Recensione: Grotstein J. S., (2009), Il modello kleinian-bioniano. Volume 1: Teoria e
tecnica. Volume 2: Applicazioni cliniche, Cortina, Milano 20111
Sara Boffito
Se l’intuizione psicoanalitica non ci fornirà un
campo per far scalpitare gli asini selvaggi, dove
potremmo trovare uno zoo che preservi la specie? E
d’altro canto, se l’ambiente è tollerante, cosa avverrà
dei “grandi cacciatori” che giacciono là, non ancora
rivelati o nuovamente sepolti?
Bion, Memoria del Futuro. Il sogno
James Grotstein, un autore che Bion riconoscerebbe certamente come uno dei “grandi
cacciatori” degli ultimi decenni, si imbarca con questi due volumi in un’impresa mitologica, oserei
dire epocale, che compie con straordinario successo.
Il primo grande ostacolo, e la domanda che si pone il lettore non appena prende in mano i
volumi, è: come orientarsi nell’universo kleiniano-bioniano senza perdere la bussola? Grotstein, già
nel titolo, promette di individuare un “Kleinian/Bionian Mode”, un taglio in qualche modo
identitario e distinguibile che identifichi quella che agli occhi di molti sembra una congerie confusa
e litigiosa di autori che faticherebbero a riconoscersi in un’unica corrente. Sia per quanto riguarda la
teoria e la tecnica (Volume 1), sia – a maggior ragione – nelle applicazioni cliniche (Volume 2). Il
pensiero che questo libro si possa inserire tra quelli che – in alcuni casi molto proficuamente, come
accade per I modelli della psicoanalisi. Un metodo per descrivere e confrontare gli approcci
1
Versione italiana dell’articolo: Boffito, S. (2011). Book review: The Intimate Room: Theory
and Technique of the Analytic Field. 2008. Trans. Philip Slotkin. London: Routledge, 2010.
xviii + 222 pp. $82.46 (hc), $36.95 (pb). American Imago, 68:380-388.
1
psicoanalitici (Tuckett D. et al, 2008) – propongono un metodo di confronto tra punti di vista
diversi, o tra quelli che descrivono storicamente l’evoluzione della scuola kleiniana (o bioniana) –
come, per esempio, gli importanti lavori di Riccardo Steiner (2000) – abbandona il lettore fin dalle
prime pagine. Nella prefazione infatti Grotstein mette subito in chiaro che, diversamente da altri
contributi che hanno affrontato la crescente ramificazione della tecnica psicoanalitica, il suo vuole
essere un “libretto d’istruzioni che offra specifici suggerimenti sul ‘come’: […] come approcciare,
come ascoltare, sia attivamente che passivamente, come pensare alla situazione analitica e come
intervenire con l’analizzando” (xiv, Volume 1). Ci si accorge subito, in altre parole, che i volumi
non sono affatto semplici manuali o antologie – che possono essere letti in modo più o meno
indifferente, attribuendo la paternità della questione trattata all’autore affrontato in quel capitolo –
ma una riflessione sugli strumenti teorico-tecnici a nostra disposizione che non può non coinvolgere
personalmente il lettore (se egli è un clinico) e interrogarlo profondamente. Dopo un primo capitolo
dedicato a tracciare “Ponti verso altre scuole e la psicoterapia” il discorso entra immediatamente nel
vivo e Grotstein affronta in ogni capitolo una questione teorico-clinica particolarmente spinosa,
senza tirarsi indietro e senza mai uscire dalla cornice della stanza d’analisi e del processo analitico,
senza mai rifuggire dalle sue impasse e dai suoi irrisolvibili misteri.
Grotstein affronta così, senza scorciatoie, una serie di questioni cruciali che, per uno
psicoanalista, si potrebbero definire esistenziali. Ne elenco solo alcune: “‘Innocenza’ versus
‘peccato originale’” (p. 8); “Qual è il compito dell’analista?” (p. 58); “Quali sono gli scopi
dell’analisi?” (60); “Chi sono io questa volta?” (99); “Contro che cosa e/o chi ci difendono le
difese?” (186); “Quando le resistenze scompaiono dolcilmente e/o persistono caparbiamente?”
