, 1998). (56) Non conosce bene neppure quelle riassunte nei Kerygmata, che per questa parte ne sono i derivati (22, Halleux e Schamp, 1985: p. 164; Bianco, 1992: p. 122). Sulla datazione e sul modo in cui si sono formati i Kerygmata si veda piuÁ oltre. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 261 contro le oftalmie. Vale la pena di ricordare, a questo punto, che il Lithica eÁ un poema in esametri composto prima del II sec. d.C., ma rimaneggiato piuÁ tardi, almeno fino a dopo il 372 d.C. (contiene un'allusione alla persecuzione dei filosofi neoplatonici ordinata dall'imperatore Valente in quell'anno: Halleux e Schamp, 1985: p. 52). Non se ne hanno tracce sicure in epoca bizantina prima del XII sec., quando fu commentato in vari punti da Giovanni Tzetze (Halleux e Schamp, 1985: p. 68), per cominciare ad essere poi diffuso realmente solo nel XV sec., ad opera dell'erudito bizantino Demetrio Mosco, fuggiasco in Italia nel 1470 e vissuto almeno fino al 1517, quando ne pote dare alle stampe l'editio princeps. Tutta la tradizione manoscritta e quella a stampa successiva dipendono pesantemente da un intervento che contaminoÁ il poema in modo arbitrario e che si ritiene sia stato opera, appunto, del Mosco. Fanno eccezione un codice (Ambrosianus B120) e un frammento (Vaticanus graecus 915, f. 23r, noto anche come Excerpta Vaticana), che sono piuttosto tardi e tuttavia precedenti al gruppo di codici sul quale si basa l'edizione critica (Halleux e Schamp, 1985: pp. 82-123). EÁ, quindi, solo a titolo d'ipotesi che Halleux e Schamp (1985: p. 70) sostengono che la trascrizione del poema dalla scrittura capitale a quella in lettere minuscole sarebbe stata fatta per interessamento di Psello: l'eventuale testimonianza di cioÁ potrebbe essere, forse, il frammento vaticano (che eÁ dell'inizio del XIV sec.), dei cui otto gruppi di versi rimasti peroÁ solo tre, molto brevi (5 esametri in tutto), riguardano la parte mineralogica. Anche il codice ambrosiano manca dell'inizio, ma contiene quasi tutta la parte mineralogica, pur presentando lacune ed errori che fanno comprendere come l'originale da cui eÁ stato copiato, anche se malridotto e lacunoso, era giaÁ in minuscole (Abel, 1881). L'intervento del Mosco, quindi, riguarderebbe l'introduzione e una digressione iniziale di natura bucolica con elementi ermetici, mentre la parte mineralogica sarebbe in gran parte riferibile all'originale antico, che trasmetteva i segreti del saggio Teodamante(57), pieni di implicazioni magiche orientali, e gli insegnamenti di Eleno, pure essi pieni di poteri divinatori, ma anche di indicazioni profilattiche soprattutto contro i rischi creati dai serpenti. Delle pietre citate da Psello, oltre all'ematite, il Lithica di Orfeo menziona agata, galattite, diaspro, cristallo, licnite, magnete e topazio, suggerendone capacitaÁ terapeutiche molteplici, di cui quasi nessuna trova peroÁ riscontro in Psello, mentre le descrizioni sono spesso compatibili. Nel complesso, dunque, che Psello conoscesse il Lithica appare tutt'altro che certo. Se ci si basa sul breve passo dedicato all'ematite, bisognerebbe peroÁ concludere che Psello o conosceva poco il libro di Senocrate oppure ne estraeva le notizie mediche a caso. Quanto ci hanno tramandato gli Arabi (fr. 3 in Ullmann, 1972b) eÁ molto di piuÁ: non solo gli usi in medicina sono molto piuÁ numerosi, ma vi sono indicate applicazioni di tipo magico e (57) Figura mitologica, definito figlio di Priamo e per questo diventato oggetto, assieme all'intero poema, dell'analisi di Giovanni Tzetze, che fu il primo ad attribuirlo ad Orfeo nel suo commento all'Iliade (Leone, 1968). Anche Eleno eÁ figlio di Priamo e ha un ruolo importante nel poema perche usa una pietra per alleviare le sofferenze di Filottete. Insieme alla metrica ed alla lingua raffinate, queste reminiscenze mitologiche hanno convinto i commentatori della grande antichitaÁ del poema, cosõÁ che ne hanno attribuito la composizione della maggior parte (quella essenziale) al periodo d'oro dell'epica alessandrina (II-III sec. a.C.), pur riconoscendovi rimaneggiamenti fino al IV sec. d.C. 262 A. MOTTANA perfino forme d'uso pratico come quella di macinarla sulla cote. Che fosse considerata utile per la cura delle malattie degli occhi lo conferma il lapidario di Damigerone-Evace (9: Halleux e Schamp, 1985: pp. 245-246), che peroÁ la stima efficace anche per le emorragie e le prostatiti. 6.4. Magnete (= calamita: roccia a magnetite) (n. 13, rr. 75-77). Colore, pesantezza e capacitaÁ di attrarre il ferro rendono immediatamente riconoscibile questa pietra, che non eÁ un minerale singolo, ma un aggregato di prevalente magnetite (Fe3+[Fe2+Fe3+]O4-Fd3m) in una matrice qualsiasi, per lo piuÁ silicea. La sua proprietaÁ attrattiva eÁ conosciuta dalla piuÁ remota antichitaÁ e, secondo Aristotele (De anima, I.2, 405a), era giaÁ stata descritta da Talete (VI sec. a.C.), il che, nella visione dei Greci, equivaleva a richiamare i primordi della Scienza. Psello ne poteva trovare conferma in molti scrittori della grecitaÁ classica ed anche, per un periodo piuÁ vicino a lui, in Fozio (Bibliotheca, 215ë, Wilson, 1992: p. 370). PiuÁ problematica eÁ invece la sua frase sulla proprietaÁ repulsiva. Il testo indica una contrapposizione (o< me+n tiQ ... o< de+ ), ma non dice tra che cosa. Seguendo il Galigani (1980: p. 79) e il Volk (1990: p. 144) ho scelto di interpretarla come contrapposizione tra tipi (varietaÁ), anche se cioÁ non ha senso fisico, ma potrebbe trattarsi anche di una contrapposizione di poli, essendo il magnetismo appunto caratterizzato da due polaritaÁ (Wallace, 1996). Il comportamento magnetico della calamita eÁ stato spiegato solo in epoca moderna e sarebbe improprio cercare di forzare il testo di Psello a indicarne un'intuizione non altrimenti documentata da lui neppure in un testo descrittivo di stranezze naturali come il De incredibilibus lectionibus. La denominazione ma*gnhQ li* uoQ usata da Psello non corrisponde a quella classica (magnh&tiQ) ne nella grafia ne nel genere. Sembra essere un'innovazione lessicale entrata in uso in epoca greco-romana (Goltz, 1972: p. 174): eÁ attestata, infatti, a partire dalla versione in prosa del lapidario orfico(58) (Kerygmata, 11: in Halleux e Schamp, 1985: p. 153) e anche in questa solo come variante alternativa al termine classico e, quindi, non ancora d'uso generale. Peso notevole e colore bluastro scuro sono le proprietaÁ fisiche indicate anche da Dioscoride (5.130) e corrispondono a quelle della magnetite p.d., mentre Plinio (che dichiara di trarre le sue notizie su di questa pietra non da Senocrate, ma da Sotaco(59)), afferma che il colore del magnete varia dal nero al rosso (36.128). CioÁ implica che in molte pietre magnetiche della sua epoca la magnetite era frammista ad ematite: sostiene anche, infatti, che molte presentavano una potere attrattivo da attenuato («femminile») fino a nullo, come appunto avviene quando varia il rapporto quantitativo tra magnetite (magnetopolare) e ematite (diamagnetica). Plinio cita, inoltre, una varietaÁ argentea di pietra magnete che peroÁ, probabilmente, eÁ steatite, anche se questa non eÁ magnetica. Questo era, in realtaÁ, il significato originale del termine magnh&tiQ usato da Teofrasto (VII. 41), mentre con h<raklei* a li* uoQ (I. 4) egli indicava la calamita. Non ho riscontrato nessun precedente per l'indicazione di Psello che la pietra eÁ irregolare, ma si tratta di un carattere macroscopico immediato e quasi ovvio, in un frammento di roccia, che (58) Ma non in quella in poesia, che eÁ decisamente piuÁ antica, anche se imprecisata. (59) Scrittore vissuto all'epoca dei Diadochi (III sec. a.C.) di cui non resta altro che quanto citato da Plinio. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 263 puoÁ essere frutto di una sua osservazione diretta. Infine, non ho trovato precedenti neppure per la sua affermazione che esiste una varietaÁ di magnete che respinge il ferro (se di varietaÁ si tratta: vedi sopra), se non un vago accenno in Plinio (20.2(60)) e nel lapidario di Damigerone-Evace (30, Halleux e Schamp, 1985: p. 271). Questi due peroÁ gli si attribuiscono anche molte altre facoltaÁ ben piuÁ favolose, mentre, probabilmente, da parte di Plinio e di Psello, si tratta di una ripresa d'informazione dalla loro fonte comune, Senocrate, senza che possiamo esserne certi perche nessun riferimento al magnete figura tra i frammenti di questi che si sono conservati in arabo. La prescrizione di sciogliere il magnete nel latte per aguzzare la vista si ritrova in Plinio sotto forma di un suo uso per una generica cura oftalmica (37.130), mentre non ha precedenti a me noti l'utilizzazione del magnete come rimedio contro l'atrabile. Non eÁ escluso, per queste utilizzazioni in medicina, che la fonte comune di Plinio e Psello confondesse il magnete in quanto calamita con la steatite (vedi sopra) oppure con un qualche sale di magnesio, forse il carbonato, le cui proprietaÁ depurative sono note fin dai tempi di Ippocrate (Moore, 1834: pp. 115-116): la magnetite, infatti, non eÁ solubile ne in acqua ne in soluzioni organiche di nessun tipo (Mottana et al., 1977: n. 54). 6.5.a. Cristallo (= «cristallo di rocca» = quarzo ialino) (n. 11, rr. 67-70). Il termine kry*stalloQ significava in origine ghiaccio (Aristotele, Meteorologica, I.12: 347b36), ma fu usato da Teofrasto solo per indicare il quarzo, che egli considerava ghiaccio congelato oltre ogni limite (V.30). Fu ripreso in latino da Plinio (crystallus: 37.23) e usato durante tutto il Rinascimento e l'EtaÁ Moderna, ma, a partire dal primo fondamentale lavoro di Agricola (1530)(61), eÁ stato progressivamente sostituito nella terminologia mineralogica da «quarzo», nome di derivazione germanica. L'affermazione definitiva di quest'ultimo nome si deve agli svedesi Johann Gottschalk Wallerius e Torbern Olaf Bergman, alla metaÁ del Settecento: essi dimostrarono che alcune varietaÁ colorate, fino ad allora considerate pietre diverse tra loro, erano tutte chimicamente identiche a quella bianca. L'antico termine greco e latino, quindi, eÁ rimasto in uso solo per il «cristallo di rocca», che eÁ la varietaÁ incolore e trasparente (= ialina) di quarzo. Questo eÁ proprio il tipo descritto da Psello, anche se non appare ben chiaro a che cosa egli si riferisca quando accenna a cambiamenti di colore sotto il sole o al buio: nel primo caso potrebbe trattarsi di un (60) Il brano recita «ferrum ad se trahente magnete lapide et alio rursus abigente a sese» ... «in suis locis dicemus paria vel maiora miracula», ma Plinio si scorda poi della promessa e ne fa appena un cenno quando descrive dettagliatamente la calamita (36.126-130), affermando che la miracolosa proprietaÁ antiloga si verifica solo in un monte dell'Etiopia. Benche accettata in pieno Rinascimento, l'esistenza della pietra antagonista al magnete, chiamata theamedes, saraÁ negata con decisione giaÁ da William Gilbert (1600), il fondatore della moderna scienza del magnetismo (Mottana e Napolitano, 1997: pp. 189-190). (61) Il vocabolo ricorre, per la prima volta, nella forma «Quertz» (che richiama meglio il termine minerario sassone «Querklufterz»), in un libretto anonimo stampato all'incirca nel 1505 e attribuito a Ulrich RuÈhlein von Kalbe, un medico di Freiberg (Calbus Freibergius) che di Agricola era amico e collega. Furono Bergman e Wallerius a imporre la vocalizzazione svedese dell'originario nome sassone, riprendendo per altro quella che era giaÁ stata la sua vocalizzazione italiana nella traduzione cinquecentesca edita da Michele Tramezzino. 264 A. MOTTANA riconoscimento del fatto che una lente di quarzo appare infiammarsi quando concentra i raggi del sole, nel secondo che la trasparenza del minerale eÁ tale da farlo apparire scuro se il fondo eÁ scuro, ma le espressioni usate da Psello sono comunque equivoche. Inoltre, esse non trovano riscontro in Plinio che, pur citando qui ripetutamente Senocrate (37.23-29), ne riferisce solo informazioni su localitaÁ di ritrovamento e su dimensioni dei blocchi. Senocrate, tuttavia, aveva anche fatto cenno all'uso di strumenti (lenti?) di quarzo capaci di concentrare la luce del sole cosõÁ da accendere paglia, fili, e anche segatura di legno (fr. 5 in Ullmann, 1972b: pp. 58-60). Anche Plinio, pur senza citarlo, conferma che il calore ottenuto con strumenti ottici di quarzo era tale da poter essere usato per cauterizzare le ferite (37.28). Plinio non parla per niente, invece, delle supposte proprietaÁ terapeutiche menzionate da Psello, che sono tutte di tipo quasi magico, come giaÁ si deduce dall'accenno al bisogno di sfregare la pietra(62). Esse non compaiono neppure in Dioscoride, ma devono aver fatto parte di una lunga tradizione, perche prescrizioni simili si ritrovano nei Lithica di Orfeo (v. 190, Abel, 1881: p. 138; Halleux e Schamp, 1985: p. 92) e nei derivati Kerygmata (6, Halleux e Schamp, 1985: p. 146); la stesura di questi due testi, come si eÁ visto, eÁ riferibile al periodo greco-romano, ma essi riportano superstizioni sicuramente molto piuÁ antiche. Un manoscritto arabo (Ms. Bodl. d. 221) che Ullmann (1973: p. 62) considera testimone di una prima traduzione del trattato di Senocrate attribuisce a costui l'informazione che si possono tornire vasi di quarzo simili a vetro, alcuni dei quali possono poi essere colorati artificialmente (Ullmann, 1973: p. 64). La notizia, tecnologicamente importante, non trova riscontro nel testo di Psello. 