RICORDI E RIFLESSIONI
Dott. Giancarlo Grasso
Convegno in memoria di
Marcella Balconi
13 novembre 2009
Questa storia inizia nel 1953. MB dopo cinque anni
sta concludendo la frequentazione di Losanna, prima
con un tirocinio di un anno al Centro Medico
Pedagogico, poi per seguire e concludere l’analisi.
Nel 1953 Giovanni Bollea dà inizio alla pubblicazione
della rivista italiana di NPI, denominata “Infanzia
Anormale”, per segnare la continuità ideale con
l’omonimo giornale di Sante De Sanctis di trenta quaranta anni prima. Nel primo numero compare
anche un articolo di MB, intitolato “I bambini Difficili”,
il testo di un intervento di pochi mesi prima ad un
Convegno nazionale sulle condizioni dell’infanzia in
Italia, a Pescara.
Il convegno era stato organizzato nell’ambito della
sinistra, con la partecipazione di pediatri, psicologi,
psicoanalisti, oltre ad esponenti del mondo politico
e
sindacale.
Tra
l’altro,
Ella
scrive:
“Credo ci si debba intendere innanzitutto sul valore
da
dare
al
termine
“bambini
difficili”.
Sappiamo che sono considerati “difficili” quei
bambini che turbano l’ambiente e presentano
difficoltà per gli adulti: sono almeno questi i bambini
che ci vengono portati con maggior frequenza ai
Centri Medico-Pedagogici, se escludiamo tutta la
gamma di pazienti che presentano disturbi della
sfera intellettiva o forme neurologiche.
Non dobbiamo invece considerare difficili quei
bambini che hanno delle difficoltà ad adattarsi alla
vita,
ad
accettarsi,
a
realizzarsi?
Noi vedremo allora che si potrà parlare spesso,
piuttosto che di bambini “difficili”, di genitori ed
educatori “difficili”, che presentano cioè, senza
volarlo, un inceppo ad un normale sviluppo dei
ragazzi.
Questo è necessariamente il punto di vista proprio
a noi terapeuti, in quanto dobbiamo risolvere i
conflitti dei nostri piccoli pazienti per aiutarli ad
affrontare la vita: non possiamo, né dobbiamo,
adattarci a modificare delle strutture normali pur di
adeguarle ad ambienti anormali.
Spesso bambini veramente malati dal punto di
vista psicologico (e qui credo sia necessario
fermare la nostra attenzione), non presentano
alcun disturbo apparente quando i parenti si
adattano ad essi ed accettano la loro malattia, e
invece bambini normali che si rifiutano di accettare
reazioni anormali di un ambiente malato possono
diventare elemento perturbatore ed essere
considerati difficili.”
Le argomentazioni non sono originali, si rifanno ai
modelli della psichiatria infantile praticati nella
Svizzera Romanda, ripresi in Francia, sotto la
guida
di
Lebovici
e
Diatkine.
MB sottolinea in sostanza due ragioni per
coinvolgere e mettere in causa i genitori, la prima
nella loro veste di interpreti-testimoni non neutrali
dei problemi del figlio, spesso -soprattutto
all’epoca- non in grado di percepirne le difficoltà.
Da qui l’esigenza di affiancare, all’intervento verso
i bambini segnalati, indagini estese all’intera
popolazione infantile. Qualcosa di simile veniva
attuato in quel tempo a Losanna da Repond, uno
dei maestri di MB, sulle popolazioni contadine del
Vaud.
L’altro motivo nasceva dall’importanza dei problemi dei
genitori nella genesi della patologia infantile.Poco
tempo dopo, in un altro scritto su Infanzia Anormale,
citerà la “nevrosi reattiva”, quadro evocato da Beno, il
suo analista, nel descrivere situazioni per la cui
comprensione era necessario vedere insieme le
dinamiche dei genitori e quelle del bambino.
Successivamente MB ritornerà ancora sull’argomento,
in un articolo sulla diagnosi di struttura, in
collaborazione con M. E.Berrini.Osservano le Autrici
che la situazione privilegiata in cui si lavora in
psichiatria infantile consente di conoscere direttamente
una serie di fattori che incidono sullo sviluppo del
bambino:
ambiente,
personalità
dei
genitori,
esperienze di vita, storia del sintomo.
Importante però è centrare l’attenzione sul modo
personale in cui il bambino vive ed elabora le
proprie
esperienze
e,
per
il
duplice
condizionamento
biologico
e
sociale,
va
strutturando quella che sarà la sua personalità
adulta. E queste dinamiche vanno valutate in
relazione alla storia del rapporto genitori-bambino,
alla dinamica tra sintomi e comportamenti del
bambino da un lato e sintomi, comportamenti e
personalità dei genitori dall’altro.
