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Luciano Bianciardi, l’io opaco
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L’opera di Luciano Bianciardi è un corpus unico, senza soluzione di continuità, distinzioni di stile, né spazi eccentrici. Bianciardi si vede vivere, e riporta in differita ciò che ha
visto. Ogni suo scritto si innesta sul precedente, sulle avventure passate, rimasticate in prima persona. I diari giovanili e gli elzeviri di piccola critica di costume provinciale su
La Gazzetta di Livorno; l’inchiesta sui minatori della Maremma e la vita agra del boom economico milanese; l’ossessione nostalgica per il Risorgimento e le ultime collaborazioni giornalistiche per ABC, Playmen, il Guerin Sportivo. Bianciardi usa sempre la prima persona, ma il suo personaggio ricostruito è una funzione della realtà, non è mai
vera biografia; non c’è autocoscienza, né monologo interiore compiuto.
L’io di Bianciardi è un’ombra stesa tra l’io autobiografico nascosto e l’assenza di un vero alter ego letterario. È
una maschera, un’autocostruzione, una dissimulazione.
Una sorta di io opaco, in definitiva, la sua unica risorsa
espressiva ed esistenziale.
1. Il lavoro culturale
La formazione di Bianciardi è quella tipica di un intellettuale di provincia del primo dopoguerra. Si laurea velocemente e nemmeno col massimo dei voti, giovandosi delle
facilitazioni concesse ai reduci di guerra, con una breve tesi
su John Dewey. Passa il concorso di abilitazione all’insegnamento. Si sposa in fretta e senza passione, sorprenden-
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do gli amici più vicini, con una donna lontana dal suo ambiente d’elezione borghese – Adria gestiva con la madre, vedova di un operaio socialista, un negozio di cappelli. Infine
accetta la carica di bibliotecario alla Chelliana di Grosseto,
gravemente danneggiata dalla guerra. Nel 1952, chiamato
da un ex compagno di università, diviene collaboratore de
La Gazzetta di Livorno affiancando a questi incarichi
quello di un generico e ottimista “lavoro culturale” rivolto
all’educazione delle masse: organizza una bibliotechina
itinerante, il bibliobus; fonda un cineclub; presiede dibattiti con intellettuali e scrittori.
Sotto questo aspetto, Bianciardi si adegua all’ottimismo programmatico del tempo. Aderisce al ruolo dell’intellettuale impegnato, del lavoratore della cultura. Le inchieste sui minatori della Maremma, pubblicate in prima battuta da un periodico di ispirazione marxista come Il contemporaneo, sono essenzialmente una testimonianza militante. Tuttavia, in un tempo in cui il legame tra cultura e
politica è molto stretto, egli non si professa comunista. Di
fatto i suoi riferimenti sono sempre crociani e non gramsciani. La sua area è azionista, rimane tuttavia lontano
dalla pratica politica se si eccettua la partecipazione pubblica al movimento Unità Popolare per le elezioni del ’54
schierato in difesa dell’importanza di una “terza forza”
nello scacchiere politico italiano contro la cosiddetta “legge
truffa”.
Bianciardi, si inserisce comunque in una pratica che
prevede una precisa funzione critica dell’intellettuale nella
società, ma non idealizza mai il concetto di educazione delle masse:
Io sono con loro, i badilanti e i minatori della mia
terra, e ne sono orgoglioso; se in qualche modo la mia
poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò buona questa cultura, perché mi permette di
restituire, almeno in parte, lavoro che è stato speso anche
per me: non m’importa più quando mi dicono che questa è cultura “engagée”.
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(Nascita di uomini democratici in Belfagor, MessinaFirenze, VII, 4, 31 luglio 1952, pp. 466-471)
In quegli anni sembra avere una visione coerente del
lavoro culturale. Da una parte c’è la sua origine, ci sono i
provinciali, i localisti, come li chiama in un suo pezzo satirico dell’epoca. Quelli che fanno gli eruditi, che si occupano delle cose inutili del paesello, senza tuttavia coglierne
gli aspetti rilevanti. Per questo Bianciardi li mette alla berlina su La Gazzetta di Livorno, nella rubrica Incontri Provinciali. Ma già nel ’57, in quella specie di summa della
sua formazione sul campo che è Il lavoro culturale, si fa
beffe anche di quelle “forze sane” della provincia che rappresentano il suo futuro: l’impegno intellettuale rivolto al
reale, l’inchiesta, il giornalismo, l’editoria. Dopo pagine e
pagine sulle origini di Grosseto, gli etruschi, la Maremma,
anche la pratica intellettuale impegnata e “cosmopolita”
viene equiparata alla chiacchiera da caffè fine a se stessa.
