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“Bianciardi com’era” di Mario Terrosi
QUESTO ‘LAVORO CULTURALE’ NON S’HA DA FARE
La storia ‘istruttiva’ (e distruttiva) di un libro fantasma. La riedizione delle
lettere dell’autore grossetano ad un amico e conterraneo, narratore-tipografo di
provincia, bloccata dai veti incrociati degli eredi. Una vicenda ‘agra’ e un po’
miserevole degna di un racconto bianciardiano.
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di Antonello Ricci
[Qui di seguito lo scrittore e critico viterbese Antonello Ricci, nostro collaboratore, dà conto di una
sfortunata, piccola impresa editoriale, di cui è stato co-protagonista. Una vicenda poco
commendevole sotto vari punti di vista. Senza voler giudicare chicchessia, osserviamo che la
visione di un libro già stampato e pronto ad essere distribuito, che viene fermato e indirizzato al
macero è una brutta immagine che evoca scene da Fahreneit 451 e anche di peggio. Osserviamo
altresì che, forse, bisognerebbe cominciare a pensare a delle norme legislative che separino
l’usufrutto del diritto economico d’autore dalla proprietà e cura intellettuale delle opere d’autore.
Essendo acclarato che quasi mai gli eredi parentali sono i migliori giudici e amministratori del
patrimonio artistico e culturale dei loro consanguinei. Ciò detto, possiamo aggiungere che
Bianciardi com’era non offende né depriva alcuno. È un piacevole libretto che non ha pretese
critiche o ermeneutiche, è la partecipe testimonianza di un’amicizia nata in gioventù e siglata dalle
lettere che Bianciardi scrive a Terrosi in un arco temporale che va dal 1946 al 1971, anno della
morte di Luciano. Come giustamente sottolinea Ricci nella post-fazione, il leit-motiv
dell’epistolario sembra essere l’oscuro senso di colpa che attanaglia Bianciardi per aver
abbandonato Grosseto e la comunità della sua provincia, e il continuo raffronto con la vita agra e
amara che egli mena tra le nebbie padane di Milano, nonostante i suoi non disprezzabili successi
professionali. Che è poi il grumo etico-esistenziale che si sviluppa nel suo capolavoro narrativo.
Queste lettere ne sono un prezioso pendant, Opportunamente Ricci ne evidenzia una scritta nel
giugno del 1962: «Qui continua il miracolo, dicono; tutti si comprano l’automobile, qualcuno
anche il panfilo, e di tutto il resto se ne fregano. Ma non sono contenti: sono sempre incazzati.
Insomma è brutta gente. Il peggio è che nel resto del paese, potendo, fanno il verso a questi di
quassù. Se continua il miracolo, fra vent’anni tutta l’Italia si ridurrà come Milano». Bianciardi, al
pari di Pasolini, aveva capito e avvertito in anticipo che proprio il ‘miracolo economico’, lo
sviluppo neocapitalistico, il ‘boom’ consumistico stavano mettendo capo ad una mutazione
antropologica di lungo corso. Al termine della quale avremmo trovato il ‘berlusconismo’ (ma
questo loro non potevano, umanamente, prevederlo). Le radici del cavaliere-caimano sono lontane
e profonde. Oggi ci guardiamo attorno e, secondo dice Bianciardi, vediamo tanta “brutta gente”
disperatamente incazzata e grettamente avvinghiata a un malinteso materialismo. Per questo
abbiamo bisogno di tornare a leggere Pasolini e Bianciardi, per continuare a dire no ad una
‘Italia agra’ che non ci piace. emmepi]
Ci sono avventure che nascono sotto un’infausta stella. Nel gennaio 2006 la nuova edizione del libro di
Mario Terrosi, Bianciardi com’era, lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano, fresca di stampa è
imballata nei magazzini dell’editore Stampa Alternativa. Pronta per le librerie. La macchina della
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promozione è pronta a scattare. Curata da Corrado Barontini e dal sottoscritto, arricchita da una
pregevole introduzione di Pino Corrias, questa nuova edizione vede la luce nella collana Eretica (pp. 80,
euro 9.00). Ma ancora sigillato negli scatoloni Bianciardi com’era è già un libro fantasma. Già in corso
d’opera alcuni giudizi poco lusinghieri degli eredi Terrosi avevano convinto i curatori a modificare il
progetto originale, sopprimendo una serie di (pur interessanti) appendici realizzate per l’occasione. Ora
l’insofferenza dei Terrosi si sposta su alcune affermazioni di Corrias. Lo spiacevole episodio convince
Marcello Baraghini ad allestire in fretta e furia una ristampa ‘preventiva’ del volumetto. Per evitare
polemiche sterili e portare a compimento una piuttosto sofferta gestazione. Intanto Daniele Abbiati e
David Fiesoli, sulle colonne rispettivamente de Il Giornale e de Il Tirreno, recensiscono un libro che non
c’è. E non ci sarà. È a questo punto infatti (appena in tempo per fermare la tipografia, per fortuna) che
Stampa Alternativa riceve una mail di Luciana Bianciardi: la quale, in nome della legge (sul diritto
d’autore), intima che il nuovo Bianciardi com’era (stampato a sua insaputa) sia tolto dalla circolazione. È la
fine. L’editore, per risparmiarsi dispendiosi quanto incerti duelli in sede forense, decide di metterci una
pietra sopra. Tombale. Non è una storia entusiasmante, a ripensarci. Diseducativa quanto intrigante. E
certo siamo in molti a non farci una splendida figura.
