Foulkes, la comunità, la cura
di Franco Fasolo
Relazione al Congresso Nazionale del Laboratorio di Gruppoanalisi
Acitrezza, 2 novembre 2007
Bion e Foulkes avevano lavorato, prima l’uno dopo l’altro, nello stesso ospedale militare
di Northfield, esplorando «le potenzialità terapeutiche del gruppo a partire dalla sua struttura
dinamica globale», come si afferma in un recente dizionario di psicosociologia francese.
Pare che poi Bion, dopo i pochi mesi di lavoro trascorsi a Northfield, non abbia più
praticato personalmente con gruppi clinici, mentre Foulkes ha fatto gruppi analitici per il
resto della sua vita, ed è addirittura morto conducendo un gruppo con colleghi, fra cui c’era
Malcolm Pines.
Bion ha avuto molto seguito in Francia e in Italia, mentre Foulkes è molto meno noto in
questi due paesi, al punto che nel suddetto dizionario non è nemmeno stato messo fra gli
autori significativi e viene addirittura considerato «uno psicoanalista inglese», mentre invece
era uno psicoanalista tedesco così orgoglioso del suo cognome tedesco da assumere un
cognome inglese completamente ed ironicamente omofono al suo Fuchs.
In Inghilterra come negli USA Foulkes è più noto forse solo perché nel 1952 ha fondato a
Londra la Group Analytic Society, di cui sono membro ordinario da molti anni, e poi nel 1967
ha fondato la rivista Group Analysis, a cui sono abbonato dal 1976.
Non sto dicendo che Foulkes è meno noto di Bion in Italia perché io sono un membro
della GAS o perché sono uno dei più vecchi abbonati italiani di Group Analysis, ma solo che
il modo di fare scuola dei due è stato molto diverso: Bion era un genio carismatico, mentre
Foulkes era un clinico del piccolo gruppo analitico che ha cercato di sviluppare una sua
singola originaria intuizione senza mai riuscire a scrivere niente di teoricamente affascinante
come tutto quello che invece ha sempre scritto Bion, suppongo.
Questa faccenda del libro teorico di Foulkes è veramente curiosa, secondo me lui è
morto apposta per non doverlo portare veramente a termine, dato che ciò sarebbe stato
insopportabilmente incoerente con la sua impostazione teorica e quindi sapeva che non
avrebbe potuto sopravvivere a lungo a questa vergogna, suppongo.
La mia personale teoria in merito è la seguente. Nel contributo al libro curato da Kreeger
e de Marè sul Grande Gruppo nel 1975, Foulkes argomenta che più siamo interessati ai
processi mentali interni (oggi diremmo «alle dinamiche di gruppo internalizzate») , meno
struttura preferiamo dare ai nostri gruppi (oggi diremmo «più ci affidiamo alla radicolare
processualità del Q&O»).
Ma la struttura istituzionale non è a sua volta uno dei livelli transpersonali essenziali per il
funzionamento mentale? E la teoria non è un rito sociale che organizza il processo del
gruppo, e non attiva quindi il rischio di istituzionalizzare del gruppo stesso?
Quindi Foulkes non facendo troppa teoria tentava - coerentemente con la sua teoria - di
non strutturare, e di insegnarci a non strutturare, troppo i gruppi clinici.
Questa mia sceneggiata teoricaritatevole potrebbe trovare il suo più oscuro retroscena in
una vecchia lettura che non sono riuscito a rintracciare nei mesi di preparazione al nostro
incontro di oggi, ma mi piacerebbe se fosse Morris Nitsun quello che ha scritto che è
singolare la quantità di anni che è stato necessario lasciar passare prima di poter riparlare
della morte di Foulkes, sia a quelli che erano con lui sia a tutti gli altri del GAS.
Da un lato, quando uno sostiene che visto che ci si ammala comunque in gruppo
dovrebbe essere il gruppo stesso, naturalmente (cioè biologicamente, lo diceva già lui prima
di me nel libro sulla psichiatria sociale del 1969), lo strumento elettivo della guarigione,
costui a me sembra veramente molto serio quando completa il circolo ermeneutico della
gruppoanalisi morendoci anche, in un gruppo dei suoi.
Ma dall’altro lato, per chi è rimasto, che imbarazzo psicoanalitico! È davvero, in effetti,
così poco carismatico morire pudicamente nello spazio preservato di un piccolo gruppo
analitico! Il leader carismatico doc lotta contro il padre assente che lo intralcia e però si
trasforma lui stesso, in corso d’opera, nel grande patriarca del gruppo: mentre invece
Foulkes non ha mai rinnegato Freud, e ha invece continuamente tentato, con gli strumenti a
sua disposizione, di mettere insieme le reti neurali con le reti sociali in una pratica clinica
inedita, quella gruppo-analitica, pur sempre dichiarando di voler andare al di là della
metafisica psicoanalitica.
Foulkes aveva fondato la GAS con Anthony, con de Marè e con due sociologi, la
Abercrombie e Elias, con il quale aveva collaborato quando lavoravano a Francoforte, oltre
a una Miss Marx della quale non so nulla, forse era la madre nubile di Groucho.
Con Anthony lavoravano insieme al Maudsley Hospital, lui in psichiatria, l’altro nel
dipartimento di pediatria dove faceva gruppi sia con mamme che con bambini.
Anche la GAS, come la ASVEGRA, che ho fondato nel 1983 con Gozzetti, Fava e Novello,
è partita con l’esperienza di gruppi terapeutici in contesto ospedaliero.
Foulkes comunque, nel 1955, sottolineava che la GAS era impegnata nello «studio
analitico e scientifico di vari gruppi nell’ambito della comunità», e che manteneva un
pregiudizio positivo a favore della psicoanalisi freudiana ma senza escludere le altre scuole
di pensiero.