Lo stesso cineclub, oggetto di un impegno appassionato soltanto pochi anni prima, diventa ora facile bersaglio comico. Bianciardi ne coglie il carattere velleitario e fuori tempo, in un mondo in cui già cominciava la rivoluzione della
televisione.
Il lavoro culturale non è un diario in presa diretta, ma
il primo dei ripensamenti, delle delusioni, dei piccoli fallimenti raccontati dall’ io opaco di Bianciardi, qui battezzato Luciano. Significativamente, il gioco dei rimandi autobiografici ruota più su un altro personaggio, Marcello,
fratello di Luciano nel libro. Per rimanere al quadro clinico, è Marcello ad avere la bronchite cronica (che Bianciardi aveva davvero) ma è Luciano a essersi rotto il menisco
(come vedremo, ciò non è mai accaduto nella realtà a
Bianciardi, ma è una delle esperienze più traumatiche del
suo io opaco). La coppia Luciano-Marcello è destinata a
tornare ne L’integrazione, seguito ideale de Il lavoro culturale e a scomparire una volta per tutte con La vita agra.
Qui, come in Aprire il fuoco, il nome del protagonista è tenuto celato.
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2. Lo sguardo vicino
Dunque Bianciardi inizia a trasformarsi in una specie di
antintellettuale che non sacrifica sull’altare dell’astrazione
ciò che gli sta davanti agli occhi; che condanna il provincialismo non perché guarda troppo vicino, ma perché non sa
guardare. Il suo sguardo, invece, si posa su ciò che gli è più
vicino, si immerge completamente nel suo tempo e nel suo
spazio geografico. Così l’interesse per la vicenda dei minatori della Montecatini a Ribolla, provincia di Grosseto, è un
percorso umano e un bisogno fisico oltre che una necessità
politica. Bianciardi guarda dalla finestra la vita agra de I
minatori della Maremma e ciò basta a fargli girare le scatole. Anzi, proprio il capitolo conclusivo di questo studio sociologico scritto con Carlo Cassola – la “colposa” esplosione
di grisù del 4 maggio 1954 nella quale periscono quarantatré lavoratori – sembra convincere Bianciardi dello scarso o
nullo impatto del lavoro intellettuale sulla realtà, contribuendo a formare quello spirito amaro e disilluso che costituirà il carattere del suo io opaco fin da Il lavoro culturale.
In questo “guardar vicino” si può stabilire un tratto essenziale e continuo della poetica di Luciano Bianciardi: se a
Grosseto si era occupato dei minatori maremmani, dalla finestra di Milano vede Milano e scrive di Milano; qualche
volta abbandona la finestra per il divano, vede la tv e scrive
di tv inventandosi di sana pianta il mestiere di critico televisivo; negli anni del declino, la finestra della sua casa di Rapallo diventerà addirittura il centro del suo ultimo romanzo
Aprire il fuoco, nel quale l’io opaco scruta l’orizzonte
aspettando il segnale di una riscossa che non arriverà mai.
Anche quando si occupa dell’America, necessariamente lontana, Bianciardi lo fa guardando il “vicino”: lui, il
traduttore di Henry Miller, nel suo unico viaggio americano non troverà di meglio che chiudersi in hotel a guardare
la televisione e a riflettere, disorientato, sul fuso orario:
Cosa fa uno, chiuso al quarantacinquesimo piano di
un albergo di New York, alle tre di notte? Si alza, apre la finestra, vede un muro buio, girella per la camera, ritorna a
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letto, apre un libro, e finalmente s’accorge che c’è anche il
televisore. Stavolta, pensa, i fusi orari mi aiuteranno: perché se qui sono le tre del mattino, a San Francisco sarà
mezzanotte, e qualcosa dovranno pure trasmettere. Così
accende, aspettando che la boccia di vetro sia calda, e
guarda il monoscopio con la sigla. Quella dev’essere la
chiavetta dei canali (quanti saranno, nove, dieci, mille?):
la gira, e finalmente si vede qualcosa. C’è una bella signora che butta dalla finestra un ferro da stiro. Dice che non
serve. Non serve, perché oggi gli indumenti si fanno di fibra sintetica, che dopo lavata non ha bisogno di stiratura.
(Carosello a Manhattan, rubrica Rai-TV in Notizie
Letterarie, Milano, VI, 1, gennaio 1965, pp. 32-34 )
Non può sfuggire la modernità del gesto di accendere la
tv non appena si entra in una stanza di albergo.