Per esempio gli eredi Terrosi, i quali, prigionieri di una non-contrattabile immagine di Mario
(rispettabilissima sul piano degli affetti, ovviamente; ma tutta da discutere sotto il profilo della biografia
pubblica dello scrittore), hanno saputo dire ‘grazie’ solo alla notizia che Stampa Alternativa non si
sarebbe ostinata per vie legali contro gli eredi Bianciardi.
Ma anche l’editore, che ingenuamente ha sottovalutato la questione del diritto d’autore proprio in un
caso di autorialità ‘anfibia’ (eh sì, perché senza l’esile ma amorevole tessitura operata dal Terrosi sulle
lettere bianciardiane Bianciardi com’era non esisterebbe, ma al tempo stesso il libro di Terrosi non si
reggerebbe neanche in piedi senza quegli straordinari ‘reperti’ epistolari; a questo proposito sarà
interessante ricordare che Bianciardi com’era nacque in realtà come capitolo di un più ampio, mai portato
a termine omaggio collettaneo a Bianciardi da parte dei suoi amici grossetani).
Poi ci sarebbe la figlia di Bianciardi che, da tempo editrice in proprio, ha brandito con eccesso di
legittima difesa l’arma del diritto d’autore, lasciando intendere chiaramente che rivali sul terreno
dell’eredità editoriale paterna non ne gradisce (eh sì, perché le lettere di Luciano pare intenda stamparle
proprio lei, a breve: opera senz’altro meritoria. Ma quale destino per Bianciardi com’era? Possibile che
quel toccante omaggio all’amico scrittore appena scomparso, voluto in anni in cui Bianciardi non era
più appetibile né per la critica né per il mercato, finirà condannato ad altri trent’anni di oblio?).
Infine, perché no?, anche noi curatori. Per aver pensato – solo pensato – che fosse cosa buona e giusta
rendere nuovamente disponibile per i lettori italiani un piccolo libro pieno di passione. Evidentemente
sbagliavamo.
Pensando di fare cosa utile, mi risolvo a presentare ai lettori mancati del volume alcuni dei materiali
preparatori per l’edizione-fantasma di Bianciardi com’era. Si tratta di alcune semplici schede critiche e biobibliografiche: sul libro, su Luciano Bianciardi, su Mario Terrosi, sul Terrosi narratore. Con l’idea che in
tal modo qualche brano di un lavoro intenso e appassionato non sarà andato perduto.
“Bianciardi com’era”, scheda critica. Pubblicato nel 1974,1 appena tre anni dopo la morte di
Bianciardi, Bianciardi com’era uscì in un momento in cui sull’opera dello scrittore grossetano era già
calato, precoce e desolante, l’impenetrabile silenzio della critica ufficiale.
Esso rappresenta la prima biografia ma anche il primo tentativo di tracciare un ritratto morale del
Luciano Bianciardi uomo e scrittore. Il ricco repertorio di brani epistolari pubblicato copre un arco di
Bianciardi com’era. Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano, pubblicato per la prima volta dalla casa editrice grossetana
‘Il paese reale’, fu riproposto al pubblico nel 1985 in un lavoro a quattro mani con Alberto Gessani: L’intellettuale disintegrato:
Luciano Bianciardi, Ianua, Roma. L’idea di una nuova edizione si è fatta strada durante il Terzo Festival di Letteratura
Resistente (Pitigliano, 9-11 settembre 2005) organizzato da Stampa Alternativa e dedicato proprio all’esperienza de ‘Il paese
reale’ (sul tema cfr. Corrado Barontini e Antonello Ricci, a cura di, Prima di lui il padule. Il paese reale, un’avventura editoriale
maremmana, Stampa Alternativa, Roma 2005).