Foulkes era andato a trovare Freud nel 1936, e alla fine del racconto scritto di questa
visita ha poi allegato una lettera che lo stesso Sigmund gli aveva mandato nel 1932, nella
quale gli confidava il suo disappunto riguardo al fatto che la psicoanalisi non ottenesse
maggiori cambiamenti negli psicoanalisti stessi, e che nessuno avesse ancora incominciato
a studiare come facessero gli psicoanalisti ad evitare l’influenza della psicoanalisi sulla loro
stessa persona.
Davide Lopez, uno psicoanalista pugliese che lavora a Vicenza ed è membro della British
Analytic Society, mi raccontava che quando era a Londra per il suo training, a metà degli Anni
Cinquanta, era noto per essere un attivo discazzant, tanto che aveva messo in discussione nei
rispettivi seminari sia il Winnicott sia la Segal, ma una volta che era venuto il Foulkes gli altri
colleghi del training lo avevano talmente aggredito loro per primi che lui Lopez lo aveva difeso,
peraltro inutilmente visto che a un certo punto Foulkes era addirittura scappato via senza
concludere il seminario.
Visto che Foulkes stesso era così tranquillamente post-freudiano e in special modo postpsicoanalitico, come aveva apertamente dichiarato nel testo inedito pubblicato postumo e
con un certo imbarazzo nel 2003 da Pines, non si può essere noi altrettanto tranquillamente
post-foulkesiani?
La metodologia del “post” va però preliminarmente chiarita, anche in omaggio alle precise
conoscenze epistemologiche di Foulkes che ad esempio, nel commento ad un lavoro di
Fairbairn pubblicato dalla rivista inglese di filosofia della scienza, osservava già nel 1957
come la psicologia dinamica si basi sulla natura sociale dell’essere umano, e in particolare
sulla natura interpersonale dei dati osservativi, in quanto derivanti dalla interazione fra
osservatore ed osservato.
Il prefisso “post” definisce un movimento di prosecuzione e insieme di correzione del
programma al quale viene pre-fissato, più precisamente secondo la logica della
“continuazione distorcente”, in qualcuno o anche in tutti i diversi sensi che accennerò
immediatamente.
Il gruppo analitico, ad esempio, si può intendere come un perfetto circolo ermeneutico,
nel quale ciò che si deve comprendere risulta già-sempre, in qualche maniera,
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preliminarmente compreso, con l’avvertenza che, invece di rimanere avviluppato nella
ragnatela soggettiva delle sue precomprensioni, colui che si presta all’interpre(s)tazione, di
fronte all’alterità del testo, risulta costretto a ri-mettere continuamente alla prova la legittimità
dei suoi pregiudizi.
Il gruppo analitico, ad ulteriore esempio, si può intendere come un perfetto movimento
post-moderno, in quanto riprende e distorce, sia pure doverosamente secondo un’etica della
tolleranza, della pietas e del pluralismo, le tracce storiche e la tradizione della psicoanalisi,
in tal modo secolarizzandola o, se volete, profanandola come Agamben suggerisce sia
ormai necessario fare con tutti i dispositivi oggi pervasivamente attuati dalla oikonomia
globalizzata.
Il gruppo analitico, ancora, si può intendere nei termini della figura barocca della
anamorfosi: esso rientrerebbe infatti nella specie di certe “depravazioni ottiche” fondate sui
giochi della riflessione e della prospettiva, che producono immagini distorte, patentemente
mostruose e indecifrabili che però, se viste da un certo punto dello spazio o riflesse con
accorgimenti vari (qui, noi leggeremo risonanza o meglio potremmo inventarci ri-sognanza)
svelano infine figure discretamente comprensibili, e consentono passaggi evolutivi
passabilmente plausibili.
La gruppoanalisi, ad estremo esempio, se vogliamo avviare una pratica post-foulkesiana
seria, si può intendere infine come una perfetta, canonica parodia della psicoanalisi.
La gruppanalisi dipende senz’altro dal modello preesistente della psicoanalisi, che da serio
viene trasformato in comico (leggeremo qui, alternativamente, che dal modello familiare viene
trasformato nel modello dei pari estranei) anche se ne conserva con estrema religiosità alcuni
elementi formali in cui inserisce nuovi e incongrui contenuti (come quelli derivanti dalla
psicologia sociale e dalla sociologia).
Come quando nella recitazione dei poemi omerici il tradizionale nesso tra melodia e ritmo
della parola si era sciolto e i rapsodi avevano incominciato ad introdurre melodie che
venivano percepite come discordanti, perché in tal modo essi cantavano contro il canto, o a
fianco del canto, e ciò provocava negli ateniesi risate irrefrenabili, allo stesso modo dovette
essere oggetto di sberleffi Foulkes di fronte agli allievi della British Psychoanalityc Society.
Ma la parodia si era immediatamente sviluppata ben oltre questa fase grottesca, era
diventata parabasi. Nel linguaggio tecnico della commedia greca, la parabasi designa il
momento in cui gli attori escono di scena e il coro si rivolge direttamente agli spettatori.
Per poter parlare al pubblico, il coro “si sposta” nella parte del proscenio detta “luogo del
discorso”, in tal modo la rappresentazione si spezza, attori e spettatori, autore e pubblico si
scambiano le parti, la tensione tra scena e realtà si allenta, e la parodia conosce in effetti il
suo unico scioglimento.
E questa è la vera gruppoanalisi.
Bisognerebbe dire adesso, però, qualcosa sulla serietà di Foulkes.
Negli Anni Settanta andavo spesso all’IGAR, l’Istituto di gruppoanalisi di Roma dove
Fabrizio Napolitani e Giusy Cuomo mi ospitavano e mi facevano partecipare ai loro
seminari: nella stanza dei gruppi era in vista solo la foto autografata di Foulkes, che dunque
mi è rimasta ben presente con l’impressione della attenta serietà di quel personaggio.