Luciano Bianciardi è una specie di assurdo scienziato
miope, che deve avvicinarsi agli oggetti della sua attenzione al punto da confondersi con essi. È un ittiologo che si tuffa in un acquario per studiare il comportamento dei pesci
in cattività e finisce affogato.
3. La grossa iniziativa
Quando arriva alla Feltrinelli si aspetta di trovare dei suoi
simili. Non è così. La convivenza quotidiana con gente che
passa le giornate a decidere quale colore assegnare alle
schede dell’archivio dei testi sociologici e quale a quelle dell’archivio dei testi antropologici, lo annoia mortalmente.
Si trova insomma circondato da uomini rassegnati e metodici che hanno capito da un pezzo come va la faccenda.
Stenta a trovare un nesso tra le giornate passate a catalogare libri e un reale cambiamento in senso rivoluzionario della società, uno scopo finale insomma. Rimpiange il lavoro
“sul campo”, i colloqui con i minatori. Si rende conto dell’insensatezza dell’impresa. E allora fugge, si rinchiude in
casa e decide che il suo lavoro culturale sarà la manovalanza: il lavoro a cottimo delle traduzioni, la serialità delle colXI
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laborazioni giornalistiche, la routine delle presentazioni
pubbliche. Lo “scopo finale” di Bianciardi consiste nel non
fingere di averne uno, nel costringersi a una pratica quotidiana, al conto della spesa, alla “pagnotta” da portare a casa. Il periodo della speranza, dell’impegno, de I minatori
della Maremma inizia ad allontanarsi.
Il passaggio di Bianciardi nella comunità culturale milanese è testimoniato più da azioni (o intenzioni) che da
oggetti, studi, opinioni. Secondo le testimonianze il suo
modello di interazione con queste comunità è quello del
rompicoglioni. Alla Feltrinelli canzona il “giaguaro”
Giangiacomo e la sua corte di micetti; al Giorno prende in
giro Giorgio Bocca per le sue frequentazioni mondane; nella tribuna stampa di San Siro dà sui nervi a Gianni Brera
parlandogli di filologia ungherese durante un attacco dell’Inter. Bianciardi si ritiene estraneo a questo mondo, e tuttavia c’è. C’è alla Feltrinelli ruggente degli anni ’50; c’è ai
party mondani della Milano bene; c’è nella tribuna stampa di San Siro, ma ciò che gli resta è solo il suo esserci stato,
la memoria arrabbiata e istantanea che la domenica scarica sui tasti della sua macchina da scrivere.
Si potrebbe anche pensare che Bianciardi si creda implicitamente superiore, senz’alcun dovere di dimostrarsi tale.
Non è solo questo. Per lui il lavoro intellettuale è oramai un
semplice ingranaggio della società capitalistica, è lavoro e
nient’altro, quasi che la stessa espressione “lavoro intellettuale” non sia altro che un ossimoro. Bianciardi individua
così un cambiamento nella funzione dell’intellettuale, solo
al servizio della pubblicità, del marketing e degli interessi
editoriali, fornitore di un prodotto equivalente in tutto e per
tutto a ogni altro. Altre opinioni al riguardo, sembra dirci
Bianciardi, non sono che solenni ingenuità, soprattutto in
un posto come Milano che di questo cambiamento è il centro di gravità. Chi crede di cambiare il sistema dell’industria culturale dall’interno sfruttandone le potenzialità è un
ipocrita. Nessun entusiasmo è giustificato, nessuna speranza è fondata. Ecco perché l’intellettuale Bianciardi finisce
per coincidere con il suo io opaco che bofonchia rabbioso.
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Egli stesso, in qualche modo, era stato vittima di quella
stessa solenne ingenuità quando nel ’54 aveva preso il treno per la metropoli con la speranza di andare a cambiare il
corso della storia del paese. Qui comincia a maturare quel
suo altro io, opaco protagonista di ogni suo scritto, consacrato con la pubblicazione, nel 1962, de La vita agra. È significativo che la solenne ingenuità venga metabolizzata e
quindi nascosta dall’io opaco attraverso l’ideazione di un
attentato contro il neo eretto tempio della modernità e della ricchezza, il “torracchione” di Milano, unica possibile risposta all’“attentato” della Montecatini contro i propri
minatori. Ne La vita agra l’ordine degli eventi viene invertito: l’io opaco arriva da Grosseto per vendicare i minatori, l’adesione alla “grossa iniziativa” politico-editoriale che
finirà per “disinnescarlo” è soltanto una copertura. La verità è che a Bianciardi capita più o meno il contrario: venuto a Milano per partecipare alla grossa iniziativa culturale ne rimane deluso e finisce per immaginare l’attentato.