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tempo che va dai primissimi anni dell’ ‘esilio’ milanese di Bianciardi (’54), all’amaro periodo di Rapallo,
ai giorni che precedettero la morte dello scrittore sul finire del ’71.
Queste lettere, raccolte e montate con intelligenza critica, sensibilità e affetto profondo dal tipografoscrittore e pittore grossetano Mario Terrosi (che di Bianciardi fu coetaneo e amico sincero)
rappresentano un’irridente, sarcastica quanto smagata, controstoria d’Italia negli anni del cosiddetto
Miracolo economico. Rivelando con decenni di anticipo e tratti di acuta profezia, miserie e macerie
della capitale morale d’Italia (così era nota a quei tempi Milano) nei giorni dell’irresistibile ascesa del Dio
Consumo.
Bianciardi com’era è anche un’implacabile requisitoria contro il conformismo del mondo intellettuale,
letterario e, soprattutto, editoriale milanese e nazionale di quegli anni; sottobosco che Bianciardi si
trovò a conoscere e sperimentare direttamente fin nei suoi aspetti più alienanti. Proprio per questi stessi
motivi Bianciardi com’era si rivela libro di sconcertante attualità: quasi i malanni della nostra cultura e del
nostro costume nazionale si fossero fermati a quei ‘favolosi’ anni ’60.
Bianciardi, scheda bio-bibliografica. Luciano Bianciardi (1922-1971) negli anni del dopoguerra fu
insegnante di liceo e direttore della biblioteca comunale di Grosseto. In questo secondo ruolo fu a
lungo attivo nella vita culturale locale: promotore di affollati cineforum e dell’innovativa esperienza
della biblioteca itinerante (il “bibliobus”). Nel 1954, scemati ormai gli entusiasmi della Ricostruzione,
personalmente segnato dalla sciagura mineraria di Ribolla, Bianciardi partì alla volta di Milano dove
avrebbe lavorato prima come redattore per la costituenda casa editrice Feltrinelli (la “grossa iniziativa”)
poi come traduttore. Questa seconda attività gli garantì finalmente una certa sicurezza economica. Il
suo esordio come scrittore è del 1956 con I minatori della Maremma, libro realizzato a quattro mani con
Carlo Cassola. Il suo romanzo più celebre resta La vita agra (1962), che con Il lavoro culturale (1957) e
L’integrazione (1960) forma una vera e propria trilogia e contro-storia del Miracolo Italiano. Di Bianciardi
non andrà dimenticata la vena ‘garibaldina’, con gli scritti dedicati a Risorgimento e impresa dei Mille:
Da Quarto a Torino (1960), La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969) e il postumo Garibaldi
(1972). Il suo ultimo romanzo fu lo stralunato Aprire il fuoco (1969). Morì per alcool a Milano il 14
novembre 1971.
Terrosi, scheda bio-bibliografica. Mario Terrosi (1921-1999), uomo schivo ma insieme schietto e
generoso, seppe far convivere molti interessi, alternando la sua passione per la narrativa a quella per la
pittura, unitamente a collaborazioni con riviste e giornali nazionali. Per interessamento di Bianciardi
esordì nella ‘serie grigia’ di Feltrinelli con La casa di Novach (1956), riscuotendo una discreta attenzione
di critica. La sua bibliografia: Il sentiero, ‘Eco’, Grosseto 1948; La casa di Novach, Feltrinelli, Milano 1956;
Michele Capasso, Tipografia Grossetana, Grosseto 1962; Bianciardi com’era, Il paese reale, Grosseto 1974; Il
mentecatto, Il paese reale, Grosseto 1975; Jugoslavija. Stoj!, Il paese reale, Grosseto 1977; Morte del genitore,
Cooperativa Centro Documentazione, Grosseto 1981; Ortensio mio, Edizioni Libreria Signorelli,
Grosseto 1985.
Terrosi narratore. L’avventura narrativa di Terrosi non comincia e non finisce con Bianciardi com’era.