Ma quando parla della teoria delle relazioni d’oggetto obietta che gli oggetti interni sono
solo un mosaico di complicate interconnessioni fra caricature [corsivo mio] del funzionamento
mentale, dunque sa bene come sfottere quando gli serve; e nell’ultimo paragrafo del lavoro in
cui discute la sua filosofia della psicoterapia enfatizza l’empatia (con mio grande sollievo, in
un’epoca che la caratterizza ormai quasi esclusivamente in termini di biologica adesività)
come la capacità di vedere le cose in proporzione con un certo distacco, di vederne dunque
l’assurdità (tragedia e commedia insieme, dice) al punto che, dice, è con l’umorismo che
siamo nella nostra funzione di terapeuti.
E quindi, completando il giro che ha preso fin qui il discorso, sembra addirittura ovvia
l’osservazione che un grande post-freudiano praticante come Foulkes non può non essere
anche profondamente un finissimo umorista.
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Ma noi siamo post-foulkesiani, e perciò esporrò alcune delle torsioni con cui garantiamo
doverosamente l’Aufhebung o parabasi o trasgressione /compimento del dettato teoricoclinico trasmessoci dal Siegmund a noi più vicino e più caro, oltre che assai meno
imprenditoriale dell’altro, che è Foulkes.
Questa logica elaborativa è naturalmente coerente con lo stato di avanzamento della
teoresi foulkesiana, che si può avvalere esclusivamente - come faremo anche noi,
regolarmente - di costrutti provvisori, di metafore influenti e di facilitatori della prassi, in
assenza della sostanziosità teorica che peraltro nessuno si è quasi mai sognato
giustamente di verificare scientificamente nel caso di Bion.
Quando si trovava con gli psicoanalisti di gruppo americani, facilmente Foulkes si
incazzava, perché aveva l’impressione che non lo ascoltassero nemmeno, e che parlassero
con lui non dei suoi scritti ma delle loro dee (ho deciso di tenere qui il mio sapido lapsus
scrittorio, dovevo scrivere Idee, ho scritto “dee”).
Mi fa sempre sorridere l’idea che Foulkes sosteneva che impariamo dai nostri pazienti,
forse doveva meglio dire dai contesti osservativi e coesistentivi nei quali stiamo con i nostri
pazienti, ma se la mettiamo insieme con il fatto stranoto che era stato allievo e collega di Elias,
sociologo francofortese delle buone maniere, la faccenda diventa chiara solo quando si viene
a sapere che Elias aveva fatto anche un gruppo analitico con Foulkes: adesso sì che
possiamo sostenere l’influenza di Elias su Foulkes!
L’altro pensiero buffo che mi ritorna in mente, per quello che può significare “mente” in
questa fase della riflessione a post-eriori che stiamo praticando, è quanto in realtà Foulkes è
sempre rimasto uno psicoanalista: in questi termini, non poteva scrivere lui una teoria della
gruppoanalisi perché si è sempre fermato al gruppo piccolo, ed era precisamente da lì che
considerava i possibili sviluppi che altri accanto a lui o dopo di lui, e grazie a lui, hanno
maturato.
Io che nella mia “professione” (nel suo doppio senso) di psichiatra foulkesiano ho sempre
praticato sostanzialmente il gruppo mediano, che solo da pochi anni faccio gruppi analitici
piccoli, e che perciò ho imparato quasi esclusivamente dal formato gruppale definito
precisamente da de Marè solo nel 1991, faccio molto meno fatica degli interlocutori sia
esterni sia interni di Foulkes a capire che cosa significassero le ardite traduzioni, i fiacchi
tradimenti in effetti, di Foulkes dalle reti neurali di Goldstein e dalle teorie sociologiche di
Elias nella direzione delle ovvietà, per noi postfoulkesiani, che adesso elencherò a titolo
esemplificativo anche se con giri di parole più o meno lunghi.
Il core (nel doppio senso anglo e napoletano) è che non l’individuo fa il gruppo, ma il
gruppo fa gli individui, che si individuano nel loro trascorrere di gruppo in gruppo, da una
generazione alla successiva, e nel corso di ciascuna biografia personale.
Il processo di ominazione coincide dunque con il processo di gruppazione e, per
riassumere in tre righe così anche Dalal, l’individuo è il più piccolo sottogruppo che ci sia di
volta in volta in ogni gruppo.
Ogni persona si può riassumere nelle sue reti sociali, nel senso che si può descrivere con
la sua carta di rete e nel senso che il funzionamento e la posizione dell’essere umano nel
mondo si riassume nel tipo di reti sociali che lo/la costituiscono e nei modi in cui vi si trova
coinvolto.
C’è ormai qualche problema riguardo alla perspicuità per il lettore di oggi delle
illustrazioni che era in grado di utilizzare Foulkes.
La metafora dei raggi x è abbastanza obsoleta (a differenza peraltro di quella del traffico),
e per questo motivo abbiamo poi utilizzato l’analogia più moderna della risonanza magnetica
e della diagnostica per immagini quando abbiamo proposto la carta di rete come tecnica di
mind-imaging contrapposta alle tecniche di brain-imaging.
Ma la stessa metaforica della rete andrebbe ormai vivificata: la rete è troppo
bidimensionale e ci sono volute tutte le mie capacità con-torsionistiche per inventare la
storia che la rete è un gruppo disteso ed anzi ben spiegato, mentre ogni gruppo è un groppo
di numerose reti ingarbugliate fra di loro.
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Oggi andrebbe decisamente meglio una rielaborazione del mio unico lavoro pubblicato su
Group Analysis nel 1996, in cui alla fine accennavo che i gruppi socioterapici sono come i
funghi.