Un ruolo centrale nello sviluppo del bambino viene
così assegnato al gioco delle parti tra genitori e
figlio ed agli eventuali ostacoli che possono
intervenire a intralciare il processo evolutivo.
L’argomentazione delle Autrici è molto articolata,
procede per così dire per approssimazioni
successive, come è inevitabile trattando di vicende
intrapsichiche, di cui sintomi e comportamenti non
sono che la punta di un iceberg, la cui parte
nascosta affonda nell’ineffabile. (Wittgenstein
scriveva che l’indicibile può essere mostrato ma
non detto…).
L’enfasi con cui Balconi e Berrini insistono su
questi temi appare d’altronde giustificata se si ha
presente quanto allora questo indirizzo fosse del
tutto nuovo nell’ambiente culturale italiano.
All’epoca poco si sapeva delle dinamiche profonde
in gioco nella relazione genitori-bambino e in
generale del rapporto tra normalità e patologia.
A questo proposito un importante contributo venne
dalla scuola kleiniana al Congresso psicoanalitico
internazionale del 1956 a Ginevra, in cui W. Bion e
H. Segal descrissero un nuovo meccanismo di
difesa dell’Io, definito della identificazione
proiettiva.
H. Segal riferì come nel corso dell’analisi di
pazienti schizofrenici, questi venissero sempre più
spesso sperimentando per brevi momenti delle
ansie depressive. Ella scrive:” molto spesso si
verificherà che la parte depressiva dell’Io del
paziente è proiettata nell’analista, e, al fine di
realizzare questa proiezione, il paziente può
ricorrere ad accurate manipolazioni della
situazione analitica in modo da suscitare
sentimenti depressivi nell’analista”. Per Segal il
dato centrale della situazione è l’intollerabilità da
parte del paziente della sofferenza e dei sensi di
colpa, che induce l’immediata proiezione
nell’analista della parte depressa dell’Io.
Il meccanismo dell’identificazione proiettiva verrà
ad assumere un ruolo centrale nello studio
dell’evoluzione del primo rapporto madre-bambino,
quando più tardi Bion richiamerà l’attenzione sulla
funzione materna nell’alleviare le sofferenze del
neonato, attraverso la reverie, attività in cui la
madre prende in sé il disagio del piccolo e glielo
restituisce liberato della sua potenzialità distruttiva.
L’identificazione proiettiva, così come era stata
descritta dalla Segal, appare conseguentemente
come l’esito del fallimento di quel processo, per cui
il soggetto proietta il suo messaggio di paura e di
sofferenza, senza attendersi di ricevere una
risposta rassicurante.
Viene così, in termini semplificati, a chiudersi il
quadro a proposito della continuità tra evoluzione
normale ed esiti patologici. Così pure viene a
evidenziarsi il compito del terapeuta, in certo senso
di funzione vicariante della figura materna,
disposta ad accogliere le proiezioni del paziente
per riavviare il processo primario descritto da Bion.
La mia è una semplificazione, in contrasto con le
elaborate argomentazioni dell’Autore: il doversi far
carico delle ansie e delle sofferenze del paziente
rimane comunque un passaggio ineludibile,
quantomeno nella terapia dei disturbi primari;
esigenza questa che richiede, oltre alla formazione
specifica, particolari caratteristiche di personalità
da parte del terapeuta.
In proposito ricordo l’attenzione che MB dedicava
nella scelta dei collaboratori e dalla loro capacità di
sopportare le frustrazioni. Un cenno a questo
viene fatto in un’intervista a Scotti pubblicata sui
Quaderni di Psicoterapia Infantile, particolare di cui
MB non fu molto soddisfatta, temendo di apparire
come una negriera! D’altra parte, pensando alla
scarsa considerazione in cui era tenuto all’epoca
questo lavoro, la stessa scelta professionale era
già per se stessa indice di una discreta
disponibilità ad accettare esperienze frustranti!
Oltre alla formazione personale, MB dava molta
importanza all’elaborazione in collettivo, attraverso
riunioni settimanali dell’equipe, in cui, oltre alle
questioni organizzative, venivano discussi dei casi
clinici. Scopo di queste riunioni non era solo quello
di assicurare l’omogeneità di indirizzo del servizio,
ma anche di approfondire e comprendere le
dinamiche per potere così correttamente gestire
l’impatto emotivo con il paziente.