Votato per carattere allo scavo interiore, Terrosi visse la scrittura come attività di bottega. Tanto
sorvegliato sotto il profilo stilistico quanto severo sotto quello morale. Pure fu scrittore eclettico, se è
vero che le sue cose migliori si divaricano tra il neorealismo memorialistico degli esordi ed un tardo
espressionismo speso nella difficile ma produttiva solitudine della provincia. Più portato per la misura
del racconto che non per il romanzo, Terrosi non raggiunse, se non in certe pagine (di rara bellezza,
invero), il felice compimento della perfezione. E non fu scrittore fortunato. Dopo un esordio da poeta,
infatti (Il sentiero, ’48, con una garbata introduzione a firma Minco Nori, pseudonimo bianciardiano),
grazie all’interessamento di Bianciardi Terrosi narratore autodidatta si ritrovò ospite della ‘serie grigia’ di
Feltrinelli a fianco di Cassola e Ugo Pirro. La casa di Novach (’56), libro composto e intenso, non passò
inosservato (finalista al premio Prato, ne parlarono Gian Carlo Ferretti su l’Unità e Giuliano Manacorda
su Società), ma riscosse attenzioni viziate da preconcetti neorealisti: alla critica marxista interessava più
che altro l’aspetto documentario e autobiografico, il sofferto ‘romanzo’ di formazione del giovane
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Terrosi, soldato d’occupazione in Jugoslavia nella seconda guerra mondiale. Sulle incertezze letterarie
del testo si sorvolò con buona dose di paternalismo (Ferretti parlò di un “Rigoni Stern minore”). Ma a
darci segno delle profondità emotive cui questi temi seguitarono ad essere macerati e setacciati (primo
fra tutti un inestirpabile senso di colpa) è il fatto che Terrosi volle riprenderli vent’anni dopo nel suo
lavoro più importante: Jugoslavija. Stoj! (’77), diario d’un ritorno sui luoghi di guerra datato ’68. Libero da
costrizioni d’intreccio, sollecito a registrare banali episodi di ‘cronaca’ come altrettante divagazioni
morali, in Jugoslavija. Stoj! Terrosi equilibra con tocco felice indagine autobiografica e narrazione breve.
Le vicissitudini editoriali che seguirono la pubblicazione de La casa di Novach sono esemplari.
Nell’agosto ’58, infatti, la cronaca grossetana de l’Unità (cronaca di Grosseto) dava per imminente
l’uscita d’un nuovo libro di Terrosi (ancora con Feltrinelli; imprimatur di Giorgio Bassani), romanzo di
ambientazione maremmana intitolato La miniera. Non sappiamo come andarono le cose. Certo quel
libro non vide la luce. Il nuovo appuntamento editoriale sarà invece quattro anni più tardi. Nel ’62
uscirà infatti Michele Capasso, ambientato fra le capanne di falasco dei pescatori di Marina di Grosseto.
Le pagine più belle di Michele Capasso sono senz’altro quelle dedicate ai paesaggi marittimi ed alle
descrizioni del lavoro dei pescatori. Mentre le consuete fragilità strutturali (plot meccanico, personaggi e
dialoghi poco plausibili) ci aiutano a inquadrare meglio il curioso destino editoriale di un romanzo che
Terrosi, come scrive Bianciardi nella sua introduzione, “dopo una complicata e non esemplare vicenda
di trattative con editori milanesi” si risolse a stampare “con le sue stesse mani”. Già all’inizio degli anni
’60, insomma, il caso del tipografo-scrittore poteva considerarsi chiuso.
Nel ’74 Terrosi sarebbe tornato a far parlare di sé. Di Bianciardi com’era si sarebbero occupati critici come
Carlo Bo (L’Europeo) e Oreste Del Buono (Linus). Ma anche in questo caso la sua figura pare sacrificata
ad altro: alla richiesta d’una nuova attenzione critica per Bianciardi, scomparso da poco e già
dimenticato. In ogni caso Terrosi non avrebbe smesso di scrivere. Oltre i racconti raccolti in Morte del
genitore (’81), infatti, appartengono al decennio ’75-’85 le sue opere al contempo più imperfette e
interessanti. A parte Jugoslavija. Stoj!, si tratta degli stralunati racconti de Il mentecatto (’75) e di Ortensio mio
(’85), romanzo bizzarro e grottesco d’una logorrea tutta toscaneggiante in cui, secondo l’esempio del
Bianciardi monologante de La vita agra e di Aprire il fuoco, Terrosi sembrerebbe aver riconosciuto la cifra
stilistica più sua: soliloquio teatrale d’un narratore ‘mentecatto’ per forza di cose e per scelta, pensionato
smarritosi nel delirio di vicende di ordinaria follia condominiale. Proprio qui, per chiudere, egli attinse
gli accenti più universali della sua sofferta parabola narrativa.
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