A parte il fatto deplorevole che abbiamo tutti tradito Foulkes, e non so quanto noi stessi,
dopo che negli anni abbiamo gradualmente smesso di parlare dei gruppi socioterapici e
della socioterapia, che sarebbero lo specifico della gruppoanalisi, per tarparle le ali con il
termine parziale e fuorviante di psicoterapia, oggi qualche nuovo senso pieno della rete
sociale si potrebbe vedere con la metafora del micelio, cioè del complesso intricato delle ife
che costituisce la parte vegetativa dei funghi, essendo le ife o micorrize i sottilissimi filamenti
con i quali ciascun fungo si attacca alle radici di decine di alberi e di piante con i quali
scambia continuamente sostanze nutrienti, passando ad esempio i carboidrati dai pini alle
pirolette pendule. Altro che saprofiti, dunque, i funghi nell’economia boschiva e nell’ecosistema forestale!
Anche se, nello stesso tempo, è ancora vero però che i gruppi umani si fondano sulla
limitatezza, sulla perdita e sulla separazione, in ultima analisi sono regolati di fatto dall’orizzonte della morte, e dunque in un certo senso resta vero che i gruppi, come i funghi, si
avvalgono del naturale processo di de-composizione dell’umanità.
Ma la metafora del micelio sotterraneo, molto meglio di quella della rete, aiuta a capire
l’enorme difficoltà di “vedere” che i processi mentali sono multipersonali e transpersonali, oltre
che a capire in che senso ci sono modi migliori di trattare gli individui rispetto al loro
ecosistema ed alla loro realtà profonda: esattamente come ci sono modi violenti e dannosi per
strappare i funghi da terra piuttosto che modi che consentono di continuare ad apprezzarli
anche a tavola senza rovinare il bosco.
Ho utilizzato per circa trent’anni ed ho (perfino) fatto molte ricerche più o meno
scientifiche sulle reti sociali e sugli effetti delle psicoterapie di gruppo sulle caratteristiche
delle reti sociali, ovvero sul funzionamento mentale, di vari tipi di persone.
Già una diecina di anni fa alcuni ricercatori non gruppoanalitici avevano riscontrato del
resto che gli effetti delle psicoterapie sono molto migliorati dalla presenza nella vita dei
pazienti di reti sociali sufficientemente ricche e varie, coinvolte e resilienti.
Oggi, sempre più spesso, io incomincio a pensare che una mia paziente privata in terapia
individuale sta certamente meglio quando i suoi legami più forti si vanno modificando in
qualche caratteristica, ma soprattutto quando le nostre riflessioni riguardano una
conversazione più disinvolta con quantità crescenti di persone con le quali la paziente
stessa intrattiene legami deboli.
Come ormai teorizzano serenamente anche gli esperti di community management, ad
esempio Emanuele Scotti che è figlio di due psichiatri psicoanalisti di Perugia ad alcuni di
noi molto cari, i legami deboli garantiscono elettivamente la fiducia, la credibilità, l’autorevolezza e in particolare garantiscono che il conflitto sia una forma potenzialmente costruttiva di
condivisione/riprogrammazione, piuttosto che un modo distruttivo di appropriazione o di
colonizzazione.
Siamo andati insomma molto oltre Foulkes, “provando” davvero in quali modi le reti
sociali sono significative per ciascun individuo.
Ma mi sono intenerito quando ho letto, forse riletto ma non le ricordavo, queste righe del
1973. «Quando ci si accosta ai gruppi attuali e vivi, e a come funzionano, si trova che si
sovrappongono con la famiglia, ma che non sono necessariamente identici ad essa:
includeranno gli amici, i rivali, i superiori, gli inferiori, gli animali e anche gli oggetti
inanimati».
Impiegavamo ore con Anna Cordioli e con Ivan Ambrosiano per discutere se potevamo
mettere anche il gatto nella carta di rete di un certo paziente, facendo la nostra santa fatica di
sviluppare la teoria gruppoanalitica, quando bastava che avessimo sotto mano il sacro testo
per scoprire che nel paragrafo immediatamente successivo a quello sopracitato Foulkes
stesso parla dell’oggetto straordinariamente importante che era stato in un suo gruppo il gatto
della paziente che le aveva lasciato la madre morta!
In realtà Foulkes non è mai stato troppo reciso nel distinguere fra gruppi familiari e gruppi
non familiari (mentre almeno nel 1987 io proponevo addirittura, come compito della psichiatria
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istituzionale, quello di «ri-concepire i pazienti in gruppi non familiari»), quelli costituiti dai pari
estranei, ma è anche vero che solo di recente ho letto finalmente scritto in chiaro che i gruppi
di pari estranei sono sempre presenti fin dalla nascita, e semmai da prima ancora, accanto e a
pari titolo della eventualmente co-presente e più o meno ben formata famiglia: e le due
curatrici non sono neppure delle gruppoanaliste!
Passiamo con questa importantissima nozione che non siamo fatti solo dalla nostra
famiglia ma anche ed altrettanto dagli innumerevoli gruppi di pari estranei con cui siamo
coinvolti per tutta la vita, al pesante problema della psichiatria di comunità.
Risolveremmo meglio questo problema, in generale, se pensassimo che la mente non è
la psiche che non è il cervello, ma che sopravviene su entrambe.
Dichiarato il principio ispiratore, orienterei la nostra attenzione ad un testo molto triste
scritto nel 2005 su Gruppi da Nosè.