6.5.b. Ametista (= quarzo «ametista») (n. 3, rr. 20-22). La caratteristica saliente di questa varietaÁ di quarzo eÁ il colore violetto, con tonalitaÁ e intensitaÁ che da viola rossastro scuro vanno fino a lilla chiaro quasi rosato (Mottana et al., 1977: n. 71). La causa del colore viola dell'ametista eÁ stata identificata nella presenza a livello strutturale di impuritaÁ ioniche di ferro, senza peroÁ che si sia riusciti finora a stabilire se il centro di colore derivi dalla sostituzione di un Si4+ con un Fe4+, eccitato per effetto di radiazioni ionizzanti, oppure con un Fe2+ associato a vacanze (Rossman, 1994: p. 443). Psello ne sottolinea l'aspetto simile al giacinto che, nella varietaÁ piuÁ diffusa nella penisola anatolica e nel Mediterraneo orientale (Hyacinthus orientalis), eÁ rosso-violaceo, anche se talora con una percettibile sfumatura verso l'azzurro. Diverge in cioÁ da Teofrasto, che descrive l'ametista unicamente come «vinata scura» (v. 31; cf. Capelle, 1958: p. 30). Per valutare correttamente il colore citato da Psello bisogna quindi ricorrere a Plinio. Dopo aver premesso che l'ametista appartiene alla categoria delle pietre purpuree (37.121) e che il tipo piuÁ pregevole eÁ quello che ha sul fondo di porpora una certa sfumatura lievemente rosata combinata con la brillantezza del carbonchio (37.123), egli ne distingue cinque tipi diversi e tra questi uno di un colore piuÁ chiaro «che sfuma nei giacinti» (descendit ad hyacinthos: 37.122). Poiche la fonte di Plinio per questo argomento eÁ, verosimilmente, Senocrate, bisogna concludere che sotto il nome d'ametista i Greci cumulassero gemme (62) Il quarzo presenta triboelettricitaÁ, ma troppo debole per poter essere usata bene coi mezzi allora a disposizione. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 265 diverse tutte tendenzialmente violacee come granati, quarzi, zirconi, ecc. e che stimassero soprattutto quelle di colore chiaro, forse perche trasparenti. Questa eÁ, in effetti, l'opinione dei primi gemmologi, che meglio forse di ogni altro erano in grado di percepire le opinioni degli antichi: e.g., de Boot (1609: pp. 162-166) associa l'ametista in primo luogo al quarzo, ma poi anche ai giacinti e ai carbonchi e trasferisce, quindi, su di lei anche tutte le incertezze che comportano le identificazioni di queste pietre (q.v.). Sulla leggenda che l'ametista protegga dall'ubriachezza vi eÁ una lunga tradizione, contro la quale combattevano giaÁ Plinio (37.124) e Plutarco (Quaestiones convivales, 3.1: Chirico, 2001), ma che eÁ continuata imperterrita per tutto il Medioevo (e.g., Alberto Magno, De mineralibus, t. II. 1: Wyckoff, 1967: p. 74)(63) e fino ai nostri giorni. Quanto alla sua efficacia contro il mal di testa, si tratta chiaramente di un sintomo collaterale dell'ubriachezza e quindi rientra nel connesso effetto placebo. 6.5.c. Sardonica (n. 16, rr. 86-90). Nel nominare questa pietra, anch'essa una varietaÁ compatta microcristallina di quarzo, Psello di colpo passa a considerare il termine li* uoQ come femminile (h<), quando prima l'aveva considerato sempre maschile (o<) fuorche in due casi in cui, per altro, il nome dato alla pietra era un aggettivo che lasciava il sostantivo sottinteso(64). Questo lascia pensare o che abbia cambiato la sua fonte, oppure che giaÁ fosse implicito, per lui, chiamare sardonica, al femminile, la gemma semipreziosa usata per la glittica, e sardonice, al maschile, la pietra ± ovviamente di minor qualitaÁ estetica ± usata per un piuÁ semplice decoro(65). La proprietaÁ fisica che caratterizza questa pietra, secondo Psello, eÁ di avere una linea bianca in mezzo, vale a dire una banda di luce dovuta a riflessione totale che separa le due zone di un fondo disomogeneo, oppure che oscilla su un fondo omogeneo per effetto di gatteggiamento. Gli aggettivi usati lasciano intendere che, almeno in questo caso, questo fondo presenta variazioni che sono di colore e non d'aspetto complessivo. Quanto alle proprietaÁ mediche, esse sono piuÁ o meno le stesse che saranno indicate per l'onice, con le precisazioni, peroÁ, che la sardonica, per poter portare i suoi benefici, va portata o appesa (presumibilmente al collo o a un arto) oppure cinta in vita e che i due tipi precedentemente descritti non solo apportano benefici diversi, ma richiedono un diverso modo di attaccare la pietra al corpo. In pratica, Psello ci comunica (63) Non poteva non essere che cosõÁ, perche i rapporti esistenti tra ametista e ubriachezza sono convalidati da Epifanio, il quale peroÁ li pone in positivo, affermando (n. 9 p. 120) che la pietra mista a vino permette di capire anzitempo il regime invernale dei venti e della pioggia. Per tutte le citazioni di Epifanio faccio riferimento alla ricostruzione del suo testo sulla base delle versioni tradotte nelle diverse lingue che Blake (1934) stampa alle pp. 99-122, dopo aver descritto il suo intento alla p. CXXIII. (64) I due casi sottintesi riguardano l'ametista e il diaspro. PiuÁ oltre, Psello considereraÁ di genere femminile anche lo smeraldo, anche in questo caso sottintendendo all'appellativo il sostantivo pietra. Vi eÁ un solo altro caso di cambiamento di genere: il neutro di h>lektron, ambra. (65) Ritengo indispensabile precisare che questa eÁ una mia supposizione. Nell'uso italiano moderno i due termini spesso si confondono e talvolta si sovrappongono (e.g., Devoto e Molayem, 1990: p. 46) ed eÁ del tutto arbitrario estrapolare cioÁ all'uso bizantino del XI sec. La peculiaritaÁ grammaticale, peroÁ, deve avere una qualche causa: probabilmente ha ragione il Moore (1834, 1978: p. 154, n. 4) quando fa rilevare che anche Plinio usa lo stesso sistema, sottintendendo gemmae quando usa sardonyches al femminile per riferirsi alle pietre adatte a incisioni per sigilli (37.86-89) e lapis quando usa onyx al maschile per riferirsi al materiale per vasetti portaunguento (36.61). 266 A. MOTTANA che la sardonica eÁ efficace solo se eÁ usata come amuleto. Anche i Kerygmata, nella seconda parte che eÁ riferita al lapidario di Socrate e Dionisio (31), riportano questa pietra come un talismano e propongono, addirittura, di incidervi l'immagine di Atena portante un cuore e con vicino un ariete. La loro descrizione, anche se manca delle prescrizioni mediche, eÁ meno breve di quella di Psello ed insiste piuttosto sul fatto che la sardonica puoÁ presentare venature di vari colori: celeste, miele, nero, biancastro e decisamente bianco (Halleux e Schamp, 1985: pp. 168-169; Bianco, 1992: p. 126). Plinio (37.86-89), invece, citando vari autori greci(66), descrive due tipi principali di sardonica: l'indiana, trasparente e con uno strato rosso alternato a uno bianco, e l'arabica, non trasparente e a piuÁ colori su un fondo nero o azzurrognolo. Di entrambi i tipi egli esalta la presenza di un orlo di luce bianca tra i diversi strati di colore e nota che esso diventa meno netto in sardoniche di minor pregio come quelle armene. Precisa, inoltre, che questa pietra era usatissima nella fabbricazione dei sigilli perche la cera, raffreddatasi dopo l'impronta, non restava aderente all'incisione (37.88). Psello conosceva la sardonica senz'altro bene, da esperto di letteratura cristiana qual era, perche ne parlano estesamente sia la Bibbia (Esodo 39.10; Apocalisse 21.20) sia Epifanio (1, distinguendola dal sardion = sarda e affermando che assomiglia a una rapa verde brillante: Blake, 1934: p. 103)(67). Ne parla, inoltre, Luciano da Samosata (De dea Syria, 32, Lightfoot, 2003), uno scrittore purista di quella scuola atticistica della cui ripresa artificiosa, al suo tempo, Psello fu un convinto sostenitore. Non bisogna, infine, dimenticare Plutarco(68) (De fluviis, 20.4 v. Monte Drimillo, de MeÂly, 1902: p. 32) che, sull'autoritaÁ di Nicia di Mallo(69), afferma che un infuso di sardonica nell'acqua tiepida fa bene alla vista; questo riferimento (sbagliato, perche nessuna varietaÁ di silice eÁ solubile in acqua ne fredda ne calda) non sembra peroÁ essere noto a Psello. Non ho trovato nessun riferimento all'uso della sardonica per prevenire gli aborti o per sostenere i depressi. Tuttavia i Kerygmata (32-36), nel descrivere l'onice secondo le stesse varietaÁ cromatiche che caratterizzano anche la sardonica (31), riferiscono che era portato dalle donne incinte perche procura una bella figliolanza, ed inoltre che conferisce un senso di sicurezza a chi lo porta. 6.5.d. Agata (n. 5, rr. 32-37). Psello mette subito in risalto i due caratteri salienti di questa varietaÁ colorata a zone concentriche di quarzo microcristallino: l'aspetto variegato, dovuto alle zonature di colore, e lo splendore traslucido. Interpreto in questo modo, (66) Nell'edizione da me seguita (Conte et al., 1988: p. 795) essi sono Ismenia, Demostrato, Zenotemide e Sotaco, mentre a Demostrato sostituisce Senocrate quella seguita da Halleux e Schamp (1985: p. 329, n. 8): una chiara dimostrazione dell'importanza del lavoro dei filologi per indirizzare correttamente quello dello storico della scienza! (67) Anche Giorgio Monaco parla di sardo*nyj in luogo di sa*rdion come risulta invece nella Bibbia dei Settanta, ma eÁ impossibile verificare se egli si ispira ad Epifanio oppure segue una tradizione testuale diversa. (68) Per alcuni studiosi questo testo eÁ apocrifo, ed eÁ opera di uno pseudo-Plutarco attivo nel II-III sec. d.C. (69) Autore di un trattato «sulle pietre», d'incerta identificazione e datazione. Probabilmente eÁ lo stesso citato da Plinio (37.36) per aver proposto una teoria sull'origine dell'ambra che la considerava una secrezione dei raggi solari. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 267 infatti, privilegiando il significato modificatore del prefisso dia* (= trans, attraverso) su quello esplicito nel verbo a$glai* zv (= far risplendere), lo hapax che il Galigani (1980: p. 101) preferisce tradurre con «brillante». In realtaÁ, molte agate, soprattutto se di colore chiaro, sono traslucide, ma non brillano, a meno che non siano state lucidate molto bene fino a riflettere la luce secondo alcuni angoli visuali. Infatti, i microcristalli di quarzo o di calcedonio da cui sono costituite possono avere uno splendore vitreo o grasso, ma mai subadamantino; inoltre essi tendono a diffondere la luce, piuÁ che a rifletterla. Le varietaÁ descritte da Psello sono due: una definita, genericamente, pallida, che potrebbe corrispondere alla cerachates di Plinio (37.139) e all'agata bianca descritta da Epifanio (8, Blake, 1934: p. 119); un'altra, detta rossastra, che eÁ simile alla sarda, anch'essa descritta da Epifanio. Non riscontro il terzo tipo menzionato dal Galigani (1980: p. 101). Teofrasto (V. 31) e Plinio (37.86-89 e 37.139-142) erano stati molto piuÁ dettagliati nelle loro descrizioni, il secondo arrivando a distinguerne ben otto tipi. Le indicazioni mediche che Psello fa seguire sono tutte basate sull'assunto che l'agata abbia proprietaÁ disseccanti e arrivano all'estremo da voler far credere che essa sia in grado perfino di prosciugare l'acqua dai recipienti. Certe virtuÁ favolose si trovano riportate da Plinio, anche in forma esagerata, ma solo una di esse ha un qualche riferimento con le affermazioni di Psello: che il mettere in bocca un'agata farebbe passare la sete (37.140). Esse vengono invece riprese dai Lithica orfici (610-641) e dai Kerigmata, in questi sia nella parte che eÁ il riassunto dei precedenti (21), sia in quella che eÁ riferita al lapidario di Socrate e Dionisio (39); in quest'ultima, anzi, sono ancor piuÁ enfatizzati gli effetti mirabolanti, che sarebbero particolarmente efficaci in una pietra in cui sono incise invocazioni ermetiche(70). Vi eÁ peroÁ una contraddizione palese tra il lapidario di Socrate e Dionisio e la descrizione di Psello: l'agata viene da loro indicata come tutta di colore citrino, mentre Psello e Plinio la considerano sempre variegata oppure, piuttosto, tipicamente rossa, probabilmente per effetto di impuritaÁ disseminate di finissimi ossidi di ferro (Rossman, 1994: p. 460). L'agata che si ritrova oggi eÁ quasi sempre incolore o pallida e diventa vistosamente colorata per effetto di un trattamento per irraggiamento o per impregnazione con coloranti chimici. Maggiori corrispondenze si hanno tra Psello e il lapidario di Damigerone-Evace (17, Halleux e Schamp, 1985: p. 255): anche in questo l'agata, il cui colore eÁ indicato come quello della pelle del leone, eÁ indicata come utile contro i morsi dei serpenti e degli scorpioni. 