L’idea stessa di scegliere nella “finzione” l’attentato dinamitardo, almeno per quanto attiene alla spettacolarità
dell’impresa di far saltare un grattacielo, segna la misura
della sua disillusione. In fondo Bianciardi progetta una
mossa politica modernissima, costruita com’è su una logica che è mediatica e non politica; tragi-comica e non, semplicemente, tragica. Il suo trasformarsi in (finto) terrorista
anarchico; il non esibire più alcun lavoro intellettuale impegnato; il rappresentare con una chiarezza e lucidità mai
viste prima la vuota spettacolarità della politica è il segnale della sua resa e della sua forza. Questa decisione rappresenta forse il fallimento più grosso degli ingenui ideali del
quasi quarantenne Bianciardi e al tempo stesso, nell’amara dialettica tra lui e il suo io opaco, la sua fortuna e quella del lettore. Il risultato è infatti uno dei romanzi più divertenti della letteratura italiana del secolo scorso. Oramai
non c’è altra possibilità che dedicarsi all’invettiva, alla satira, insomma buttarla in burla. Bianciardi è orfano di
qualsiasi comunità o referente intellettuale: che sia il Partito o l’“ambiente” culturale, nessun tipo di sodalizio semXIII
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bra annoverarlo tra i suoi membri stabili, né tantomeno
lui coltiva il desiderio di farne parte. Il suo unico orizzonte
è quello della sopravvivenza, da conservare attraverso rapporti esclusivamente individuali. Bianciardi tratta rabbiosamente con i funzionari dell’industria culturale, ne affronta gli anticorpi – le segretarie secche – schiacciato
dall’impersonalità kafkiana di tutta la macchina. Non è
esattamente un drop out né un terrorista; capisce che l’unica sua possibile funzione nell’industria culturale è quella
dell’arrabbiato, dell’eccentrico, del selvaggio. Vi faccio vedere io chi è l’intellettuale di oggi!
Nel 1962 un comunista lo avrebbe accusato di individualismo borghese: l’alcol, le donne, il bar Giamaica, la celebrazione dell’intellettuale decadente e stritolato dalla società dello spettacolo, che si bea del proprio processo autodistruttivo, in un pessimismo ostentato, di maniera e tuttavia doloroso. Questo è La vita agra: l’io opaco di Bianciardi
lavora nella casa editrice legata al sistema ma vive nella
piccola comunità di “eletti”, gli amici pittori del bar delle
Antille-Giamaica, quasi una riedizione tarda e disperata
delle bohème di inizio secolo. Questa bohème al ribasso
non è più circondata da borghesi da stupire, né ancora dall’Europa in crisi degli anni settanta, di là da venire. La bohème bianciardiana vive nella potente e indifferente macchina del boom anni sessanta. A differenza dell’arrabbiato
di inizio secolo e di quello anni settanta, con le stigmate del
punk e dell’eroina, Bianciardi non viene additato come
cattivo esempio, feccia, rifiuto da estromettere, bensì viene
adottato dalla stessa macchina potente e indifferente.
Sulle colonne del Corriere della Sera Indro Montanelli,
recensisce in termini lusinghieri La vita agra il 2 ottobre ’62:
La vita agra è uno dei libri più vivi, più stupefacenti,
più pittoreschi che abbia letto in questi ultimi anni […]
Io non conosco personalmente Bianciardi. So ch’è di
Grosseto, che ha una quarantina d’anni […] Quel tipo di
anarchico toscano che, credendosi comunista, parte con
la dinamite in tasca alla distruzione della società e poi
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scopre che l’unica realtà sono l’uomo e i suoi valori morali, mi è familiare – e congeniale – come pochi altri. Ma
devo dire che mai lo avevo visto incarnato così compiutamente come in Bianciardi e rappresentato con tanta
disperazione e poesia, intercalati da blasfemi sghignazzi
alla Cecco Angiolieri.
Fortuna che quella veemenza si è sfogata in letteratura. Si fosse tradotta davvero in grisù, a Milano non sarebbe rimasta ritta neanche la Madonnina.