(213); “Che cosa vuole il paziente dall’analista?” (234); “Co-costruzione versus autoorganizzazione” (237); “Chi compie davvero l’identificazione nell’identificazione proiettiva?”
(277).
Sono dunque diverse le operazioni teoriche importanti compiute da Grotstein nella stesura di
questo libro; una particolarmente utile è l’identificazione di alcuni concetti teorici che costituiscono
“l’ordine sotterraneo” (xiii. Vol 2) della tecnica dei kleiniani-bioniani, un terreno comune di cui
forse molti sono (o sono stati finora) inconsapevoli. E’ questo il caso dell’ “una-volta-e-persempre-continuamente-evolventesi bambino dell’inconscio” (trattato ampiamente nel cap 11 del
Volume 1). Kleineani, post-kleiniani e bioniani, osserva Grotstein, sembrano infatti tutti assumere
“la presenza putativa, all’interno dell’analizzando, di un “bambino analitico”, che in un certo
senso corrisponde al bambino dell’infanzia reale e in un altro ad un bambino costante, sempre
presente ed in continua evoluzione, che rappresenta il “soggetto analitico dell’inconscio” –
l’aspetto più soggettivamente sensibile dell’analizzando in ogni singolo momento” (p. 120,
Volume 1)
2
Accanto alla identificazione di un terreno teorico comune tra gli autori vi sono, naturalmente,
importanti distinzioni da operare, e posizioni da prendere. Certamente, così come è accaduto per la
vita dell’autore, l’opera di Grotstein è illuminata dal pensiero di Bion, pensiero che illumina con
“un raggio di intensa oscurità” (2007). L’autore è infatti deciso nel riconoscere che è stato Bion, tra
tutti gli analizzandi e allievi della Klein, “ad avere generato le più grandi e lungimiranti estensioni
del suo pensiero, nonché le innovazioni più radicali della sua teoria e tecnica clinica, per non dire di
quella di Freud” (p. 302, Volume 1); ed è altrettanto apodittico nell’affermare che certamente “non
ci potrebbe essere Bion senza Klein, ma – e questo potrebbe essere dibattuto – i tempi sono maturi
per dire che non ci può più essere Klein senza Bion!” (p. 37 Volume 1).
Grotstein passa in rassegna una miriade di autori e teorizzazioni: dalla concezione di fantasia
inconscia di Hanna Segal e Susan Isaacs, alle novità portate da Donald Meltzer e Betty Joseph, agli
approcci radicalmente nuovi di Thomas Ogden e Antonino Ferro – di cui, secondo l’autore, Bion
stesso sarebbe stato felice (p. 33, volume 2). Interessante è soffermarsi sullo sguardo che Grotstein
rivolge ad autori tanto diversi tra loro, uno sguardo che ha forse introiettato da Wilfred Bion, il suo
analista: egli è preciso (nelle distinzioni) senza essere giudicante2.
In questo breve e parziale elenco, manca, naturalmente Grotstein stesso che, della psicoanalisi
contemporanea di orientamento kleiniano/bioniano, non è soltanto attento osservatore, ma uno dei
teorici più creativi e vivaci, le cui teorie e posizioni non possono che entrare nei volumi, dialogando
di volta in volta con i più diversi autorevoli interlocutori. D’altronde la lente attraverso cui abbiamo
il privilegio di osservare gli sviluppi della psicoanalisi è quella di chi ha osato disturbare l’universo
(Do I Dare Disturb the Universe? A Memorial to Wilfred R. Bion, 1981).