6.5.e. Onice (n. 14, rr. 78-82). La descrizione che ne daÁ Psello, se spogliata del particolare quasi folcloristico dell'uso che ne farebbero gli Indiani di farne piedi torniti per i loro letti(71), appare piuttosto confusa, in quanto mette insieme due tipi diversi di materiale. Da un lato, essa si riferisce indiscutibilmente all'attuale onice p.d., che eÁ una (70) Il nome da incidere eÁ ia*xv, che eÁ interpretato o come i> akxoQ = Iacco = Bacco/Dioniso oppure come corruzione di IahveÂ, il dio degli ebrei diventato gran dio della magia (Halleux e Schamp, 1985: p. 331, nota 5). (71) Sarebbe interessante poter confermare che questa parte del testo di Psello deriva da Ctesia, poiche potrebbe confermare la sua conoscenza diretta del testo di questo autore antico. Infatti, non c'eÁ traccia di un tale uso nella recensione degli Indika scritta da Fozio (Wilson, 1992: n. 72). Su questo problema, giaÁ affrontato dal Maas (1924), vedi oltre. 268 A. MOTTANA roccia traslucida, composta da un aggregato di quarzo in minuti cristalli, pigmentato in modo da formare bande alterne scure e chiare che si prestano all'intaglio di cammei. Questa stessa eÁ la descrizione che ne daÁ Plinio nel libro che dedica alle gemme (37.90-91), anche se ammette una variabilitaÁ di colori piuÁ ampia. Dall'altro lato e completamente diversa eÁ la posizione di Dioscoride, secondo il quale l'onice eÁ una varietaÁ di alabastrite grigiastra (5.135). Anche questa descrizione trova conferma in Plinio, ma nel libro dedicato ai marmi (36.59-61). Descrivendo qui l'onice d'Arabia, egli anzitutto ne fa risaltare la disponibilitaÁ in pezzi di grosse dimensioni, adatti persino per tornirci giare o colonne, oltre che in frammenti piuÁ piccoli adatti per piedi di letti e di sedie; subito dopo, poi, informa che, quando era usato per fare piccoli recipienti per profumi, un suo nome alternativo era «alabastrite» e qui afferma che eÁ di colore chiaro, da bianco a miele, con venature a spirale e non traslucide. La descrizione di Psello, dunque, mette insieme i due tipi di onice e sembra cercare di conciliare una dicotomia terminologica che continua ancor oggi (Webster, 1994: p. 382): all'onice p.d., che eÁ quello bianco e nero siliceo, l'uso comune infatti contrappone ± con un termine errato, ma ormai prevalente nell'economia di mercato ± il «marmo onice» o «alabastro onice», un calcare giallastro d'origine concrezionare di cui una volta il principale fornitore era l'Egitto e ora eÁ il Pakistan. In realtaÁ, il problema era nato molto prima di Psello, quando o>nyj si sostituõÁ all'originario o$ny*xion, usato da Teofrasto (V. 31) per il materiale siliceo. CioÁ avvenne durante il tardo Ellenismo, ma fu adottato nella Bibbia dei Settanta (e.g., Iob 28.16) e divenne cosõÁ un precedente inoppugnabile per tutta la cultura cristiana(72). Tuttavia, anche nella cultura pagana la sostituzione era in corso, come dimostrano anzitutto Dioscoride e poi il lapidario di Socrate e Dionisio (32-36, Halleux e Schamp, 1985: pp. 169-171), che indulge piuÁ sulle figure da incidere sulle diverse pietre per massimizzarne l'effetto che sulla caratterizzazione delle pietre stesse. Anzi, forse proprio perche l'onice eÁ un materiale omogeneo e duro che si presta particolarmente bene all'incisione, ne descrive ben cinque tipi (sempre chiamandolo, peroÁ, o$nyxi* thQ = onicite, come se fosse una roccia e non un minerale) sulla base di una gamma cromatica che va dal nero al bianco e a ciascuno attribuisce proprietaÁ sia mediche, sia sociali. 6.5.f. Crisoprasio (n. 22, rr. 105-107). Attualmente il crisoprasio eÁ considerato una varietaÁ non di quarzo, ma di calcedonio, che del quarzo eÁ una delle varietaÁ microcristalline piuÁ omogenee. Il suo colore eÁ variabile da verde-oliva a verde-mare pallido; eÁ traslucido, ma non trasparente perche presenta una struttura fibrosa e, talora, eÁ anche concresciuto con tridimite e/o cristobalite. Il crisoprasio ora in commercio si rinviene solitamente in giacimenti di minerali di nichelio, un metallo che all'epoca di Psello ancora non si conosceva. La ragione del suo colore eÁ fatta risalire alla presenza di minutissime inclusioni (72) Tra questi Epifanio, che descrive due tipi di onice (12, Blake, 1934: pp. 121-122): uno rosso e duro adatto per scavarvi bicchieri, e uno piuÁ chiaro, giallastro, simile al marmo. Dal contesto, sembrerebbe che egli inclini per non considerare vero onice questa seconda pietra, ma si guarda bene dallo svalutarla, anzi ne esalta l'uso nei vasi sacri. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 269 o di silicati idrati di nichelio oppure di bunsenite (NiO-Fm3m), perche i suoi spettri nel visibile mostrano sempre la banda d'assorbimento del Ni2+ (Rossman, 1994: p. 458). La descrizione di Psello eÁ assolutamente insufficiente a confermare che il suo crisoprasio era lo stesso del nostro, ma cioÁ appare piuÁ che probabile, non tanto per ragioni scientifiche, quanto storiche. La prima testimonianza di questo termine in greco eÁ, infatti, nella Apocalisse (21.20), un testo che ha condizionato tutta la tradizione cristiana e quindi anche bizantina. Va tuttavia osservato che in greco esistevano altri termini quali prasi& tiQ e pra*sion per indicare pietre verdi chiare e quindi con aspetto e significato analogo. Il primo, uno hapax di Teofrasto (VI. 37), sta ad indicare una pietra verdastra non meglio specificata. Il secondo, riportato dal Lithica orfico (vv. 755-757), eÁ riferito a una pietra cui sono attribuite grandi proprietaÁ salutari anche loro non specificate. A definire il chrysoprasos come una pietra differente e piuÁ pregiata del semplice prasius eÁ Plinio (37.113), che ne evidenzia il colore sfumante dal verde topazio (intendendo il verde-oliva caratteristico del peridoto: q.v.) al giallo oro, mentre in altro luogo (37.77), pur ricordando che alcuni lo considerano una pietra a se stante, fa del crisoprasio una varietaÁ verde pallida del berillo, differente, perche piuÁ pallida, sia dallo «smeraldo» sia dal «crisoberillo». Plinio eÁ stato interpretato nei modi piuÁ diversi dai commentatori moderni, i quali concordare solo su un punto: che il nostro crisoprasio non eÁ il crisoprasio degli antichi, qualunque cosa esso fosse. Conviene lasciare in sospeso questo problema(73) e richiamare l'attenzione sul fatto che Psello propone il crisoprasio per uso esclusivo come amuleto e per malanni molto generici, tra cui ± come egli sempre fa con le pietre verdi ± per quelli degli occhi. 6.5.g. Diaspro (n. 9, rr. 54-61). EÁ notevole che Psello riconosca che il materiale di cui eÁ fatta questa roccia sia affine al quarzo e che se ne differenzi solo per il colore (che eÁ molto variabile e che ora sappiamo essere dovuto alla presenza di finissimi granuli di diversi minerali colorati distribuiti in modo irregolare, cosõÁ da pigmentare la massa silicea a zone e nei colori piuÁ diversi, Rossman, 1994: p. 460). I colori indicati da Psello sono solo alcuni tra i tanti: dal rosso vivace della porpora al bianco candido della neve (passando per una tonalitaÁ grigio-cerulea che si puoÁ assimilare all'aria), dal verde dello smeraldo al giallastro del muco. Egli descrive, infine, un tipo particolare per la sua tessitura, che presenta strati contorti e zonature cosõÁ da simulare le circonvoluzioni del cervello (ma perche proprio d'agnello?). Tutte queste caratteristiche, fuorche il colore purpureo e l'ultima, sulle circonvoluzioni, si ritrovano in Plinio (37.115), in cioÁ confermando che egli si avvale della stessa fonte di Psello(74). Tuttavia, eÁ notevole che proprio queste due ultime caratteristiche non siano citate dagli arabi (fr. 12: Ullmann, 1973: p. 70): se ne puoÁ arguire, infatti, che il testo di Senocrate di cui si avvaleva Psello aveva subito una (73) Ricette per contraffare il crisoprasio (cosõÁ come lo smeraldo ed altri minerali) si trovano nel Papyrus holmiensis (64, Halleux, 1981: p. 127), ma non se ne ritrova traccia in Psello, che probabilmente non conosceva questa tipo di attivitaÁ banausica d'origine egizia. (74) Qui Plinio peroÁ non cita Senocrate ne nessun altro autore. Non cita neppure Teofrasto, che pure fa un accenno alla policromia del diaspro (IV. 27, Mottana e Napolitano, 1997: p. 162). 270 A. MOTTANA contaminazione durante la trasmissione, poiche non appare probabile che potesse essere piuÁ completo di quello a disposizione di Plinio e del traduttore arabo del IX sec. EÁ da notare che anche Plinio si avvale nella sua descrizione del diaspro di fonti ulteriori, perche non solo cita i tipi, le provenienze e le origini or ora citate (due delle quali ± India e Cipro ± si ritrovano anche negli autori arabi), ma vi aggiunge altri tipi ancora (37.115-116), che solo in parte coincidono con quelli riferiti da Dioscoride (5.142). Quanto alle facoltaÁ d'interesse medico, che Plinio non riporta, quelle indicate da Pisello sono quasi le stesse indicate da Dioscoride: Psello, anzi, non solo le riprende, ma le completa. Tuttavia, non pare che Psello abbia consultato solo Dioscoride, poicheÂ, se lo avesse fatto, ne avrebbe certamente estratto anche il riferimento all'uso del diaspro come amuleto, che per Dioscoride eÁ inconsueto, mentre per Psello eÁ abituale. Inoltre, le citazioni arabe di Senocrate (fr. 12) attribuiscono al diaspro la capacitaÁ di facilitare il parto, che ne Plinio ne Psello prendono in considerazione. Costituisce una novitaÁ esclusiva di Psello il diaspro «cervello d'agnello», che non eÁ menzionato ne da Plinio ne da Dioscoride neÂ, a mia conoscenza, da nessun altro autore. Il Galigani (1980: p. 109) suggerisce che egli l'abbia dedotto da una fonte magica non specificata, ma io sono piuttosto propenso a considerarlo la conferma di una sua osservazione diretta: a nessun buon osservatore ± e Psello senz'altro lo era ± puoÁ sfuggire che la maggior parte delle rocce eÁ disomogenea e presenta tessiture particolari e che i diaspri lo sono piuÁ di ogni altra, sia per la loro natura di depositi silicei d'origine chimica impregnati da pigmenti coloranti diversi, sia percheÂ, nel corso della loro maturazione da opale a calcedonio a quarzo (Knauth, 1994), essi sono soggetti a forti contrazioni di volume che si manifestano sotto forma tanto di pieghe e contorsioni, quanto di fratture scomposte che, spesso, li rendono simili a brecce. Inoltre, i singoli frammenti variegati che compongono la breccia diasprigna possono essere cementati tra loro da altro materiale siliceo di colore diverso, aumentando cosõÁ la policromia dell'insieme. Consideratane l'eccezionale varietaÁ di colore e di disegno, non c'eÁ affatto da stupirsi se persino la fantasia dei Greci si sia esaurita prima di trovare un'applicazione medica per ciascun tipo di diaspro. A differenza di Psello, Epifanio (6, Blake, 1934: pp. 113-114) considera un tipo di diaspro verde simile allo smeraldo e ne fa osservare non solo la presenza nelle miniere di Cipro, ma anche l'affinitaÁ con quella che egli chiama la «ruggine del rame» (= malachite). Cita poi altre varietaÁ: una rossa e una bianca e una chiazzata di bianco e di verde. 6.6. Smeraldo (= smithsonite) (n. 18, rr. 94-98). Lo «smeraldo» eÁ per noi una varietaÁ di berillo, esattamente la varietaÁ colorata di verde per le tracce di cromo trivalente Cr3+ che sostituisce l'alluminio Al presente nella formula (q.v.). Non era cosõÁ, invece, per gli antichi, se non in casi speciali: per loro, difatti, qualsiasi pietra verde, purche sufficientemente trasparente, era uno «smeraldo» (Porzig, 1936). CioÁ appare evidente in Teofrasto, quando tra gli smeraldi giaÁ distingue da un lato le pietre piccole e dure in cui intagliare sigilli (I. 8) e dall'altro quelle che si sciolgono in acqua (I. 4), possono essere rinvenute in blocchi e servono per saldare l'oro (IV. 24-27): queste seconde sono, indubbiamente, malachite. Plinio (37.62-75) cita ben 12 varietaÁ di smeraldo e solo per una, proveniente dall'India (37.76), riconosce che ha una natura molto simile a quella del berillo. Altre tre, peroÁ, sono descritte in modo tale che potrebbero esserlo (Meadows, 1945): sono quelle provenienti dalla Scizia, dalla Battriana e dall'Egitto (37.65). Tutti gli altri tipi, trovati nelle miniere di STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 271 rame o d'argento, sono riferibili o a malachite (Cipro) o a smithsonite (Attica) o a turchese (Persia) o, addirittura, a porfirite serpentinizzata (Laconia). Psello non recepisce tutte le provenienze citate da Plinio, ma solo le tre agli estremi della Terra e quella nei monti dell'Attica. Quest'ultima menzione riporta immediatamente alla descrizione di Plinio e alla 3c), minerale caratteristico della miniera di Torico citata appunto smithsonite (Zn[CO3]-R da lui (37.70). Psello, per altro, non fornisce sue osservazioni dirette, ma cita dati che aveva letti in una qualche fonte (forse Senocrate, vista la forte somiglianza coi passi di Plinio), perche ai suoi tempi da tempo non esisteva nell'Attica nessuna estrazione mineraria (Conophagos, 1980); tuttavia i suoi dati sono sufficientemente precisi per rendere l'identificazione sicura. Secondo Plinio la