Flavio commenta con discreto e sobrio realismo il fallimento del progetto di de-istituzionalizzazione della psichiatria psicoanalitica italiana, riconoscibile dalla evidenza diffusa che è
possibile per i pazienti vivere nella comunità, ma che non è loro possibile essere socialmente
integrati con la gente comune, al punto che li abbiamo di fatto re-istituzionalizzati in quei
contesti istituzionali più soft dei manicomi che si chiamano dipartimenti di salute mentale.
Io credo che ciò sia dovuto a un troppo scarso confronto e a una troppo scarsa
collaborazione fra quelle due pari estranee che sono la psicoanalisi e la gruppoanalisi. L’aria
di famiglia fra l’una e l’altra non è più sufficiente e non serve a nulla valorizzarla o cercare di
ricuperarla con qualsiasi artificio, se si vuole veramente cambiare le cose psichiatriche.
Il campo istituzionale, ad esempio, non è affatto la stessa cosa del plexus foulkesiano:
l’uno valorizza i gruppi dei curanti nella loro dimensione più familiare, l’altro riscontra e
promuove i gruppi di estranei nella loro dimensione più reticolare; i due costrutti pertanto
non sono affatto intercambiabili, come hanno presunto tanti psichiatri che si sono illusi di
“coprire” l’intera area dei loro problemi con la sola idea del campo istituzionale, trascurando
il rapporto fra l’istituzione e la comunità di vita dei pazienti e nostra.
È come se la scena modello di troppi “psichiatrici”, la loro intima risognanza se vogliamo
freudianamente condensare il concetto, fosse ancora e sempre, in vario modo, quella
psicoanalitica, mentre lasciare entrare in risonanza anche, qualche volta, la scena modello
gruppoanalitica aumenterebbe di molto, come è esperienza diffusa di tanti di noi, la possibilità
per i pazienti di essere socialmente integrati con la gente comune, e dunque gioverebbe di
molto alle sorti della guarigione in psichiatria.
La psicoanalisi afferisce di fatto all’esperienza del gruppo familiare, mentre la gruppoanalisi
propone direttamente l’esperienza socioculturale, e la prassi della mente è oggi, in discreta
misura, il dialogo nel gruppo mediano esattamente come la psiche è l’oggetto squisito del
lavoro psicoanalitico.
In altri termini, che forse non sarebbero dispiaciuti a Foulkes, vista l’attenzione che
garantiva alla biologicità della sua invenzione, il passaggio dalla psicoanalisi alla
gruppoanalisi non si può far passare come un tranquillo fenomeno adattativo, ma si può
realizzare con qualche vantaggio solo se si tratta come una novità exattativa, in termini
biologicamente evoluzionistici.
Sappiamo, dopo il grande lavoro post-darwiniano di Stephen Jay Gould, che l’adattamento
è il processo di realizzazione di un determinato carattere per una utilità particolare, ma che
però solo con l’adattamento la storia della vita stagnerebbe in una perfezione effimera per poi
morire: quando gli ambienti circostanti subiscono le proprie cospicue ed occasionali
modificazioni le funzioni adattative non bastano, ci vuole qualche cambiamento funzionale
bizzarro, come si chiamano le exaptations. Gli esattamenti sono i caratteri cooptati per una
utilità attuale in seguito ad una origine per una funzione o assente del tutto oppure
differente: il cambiamento funzionale sarà certamente anche bizzarro, ma è in questo modo
che dà un forte contributo positivo al futuro evolutivo dell’organismo e della specie.
Una volta che l’effetto esattativo diviene importante nella vita di un tipo organico nel suo
nuovo ambiente, la selezione naturale potrà poi adattare il carattere esattato, eventualmente
rendendolo un adattamento e così convertendo l’effetto in una nuova funzione.
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Prendendo sul serio Nosè, dovremmo riconoscere che se per la psichiatria ospedaliera
(ai tempi del manicomio) la psicoanalisi è stata necessaria e fortemente evolutiva, non è
però stata altrettanto utile per il lavoro territoriale; ma badando un poco anche a me
dovremmo considerare la seria eventualità che per la psichiatria di comunità va bene solo la
gruppoanalisi, intesa come un vero e proprio esattamento o exaptation evolutivo.
In base al principio foulkesiano che dovrebbe informare a mio avviso il lavoro della
psichiatria di comunità, come lo avevo riassunto all’inizio di questo paragrafo, potrei
sostenere ulteriormente quanto segue.
Gli psicofarmaci servono a qualcosa per il cervello, la psicoterapia forse serve di più per
la psiche, ma la terapia di gruppo, specialmente il gruppo mediano e presumibilmente anche
il grande gruppo servono per la maturazione della mente, anzi, exattamente, per la
guarigione.
Tutta la letteratura internazionale sulla guarigione la può concepire e contestualizzare e
riscontrare in contesti che sono molto più comunitari che residenziali, molto più
esplicitamente orientati alla guarigione che alla cura: e questi contesti, queste metodologie
sono certamente molto più gruppali che individuali.
È nei gruppi mediani di pari con gli estranei che si matura la coscienza comune del senso e
del significato dell’esistenza individuale, altrimenti del tutto insignificante secondo Foulkes: e
certamente il Nostro aveva l’intuizione piena della correlazione fortissima fra gruppalità e
guarigione individuale, quando sosteneva che dare senso alla nostra vita attraverso il
riconoscimento e la pratica della nostra naturale socialità è l’unica cosa che possiamo fare, se
vogliamo essere pienamente e altrettanto ragionevolmente sani.
Lo stesso titolo del nostro convegno, nel particolare senso che sto sollecitando, avrebbe
dovuto forse impegnarsi lungo la linea «Foulkes la comunità & la guarigione», piuttosto che
fermarsi alla cura, che se si limita al cervello e alla psiche quasi prevedibilmente non
procura la guarigione della mente.