La tesi secondo cui la comprensione del significato
delle ansie e delle sofferenze del paziente,
permette al terapeuta i sopportale e di
restituirgliele tollerabili, è la traduzione di ciò che
Bion definisce la trasformazione di elementi beta in
elementi alfa, secondo un processo analogo a
quello che si verifica tra madre e neonato grazie
alla
reverie
materna.
Ma, per procedere, è necessario un altro richiamo
a Bion, a quanto l’Autore descrive avvenire nei
gruppi.
Egli si sofferma su quelli che definisce “assunti di
base” che si creano all’interno dei gruppi. Il
termine è improprio per la nostra lingua, più
corretto sarebbe “preconcetto” o “convincimento
aprioristico”. Egli precisa: “perché si formi un
gruppo deve esistere un assunto di base”. Dei tre
assunti di base da lui descritti a noi può
interessare quello di dipendenza, che si realizza
quando il gruppo si riunisce allo scopo di essere
sorretto da un capo, ritenuto onnisciente e
onnipotente, da cui dipendere per ricevere
protezione.
I gruppi fondati su assunti di base sono organizzati al fine
di difendersi dai cambiamenti, di garantirsi la sicurezza al
riparo da novità, da sorprese; essi sono dominati, in ultima
.
analisi, dal rifiuto di apprendere dall’esperienza
Ai gruppi di assunto di base di Bion contrappone il gruppo
razionale, fondato sul riconoscimento della necessità di
una evoluzione piuttosto che adagiarsi fidando nell’efficacia
della magia. Sempre secondo l’Autore, il gruppo razionale,
o gruppo di lavoro, è in equilibrio permanente con le
istanze mosse dagli assunti di base: nel gruppo di lavoro le
persone cooperano ciascuna secondo le proprie capacità,
sono persone disposte ad apprendere dall’esperienza, che
si riuniscono per svolgere un compito, diversamente da
quanto avviene nei gruppi dominati da assunti di base,
dove al singolo non è richiesta nessuna capacità di
collaborazione.
Questo in sintesi quanto di Bion può interessare al
nostro
discorso.
Tornando a noi, è intuibile che nel servizio di
Novara, specialmente all’inizio ma non solo,
dovesse tendere a prevalere l’assunto di base di
dipendenza. Nei primi anni, a fianco di MB, che
andava perfezionando la propria formazione a
Losanna, ed in stretta collaborazione con
personaggi della statura di Lebovici e Diatkine, si
erano riunite alcune giovani senza altra
formazione che il diploma magistrale – non
esistevano allora Facoltà di Psicologia.
Era cioè inevitabile che ella fosse il centro di
riferimento del gruppo, da cui dipendere in toto:
suo compito fu perciò, oltre che di orientare le
scelte per la formazione personale, di cercare di
valorizzare le attitudini e le inclinazioni di ciascuna
di ciascuna di loro. Abbiamo cioè l’equivalente in
termini bioniani di un gruppo costantemente in
tensione dialettica tra l’assunto di base di
dipendenza, in cui adagiarsi sotto la protezione di
un capo, ed una realtà in cui fosse chiesto a
ciascuno un contributo al fine di apprendere
dall’esperienza.
Fu Meltzer a farci riflettere sulla funzione del gruppo di
lavoro, come luogo in cui discutere i problemi clinici, alla
ricerca del significato delle ansie, dei sensi di impotenza e
di paura di cui ci investivano i pazienti per poter così
procedere nella loro cura. Il gruppo veniva così ad
acquisire l’immagine di un “contenitore” ed elaboratore
delle emozioni suscitate dalla situazione transferale, una
componente insostituibile del processo terapeutico.
E qui si conclude il mio discorso sul metodo di lavoro di
MB, riassumibile nell’attenzione ai movimenti transferali e
controtransferali e nella complementare elaborazione nel
gruppo.
Su questi argomenti MB scrisse poco e solo nei primi anni,
quando gli indirizzi psicodinamici erano pressoché assenti
nella psichiatria infantile italiana.
I suoi interessi erano concentrati su problemi clinici, in
particolare, dai primi anni ’70, sull’evoluzione dei primi
rapporti oggettuali e sulla loro distorsione, nell’autismo e
nelle psicosi precoci. Di questi argomenti penso che solo
MB può parlare, in prima persona, attraverso gli scritti che
ha lasciato, soprattutto il volume sul disegno e la
psicoanalisi infantile, in collaborazione con Del Carlo
Giannini, pubblicato nel 1987 e ristampato nel 1991,
purtroppo esaurito da tempo. L’Editore Cortina, da me
interpellato, non è d’altronde disposto a provvedere ad una
ristampa, dati i costi che ciò comporterebbe. Certamente
un’ iniziativa in tale senso sarebbe il degno coronamento
del ricordo di MB nel decennale della morte: occorrerebbe
però che qualcuno si assumesse l’iniziativa di promuovere
l’evento.