Leggendo, ci si sente molto grati verso questo autore, perché si ha la sensazione che quello
che, nell’introduzione, Grotstein dice di aver fatto sia vero: egli ha condiviso con i lettori le proprie
“ricette personali” (p. 5) sulla tecnica psicoanalitica. La passione, e l’entusiasmo per la materia,
sono altri doni di quest’opera per cui ci si sente riconoscenti. E non so se, come lui sembra temere,
qualcuno possa trovare il suo stile autoritario per questo3. Per me, invece, nel corso della lettura,
incontrare prese di posizione decise (ma mai aggressive!) da parte dell’autore ha avuto un effetto
pacificante e, in alcuni casi, illuminante. Nella consapevolezza, naturalmente, che – soprattutto in
psicoanalisi – nessuna presa di posizione può mai essere definitiva perché la verità (O) non può
Mi riferisco in questo caso a quella attitudine tipicamente bioniana che Giuseppe Civitarese, riprendendo
Meltzer, ha definito “the search for ambiguity”, “l’intenzione di essere precisamente oscuro” (2007).
3 “Spero che il lettore che trovasse il mio stile autoritario di tanto in tanto realizzi che sto meramente rivelando il
mio entusiasmo”(p. 5, Volume 1)
2
3
essere posseduta; anche questo libro, dunque, come si dichiara nella prefazione “non è che l’ABC”
(xv).
Credo che infatti si possa osare dire che nessuno meglio di Grotstein conosce ed ha fatto
propria questa lezione bioniana:
“Ogni tentativo di classificare il materiale con cui trattiamo, dovrebbe essere considerato
come provvisorio o transitivo; cioè come parte di un processo che va da un pensiero, o idea,
o posizione, a un’altra – non come una permanenza, non come un luogo di sosta nel quale
l’investigazione sia finita” (Bion 1974, Caesura, p. 84)
Tale lezione è profondamente radicata anche nel modo di procedere del ragionamento di
Grotstein che, in modo radicalmente bioniano (e dunque necessariamente non “Bionico”!), ci fa
assistere, quasi in presa diretta, alla continua (e quindi transitiva) oscillazione tra Capacità Negativa
e Fatto Scelto (CNFS), a come la sua mente genera quel pensiero.
Se l’investigazione è infinita, dunque, neanche l’opera di Bion può essere un “luogo di sosta”!
Questo non avviene nei testi di Grotstein, perché il pensiero bioniano non viene soltanto
continuamente ripensato, ma anche rivisto e “corretto”. E’ questo il caso dell’identificazione
proiettiva e della transidentificazione proiettiva, teorizzata per la prima volta dallo stesso Grotstein.
Ritengo i capitoli (24, 25 e 26 del Volume 1) dedicati a questi temi particolarmente importanti in
quanto chiariscono una serie di concetti che, per quanto centrali ed ubiquitari nella pratica clinica,
tendono, nella teoria, ad essere dati per scontati. L’identificazione proiettiva irradia infatti, secondo
Grotstein, una “importanza a costellazione” (p. 267, Volume 1). Dopo aver sottolineato le
importanti differenze tra la concezione della Klein di identificazione proiettiva, strettamente
intrapsichica, e quella di Bion, che ne scopre la funzione comunicativa, l’autore riflette su una serie
di fraintendimenti che, a suo avviso, hanno generato non poche confusioni nel dibattito scientifico.
Il primo è la presunta differenza tra “proiezione” e “identificazione proiettiva” che, a suo avviso,
devono invece essere considerate “identiche o inseparabili” (p. 267, Volume 1). Tale confusiva
distinzione ha sofferto, secondo l’autore, del “sea-change”; sebbene la Klein non abbia mai chiarito
questa differenza, in America, dove il concetto di identificazione proiettiva godette di scarso
successo, si diffuse l’errata convinzione che ci potesse essere proiezione senza identificazione. Al
contrario, osserva Grotstein: “se ci si chiede che cosa viene proiettato nella proiezione che non
viene proiettato nell’identificazione proiettiva la risposta è: nulla. L’atto della proeiezione
presuppone che il soggetto che proietta si dis-identifichi da qualche aspetto della propria identità e
lo ricollochi nel o sull’oggetto” (p. 276).