smithsonite, anche se brillante, oltre ad avere un colore verde piuttosto chiaro che puoÁ assumere tonalitaÁ azzurrognole, eÁ fragile al punto da poter essere facilmente polverizzata per farne un impiastro o per essere dispersa in sospensione nel vino; infine, essa eÁ fotosensibile e quindi si scolora alla luce del sole coprendosi di macchie scure (37.70). Rispetto a quanto riportato da Plinio, Psello eÁ piuÁ selettivo, ma ne conferma certi particolari con grande precisione. Viceversa, in Plinio non figura nessuna conferma delle proprietaÁ terapeutiche citate da Psello, che non sono neppure le stesse riportate in due frammenti di Senocrate conservatisi in arabo (frr. 6 e 7, Ullmann, 1972b: pp. 60-62). Essi sono comunque utili perche permettono di escludere assolutamente che lo smeraldo di Psello abbia niente a che fare col nostro: insistono infatti sul fatto che eÁ solubile (in aceto forte, in acqua fredda e calda e perfino nel latte e nel burro sciolto), quando eÁ ben noto che il silicato non lo eÁ. Inoltre, le proprietaÁ farmacologiche che gli attribuiscono, tutte essenzialmente connesse col fatto di essere astringente, si adattano bene a un carbonato come la smithsonite. Sotto questo aspetto, invece, non aiuta la descrizione contenuta nel lapidario di Socrate e Dionisio (26, Halleux e Schamp, 1985: p. 166), che si trova ripetuta quasi alla lettera in quello di Damigerone-Evace (6, Halleux e Schamp, 1985: pp. 241-242). Essa eÁ, infatti, piena di prescrizioni occultistiche di derivazione orientale, come incisioni da apportare alla pietra e montature particolari, per effetto delle quali il portatore di uno smeraldo diventerebbe gradito a tutti. Il solo punto di incontro tra Socrate e Dionisio, da un lato, e Plinio, dall'altro, eÁ l'accenno a Nerone e questo eÁ troppo vago per mettere i due in relazione di dipendenza; in ogni caso, se pure entrambi l'avevano derivato da Senocrate, questo aneddoto non ha poi riscosso l'attenzione di Psello, che viveva in un'epoca troppo lontana dai fatti per sentirsene coinvolto. Epifanio (3, Blake, 1934: pp. 105-110), invece, essendo piuÁ antico ancora ricorda, chiamandolo Neroniano e Domiziano, il tipo verde e brillante, che era importato dall'India, e passa poi a descrivere la celebri miniere egiziane dell'isola sul Mar Rosso di fronte a Berenice, con cioÁ mostrando che il suo smeraldo non era altro se non «peridoto» (q.v.). Inoltre accenna ad un uso magico dello smeraldo: predire il futuro dalle riflessioni che presenta la sua superficie speculare. 6.7.a. Topazio (= forsterite «peridoto») (n. 24, rr. 110-116). Questa pietra eÁ talmente ben caratterizzata da Psello che non eÁ assolutamente possibile dissentire dalla conclusione di Ruska (1912: p. 134, nota 1) che «la [sua] traduzione con topazio eÁ in ogni caso sbagliata». Non rimane, in effetti, nessuno spazio per le incertezze di Ullmann (1973: pp. 71-73) che, discutendo la traduzione del termine arabo zabargÆad con cui topa*zion eÁ 272 A. MOTTANA tradotto nel fr. 14 tramandatoci dal manoscritto bodleiano, vuole lasciare spazio ad altre identificazioni come berillo, crisolito, smeraldo e perfino topazio. Psello afferma che la pietra eÁ trasparente con lucentezza vitrea, poco visibile alla luce diurna diretta, ma riflettente quella notturna diffusa, irregolare nella forma e non particolarmente dura cosõÁ da poter essere sagomata e levigata: tutte queste proprietaÁ fisiche non si adattano al topazio attuale, ma descrivono perfettamente la varietaÁ di olivina forsterite Mg2[SiO4]Pbnm, colorata da una modesta percentuale di Fe2+ sostitutivo del Mg, alla quale i gemmologi assegnano in alternativa i nomi «peridoto», se predomina il verde oliva (Cipriani e Borelli, 1984: n. 18), oppure «crisolito» se predomina il giallo verdastro (Cipriani e Borelli, 1984: n. 18.1, vedi oltre). Ma cioÁ che soprattutto toglie ogni possibilitaÁ d'equivoco eÁ il fatto che egli le assegni come luogo di provenienza un'isola al largo nel Mare Arabico (l'odierno Mar Rosso). A ZabargÆad non esiste topazio, ma solo olivina, eppure eÁ proprio questa l'isola in cui da tempo immemorabile gli antichi estraevano la loro gemma verde preferita: eÁ un'inevitabile conclusione accettata da tutti che il termine topazio ha cambiato di significato nel tempo, anche se gli autori sono discordi su chi stia all'origine di questo cambiamento semantico(75). Le prescrizioni mediche suggerite da Psello confermano la fragilitaÁ della pietra (triturare il topazio p.d., che ha durezza 8, non sarebbe una cosa facile! mentre eÁ cosa semplice tritare l'olivina, che ha durezza 6, pur se eÁ priva di sfaldatura). Il fr. 14 di Senocrate tramandato dagli arabi contiene due prescrizioni mediche di tipo magico: intagliare sulla pietra una nave e portarla poi all'anulare della mano sinistra proteggerebbe dall'elefantiasi e appoggiarla sul ventre avvolta in un panno faciliterebbe il parto. Nessuna di queste viene ripresa da Psello. La pietra eÁ appena citata come «trasparente» dal lapidario orfico in versi, mentre nei Kerygmata (Halleux e Schamp, 1985: pp. 151-152) eÁ anche detta dura, compatta, traslucida e verde, nelle due intensitaÁ «maschio» e «femmina», riprendendo cosõÁ affermazioni di Plinio (37.127) che derivano, probabilmente, da Senocrate poiche corrispondono ai frammenti greci di questo relativi all'isola nel Mar Rosso (Cadiou, 1937). I Kerygmata continuano con prescrizioni magiche (incisioni di dei) che favorirebbero la cura dei mali agli occhi. Andando del tutto controcorrente, Epifanio (2, Blake, 1934: pp. 104-105) descrive invece col nome di topazio una gemma completamente diversa, rosso-brillante, simile al calcedonio, che sfregata sulla pietra molare trasuda senza perdere peso un liquido bianco usato per curare le malattie degli occhi o, bevuto, contro l'avvelenamento da alghe tossiche. 6.7.b. Crisolito (= forsterite «crisolito») (n. 20, r. 102). La concisissima frase di Psello non ci fornisce nessun dato reale, ma solo l'opportunitaÁ di un'induzione: se eÁ efficace (75) Fu forse il de Boot nel 1609, poiche il testo principale della seconda edizione rivista dal Toll (16362: p. 207) riporta: «De Topasio veterum, ac Chrysopatio, qui hodie Chrysolitus appellatur». Nelle sue note a commento (16362: pp. 207-209) il Toll ricapitola l'uso dei termini suddetti da parte di vari autori medievali, le loro etimologie, i caratteri e l'origine sempre riferendosi a Plinio e discute, in particolare, quale fosse il nome vero dell'isola, basandosi soprattutto sul commento a Solino (che interpreta Plinio) fatto dal Salmasio, cioeÁ dall'erudito francese Claude Saumaise (1588-1653). L'inversione di significato tra topazio e crisolito si riflette ± ovviamente ± sul significato antico di quest'ultima pietra (vedi oltre) ed anche su quello del crisoprasio (vedi sopra). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 273 contro i problemi di vista, il crisolito che egli intende eÁ, probabilmente, verde, come tutte le altre pietre citate a questo fine. Bisogna quindi ricorrere ad altri autori da cui trarre informazioni utili. CioÁ risulta possibile perche il crisolito eÁ tra le pietre citate dalla Bibbia (Esodo, 28.20, 39.13; Apocalissi, 21.20), un testo di riferimento che non poteva far difetto nella memoria di uno studioso bizantino come Psello. Purtroppo, peroÁ, le gemme della Bibbia non sono altro che nomi privi di qualsiasi descrizione, talche le numerose identificazioni che sono state proposte sono, almeno in questo caso, tutte ipotetiche (cf. Bacci, 1587, 1603; Jart, 1970). Plinio (37.126), al solito, appare il rinvio piuÁ sicuro: per lui il crisolito eÁ una pietra trasparente con fulgore dorato. La descrizione si adatta bene alla varietaÁ «crisolito» dell'olivina forsterite contenente Fe2+, che ha un colore gialloverdastro tanto piuÁ smorto quanto minore eÁ il tenore di Fe2+. Anche le concise parole del lapidario di Socrate e Dionisio (37, Halleux e Schamp, 1985: p. 171, «limpido, tralucente, trasparente, dorato») corrispondono alle caratteristiche della gemma attuale, mentre il suggerimento di incidervi un'immagine di Afrodite per ottenere favore rientra nel tardo atteggiamento magico alessandrino. Quest'inclinazione al magico si riscontra anche nel lapidario di Damigerone-Evace (47-48, Halleux e Schamp, 1985: p. 282) che cita due varietaÁ di crisolito, per una delle quali propone l'uso come amuleto: trapanato e appeso al braccio sinistro tramite setole d'asino passanti nel foro, il crisolito allontanerebbe i demoni. 6.8. Giacinto (n. 19, rr. 99-101). Identificare questa pietra sulle base delle due scarne informazioni fornite da Psello (l'origine dall'India e il colore pari a quello del mare) non eÁ possibile e tuttavia una tradizione risalente a uno dei padri della Mineralogia moderna, Jean-Baptiste Rome de l'Isle (1783), accetta che il giacinto degli antichi sia l'attuale zircone, Zr[SiO4]-P4/mm, che per se eÁ incolore, ma assume un colore rossastro piuÁ o meno scuro quando eÁ metamittico. La tradizione antica eÁ particolarmente confusa a proposito di questa pietra. Plinio, che pure dovrebbe derivare dalla medesima fonte di Psello, afferma che ha lo stesso colore violaceo dell'ametista, ma piuÁ pallido (37.125); inoltre afferma che proviene dall'Etiopia (37.126). Ogni altra informazione riferibile a Senocrate tramandata dagli arabi (fr. 8 in Ullmann, 1972b: p. 62) ne trascura le proprietaÁ fisiche fuorche il colore che eÁ dato come rosso. Non aiutano le brevi frasi del lapidario di Socrate e Dionisio (27, Halleux e Schamp, 1985: p. 166) che, di nuovo, la pongono in relazione col mare. NeÂ, d'altra parte, sono utili i riferimenti contenuti nell'Antico Testamento (Esodo, 39.11) e nell'Apocalisse (21.19): Psello li conosceva di sicuro, ma poteva trarne solo l'idea dell'importanza del giacinto tra le gemme, e nulla sulle sue proprietaÁ. CioÁ che i Greci intendevano essere il colore del mare non eÁ mai stato ben chiarito (Capelle, 1958), mentre invece il colore del giacinto, in questo stesso trattatello (5.5.b), appare essere per Psello piuÁ rosso-violaceo che blu-marino, forse anche per una reminiscenza omerica(76). CioÁ nonostante, va osservato che nel lapidario di Socrate e Dionisio (27, (76) A nove anni Psello sapeva a memoria tutta l'Iliade (Criscuolo, 1990: p. 169)! 274 A. MOTTANA Halleux e Schamp, 1985: p. 166) la pietra eÁ raccomandata come salvaguardia contro le tempeste in mare. Epifanio (4, Blake, 1934: pp. 110-111), che eÁ categorico nel definire il giacinto di colore rosso-brillante, diverge da tutti gli autori greci poiche riporta poi informazioni che coincidono esattamente con quelle che negli altri sono relative allo a>nuraj . Di fronte a questa marcata incoerenza tra le fonti antiche, in passato si sono cimentati sul problema ottimi conoscitori di gemme: de Boot (16362: p. 161) suggerõÁ che il giacinto di Plinio era ametista, mentre l'ametista di questi sarebbe un granato, e trova in cioÁ il consenso di Moore (1834: p. 170), il quale peroÁ fa anche notare che il Salmasio, associandone il nome al persiano yacut, ne proponeva l'identificazione col rubino; Rome de l'Isle (1783: II, p. 282) lo riteneva uno zircone rosso-aranciato (vedi sopra); King (1867: p. 242) privilegiandone la tonalitaÁ sull'azzurro lo considerava zaffiro. In conclusione, il giacinto in generale e quello di Psello in particolare rimane un'incognita, mentre dai frammenti di Senocrate (Ullmann, 1972b: fr. 8, p. 62) si puoÁ evincere che veniva creduto efficace anche per mitigare o addirittura espellere il veleno che fosse stato ingerito mescolato col vino. 6.9. Berillo (n. 6, rr. 38-42). Anche delle caratteristiche fisiche esteriori di questa pietra eÁ precisato solo il colore e, sulla base di questo, ne sono anzi distinte tre varietaÁ: gialloolivastra la prima, che potrebbe essere quella ora indicata come «eliodoro» (Cipriani e Borelli, 1984: p. 146)(77); azzurro-verdastra la seconda, che eÁ la «acquamarina», relativamente comune e, in ogni caso, ben nota anche ora(78) e, infine, a raggi di luce su un fondo omogeneamente chiaro e brillante la terza. Quest'ultima descrizione si adatta sia ai rari «berilli asteriati», sia al piuÁ comune berillo «occhio di gatto» (Webster, 1994: p. 166), in cui l'effetto di gatteggiamento sembra dovuto alla presenza di minute bolle gassose bifasi (Webster, 1994: p. 1036). Tutte e tre queste varietaÁ appartengono alla stessa specie mineralogica il cui nome eÁ, ancora oggi, berillo (Be3Al2[Si6O18]-P6/mcc). L'eliodoro eÁ piuttosto raro, l'acquamarina abbastanza diffusa e l'occhio di gatto decisamente raro in Europa, ma frequente in India(79). Plinio (37.76-80) cita tutte e tre queste varietaÁ, purtroppo introducendo anche due nomi («crisoberillo» e «crisoprasio») che sono stati poi reimpiegati per altri minerali e, pertanto, costituiscono un'ulteriore fonte di fraintendimento ricorrente. Ne cita poi altre tre varietaÁ, di cui un paio sono in realtaÁ quarzo, che giaÁ allora era tinto per contraffare la pregiata gemma originale. Quanto alle (77) La precisazione di Psello, che dice il colore essere «simile a quello dell'olio» [ovviamente d'oliva], permette di precisare che si tratta della varietaÁ «eliodoro», essendo tutti gli altri berilli francamente gialli meno pregiati, con l'eccezione di quelli giallo schietto della varietaÁ «aureo». (78) Il colore tipico della «acquamarina» eÁ indicato attualmente come «azzurro cielo intenso limpido» (Webster, 1994: p. 161), ma sono ammesse sfumature sul verde azzurrastro, con totale esclusione peroÁ di sfumature sul giallo (Borelli e Cipriani, 1984: p. 142). (79) Non posso concordare col Galigani (p. 103) che identifica ± seppure dubitativamente ± la terza varietaÁ col «crysoberillio» (sic). Il crisoberillo (BeAl2O4-Pbnm), infatti, presenta sõÁ una varietaÁ gialla che puoÁ essere gatteggiante («cimofane»), ma eÁ estremamente piuÁ duro e molto piuÁ pesante (= denso) del berillo, oltre che piuttosto raro: non puoÁ essere assolutamente confuso con esso. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 275 proprietaÁ mediche che Psello attribuisce al berillo, si tratta solo di indicazioni vaghe e generiche, fuorche l'ultima: contro l'itterizia. Nel lapidario nautico (3, Halleux e Schamp, 1985: p. 188) il berillo, trasparente, brillante e color del mare, protegge coloro che viaggiano per mare, mentre in quello di Damigerone-Evace (35, Halleux e Schamp, 1985: p. 276) eÁ d'aspetto oleoso e va usato scolpito col segno di una locusta per il male d'occhi. Epifanio (11, Blake, 1934: p. 121) accenna appena a tre varietaÁ di berillo, sottolineando quella bianca, che ha un debole splendore simile a una nube, che diventa vitreo se la pietra eÁ vista contro sole. 6.10. Selenite (= ortoclasio «pietra di luna») (n. 17, rr. 91-93). La descrizione di Psello ricalca esattamente quelle di Plinio (37.181) e di Damigerone-Evace (36, Halleux e Schamp, 1985: p. 277). Mentre, peroÁ, il primo ha l'accortezza di inserire la clausola dubitativa «si verum est» e non aggiunge altro se non che eÁ bianco-diafana come la luna con lo splendore del miele, i secondi rilevano che eÁ simile al diaspro, solida, pesante, e che giova nell'amore e nelle cause giudiziarie. Da cioÁ si ricava che la selenite descritta da Psello non ha nulla a che fare con l'attuale, che eÁ una varietaÁ in grandi lastre trasparenti di gesso (Ca[SO4].2H2O-C2/c), e che, piuttosto, eÁ da identificare con la «pietra di luna» o «lunaria», una varietaÁ di feldspato a prevalente ortoclasio (K[AlSi3O8]-C2/m) caratterizzata da un magnifico gioco di luce sul bianco-azzurrognolo che ricorda il bagliore della luna piena (Webster, 1994: p. 271). Causa di questo gioco eÁ la presenza di un'intima alternanza, a scala microscopica, di lamelle di albite e d'ortoclasio, che provoca la diffusione della luce all'interno della pietra combinandone gli effetti di rifrazione, riflessione e interferenza in modo tale per cui essi emergano intensificati sulla sua faccia anteriore. L'effetto eÁ tanto migliore quanto piuÁ le lamelle alterne di albite e ortoclasio sono sottili e la pietra eÁ tagliata con il piano visuale parallelo al piano degli strati alterni. EÁ corretto che essa sia solida (ha durezza 6) e simile al diaspro (eÁ un silicato), ma non eÁ particolarmente pesante (ha densitaÁ 2,56-2,59 g/cm3). Quanto alle sue proprietaÁ nei rapporti umani, Psello non si pronuncia(80) e, quindi, non lo faroÁ neppure io. Noto, per altro, che il nome eÁ stato usato da Dioscoride (5.141), come sinonimo di «afroseleno», per una pietra candida e leggera, quindi con un significato del tutto diverso e molto piuÁ prossimo al nostro gesso. 6.11. Zaffiro (= lapislazzuli) (n. 15, rr. 83-85). L'identificazione dello «zaffiro» dei Greci con il lapislazzuli non eÁ mai stata messa in discussione: a partire da Teofrasto (I. 8) essa eÁ sicura ed eÁ confermata da Plinio (37.120) che peroÁ, riconoscendone la struttura non omogenea, non eÁ d'accordo con il suo predecessore greco sul fatto che sia adatta alla glittica. Psello, quindi, sapendo che eÁ ben nota, non si preoccupa neppure di descrivere questa pietra, ma passa subito alle sue proprietaÁ medicinali, anzitutto con una prescrizione di tipo magico (amuleto contro le malattie degli occhi) poi (80) Il Galigani (1980: p. 57, nota 25) interpreta questa assenza di indicazioni terapeutiche in altro modo: sarebbe dovuta ad una caduta testuale verificatasi nel capostipite stesso della tradizione manoscritta. 276 A. MOTTANA suggerendone l'uso per le malattie degli occhi, in parte richiamando Dioscoride (5.139), in parte contraddicendolo (non accenna ad un suo uso come antidoto contro il morso degli scorpioni, anche se cioÁ era stato confermato da Galeno: De simplicium medicamentorum facultatibus, 9). Psello passa poi subito dopo a descrivere due proprietaÁ legate alla natura fisica stessa del lapislazzuli: di essere disseccante ed astringente, come effettivamente avviene per uno dei suoi due minerali costitutivi(81) (la lazurite, Na6Ca2Al6Si6O24[(SO4),S,Cl,(OH)]2-P 43n, appartenente al gruppo dei feldspatoidi) e anche per l'altro, la pirite (FeS2-Pa3) che, essendo un solfuro, ha zolfo libero attivo in virtuÁ della tensione superficiale. Resta poi da vedere se tutto cioÁ serva realmente contro le febbri acute. Completamente diverso eÁ lo zaffiro descritto da Epifanio (5, Blake, 1934: p. 112), che eÁ scuro e simile a porfido, da bere macinato e misto a latte per curare scabbia e tumori. Il lapidario di Damigerone-Evace si dilunga alquanto su questa gemma (14, Halleux e Schamp, 1985: pp. 250-252) che considera una prerogativa dei re, ma fornisce soprattutto prescrizioni di carattere magico che richiedono, per un uso corretto, che su di essa siano incise varie figure. 6.12. Galattite (= una zeolite?) (n. 7, rr. 43-46). Identificare questa pietra eÁ impossibile e perfino voler azzardare una proposta qualsiasi eÁ temerario. L'idea del Galigani che si tratti di «una specie di quarzo lattiginoso, del colore e del gusto del latte» (p. 104) eÁ insostenibile: esiste un quarzo che eÁ latteo nell'aspetto a causa di minute inclusioni fluide, ma eÁ privo di gusto, come tutti i biossidi di silicio che sono totalmente insolubili. La descrizione di Psello trova corrispondenza in Plinio (37.162) e in Dioscoride (5.132), mentre tanto nei Lithica (vv. 191-229) e nei Kerygmata (2) quanto nel lapidario di Damigerone-Evace (34, 76) sono elencate lunghe serie di mirabolanti virtuÁ. Caratteristica comune a queste descrizioni eÁ che la galattite, pressata o strofinata, spiccerebbe un liquido bianco dolciastro simile al latte. Dioscoride e Plinio, inoltre, la danno di colore grigiocenere oppure striata di bianco e rosso. Sulla base di queste proprietaÁ non eÁ facile azzardare una proposta: non convincono le identificazioni col «chalk» (= calcare bianco farinoso: Riddle, 1977: p. 72), ne col gesso (Bianco, 1992: p. 194), neÂ, tanto meno, con un borato sodico (come suggerito anticamente da John Kidd e negato giaÁ dal Moore, 1834: p. 100). Potrebbe trattarsi, piuttosto, di un minerale del gruppo delle zeoliti(82). Questi minerali, oltre a dare aggregati leggeri e porosi di aspetto terroso, spesso striati per effetto di impuritaÁ, hanno la caratteristica di assorbire o rilasciare acqua con molta facilitaÁ (Klein e Hurbult, 1985: pp. 462-463), e questa, in molte specie, eÁ carica di sali, soprattutto (81) Nel lapislazzuli, che eÁ una roccia e non un minerale, possono esser presenti, anche se in quantitaÁ minori, altri feldspatoidi (cancrinite, noseana, sodalite) ed inoltre calcite, diopside, biotite, ecc. come accessori eventuali (Webster, 1994: p. 341). La loro presenza non modifica in modo sostanziale cioÁ che lo contraddistingue, che eÁ il colore blu di fondo picchiettato di giallo oro, caratteristica cromatica che eÁ data dalla prevalenza di lazurite associata con pirite. L'intensitaÁ di colore ne risulta attenuata («lapis bastardo»), per cui la pietra da un uso come pietra semi-preziosa passa ad uno ornamentale. (82) Questa deve essere stata l'opinione di E.F. Glocker quando, nel 1847, battezzoÁ cosõÁ una zeolite di colore latteo rinvenuta in Scozia, nel Perthshire, che eÁ poi risultata essere natrolite (Clark, 1993: p. 250). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 277 sodici, costituendo una soluzione salina, quindi lattiginosa, che non eÁ priva di un certo sapore acidulo. Questa identificazione spiegherebbe anche il verbo bry*v (= rigurgito) usato da Psello, perche l'emissione del liquido puoÁ essere brusca, una volta che eÁ stata raggiunta una certa pressione. Tuttavia, essa certo non spiega le misteriose facoltaÁ che Psello attribuisce alla pietra ed in particolare quella di guarire i morsi delle belve se eÁ appesa al collo come un amuleto. Non ha una base scientifica la sua presunta capacitaÁ di favorire la produzione di latte nelle donne; cioÁ eÁ possibile, tuttavia, ma solo come effetto della suggestione. 6.13.a. Elettro (= ambra) (n. 8, rr. 47-53). Per quanto non si tratti propriamente di un minerale, perche non eÁ omogenea, l'ambra eÁ sempre stata considerata tra i corpi naturali d'interesse gemmologico (Webster, 1994 pp. 735-740) ed eÁ riportata in molte classificazioni mineralogiche, ma non in quelle piuÁ moderne (e.g., Strunz e Nickel, 2001). Era talmente ben nota ai bizantini che Psello non la descrive neppure, ma si limita a citarne cinque provenienze possibili, tre delle quali situate ± e non credo che lo faccia senza un proposito ± agli estremi del mondo allora conosciuto. Indirettamente, inoltre, accenna alla sua mitica origine dalle lacrime delle sorelle di Fetonte caduto nel Po e, tramite un'attenta scelta di parole, riconduce il mito alla realtaÁ: si tratta di gocce di resina cadute da un qualche albero. Come tutte le resine (e qui Psello fa l'esempio ± di nuovo non a caso, a mio parere ± di un tipo di resina esotico come l'incenso e di uno piuÁ locale come la gomma del lentisco, la mastica, del cui tipo piuÁ pregiato, raccolto a Chio (Dioscoride, 1.90; Plinio, 12.72), Costantinopoli era allora il piuÁ grande centro di commercializzazione), l'ambra brucia dando odore. Su questo carattere, peroÁ, Psello non indugia, per passare subito ai benefici medici che si ottengono non giaÁ bruciando questo costoso materiale, ma portandolo appeso al corpo oppure spalmandolo, tritato finemente, sugli occhi. L'intero capitoletto deriva certamente da Senocrate, come dimostra il confronto con la lunga descrizione di Plinio (37.30-51) in cui il nome di questo autore eÁ espressamente citato (37.40), ma in cui sono menzionati anche vari altri autori, tra cui Ctesia. Proprio dagli Indika di Ctesia di Cnido, inoltre, Psello ha tratto un intero trattatello (o un brano, che eÁ stato tradito in modo indipendente) dedicato all'ambra, il De succino, la cui importanza mineralogica eÁ, per altro, minima, anzi non esiste del tutto. Nella brevissima frase iniziale, infatti, egli afferma che in India l'ambra ha origine dalla resina stillante da un albero che ricade nelle acque di un fiume, mentre prosegue in tutto il resto del brano riportando fantasie etnografiche riferibili senz'altro al modo di fare di Ctesia (Maas, 1924; Momigliano, 1931). In India non esiste ambra fossile (cioeÁ la nostra ambra p.d.) e la resina cui viene dato questo nome, ricavata da incisioni effettuate sul tronco di una conifera dell'Himalaia, eÁ simile a coppale molto indurito: come questo si presenta in due colori (uno chiaro e uno scuro), entrambi dolci e fortemente odorosi senza alcun bisogno di essere bruciati. CioÁ che, tuttavia, rende interessante il De succino (giaÁ noto, per altro, come tratto da Ctesia, perche recensito da Fozio: vedi sopra) sono due particolaritaÁ di carattere filologico: il nome del fiume, che Fozio indicava come y=parxoQ, eÁ spa*baroQ in tutti e 278 A. MOTTANA quattro i manoscritti di Psello, mentre quello dell'albero da cui cade la resina eÁ jhtako*ra in Psello e sipaxo*ra o siptaxo*ra in Fozio. Tutto lascia pensare che il manoscritto di Ctesia da cui uno dei due aveva copiato il brano era corrotto: quello di Psello, probabilmente, poiche scrive due secoli dopo Fozio. Il confronto testimonia anche, peroÁ, che a Bisanzio, dopo due secoli, Psello poteva ancora rintracciare un manoscritto di Ctesia in originale(83), per mal ridotto che fosse! Se, infatti, si fosse limitato a copiare dal libro di Fozio ne avrebbe trascritto anche i nomi secondo l'ortografia di questi. 6.13.b. Criselettro (= ambra) (n. 21, rr. 103-104). Psello non descrive questa pietra, ma la indica solo come utile febbrifugo. Stando cosõÁ le cose, occorre fare ricorso a Plinio per tentarne l'identificazione. Egli usa inizialmente la stessa espressione (37.51) e continua specificando che eÁ somministrato o tritato nel miele o macinato finemente disciolto in acqua. Il Galigani (1980: p. 118) e, seguendo lui, il Volk (p. 146) identificano questa pietra con il «citrino» (varietaÁ gialla di quarzo), ma il primo riporta anche un passo di Dioscoride (1.83) in cui la parola eÁ scomposta in xrysoWo*ron h>lektron (ambra ingiallente), suggerendo quindi una varietaÁ di ambra poco diagenizzata che tende a sciogliersi se eÁ messa a contatto con un solvente. Questa interpretazione soddisfa senz'altro di piuÁ del citrino, che per la sua natura quarzosa eÁ duro da tritare, difficile da macinare finemente e, in ogni caso, perde totalmente il proprio colore una volta ridotto in polvere(84), senza neppure rilasciare alcuna tinta al liquido con il quale eÁ messo in contatto poiche eÁ insolubile. 