Ho evidentemente in mente, nel senso che stiamo lentamente riorganizzando nella nostra
mente, il contributo di Lo Coco e Lo Verso sulla cura relazionale, il primo a mia conoscenza
che apertamente e sistematicamente parla di guarigione in psichiatria dopo i miei lavori di
tanti anni.
C’è almeno un aspetto della mente che però Foulkes non ha sviluppato, dato che non
aveva la necessaria esperienza di gruppi mediani e del loro uso trasformativo specifico, ma
che noi post-foulkesiani dobbiamo finalmente assumere fino in fondo nelle nostre
elaborazioni ed applicazioni cliniche.
Dopo Blackwell e dopo de Marè, lo spazio politico è decisamente riconosciuto come parte
viva e consustanziale dello spazio mentale, anche se in Italia dobbiamo lottare con lo scarto
sconcertante fra il senso originario di mind, che era il voto in assemblea, e il senso
politicamente corrente di “mente” che è “ti sta fregando consapevolmente”.
Non sto facendo il grillo parlante della gruppoanalisi, ma voglio ricordare in conclusione la
grave responsabilità di quella gruppoanalisi post-foulkesiana che ho tentato di raffigurare nella
sua specificità post-moderna. È con l’esperienza socioculturale dei gruppi condotti
gruppoanaliticamente che si sviluppa la mente: lo stesso inconscio risulta, in questa
prospettiva teorica, naturalmente sociale ed è visibile e riconducibile a una comune coscienza,
oltre che a una diversa etica, solo in contesti osservativi, elaborativi e trasformativi gruppali.
Fraparentesi,
È ancora la prospettiva etica che ci aiuta ad articolare meglio le differenze fra il modello di
gruppo familiare, che educa alla morale verticale e profonda del dovere e della Legge, e il
modello di gruppo dei pari estranei, che maturano l’etica della lealtà verso i pari e del
rispetto degli accordi presi dopo adeguata discussione, un’etica orizzontale dunque ma per
niente affatto superficiale.
Chiusaparentesi.
In questa nostra epoca di globalizzazione si sono ormai moltiplicati a dismisura i
dispositivi di assoggettamento individuale e collettivo, cioè tutte le più mascherate “religioni”
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(la televisione come il PIL, qualsiasi Chiesa come qualsiasi versione del Capitalismo, il
turismo di massa come il consumismo come la museificazione sistematica) che sottraggono
cose, luoghi, persone, animali e pensieri all’uso comune per trasferirle in sfere separate
ovvero sacre; sono allora necessarie tutte le azioni e le misure possibili per la profanazione
di questi dispositivi, per il rientro attivo di cose persone luoghi animali e pensieri nel circolo
dell’uso comune, qualsiasi senso possa acquistare questa idea di uso comune nelle più
differenti sedi di localizzazione, attraverso la comunicazione, la contestualizzazione o
tessitura dialogica di fatti e punti di vista differenti che chiamiamo coscienza, e la
costituzione di comunità locali resistenti alla globalizzazione.
Agamben, un filosofo tanto difficile quanto illuminante quando mi serve, non dice come si
potrebbe meglio realizzare questa profanazione, ma io propongo senz’altro l’utilizzo diffuso e
competente dei gruppi gruppoanalitici come strumenti efficacissimi di profanazione sia dei più
svariati dispositivi socioculturali (nel senso avviato da Foucault) che dei loro mortiferi effetti di
sacralizzazione desoggettivizzante.
La gruppoanalisi ha già da sé certamente profanato il dispositivo psicoanalitico, nei modi
che ho suggerito della torsione, della parodia, della parabasi in particolare, ed è
precisamente attraverso gli stessi modi che potrebbe egregiamente sconsacrare tanti altri
dispositivi di assoggettamento oggi imperanti, riportando ad una nuova possibilità di uso
comune tanti aspetti della collettività umana che oggi sono separati in aree o sacche più o
meno ufficialmente religiose.
In psichiatria la gruppoanalisi (e non la psicoanalisi applicata) avrebbe una grande utilità
per il forte collegamento che la mente gruppoanaliticamente intesa (non la psiche) ha
direttamente con la guarigione, e noi sappiamo bene, visto l’attivo evitamento con cui non
viene trattata, quanto la guarigione stessa sia una radicale forma di profanazione per la
mentalità psichiatrica corrente e transpersonale.
Come se religione significasse davvero tragicamente solo «la cura scrupolosa e l’inquieta
rilettura delle norme del culto prescritto», questa religione psichiatrica andrebbe finalmente
profanata, con mobili capannelli di persone personalmente coinvolte in accesi diverbi davanti
al tempio di questa psichiatria così piena di leader sempre più carismatici ma sempre più
carente di tecnici attenti a curare, inventare, mobilizzare le reti sociali naturali vive ed economiche che danno senso alla persona.
In questa passeggiata circolare che mi è stata ispirata dalle tre grandi paginette scritte da
Martin Grotjahn in ricordo di una visita che aveva fatto a Foulkes un anno prima della sua
morte, ripassiamo verso la fine del nostro giro davanti al dizionario di psicosociologia che
citavo all’inizio.
Gli autori del lemma “ricerca-azione e intervento” argomentano con vigore il loro rifiuto
della artificiosa frattura fra sapere scientifico e sapere profano, e rivalutano ampiamente
anche nella sua autonomia la dimensione della profan-azione. Li considero dunque alla fine
un po’ meglio, anche se continuano a non dare abbastanza peso a Foulkes.
Ma naturalmente, ovvero gruppoanaliticamente, non si può certo finire in questo modo così
pericolosamente carismatico, che certamente sarebbe altrimenti ben degno almeno di un
Maxwell Jones se non addirittura di un Wilfred Bion. Come riflette Hopper, il nostro Popper
gruppoanalitico, anche lui di estrazione sociologica, la perdita del leader (in qualunque modo
finisca questa modalità di relazione) è associata con il fallimento della dipendenza, che è
traumatico: di conseguenza, il sistema sociale che ha perso il leader tende alla aggregazione,
quindi al panico e insomma finisce nella massificazione, che si esprimerà poi sotto le più varie
forme aggressive possibili, dalla superiorità morale alla anonimizzazione, dalla messa al
bando all’evitamento sociale.