Un altro fraintendimento diffuso nella psicoanalisi americana riguarda l’oggetto della
identificazione proiettiva, che non è – come spesso viene erroneamente dato per scontato –
4
l’identifier, l’oggetto esterno; al contrario, “non si può mai proiettare su un’altra persona reale,
soltanto nella propria immagine o costruzione (fantasia, rappresentazione) di quella persona” (p.
277).
Tali distinzioni servono a Grotstein per introdurre il proprio sviluppo della teoria bioniana: la
transidentificazione proiettiva:
“quando l’altro individuo sembra venire influenzato dalla proiezione del soggetto,
l’“identificazione”, nell’oggetto, emerge da ciò che già esisteva dentro di lui ma era
dormiente
prima
dell’identificazione.
Questo
processo
rientra
nella
categoria
‘accoppiamento’ o ‘simmetrizzazione’, […] Propongo che ciò che Bion chiama
identificazione proiettiva intersoggettiva o realistica dovrebbe essere pensata come una
transidentificazione proiettiva, un modello bi-personale, per designare la sua complessità
ed ineffabilità ma anche per distinguerla (allo stesso tempo comprendendola) dalla sua
originale concezione della Klein, come fantasia inconscia. Nonostante entrambi i processi
includano l’identificazione proiettiva come fantasia inconscia intrapsichica onnipotente, la
differenza è che nella transidentificazione proiettiva accade qualcosa in più – induzione
ipnotica, evocazione, provocazione e/o anticipazione, mentalmente e/o fisicamente.” (p.
287, Volume 1)
Questa evoluzione porta a leggere in modo radicalmente intersoggettivo il processo
identificatorio: l’oggetto di identificazione proiettiva è diventato un altro soggetto, “un soggetto nel
proprio pieno diritto di partecipare a questa transazione transpersonale” (p. 289, Volume 1). Così,
nel setting, è possibile vedere la transidentificazione proiettiva come:
“uno stato di mutua ipnosi tra analizzando e analista, in cui c’è una risonanza attiva tra
le immagini costruite internamente da ogni partecipante, in cui le rispettive immagini
sono infuse di identificazioni proiettive da parte di entrambi. Ogni comunicazione da
parte di un membro genera una controidentificazione proiettiva sempre più complessa
nell’altro” (p. 291)
Possiamo forse sostenere che l’evoluzione dell’intero “Kleinian/Bionian Mode” vada verso
una “intersoggettivizzazione” (ma non quella banalizzante che dimentica il mondo interno!) del
discorso psicoanalitico e che sia proprio da questo punto di vista che si può considerare come una
corrente dotata, pur nelle divergenze, di alcuni tratti distintivi e di un destino comune?
Si potrebbe leggere in questo senso anche la domanda che Grotstein pone a se stesso, e al
lettore, a partire da una riflessione sulla reazione terapeutica negativa: “se si può supporre che le
resistenze, così come le difese ed altri aspetti della personalità, diventino impercettibilmente – e a
buon diritto – sub-personalità, “soggettività” autogenerate, “presenze” preternaturali o “intelligenze
senzienti”, allora nel momento in cui queste accettano di scomparire – lo fanno? – quando il lavoro
5
interpretativo dell’analista si è concluso con successo per quel particolare conflitto? (p. 214,
Volume 1).
Si tratta di una domanda che, come osserva l’autore, non potrebbe essere posta né in un
modello della mente strettamente pulsionale – freudiano – né dal punto di vista delle relazioni
oggettuali – kleiniano – ; ma d’altronde neanche Bion sembra essersela posta.