6.14. Dattilo ideo (= rostro di belemnite?) (n. 10, rr. 62-66). Psello spende piuÁ parole per questa pietra che per il diamante, mentre Plinio (37.170) la liquida con una sola frase, sostanzialmente identica alla prima frase di Psello. Questa prima parte, quindi, eÁ quella che puoÁ essere ricondotta a Senocrate, loro fonte comune, mentre tutto cioÁ che Psello fa seguire deve essere ricercato in una qualche sua fonte posteriore, non necessariamente magica come vorrebbe il Galigani (1980: p. 109). La pietra descritta eÁ un fossile, come riconobbe giaÁ Moore (1834: p. 176): forse eÁ un rostro di belemnite(85) (Eichholz, 1962: p. 303, nota b), che ha effettivamente la forma di un pollice di grosse dimensioni e che eÁ di colore ferrigno. (83) Per me questa eÁ l'ipotesi piuÁ plausibile: Plinio chiama, infatti, il fiume Hypobarum (37.39), che eÁ una crasi tra la versione di Fozio e quella di Psello, ma l'albero psittachoras, che eÁ pure una crasi, ma sembra giustificare piuÁ la prima versione della seconda dal punto di vista ortografico. (84) Il quarzo in cristalli di dimensioni anche millimetriche eÁ policromo, ma eÁ sempre allocromatico, poiche bastano tracce minime di cationi estranei ad eccitarne la colorazione. Questa eÁ peroÁ persa non appena i frammenti sono ridotti a dimensioni submillimetriche. (85) Il nome belemnite eÁ proposto come sinonimo di dattilo ideo giaÁ dal de Boot (16362: p. 476), che ne riporta sia l'origine da Creta sia la descrizione, sottolineandone la presenza di una cavitaÁ interna continua per tutta la lunghezza; inoltre, ne daÁ alcune bellissime raffigurazioni tipografiche in bianco e nero (p. 477). Il de Boot, peroÁ, non considera la belemnite un fossile, ma una freccia caduta sulla terra o nella pietra e l'avvicina percioÁ ai lincuri e ai cerauni. Oltre alla classica localitaÁ di Creta, egli ne riporta anche una nuova presso Lussemburgo (p. 479). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 279 6.15. Licnite (= tormalina rossa??) (n. 12, rr. 71-74). Se non eÁ un fossile, dato che eÁ detta simile a un guscio di conchiglia, eÁ una pietra che non puoÁ essere classificata se non con molte incertezze. Il Wellmann (1935: p. 112), e con lui il Galigani (1980: p. 110), vorrebbero che si tratti di un «rubino balascio», per via del colore rosso vivo e della trasparenza(86). Il «rubino balascio» dei gemmologi antichi eÁ lo spinello rosso (MgAl2O4Fd3m: Webster, 1994: p. 197), lo stesso cui il Galigani voleva riferire quella pietra che ho qui suggerito essere antracite. La descrizione di Psello, peroÁ, eÁ troppo scarna per arrischiare un'identificazione, a meno di non volerla integrare con le affermazioni di Plinio (37.103), che descrive la licnite come simile al carbonchio, ma di colore piuÁ chiaro, passante dal rosso purpureo al rosso scarlatto, e capace di attrarre pagliuzze e fibre di papiro se sfregata con le dita. Se eÁ veramente cosõÁ, allora si deve pensare ad una tormalina rossa, poiche ne gli spinelli ne i corindoni sono caratterizzati da triboelettricitaÁ statica. Inoltre Plinio afferma che la stessa capacitaÁ attrattiva si manifesta quando la pietra eÁ scaldata dal sole, e cioÁ sta ad indicarne la piroelettricitaÁ, proprietaÁ questa che eÁ stata evidenziata in modo scientifico per la prima volta proprio nella tormalina(87). La pietra eÁ descritta anche nei Lithica (vv. 271-279, Halleux e Schamp, 1985: pp. 96-97) e nei Kerygmata (7, Halleux e Schamp, 1985: pp. 150-151), ed inoltre, quasi con le stesse parole, nel lapidario di Damigerone-Evace (28, Halleux e Schamp, 1985: pp. 266-267). Malgrado tutte queste descrizioni aggiuntive e tutti i dettagli che esse contengono, l'identificazione rimane insicura. Quanto alle proprietaÁ terapeutiche della licnite, sono tipicamente di tipo magico. Non basta, infatti, usarla come medicina: bisogna adornarsene in punti speciali del corpo per goderne gli effetti positivi! Le prescrizioni di Psello, inoltre, non hanno riscontro in quelle citate dagli autori, se non per Damigerone-Evace (vedi sopra): tutti gli altri preferiscono evidenziarne il comportamento fisico, che eÁ tipico di una sostanza che acquista elettricitaÁ statica quando eÁ riscaldata, come appunto la tormalina, tipicamente piroelettrica. 6.16. Calazia (= ??) (n. 23, rr. 108-109). Bianca, dura e simile ad un quarzetto: queste tre proprietaÁ non sono sufficienti per determinare cioÁ che Psello chiama xalazi* aQ, ma piuÁ che sufficienti ad escludere che si tratti della stessa cosa della quasi omofona galaji* aQ(88) che le fonti arabe riferiscono a Senocrate (fr. 2, Ullmann, 1972b: p. 55; 1973: p. 66). La galasia eÁ da loro descritta come leggera, di colore verde porro con una sfumatura grigiastra e usata per sbiancare i vestiti: eÁ quindi probabile che si tratti di una zeolite(89). (86) Devoto e Molayem (1990: p. 14 e fig. 3) ritengono addirittura che si tratti di un autentico «rubino», cioeÁ di corindone rosso vivo. (87) La prima descrizione eÁ di tale Garmann alla p. 269 del libro Curiose Speculationes bei Schlaflosen Nachten ± von einem Liebhaber, der Immer Gern Speculirt (Chemnitz e Leipzig, 1707). Purtroppo non sono ancora riuscito a rintracciare questo libro. Lo cito, quindi, di seconda mano. (88) Questo eÁ un punto nell'edizione del Galigani che a me risulta incomprensibile. L'edizione del Duffy infatti registra in apparato (p. 119) che il codice Laurenziano gr. 70, che Galigani afferma essere il suo principale riferimento (L), riporta galaji* aQ in luogo di xalazi* aQ come invece ha il Parisinus gr. 1630 (P). Il Galigani concorda (cf. p. 57), ma poi daÁ la preferenza alla versione di quest'ultimo senza fornire alcuna spiegazione. 280 A. MOTTANA La calazia descritta da Psello non corrisponde neppure alla xalazi* thQ del lapidario orfico e dei Kerygmata (25, Halleux e Schamp, 1985: p. 165), che eÁ anch'essa di colore verde porro, guarisce dalle febbri e dal morso degli scorpioni e daÁ capacitaÁ divinatoria a chi la porta. Piuttosto, essa eÁ stata interpretata o come «chicco di grandine» (Galigani, 1980: p. 80), probabilmente male interpretando una affermazione di Plinio (37.189) che trova riscontro in una falsa etimologia che riporta poi Isidoro (XVI. 10, 5), oppure come «diamante» (di nuovo mal interpretando il luogo di Plinio), vale a dire come termine indicante l'autentico minerale di questo nome prima che gli si applicasse quello di a$da*maQ sotto l'influenza della ridefinizione di Teofrasto (III. 19) o anche in alternativa alla possibile identificazione col leucozaffiro del termine corrispondente riportato dalla letteratura medievale(90). In realtaÁ, non eÁ possibile identificare questa pietra a meno di non risolvere prima l'incertezza filologica, ma cioÁ comporta intervenire congiuntamente su quasi tutti i testimoni mineralogici greci che ci sono pervenuti. Le proprietaÁ fisiche descritte da Psello, comunque, porterebbero alla seconda alternativa: non eÁ concettualmente ammissibile, infatti, che un attento osservatore come lui descriva un chicco di grandine, che eÁ deliquescente, come duro come o piuÁ del quarzo! 6.17. Altre pietre. All'inizio del suo trattatello ([A], rr. 8-11), Psello elenca una serie di nomi di pietre di cui non si occuperaÁ perche non le ha potute sperimentare di persona. Con ogni probabilitaÁ si tratta di nomi che egli aveva trovato nel Lithognomon di Senocrate (e infatti si ritrovano in Plinio, che ne fa uso), ma che, anche se circolanti nell'ambiente degli interessati dell'epoca con l'attribuzione di proprietaÁ particolari, egli non era in grado giaÁ allora di mettere in relazione con nessun oggetto reale. Sono quindi inutili anche al fine di un riconoscimento scientifico moderno. CioÁ nonostante, conviene riferirli qui, perche vanno a completare il quadro della Mineralogia greca del XI sec. almeno dal punto di vista nominalistico. 6.17.a. Onocardio. Come pianta eÁ il dipsaco (Dioscoride, 3.11 cf. Mazal, 1998: I, 100), chiamato anche cardo dei lanaioli o scardaccione (Dipsacus fullonum L.), affine al cardo, ma come pietra eÁ menzionata (al femminile) solo da Plinio (37.176) tra quelle rare, anzi eccezionali, perche egli stesso afferma che non se ne sa nulla. In altre parole, Plinio non ne aveva reperito altra informazione nella sua fonte principale, Senocrate, se non che eÁ simile al coccum, vale a dire al guscio della cocciniglia europea (o falsa cocciniglia = Coccus ilicis Fabr.), da cui si estraeva il chermes, una sostanza colorante rosso bruna che veniva o usata cosõÁ oppure serviva da fondo cremisi per la tintura dei tessuti da tingere poi con la porpora. (89) A questa pietra le fonti arabe danno anche come sinonimo mo*roxuoQ, in copto (Ullmann, 1972b: p. 55). Nessuno dei due termini trova riscontro in Psello. (90) In neogreco il termine indica, molto semplicemente, il quarzo (comunicazione personale del Prof. Anastassios Kotsakis). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 281 6.17.b. Olcade. Propriamente si tratta di una nave da carico (Montanari, 1995: p. 1381), ma nell'uso che ne fa qui Psello (che richiama un'iscrizione del III sec. a.C. trovata a Delo: cf. Galigani, 1980: p. 90) dovrebbe trattarsi di una qualsiasi pietra usata come zavorra. Questo termine eÁ l'unico non rintracciabile in Plinio. 6.17.c. Spongite. Come afferma Plinio (36.143, 37.182), si tratta delle parti dure (forse le spicole) presenti nelle spugne che venivano indicate come cura per le vesciche e che erano chiamate anche tecoliti percheÂ, bevute col vino, rompevano i calcoli renali (Dioscoride, 5.144; Aetio, 2.19; cf. Olivieri, 1935, I, p. 162). 6.17.d. Limoniate. EÁ una pietra verde, che Plinio trovava citata dalle sue fonti, ma non conosceva direttamente e percioÁ ipotizzava essere lo stesso dello smeraldo (37.172). 6.17.e. Lincurio. Questa pietra era incognita allo stesso Teofrasto (V. 28) che per primo la descrisse con grande dettaglio. Sulla base dei suoi dati, si eÁ sbizzarrita la fantasia dei commentatori(91), inclusa la mia, che mi ha portato ad identificarla con un tipo di ambra (Mottana e Napolitano, 1977: p. 203) prima di rendermi conto di quanto fosse piuÁ aderente alla descrizione teofrastea l'antica identificazione con una tormalina rossa avanzata dal Watson (1759: p. 396). Mi ha colpito particolarmente come questo autore, che scriveva quando ancora erano d'avanguardia talune osservazioni sperimentali che ora non si eseguono piuÁ, essendo ritenute superate dalle misure strumentali, faccia notare come la tormalina, a differenza dell'ambra, attragga non solo la paglia e i fiocchi di lana, ma anche sottili lamine di metallo: mostri cioeÁ proprietaÁ polari oltre che elettrostatiche(92). 6.17.f. Triglite. Sarebbe una pietra preziosa (Montanari, 1995: p. 2031) rossastra striata di un colore simile alla triglia (Plinio, 37.187), da cui prenderebbe il nome. (91) Un problema particolare si eÁ posto a coloro che hanno voluto commentare il «lapidario cristiano», vale a dire le pietre del pettorale e della cittaÁ di Dio. Il ligy*rion figura, infatti, nella Vecchio Testamento tradotto dai Settanta (Esodo, 39.10), ma non compare nel Nuovo Testamento, scritto direttamente in greco, dove figura invece lo y<akinuo*Q (Apocalisse, 21.20). Anastasio il Sinaita risolve la discrepanza testuale sostituendo nel suo commento il primo termine col secondo. (92) Nel suo commento ai libri 36 e 37 di Plinio, l'Eichholz (1962: pp. 262-264) si lancia in una delle tante identificazioni azzardate di cui danno prova i letterati quando scrivono di minerali: il lincurio potrebbe, secondo lui, essere hessonite, per il colore, essenzialmente, perche egli stesso ammette che la hessonite non presenta proprietaÁ elettromagnetiche (sic: avrebbe dovuto scrivere elettrostatiche!). La hessonite eÁ una varietaÁ gialloambrata della grossularia, un granato comune, inconfondibile con la tormalina e improponibile come identica al lincurio per una serie lunghissima di ragioni (cf. Mottana et al., 1977)! EÁ un peccato che il Galigani (1980: p. 91) si sia fatto portavoce dell'errore dell'Eichholz ed eÁ un bene che il Volk (1990: p. 138, nota 43) non l'abbia seguito, ma abbia piuttosto attirato l'attenzione sulla lunga fama usurpata da questo nome nella letteratura medievale raccolta dalla Meier (1977). L'intera storia del lincurio eÁ stata recentemente rivista dal Walton (2001), che fa risaltare da un lato la sua implausibilitaÁ come oggetto reale, dall'altro l'ostinata persistenza della letteratura lapidaria nel riproporre per 1200 anni di seguito il nome di oggetti non verificabili. 