La massificazione però impedisce di elaborare il lutto, con l’aggravante della trasmissione
di questo blocco anche attraverso le generazioni successive. Vediamo allora di elaborare in
qualche modo concreto ma discreto il nostro lutto di fine relazione.
La moglie Elizabeth, nella breve memoria biografica inclusa nella eccellente raccolta di
lavori scelti (da lei con Malcolm Pines) a cui ho fatto prevalente riferimento in questa
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relazione, ne ricorda la semplicità, la mancanza di pretenziosità, e «quasi una certa
ingenuità».
Quasi per risponderle a tono, nel lavoro postumo uscito su Group Analysis nel 2003,
Foulkes si dichiara «deliberatamente ingenuo» nello sviluppo delle sue posizioni positiviste
ed empiriche.
Non per dare ragione alla Signora, che in ogni caso ho poi scoperto che si chiamava
Marx da nubile e che quindi doveva essere lei la segretaria fondatrice del GAS, quindi
qualcosa sapeva anche del lavoro di suo marito, ma in certe cose Foulkes era davvero
ingenuo.
Nell’ultimo lavoro scritto in vita, fra tutti gli esempi che poteva trovare per spiegare il suo
così prezioso concetto di risonanza, ha scelto una complicata e dura vicenda di morte,
praticando di fatto e trasparentemente quella self-disclosure che più volte in passato la sua
immarcescibile anima psicoanalitica gli aveva fatto criticare, con obiezioni che a loro volta
intralciavano addirittura la sua stessa e così basilare scoperta della visibilità dell’inconscio in
gruppo.
Per dirla molto ingenuamente, se costruisci tu stesso un set in cui la reciproca visibilità è
il principale fattore trasformativo, attraverso le riflessioni circolari garantite dal
rispecchiamento e addirittura basate sulla biologia dei neuroni-specchio, come pensi di poter
negare di essere tu stesso già-sempre trasparente, come puoi illuderti che tutti non
sappiano ciascuno immediatamente quello che pensi?
È stata certamente ingenua anche l’affermazione, in un suo scritto, che «quando si cerca
l’intensità, ovviamente la durata non può essere breve»: come si sa fin dai tempi eroici della
terapia di gruppo nei reparti psichiatrici per acuti, che è il prototipo di tutte le terapie di gruppo
a tempo limitato o a termine ovvero, nel senso così definito, di tutte le terapie cosiddette
“brevi”, la durata può essere breve e addirittura per questo motivo (di accelerazione
temporale) può essere decisamente intensa.
Foulkes stesso d’altronde conosceva bene, dalla sua vasta esperienza clinica e pre-scientifica (forse anche anti-scientifica, ma si può dire solo tongue-in-cheek) rispetto ai grandi
sviluppi della ricerca empirica, l’importanza centrale per il processo gruppale del “qui-e-ora”:
noi oggi sappiamo che l’intensità è massima nel momento presente, che è in discreta misura
svincolato dalla semplice durata nel tempo lineare della esperienza gruppale.
Ma per fortuna Foulkes, con la sua correttissima disattenzione (tongue-in-cheek) alla
ricerca empirica, non sapeva che fra tutti i fattori terapeutici riconosciuti, e ormai validati più
volte in molti decenni, quello della ricapitolazione correttiva della esperienza familiare è
piazzato male, all’ultimo posto nella gerarchia dei pesi di efficacia attribuiti ai diversi fattori
terapeutici: quando si usa un gruppo per fare un servizio alle persone, la famigliarità è la
meno importante di tutte le cose che lo rendono terapeutico, e in questo senso la
gruppoanalisi è davvero assai distante dalla psicoanalisi, scientificamente parlando.
C’è poi la fin troppo nota ingenuità attribuita a Foulkes da Morris Nitsun, quando lo ha
accusato di essere troppo ottimista nella sua prospettiva complessiva: sappiamo però che
Nitsun ha sviluppato lui tutto il discorso pessimistico dell’antigruppo, quindi più che
accusarlo avrebbe dovuto ringraziare il Maestro che gli ha lasciato un ampio spazio nel
quale muoversi con la creatività che in tale modo ha potuto attingere alle sue diversificate
appartenenze.
L’ultima tenerissima ingenuità di Foulkes è la seguente affermazione: «la gruppoanalisi
non è figlia della psicoanalisi, o meglio, questo è vero solo storicamente [corsivo mio], in
effetti essa è un approccio ben più ampio che include la psicoanalisi».
In realtà, credo che si debba riconoscere che Foulkes, pur essendo un degno successore
di Freud, è quasi incappato del tutto serendipicamente, anche se poi ha sempre continuato
ad esplorarla con gli strumenti che aveva, in questa nuova possibilità di concepire ed aiutare
gli esseri umani, la gruppoanalisi.
A post-eriori, secondo la logica anamorfica che ho ricordato in precedenza, si può
addirittura considerare la psicoanalisi direttamente in un’ottica gruppoanalitica, e trattarla
come se fosse, da questo punto di vista (che non si può certo imporre agli psicoanalisti), la
singola branca della gruppoanalisi meglio versata nel lavoro con i gruppi familiari.
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Il gruppo gruppoanaliticamente inteso, insomma, si dovrebbe ri-assumere oggi come una
rete sociale intermedia fra i gruppi naturali (o primari) e i gruppi artificiali (o secondari), ma
soprattutto si dovrebbe sempre più consapevolmente contestualizzare (soprattutto nel formato
mediano) come l’indispensabile oggetto transizionale fra la famiglia e la comunità.