Forse per porsela, nella sua problematicità, bisogna essere figli del Kleinian/Bionian Mode
degli ultimi decenni. Perché si sentono gli echi di Subjects of Analysis (1994) e degli scritti
successivi di Thomas Ogden, della teoria dei personaggi della narrazione di Antonino Ferro e,
naturalmente della visione della seduta come un’opera teatrale e delle riflessioni di Grotstein stesso
sul ruolo della drammaturgia in psicoanalisi. La seduta analitica è, per Grotstein un
“improvisational passion play”. Dove l’improvvisazione è data dalla regola fondamentale delle
libere associazioni, che spinge paziente ed analista ad essere il più spontanei possibile, e la
definizione di “passion play” deriva dalla considerazione che:
“la seduta analitica diventa il setting all’interno del quale una rappresentazione narrativa
sembra essere in continua costruzione  decostruzione da parte di un drammaturgo interno;
così l’angoscia sepolta dell’analizzando, o i patimenti e i demoni che ne sono responsabili
vengono disegnati sulla superficie dell’esperienza con una sorta di intruglio magico, la
situazione analitica stessa” (p. 93, Volume 1)
Si tratta naturalmente di una teoria della clinica che presuppone, come in Bion, una
concezione dell’inconscio in continua evoluzione; l’inconscio è “un ritrattista che utilizza i
pigmenti dell’immaginazione e forme noumeniche archetipicamente prefigurate per costruire
immagini che, infine, vengono modellate dalla percezione dell’esperienza grazie ai modelli vivi” (p.
148, Volume 1).
Ritroviamo lo stesso linguaggio immaginifico e a tratti letterario nei resoconti clinici di
Grotstein, più brevi nel Volume 1, più estesi ed approfonditi nel Volume 2 – volume che contiene,
accanto a quelli di Grotstein e dei suoi supervisionati, preziosi casi clinici di altri “grandi
cacciatori” del ‘Kleinian/Bionian Mode’, come Albert Mason, Ronald Britton, Antonino Ferro e
Thomas Ogden.
Grotstein in una prima parte del Volume 2 affronta alcune questioni tecniche di grande
interesse – quanta libertà ci si può concedere nell’uso del lettino, la stabilità del setting, ecc – ,
riflette sulle fasi iniziali e su quelle terminali della terapia, affronta lo spinoso problema della
clinica dei pazienti gravi; ma, soprattutto, tira le fila di una questione che, forse, da sola, comprende
tutte le altre: “Come ascoltare e che cosa interpretare” (Capitolo 4).
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La raccomandazione di Grotstein a proposito dell’ascolto è intrinsecamente paradossale: se è
vero che è necessario, seguendo sia Freud che Bion, ascoltare in modo meditativo, in uno stato di
rêverie, bisogna anche concedere a se stessi di produrre “‘pensieri selvaggi’, ‘congetture
immaginative’ che il tempo e la pazienza trasformeranno in ‘congetture razionali’”(Bion 1980, pp.
23-24. Grotstein, p. 42 Volume 2):
“Io raccomando un doppio binario, un ascolto/processo binoculare che combini l’approccio
meditativo dell’emisfero destro con l’approccio dell’emisfero sinistro: rêverie da pare
dell’analista – cioè entrare in uno stato di sogno ‘vigile e assonnato’ (stato meditativo) per
permettere all’impatto che il paziente ha su di lui di evocare i suoi (dell’analista)
accoppiamenti emotivi, così da raggiungere uno stato di “rêverie combinata” – con il fuoco
bene aperto, parallelamente concentrandosi strettamente su ogni singola associazione, avendo
in mente il contesto adattivo della seduta (le condizioni alle quali l’inconscio dell’analizzando
sta rispondendo nel testo: il residuo diurno, lo stato della cornice analitica), assegnandole
transitoriamente un significato immaginario. Facendo questo l’analista costruisce un costante
‘albero di interferenza’” (p. 42, Volume 2)
In una parola quella che Bion ha definito “visione binoculare”.
Pregio di questo libro è anche che Grotstein non fornisce questa raccomandazione come una
suggestiva ma utopica indicazione che lascia il lettore preda di un ammirato sconcerto; nella
sezione dedicata ai casi clinici infatti il testo della seduta viene presentato in presa diretta, facendo
accedere il lettore sia alle rêverie dell’analista, alla parte più immaginativa e sognante del suo
pensiero, sia a quella più metodica, quando ci accompagna – parola dopo parola – a “Seguire le
tracce (“analisi grammaticale”) dei legami tra le associazioni della seduta” (p.95, Volume 2).