282 A. MOTTANA Un'analoga, breve descrizione si ha nel lapidario di Damigerone-Evace (65, Halleux e Schamp, 1985: p. 287), che precisa che essa eÁ pesante, dura e presenta macchie biancastre su un fondo di colore simile a quello della triglia. 6.17.g. Trioftalmo. Questa pietra preziosa (Montanari, 1995: p. 2035), secondo Plinio (37.186), eÁ un tipo di onice in cui si riconoscono tre occhi umani contemporaneamente, il che eÁ possibile con un materiale concrezionare di deposizione chimica, ovviamente se tagliato secondo una direzione opportuna. 6.17.h. Socondio. Secondo Plinio (37.122) eÁ il tipo di ametista di un colore che eÁ il piuÁ simile al fiore di giacinto ed avrebbe derivato il suo nome proprio dal nome indiano del fiore (socon). 6.17.i. Siringite. Sarebbe una pietra simile alla sezione tra i due nodi di una cannuccia (Plinio, 37.182), cioeÁ lunga e stretta con un foro all'interno. Potrebbe trattarsi, quindi, di una piccola stalattite. 6.17.l. Scisto. Per Dioscoride (5.127) eÁ una pietra colore zafferano proveniente dall'Iberia(93) che eÁ scissile (o fissile), sgretolabile e che ha le stesse proprietaÁ dell'ematite, anche se un po' attenuate. Viene usata per le fratture e per le infiammazioni degli occhi. Plinio (36.147), citando Sotaco come fonte, afferma che eÁ un tipo di ematite che, bevuto, blocca le emorroidi. Entrambi gli autori concordano che si tratta di una semplice pietra e non di una gemma. La fissilitaÁ e il colore scuro, che diventa grigio in polvere, sono confermati dal lapidario di Damigerone-Evace (64, Halleux e Schamp, 1985: p. 287). 6.17.m. Gagate. Non compare nel De lapidum virtutibus, ma eÁ citato da Psello nel De incredibilibus lectionibus (Musso, 1977; cf. Volk, 1990: pp. 208-222) come una pietra mirabile che, se tenuta stretta nella mano sinistra, permette ad una donna di sgravarsi rapidamente. Questo potere eÁ mutuato da Aetio d'Amida (2.24, Olivieri, 1935: I, 164, 2728) ed eÁ totalmente ignorato nell'abbondante letteratura greca precedente. Per tutti si tratta di una speciale varietaÁ di lignite (chiamata anche «ambra nera») proveniente dalla Lidia. In particolare, il gagate eÁ rappresentato a colori in una miniatura del celebre codice viennese di Dioscoride (Mottana, 2002). Nello stesso libro Psello ne cita un'altra proprietaÁ ancora piuÁ fantasiosa: se il suo fumo, indirizzato contro l'addome di una ragazza, non si accende quando lei lo allontana con un soffio, cioÁ sta ad indicare che la ragazza eÁ vergine. Viceversa, col fumo del gagate sarebbe possibile verificare se uno schiavo ha il mal caduco, secondo quanto afferma il lapidario di Damigerone-Evace (20, Halleux e Schamp, 1985: pp. 258-259). (93) Impossibile dire se si tratta della Spagna oppure della Georgia. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 283 7. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI L'esame complessivo del Peri+ li* uvn dyna*mevn (De lapidum virtutibus) dimostra che il trattatello eÁ stato impostato da Psello sotto forma di compilazione erudita in cui profondere tutte le informazioni di cui disponeva sul possibile impiego delle pietre in medicina, nel presupposto non solo di mettersi in buona luce per la sua disponibilitaÁ presso il suo corrispondente (che ± non dimentichiamolo ± era o un alto prelato, come Michele Cerulario, oppure un alto funzionario della casa imperiale, come uno qualsiasi dei membri della famiglia Duca), ma anche di dare una efficace dimostrazione del suo grado di cultura. La medicina, infatti, era allora considerata una parte importante del curriculum formativo di un uomo colto e Psello non solo non se ne sottraeva, ma volentieri vi si dedicava, anche per migliorare per quanto possibile le sue conoscenze a vantaggio suo e dei suoi cari (Volk, 1990). Tuttavia, l'esame dimostra anche che il trattatello rimase allo stato di abbozzo: eÁ sbilanciato nella forma, parziale nei contenuti e sbrigativo nell'esposizione, pur essendo completo di introduzione e di conclusione. Non si tratta, quindi, di un frammento residuo di una composizione piuÁ completa che non ci eÁ pervenuta per una lacuna nella tradizione, ma di un'imbastitura entro la quale piuÁ tardi, forse, Psello avrebbe incorporato altri passi, piuÁ estesi, dedicati a ciascuna pietra: uno di questi passi potrebbe essere lo stesso De succino che, cosõÁ com'eÁ, eÁ esso stesso un frammento, senza capo ne coda e ben poco interessante dal punto di vista mineralogico, ma eÁ esauriente nel suo contenuto informativo. Nell'assunto, quindi, che il De succino debba essere considerato un brano che, alla lunga, avrebbe dovuto essere inserito in un De lapidum virtutibus piuÁ completo, non appare azzardato congetturare che almeno una parte delle notizie meravigliose contenute nel De incredibilibus lectionibus, oppure nel De omnifaria doctrina o in un altro testo pselliano che mostri simili incongruenze di stesura e completezza, sarebbero confluite anch'esse in un trattato finale, completo ed esauriente, che peroÁ non vide la luce o perche Psello morõÁ oppure perche i casi della sua vita turbolenta lo portarono a un certo punto ad abbandonare gli studi di filosofia naturale per dedicarsi solo a quelli di teologia. Gli argomenti che posso addurre a sostegno di questa congettura sono molteplici. 7.1. Quanto alle dimensioni, il trattatello di Psello descrive solo 24 pietre(94): molto meno, cioeÁ, di quante erano note ai Greci secondo la testimonianza di Plinio, e per lo piuÁ in termini d'estrema brevitaÁ (2-5 righe; delle 24 descrizioni ben 12 consistono nel solo nome seguito dai due punti e da una scarna frasetta), ad eccezione di quattro (carbonchio, elettro, diaspro e topazio) su cui egli si dilunga un poco di piuÁ. Per alcune pietre, poi, non tanto di brevitaÁ si tratta, quanto piuttosto di secchezza, anche d'informazione. Psello, (94) In realtaÁ sono 25 (cf. tab. II), poiche l'antracite non ha nulla a che fare con lo «antrace», pur essendo descritta nello stesso capitoletto (carbonchio, n. 4: q.v.). Non contando i nomi all'inizio, di cui Psello stesso ammette di non sapere niente, e prese assieme le diverse varietaÁ di quarzo, il numero di descrizioni di pietre indipendenti si riduce a 17. 284 A. MOTTANA infatti, si limita a far seguire al nome della pietra una sola proprietaÁ di rilevanza medica, senza nulla di piuÁ, e tanto meno cerca di descrivere come si presenti la pietra(95). Vi sono, anzi, evidenti discrepanze interne nel trattamento dell'informazione: le prime 18 pietre, in una rigorosa sequenza alfabetica, sono descritte con un accenno di ordine e di larghezza; le ultime sono elencate un po' a caso e sono liquidate con una riga di testo, ad eccezione dell'ultimissima (vale a dire proprio di quella che piuÁ di tutte viola l'ordine alfabetico). Anche per le pietre che nomina solamente, ma che non descrive, Psello adotta un ordine strano, di cui non intendo il significato recondito, se pure c'eÁ: sono sempre appaiate nell'iniziale greca (2 O, 2 L, 2 T) e nella costruzione della frase fuorche quelle che iniziano per X, ma anche per questa lettera dopo la prima pietra, isolata, ne seguono, nettamente staccate da essa, 3 di seguito: in tutto, quindi, le pietre che iniziano con X sono 2+2, vale a dire il doppio di quelle che iniziano con L, o con O, o con T(96). 7.2. Quanto alla finalitaÁ del trattato, esse sono espresse chiaramente in apertura. Psello afferma di aver effettuato la sua ricerca sulle virtuÁ delle pietre affinche il suo interlocutore possa servirsene e trarne vantaggio nei momenti critici. A noi non resta che osservare che il destinatario avrebbe potuto trarre un vantaggio piuttosto limitato, se l'informazione ricevuta si fosse limitata alle scarne parole contenute nell'abbozzo che ci eÁ pervenuto! Tutto lascia pensare o che Psello l'abbia integrato oralmente, oppure che intendesse completare il trattato in altro momento. Va valutato, comunque, come mai Psello non attribuisca i presunti benevoli influssi delle pietre alla volontaÁ divina, come avrebbe fatto un qualsiasi altro scrittore della sua epoca, ma espressamente dichiari che non vuole pronunciarsi in merito ed anzi suggerisca al suo interlocutore di goderne i vantaggi senza cercarne la causa, cosõÁ che essa rimanga serbata (cioeÁ nascosta) tra i tesori superni. Psello dimostra in cioÁ di essere un «razionalista» (Praechter, 1931) cauto nelle sue conclusioni, convinto che il buon risultato della cura sarebbe dipeso dalla sua favorevole accettazione da parte del curato e non incline ad esporsi su un argomento di possibile frizione con la dottrina ufficiale della chiesa. Tuttavia, dal complesso dell'esposizione, credo di poter dedurre che Psello credeva realmente nelle virtuÁ terapeutiche delle pietre e che desiderava farne partecipe l'altro ± chiunque egli sia ± come se si trattasse di un autentico tesoro, contribuendo cosõÁ alla favorevole accettazione psicologica della cura grazie all'effetto placebo (cf. Thorndike, 1923). 7.3. Resta infine da valutare la qualitaÁ scientifica del testo. Psello riprende Senocrate (95) Alcune frasi brevissime, prive di articoli e di verbi, sembrano piuÁ un appunto frettoloso che un brano, anche succinto, di un testo scientifico meditato. (96) Questo mio indulgere a cercare simmetrie nascoste nella stesura puoÁ apparire forse fuori luogo (soprattutto dopo che mi sono sbilanciato nell'affermare che considero il trattatello un semplice abbozzo), ma si adatta bene a quanto eÁ stato messo in luce (Renauld, 1920) sullo stile del nostro filosofo, che eÁ spiccatamente letterario, come del resto usuale al suo tempo, quando letteratura e scienza non presentavano ne la divaricazione di contenuti ne la specializzazione verbale che rende oggi la scienza ostica ai lettori normali. Si veda anche l'uso che Psello fa della lettera T (M. Peri, comunicazione personale). STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 285 (della cui competenza mineralogica poco sappiamo malgrado tutti gli sforzi che sono stati fatti di enuclearne i frammenti dai testi di Plinio e di autori posteriori), ma sicuramente lo rielabora su varie basi, inclusa quella della competenza addizionale che gli deriva dal suo genuino interesse per la Scienza in generale e per i minerali in particolare. Egli afferma, infatti, di avere controllate assieme al suo interlocutore tutte le pietre sulle quali scrive (r. 4) e di trascurare quelle di cui ha appreso sõÁ il nome, ma alle quali non ha mai avuto occasione di trovarsi di fronte. Se la prima affermazione eÁ importante, poiche potrebbe spiegare come mai il trattatello sia cosõÁ povero nella descrizione dell'aspetto fisico delle diverse pietre, che i due avevano viste insieme, la seconda lo eÁ ancora di piuÁ. Una simile affermazione di principio eÁ, infatti, sorprendente per uno scrittore bizantino di un'epoca nota non solo per la sua diffusa rinascita culturale, ma anche per le sue gravi forme di saccenteria e dogmatismo (e.g., Browning, 1975; Kazhdan, 1995). EÁ, peroÁ, una precisa caratteristica di tutta l'azione di Psello (Kazhdan, 1995: p. 163) e pertanto ne qualifica positivamente anche il trattato. Possiamo, quindi, essere certi che egli aveva esaminato con cura e conosceva direttamente il materiale di cui tratta, anche se poi le informazioni che ne daraÁ sulle proprietaÁ curative saranno il frutto delle sue letture (forse Aetio d'Amida, forse Paolo d'Egina, piuÁ probabilmente entrambi, che derivano le loro conoscenze dalla tradizione ippocratica e galenica), quando non un'ereditaÁ di fantasie (Hohlweg, 1988). Appare molto strana, in questo contesto, la scarsissima corrispondenza esistente tra il testo di Psello e il De materia medica di Dioscoride, un trattato che era sicuramente sopravvissuto a Bisanzio e che godeva di amplissima notorietaÁ (Wellmann, 1907-14). Non trovo altra spiegazione se non congetturando che il manoscritto disponibile a Psello era l'attuale Codex medicus graecus 1 (Mazal, 1998), magnificamente scritto e miniato, ma privo del libro 5 che contiene la parte mineralogica, che vi eÁ sostituito dalla parafrasi di Eutecnio (Mottana, 2002). Questa circostanza potrebbe aver fatto sõÁ che Psello non si curasse di citare altri autori se non Senocrate, il cui testo gli era a portata di mano nella sua interezza. A dimostrazione di cioÁ stanno anche le fortissime divergenze che esistono tra il libretto di Psello e quello di Epifanio, un autorevole autore cristiano che egli non poteva non menzionare almeno per i vari frammenti sopravvissuti in greco, anche se il suo intero contenuto non gli era noto percheÂ, se certamente egli non conosceva il latino (anzi: lo rifiutava), a maggior ragione eÁ improbabile che conoscesse il georgiano o l'armeno(97). (97) Gli archivi filosofici attribuiscono a Psello un discepolo georgiano: JoanaÈ Petrizi, autore di un commento alla logica di Aristotele in cui eÁ fatto ampio uso del sillogismo (Iremadze, 2004). Non lo credo probabile, non tanto per l'evidente