Sviluppando un più sistematico programma di esplicita collaborazione “gruppoanalisipsichiatria di comunità” si potrebbe teoricamente superare anche in fretta il blocco evolutivo
tristemente ammesso da coloro che, come Nosè, continuano con impegno costante, almeno da
trent’anni, a sviluppare intensamente e creativamente il vecchio ma fallimentare programma
collaborativo “psicoanalisi-psichiatria”.
Per migliorare la fattibilità e la vendibilità di questo ambizioso programma di ricerca-azione
propongo, con grande ottimismo post-foulkesiano (quindi tongue-in-cheek), una quarta area di
interesse da assumere, tutto sommato a basso costo, da parte della gruppoanalisi, oltre alla
psicoanalisi, oltre alle neuroscienze con tutte le loro reti di neuroni sinestesici e le loro
comunità locali, e oltre alla psicologia sociale e alla sociologia: ci sono molti filosofi/antropologi/economisti che si potrebbero far convenire in un pool di elaborazioni assai significative
che potrebbero aprire nuovi orizzonti alla conversazione gruppoanalitica e a qualche suo
ulteriore sviluppo sempre meglio fondato.
C’è Amartya Sen, che collega la violenza troppo diffusa nel mondo con le irrefrenabili
pressioni politiche e lobbistiche a ridurre le identità nazionali e individuali a singoli lacerti
sbranati dalla loro stessa complessa e miscelata realtà evolutiva, tramite definizioni artificiali,
arbitrarie e riduttive, come sono tutte le pseudo-identità totalizzanti politiche o religiose.
Collateralmente, a questo punto in cui ci rendiamo conto che viviamo in un mondo giàsempre creolo, di fronte ai lontani orizzonti che sto segnalando, potremmo dare un breve
sguardo al fatto così evidente che l’etnopsichiatria che è già, a mio avviso, strutturalmente
gruppoanalitica.
C’è Jean Luc Nancy, che non cita Foulkes ma scrive un intero bellissimo libro su «essere
singolare plurale», così senza nessuna virgola.
D’altra parte, diciamolo senza clamore, ecco già Kaes che nel 2007 scrive il
fondamentale saggio su «un singolare plurale» senza dare segno di conoscere il contributo
del filosofo di Strasburgo.
C’è Etienne Balibar, che rintraccia nelle opere di Spinoza un’ontologia della socialità
intesa come processo transindividuale di individuazione.
C’è Gilbert Simondon che si impegna nella tesi radicale che quando si partecipa ad un
collettivo non si attenua la propria individualità, e che anzi la vita di gruppo è l’occasione di
una ulteriore, più ampia individuazione.
Forse, con tutti e quattro questi arti, dunque senza troppi zoppicamenti, ovvero fuor di
metafora assumendo tutte e quattro le articolazioni di pensiero e di prassi sopra ricordate, la
gruppoanalisi potrebbe essere meglio integrata dalla psichiatria di comunità, che potrebbe
allora cogliere con maggior chiarezza, assumersi con migliore coerenza, e realizzare infine
più speditamente il suo scopo specifico della guarigione?
Alberto Schön, uno psicoanalista padovano che è altrettanto certamente della SPI quanto
io sono della GAS, nel suo recente «Infallibili errori» ha incluso, fra i disforismi del 1988, il
pensiero che «oggi, grazie a Freud, pensiamo anche diversamente da lui».
Forse, con l’ultima articolazione assunta nella sua piena significazione, possiamo
finalmente pensare una nuova ipotesi tranquillamente gruppoanalitica.
Foulkes era un così bravo psicoanalista che poteva, ancora prima di Schön, pensare
anche diversamente da lui, inteso come Freud, ed essere capace di vedere direttamente - e
anzi del tutto ingenuamente - che siamo fatti dai nostri gruppi, esattamente come questo
stesso fatto lo vedono tanti altri che pensano e guardano in altri modi, come gli Autori che ho
citato poche righe fa.
Forse dunque la gruppoanalisi non ha nessun bisogno di cercare affannosamente il suo
proprio senso come una specifica teoria perché essere singolare plurale non è altro, per
usare una saggia osservazione di Yalom, che «un fatto della vita».
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Rispetto al problema della allegata limitatezza teorica della gruppoanalisi, potremmo
insomma concludere come segue.
La gruppoanalisi è un programma parziale e discretamente limitato, in quanto applicativo
alla terapia individuale e di comunità, di un più vasto ed ambizioso progetto post-moderno di
restituzione e meglio di re-istituzione dell’uomo alla sua natura antropologicamente,
biologicamente, sociale se non perfino, come personalmente preferirei, gilanica.
Note tecniche
Nel caso specifico delle terapie di gruppo, la scoperta dei sistemi di neuroni sinestesici, di
cui quelli “specchio” sono solo una sottocategoria, consente addirittura la fondazione
neuroscientifica di alcuni dei fattori terapeutici già noti, quelli dell’area del rispecchiamento
come l’universalità, l’apprendimento vicario, l’apprendimento interpersonale, il feedback e di
conseguenza l’outsight (l’equivalente gruppoanalitico dell’insight psicoanalitico) e giustifica
ulteriormente la mia vecchia asserzione che la terapia di gruppo sia, se condotta secondo le
linee operative centrate sul “qui-e-ora”, una vera e propria terapia biologica, nel senso
specifico che il gruppo umano è decisamente utilizzabile in psichiatria, se trattato
tecnicamente nella direzione indicata (valorizzando cioè sistematicamente i fattori terapeutici
dell’area del rispecchiamento), come una vera e propria “sostanza farmacologicamente attiva”.
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