(Indro Montanelli, Un anarchico a Milano, in Corriere della Sera, 2 ottobre 1962)
Ma Indro Montanelli non si accontenta di celebrare il
nuovo mito sbocciato tra le vie di Brera, vorrebbe offrirgli
un posto al Corriere della Sera. È un colpo di scena che sarebbe degna conclusione de La vita agra. Bianciardi aveva
ragione: la macchina del boom economico non riconosce
altri da sé; qualsiasi cosa “funzioni” è messa in produzione,
qualsiasi critica è metabolizzata senza scarti. Tutto è rappresentazione.
È probabile che dietro l’ipotesi di indossare la maschera
del personaggio di arrabbiato, manifestamente temuta da
Bianciardi, vi sia anche per quanto possibile una genuina
soddisfazione. Bianciardi si fa guardare e ama mostrare il
suo essere ex intellettuale di provincia, laurea in filosofia,
assolti gli obblighi di leva, moglie e prole che conquista infine la massima ribalta. A Milano tutti lo vogliono, tutti lo
amano e quindi sono tutti degli idioti. Lui, probabilmente,
sente di averli fregati.
In questo quadro il gran rifiuto di collaborare al Corriere della Sera non sembra essere altro che un supremo atto di autoindulgenza, a stento mascherato da una motivazione politica. Ecco il ricordo di Maria Jatosti, sua compagna del tempo:
Lo chiamarono al Corriere della Sera. Indro Montanelli in persona gli offrì il posto. Non fare il bischeraccio,
gli disse, pensaci bene.
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Ma come, non accettare un’occasione simile, non sarai mica pazzo, facevano coro i benpensanti.
Ti prego, ti prego, non farlo. Indro Montanelli no, lui
sarà uno dei primi a cadere quando saremo dall’altra
parte finalmente… Non andarci, non andare a parlare
con lui…
(Maria Jatosti, Tutto d’un fiato, Editori Riuniti, Roma
1977)
4. Arrabbiato!
Il rifiuto al Corriere della Sera accontenta in realtà ancor
di più gli intenti nascosti di Montanelli, che significativamente recensiva La vita agra come semplice autobiografia,
parlando cioè non di un libro ma di un uomo. Bianciardi
non trova di meglio che superarsi; sposta ancora più in là il
suo limite e crede al tal punto al suo mito da perpetuarlo
con la mossa più arrabbiata e coerente possibile. È probabile che egli non volesse dimostrare qualcosa di genuinamente politico (“non scrivo sulle vostre colonne e alimento il
mio personaggio perché solo così posso mostrare quanto fate schifo”); ma semplicemente rivendicare l’impossibilità
di qualsiasi mediazione tra l’intellettuale e la macchina. E
così, una volta per tutte, abdica agli ideali giovanili: l’intellettuale non esiste se non come mera funzione della società industriale; questo è il prezzo che deve pagare per avere un pubblico e credersi rilevante. Bianciardi non ci sta e
decide di esser solo funzione di se stesso, del suo io opaco.
Preferisce campare sotto le spoglie della sua incazzatura, le
stesse ritratte sulla copertina di questo libro: la trovata carnevalesca della benda da pirata.
Per questo, è solo. A Milano è orfano anche del suo bersaglio preferito: la comunità da criticare che aveva trovato in
provincia qui non c’è più. Benché il successo colossale della
pubblicazione de La vita agra, le presentazioni, le feste mondane, lo strappino alla solitudine di casa sua, della stanza
con la macchina per scrivere, il tentativo di traslare la sua satira contro i borghesi di provincia alla nuova situazione miXVI
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lanese fallisce poco dopo. Accetta una collaborazione a Il
Giorno, neonato quotidiano della borghesia illuminata,
sulle cui colonne negli anni ’62-’63 tiene la rubrica Parliamo
di Milano. I temi affrontati sono di piccolo cabotaggio, tra la
critica di costume e la sociologia spiccia: un nuovo tic verbale; l’inaugurazione di un bar a là page; la moda del sushi (già
allora Milano gettava i semi del suo processo di autofagocitazione a crudo). La forma è quella di brevissimi boxini,
piuttosto “vuoti” giornalisticamente quanto graficamente
innovativi e così diversi dai bonari elzeviri di spalla pubblicati su La Gazzetta di Livorno. Si potrebbe dire che il carattere minimale di questa collaborazione rifletta anche visivamente la disintegrazione dei suoi ideali: una nuova “grossa
iniziativa”, un’altra “solenne fregatura”.