Per non ridurre il mio intervento ad un amarcord, ritengo
opportuno a questo punto un cenno a ciò che è accaduto
dopo, alla storia dei nostri servizi negli ultimi 15-20 anni.
Al modello che si era venuto costruendo nei decenni
precedenti, incentrato sullo studio delle strutture
intrapsichiche e delle dinamiche relazionali ed al loro
trasformarsi nel corso dell’età evolutiva, sono venuti
sostituendosi indirizzi basati su liste di sintomi validate
statisticamente, che poco spazio lasciano alle peculiarità
ed elle storie individuali. Parallelamente il personale dei
servizi ha perso gran parte delle caratteristiche del gruppo
di lavoro bioniano, assomigliando piuttosto a ciò che nel
privato è lo studio associato, i cui componenti operano
ciascuno per proprio conto, condividendo le strutture
materiali.
Questa scelta ha un fondamento scientifico, che vorrei
descrivere ricorrendo alle parole di Max Planck, che oltre
che ad un grande fisico fu un profondo epistemologo. Egli
scriveva: “c’è un punto, un unico punto nell’immensità della
natura e del mondo dello spirito, che non solo
praticamente, ma anche logicamente, è e rimarrà
incessabile ad ogni scienza e quindi ad ogni studio
causale: questo punto è il nostro Io”. E ancora: “questa
rinuncia a tutto ciò che è intuitivo e immediatamente a
contatto con la vita è un grave sacrificio; ma questo
sacrificio va compiuto, soprattutto in considerazione degli
impareggiabili vantaggi che vengono alla ricerca scientifica
con l’introduzione del determinismo”. Indubbiamente è a
questi principi che si ispirano il DSM, l’ICD e la CD 0-3.
A mio parere esistono però altre ragioni, più umane…, che
possono
spiegare
la
svolta.
Tre anni fa psichiatri australiani e neozelandesi hanno
richiamato l’attenzione su ciò che hanno definito “fatica da
compassione”o tout-court ”patologia da compassione”, che
minaccia la salute mentale del medico, quando si prende
troppo a cuore le sofferenze dei pazienti, o addirittura vi si
identifica, vivendoli in prima persona. Nel vecchio
linguaggio diremmo quando accetta in sé le proiezioni del
paziente, ossia, ciò che un tempo era ritenuto condizione
per curare il paziente, ora viene visto come una minaccia
per la salute mentale del terapeuta.
Come spiegare questo mutamento? Sarei tentato di
proporre un’ipotesi generazionale. La generazione di MB,
che poi è anche la mia, usciva da una guerra che non
aveva permesso di evitare l’esperienza del male e della
sofferenza, da cui era impensabile uscire e trovare
un’alternativa se non attraverso la comprensione del senso
di ciò che era accaduto. Eravamo in un certo senso dei
post-traumatici!
La generazione successiva, l’attuale, è cresciuta in una
realtà tutto sommato di pace e di benessere, di
conseguenza più vulnerabile al contatto con la sofferenza,
propensa piuttosto a proteggersi da essa: più a rischio, in
caso diverso, di cadere vittima di “patologie da
compassione”. Questo ovviamente in linea generale, a
prescindere dalle storie individuali.
Questa ipotesi ha qualche verosimiglianza,
considerando che la svolta si verifica nel 1980, con
il DSM III, che abbandona l’impostazione
psicoanalitica, ancora presente nel DSM II,
focalizzandosi sui comportamenti, a scapito dei
fenomeni psichici e dei meccanismi psicopatologici
sottostanti. La svolta viene di solito attribuita
all’avvento della psicofarmacologia e dell’utilizzo
crescente degli psicofarmaci in psichiatria. Sarà
vero, anche se in realtà l’introduzione degli
psicofarmaci era iniziata almeno trent’anni prima.
Non sarà che è allora che il cambio generazionale
ha
raggiunto
il
punto
di
svolta?
Qui mi fermo, anche se non possiamo ignorare
che l’indirizzo attuale lascia un fianco scoperto,
specie nei Paesi come il nostro, dove esiste un
unico servizio sanitario, diversamente ad es. dagli
USA, in cui esiste una psichiatria privata, per i
ricchi, ad orientamento psicoanalitico, in cui il
paziente è “soggetto”, ed una psichiatria pubblica,
dei poveri, dove il paziente è “oggetto”.
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Diapositiva 1 - Marcella Balconi