Credo che gli strumenti della tecnica psicoanalitica indicati da Grotstein, seguendo Bion,
abbiano guidato anche la stesura dei due volumi, per cui l’autore ha certamente utilizzato: “senso
(che include osservazione e intuizione), mito (che incude le fantasie) e passione (emozione)” (p.
320, Volume 1) . In altri termini ha utilizzato, accanto al linguaggio simbolico o “della
sostituzione”, quello che Bion ha definito – mutuandolo da Keats - the Language of Achievement e
che Grotstein stesso ha precedentemente chiarito essere “il linguaggio delle emozioni prima che
siano rappresentate come concetti o idee, ed è anche il linguaggio dei modelli, cioè di modelli ed
esperienze analoghi al di fuori del sistema sotto osservazione” (Grotstein 2007, p. 124). Il modo di
procedere è, dunque, anche nella ricerca teorica, su un doppio binario, guidato dalla “visione
binoculare”.
Se dunque si ha la netta percezione che Grotstein abbia dovuto attingere a tutti gli strumenti
analitici più sofisticati per scrivere questo libro, allo stesso tempo si tratta di un testo che richiede al
lettore di lucidare bene i propri di attrezzi analitici; è necessario infatti essere sostenuti dalla
7
Capacità Negativa per tollerare la complessità ed attendere che un Fatto Scelto (anzi molti) si
presenti come un’evidenza nel corso della lettura, ed avere Fede (F) che “anche se non potremo mai
conoscere O, soltanto O conosce la propria coerenza” (p. 55, Volume 2).
Ritengo che la lettura migliore dei due volumi sia una lettura “dialettica”, e quindi, in senso
bioniano, creativa. Nella misura in cui, se si riesce appunto a tollerare la complessità delle teorie del
“Kleinian/Bionian mode”, la lettura di un caso clinico del Volume 2 potrà illuminare, anche dopo
molto tempo, un concetto rimasto sospeso, o fluttuante. Si tratta, in altre parole, di una coppia di
testi che permettono a chi legge di apprendere davvero qualcosa dall’esperienza della lettura, e
questo – come ricorda Antonino Ferro nella quarta di copertina – porta sempre con sé un
cambiamento che è allo stesso tempo “catastrofico” e “arricchente”.
Sara Boffito – [email protected] - Via Carroccio 7, 20123, Milano, Italy
8
Bibliografia:
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Intervista. Loescher, Torino 1981
Bion, Wilfred R. (1980). Bion in New York and São Paolo. (Edited by F.Bion). Perthshire: Clunie
Press
Bion, Wilfred R. (1975). Memoria del futuro. Il sogno. Cortina, Milano 1993.
Civitarese, Giuseppe (2007) Bion e a demanda da ambiguidade [Bion and the search for
ambiguity]. Rev Psicanal SPPA 14:57 – 75.
Grotstein, James S. (1981) (Edited by) Do I Dare Disturb the Universe? A Memorial to W. R. Bion.
London: Karnac
Grotstein, James S. (2000). Chi è il sognatore che sogna il sogno? Uno studio sulle presenze
psichice. Edizioni MaGi, Roma 2004
Grotstein, James S. (2007). Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wilfred Bion. Cortina,
Milano 2010
Grotstein, James S. (2009) But at the Same Time and on Another Level: Volume 1: Psychoanalytic
Theory and Technique in the Kleinian/Bionian Mode — Volume 2: Clinical Applications in the
Kleinian/Bionian Mode. London: Karnac Books.
Ogden, Thomas (1994). Soggetti dell’analisi. Masson, Milano 1999
Steiner, Riccardo (2000a). "It is a New Kind of Diaspora": Explorations in the Sociopolitical and
Cultural Context of Psychoanalysis. London: Karnac
Steiner, Riccardo (2000b). Tradition, Change, Creativity: Repercussions of the New Diaspora on
aspects of British Psychoanalysis. London: Karnac
Tuckett David et al. (2008). I modelli della psicoanalisi. Un metodo per descrivere e confrontare gli
approcci psicoanalitici. Astrolabio, Roma 2009
9
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