disparitaÁ di indirizzo tra i due (Psello era un neoplatonico: cf. Ostrogorsky, 1993: p. 3000; Criscuolo, 1990: pp. 67-69), quanto piuttosto per motivi di cronologia relativa. JoanaÈ Petrizi (noto tra i filosofi col nome latinizzato di Johannes Aeropageli), nato nel 1055 ca., studioÁ effettivamente a Bisanzio e tornoÁ in patria solo verso la fine del secolo, invitato dal re Dawitt (Davide II, il Costruttore: 1089-1125) a dirigere l'accademia scientifica da lui fondata a Gelati presso Kutaisi, che a quel tempo era la capitale della Georgia. Qui morõÁ nel 1130 ca. Se fosse stato veramente allievo di Psello, allora la data di composizione del De lapidum virtutibus dovrebbe essere spostata a non prima del 1070/1075 (quasi all'estremo superiore supposto dal Galigani, 1980: p. 30, che peroÁ considero azzardato), ma solo a condizione che si spieghi perche il giovane allievo 286 A. MOTTANA Le brevi descrizioni dei caratteri estrinseci delle singole pietre fatte da Psello hanno, dunque, un reale contenuto oggettivo, poiche corrispondono al risultato dell'osservazione, che non eÁ altro se non il vero riconoscibile(98). La frase finale del trattatello («lascia ... le cause tra i tesori su in cielo»: [Z], rr. 123-124) ribadisce la razionalitaÁ di Psello come studioso. Egli suggerisce, infatti, di mantenersi sul concreto e di non provare ad elucubrare motivazioni di sorta per le proprietaÁ efficaci che pur afferma essere presenti in certe pietre. In cioÁ, Psello si dimostra degno erede dello spirito scientifico greco, che eÁ concreto piuÁ e prima di essere astratto: un vero discepolo di Teofrasto. Costui inizia, infatti, il suo De lapidibus con la dichiarazione di aderire pienamente alla teoria aristotelica sulla natura e genesi delle pietre e dei metalli, ma subito dopo comincia a mettere in discussione alcune delle proprietaÁ che il suo maestro aveva attribuite a questi materiali, distinguendo nettamente tra quelle che egli stesso aveva verificato e quelle che gli sono state riferite da altri (ad esempio, per la pietra che ha la capacitaÁ di generare, egli afferma: «ammesso che esista davvero»: I. 5). Passa quindi a descrivere per prime quelle proprietaÁ che egli considera certe, benche si osservino bene su poche e ben precise sostanze: comportamento al riscaldamento e resistenza alla combustione (II. 1-17, III. 18-22), e continua poi con altre descrizioni dirette ed immediate, senza indulgere ne in elucubrazioni ne in teorizzazioni, intercalando anzi il suo dire, a seconda dei casi, con indicazioni esplicative tangibili del tipo «come la qui presente [steatite]» (VII. 41), oppure con aperti suggerimenti ad essere cauti nell'accettare un'informazione (II. 10, IV. 27, VII. 46, ecc.). A ben vedere, dunque, Psello segue la linea tracciata da Teofrasto, pur affermandola in maniera piuÁ concisa. Non puoÁ quindi, non apparire strano che egli non citi Teofrasto tra le autoritaÁ cui fa riferimento ([Z], rr. 118-120), tanto piuÁ che non esiteraÁ ad usarne il nome nell'Accusatio patriarchae, attribuendogli competenze alchemiche che uno scienziato ellenistico non poteva assolutamente avere (Mottana, 2001: pp. 188-189). Posso solo avanzare un'ipotesi a giustificazione di questo suo comportamento: che egli non avesse allora a portata di mano il Peri+ li* uvn(99) e che non ritenesse opportuno farvi non abbia dato nessun aiuto al suo maestro ritraducendo per lui in greco quelle parti del trattato di Epifanio che si erano conservate integre in georgiano. In realtaÁ, la presenza del Petrizi alla scuola di Psello, se confermata, sarebbe un ottimo argomento in favore di una datazione del trattatello precedente al suo arrivo. (98) Il riconoscimento dei minerali sulla base di proprietaÁ estrinseche (caratteri esterni), quali peso, colore, lucentezza e ruvidezza, eÁ in uso tuttora, almeno nella prassi empirica comune, e ha mantenuto valore scientifico fino alla metaÁ dell'Ottocento, quando le analisi chimiche e cristallografiche su cui si basa la determinazione oggettiva moderna erano inadeguate e la procedura universale per il riconoscimento dei minerali era, ancora, quella stabilita a suo tempo da A.G. Werner (1774). (99) Ho mostrato in un altro lavoro (Mottana, 2001) che il testo teofrasteo non ha avuto una trasmissione regolare nel tempo. Dopo essere stato citato nell'VIII sec. da un Eliodoro (poeta non meglio identificato), fu ripreso per la prima volta in greco dal patriarca di Istanbul (diventata turca) Gennadio II alla metaÁ del XV sec. Tra i due si interpone l'evidenza concreta rappresentata dal primo manoscritto pervenutoci, il Vaticanus graecus 1302, che eÁ datato al XIII sec. (cf. Mottana e Napolitano, 1997: p. 222). Il fatto che di Teofrasto parli abbastanza estesamente l'enciclopedia Suda, del X sec., non eÁ probante, perche le opere botaniche che lo resero famoso ebbero una diffusione piuÁ ampia ed una trasmissione piuÁ costante della sua unica opera mineralogica. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 287 riferimento a memoria in un testo di carattere tecnico, mentre non esiteraÁ poi a farlo in uno di carattere polemico; in alternativa: che tra l'impostazione del De lapidum virtutibus (1055 o poco piuÁ tardi) e la stesura dell'Accusatio patriarchae (inizio 1058) egli si sia procurato materiale teofrasteo idoneo alla sua invettiva(100). 7.4. Passiamo, da ultimo, alla fortuna del De lapidum virtutibus. Psello non contribuõÁ per nulla allo sviluppo di una scienza mineralogica bizantina, come invece gli era riuscito per la filosofia. La sua operetta non ebbe nessuna diffusione al di fuori di Costantinopoli o, se pure fu conosciuta, rimase lettera morta per lungo tempo(101). L'unico testo della successiva letteratura bizantina che prenda in considerazione pietre e minerali eÁ, infatti, del XIV sec. Si tratta del complesso, concettoso e lungo poema del vescovo astronomo Teodoro Meliteniote Sti* xoi toy Melithniv*toy ei$ Q th+n SvWrosy*nhn, oltre 200 versi del quale consistono nella elencazione delle 224 gemme che ornano il letto della Saggezza. Esse sono elencate puntigliosamente, ma sono descritte in un modo talmente conciso da configurare uno «Steinkatalog» (SchoÈnauer, 1996), piuÁ che contribuire alla conoscenza effettiva del loro aspetto e delle loro proprietaÁ. Inoltre, le 24 pietre che sono in comuni col De lapidum virtutibus non sembrano tanto dipendere dall'operetta di Psello, quanto piuttosto riferirsi direttamente alla sua fonte, cioeÁ al testo di Senocrate (vedi sopra). Al di fuori di Bisanzio, la fortuna di Psello come autore di testi mineralogici fu ancora minore, malgrado il fatto che egli avesse affrontato pietre e minerali nelle loro virtuÁ curative avrebbe dovuto facilitarne l'inserimento nella fiorente tradizione medica medievale, che nelle universitaÁ proseguõÁ ininterrotta fino al XVII sec. Accadde cosõÁ a Dioscoride (Riddle, 1985) che fu molto presto tradotto in latino (V sec.) e, tra gli autori di lingua latina, a Marbodo di Rennes e Ildegarda di Bingen (Riddle, 1970, 1977). Tuttavia Psello, trascurato dai medici che lo confrontavano con altre, ben piuÁ importanti figure, non fu completamente dimenticato e, dopo un mezzo millennio, con l'inizio della rivoluzione scientifica nel XVII secolo, tornoÁ ad essere consultato dagli specialisti di gemme e minerali. Quando Adriaan Toll, nella sua riedizione commentata del fondamentale manuale gemmologico del de Boot (16362), cita nelle note l'autoritaÁ di Psello per affermare che «adamantem febres semitertianas suspensum, aut alligatum restinguere» (t. 2, cap. IV, p. 127), che il berillo curerebbe «convulsiones, oculorum dolores & icterum» (t. 2, cap. LXXI, p. 216) e cosõÁ via(102), afferma di fare cioÁ perche da poco tempo e per primo il Maussac aveva divulgato, tradotto in latino e corretto il testo di Psello (p. 127). Si noti: il Toll prende in considerazione tutte le pietre citate da Psello, ma non modifica il testo originario del de Boot: lo integra in nota. CosõÁ facendo, riconosce (100) Si trattava, comunque, di testi apocrifi, se Psello puoÁ ritenere in base ad essi di porre Teofrasto in secondo piano rispetto a Zosimo, un alchimista di Panopoli in Egitto vissuto nel III-IV sec. d.C. (Mottana, 2001: p. 188). (101) Non si puoÁ escludere che sia stato lo stesso Psello a tarparle le ali: dopo il 1058 egli aveva tutto l'interesse a far passare sotto silenzio un lavoro che aveva dedicato al Cerulario e, inoltre, conteneva nozioni interpretabili come irreligiose ± la sua stessa accusa da lui stesso lanciata al povero patriarca in disgrazia! (102) Il latino eÁ del Toll, non del Maussac. Questi, ad esempio, scriveva «auruginem» e non «icterum» (p. 349). 288 A. MOTTANA una certa autoritaÁ ad un autore che de Boot non poteva conoscere, poiche la prima edizione a stampa di Psello (Maussacus, 1615) era posteriore alla stesura del suo (1609) e che uno studioso successivo non poteva piuÁ ignorare. Il Toll, che probabilmente non conosceva il greco, si avvalse della traduzione latina di cui Maussac aveva corredato la sua editio princeps(103) e tramite questa inserõÁ tempestivamente quanto discusso da Psello nella tradizione mineralogica europea. Successivamente, il nome di Psello non compariraÁ piuÁ in opere scientifiche, neppure in quelle di Stenone e Bertolino, dalle cui scoperte prende inizio la Mineralogia moderna, ma il suo contributo, benche sottaciuto, non potraÁ piuÁ essere disconosciuto. Il suo nome non eÁ svanito neppure ora, pur rimanendo confinato nei piuÁ specializzati trattati di storia della Scienza, che peroÁ o impietosamente qualificano il suo trattatello come «eine ganz wertlose Kompilation aus aÈlteren Werken» (Mieleitner, 1922: p. 477) oppure non esitano a liquidarlo ancor piuÁ sbrigativamente (Wellmann, 1935: p. 437; Volk, 1990: p. 134). RINGRAZIAMENTI L'elaborazione e la pubblicazione di questo lavoro non sarebbero stati possibili se non avessi ricevuto un contributo della Commissione per i Musei naturalistici ed i Musei della Scienza dell'Accademia col quale affrontare le spese di viaggi per la consultazione e la riproduzione di testi di difficile reperimento. Devo molto, inoltre, alla cortesie di altri che mi hanno facilitato in varie maniere: il Prof. Massimo Peri del Dipartimento di Scienze dell'AntichitaÁ dell'UniversitaÁ di Padova che ha anche verificato la mia traduzione dal greco bizantino, la Prof.ssa Carla Triulzi che ha verificato le mie traduzioni dal latino e dal greco classico, il Prof. Dr. Friedrich Seifert della Bayerische Akademie der Wissenschaften che mi ha procurato le altrimenti irreperibili pubblicazioni dell'Ullmann, il Prof. Anastassios Kotsakis per chiarimenti sulla terminologia mineralogica neogreca e le Dott.sse Anna Capecchi ed Enrica Schettini Piazza della Biblioteca Corsiniana. Last but not least, ricordo la perfetta organizzazione della Green Library della Stanford University che mi ha facilitato la consultazione di molti libri rari e di alcune pubblicazioni antiche. Un sincero grazie, per finire, alla Dott.ssa Gianna Benigni per l'attenta opera di preparazione per la stampa di un testo irto di difficoltaÁ. Di quanto resta di scorretto o di poco chiaro, quindi, mi devo assumere piena responsabilitaÁ. BIBLIOGRAFIA ABEL E., 1881. Orphei Lithica, accedit Damigeron de lapidibus, recensuit E.A. Berlin, Calvary (rist.: Olms, Hildesheim 1971). ADLER A., 1928-38. Suide lexicon edidit A.A. (5 voll.). Teubner, Lipsiae (rist. stereotipa: Teubner, Stuttgart 1967-71). AGRICOLA G., 1530. Georgii Agricolae Medici, Bermannus sive De re Metallica dialogus. Basileae, in aedibus Frobenianis, 184 pp. ALBINI F., 1988. Michele Psello. La crisopea, ovvero come fabbricare l'oro. Traduzione, introduzione e commento di F.A. (Nuova Atlantide), ECIG, Genova. ANASTASI R., 1968. Michele Psello. Encomio per Giovanni, piissimo metropolita di Euchaita e protosincello. (103) Parlava invece varie lingue Gilberto Gaulmino, cui il Maussac dedicoÁ il suo libro (1615: p. 341), e tra esse il greco. CioÁ nonostante, saggiamente, il Maussac ritenne opportuno integrare su colonne parallele il testo greco di Psello con la traduzione latina fatta da lui stesso, ben sapendo che solo cosõÁ poteva assicurare all'opera una certa diffusione tra gli studiosi europei. STORIA DELLA MINERALOGIA ANTICA. I. LA MINERALOGIA A BISANZIO ... 289 Introduzione, traduzione e note di R.A. (2 voll.), (Pubblicazioni dell'Istituto universitario di magistero di Catania. Serie filosofica. Testi e traduzioni, 2), C.E.D.A.M., Padova. ANASTASI R., 1974. Filosofia e techne a Bisanzio nell'XI secolo. Siculorum Gymnasium, n.s., 27: 352-386. ANASTASI R., 1979. L'universitaÁ di Bisanzio nell'XI sec. In: Studi di filologia bizantina, I. Pubblicazioni dell'Istituto di Studi Bizantini e Neoellenici, Catania: 37-64. ANONYME, 1993. Le Livre de Senior [Zadith] suivi de Lettre de Psellos sur la ChrysopeÂe et de Rachidibid (Les Classiques de l'Alchimie). Dervy, Paris. BACCI A., 1587. 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