Tuttavia Bianciardi alimenta il suo io opaco proprio
con questa sequenza di fallimenti (e viene da chiedersi che
fine avrebbe fatto se non fosse sceso dal carro dei vincitori,
se al posto che cantare il disastro dell’industria culturale ne
fosse stato supporter). In questa furia creativa si costringe
dunque a spostare sempre più in là il suo limite, l’unico
combustibile possibile per la sua macchina di scrittura.
Non si racconta, ma al contrario si mette in scena. Addirittura, si autodenuncia come personaggio:
Oramai sto girando come un rappresentante di commercio […]. Viene con me Domenico Porzio, e a volte
sembriamo due comici di avanspettacolo: sempre le stesse battute, e sempre con l’aria di chi le dice per la prima
volta.
(Milano, lettera a Mario Terrosi, 30 dicembre 1962)
Maria Jatosti così descriverà quel periodo:
Dopo anni di miseria, di angoscia, di pugni nello stomaco, finalmente un po’ di respiro, di serenità e, diciamolo pure, di successo. C’era la televisione, il cinema, la
stampa, le donne, e lui era felice, parlava, rideva, raccontava, andava a spasso, frequentava tavole rotonde, cockXVII
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tail, riunioni, dibattiti, feste. Era simpatico, spiritoso, elegante, non portava più quegli orrendi maglioni gialli con
su ricamato un cervo o i giubbotti di finta pelle, ma la camicia e la cravatta…
(Maria Jatosti, Tutto d’un fiato, Editori Riuniti, Roma
1977)
Il processo della sua trasformazione in personaggio
pubblico è consapevole. Di più: è talmente sfacciato da ispirare a Bianciardi un sincero disgusto, e finire fatalmente
sotto il microscopio della sua satira, alimentando il gioco al
massacro del suo io opaco:
L’aggettivo agro sta diventando di moda, lo usano
giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi
daranno lo stipendio mensile solo per far la parte dell’arrabbiato italiano. Il mondo va così, cioè male. Ma io non
ci posso fare nulla. Quel che potevo l’ho fatto, e non è
servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci
nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro.
(Milano, lettera a Mario Terrosi, 30 dicembre 1962)
5. Nascita di un uomo democratico
In Bianciardi non c’è nessuna indulgenza verso “l’intellettuale del suo tempo”, neppure verso quello cinico e spregiudicato che si erge a coscienza critica della società del boom.
Per questo satireggia la nuova onda di intellettuali degli
anni cinquanta e sessanta, alla Umberto Eco, gli entusiasti
delle nuove discipline, la semiologia, la sociologia, l’antropologia, quelli che facevano i convegni su James Bond:
Si cominciò a dire che la condizione operaia, contadina e sottoproletaria ormai non interessava più, e che
era meglio darsi al futile, o addirittura al “cheap”.
Con intenti scientifici, beninteso. Non si può mica
parlare di James Bond senza avere prima conquistato
una cattedra universitaria! Una persona seria fa il suo tiXVIII
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rocinio, mettiamo, all’università di Detroit, dove insegna, in perfetto inglese bostoniano, storia della cultura
europea, poi ritorna in Italia e ti pubblica, là, un bel libro
sui fumetti. Gulp! dicono i suoi amici, hai visto dove è
andato a finire il Roberto? Per James Bond si adunano
convegni, consessi, simposi e tavole tonde, e si spiega il
fenomeno in termini freudian-marxisti: sarà un razzista,
l’eroe? O semplicemente un omosessuale inconsapevole? Una cosa è chiara, bisogna studiarlo: quando un fenomeno muove un milione di persone, è cosa seria, e va
studiato. Già, ma allora perché non parlate, si fa per dire,
del divorzio, o della masturbazione prematrimoniale?
(Anche Rita cresce, rubrica Telebianciardi, in ABC,
Milano, VI, 49, 5 dicembre 1965, p. 15)
Così Bianciardi finisce per diventare uno strambo intellettuale, un moralista vecchio tipo, che fustiga dalla scarsa altezza di una rubrica di critica televisiva il malcostume
culturale, la tv leggera del varietà, la canzonetta e al contrario difende i programmi educativi di TeleScuola, gli sceneggiati più tradizionali, le rubriche libresche. Allo stesso
modo gli torna utile il Risorgimento, rievocato nostalgicamente come speranza non ancora tradita in articoli, interventi e soprattutto nel romanzo storico La battaglia soda,
uscito dopo il grande successo de La vita agra e diversissimo
per temi e stile non solo da quest’ultimo, ma da tutta la sua
produzione narrativa.
Accanto a questo sta l’ossessione per la filologia, che
passa attraverso i suoi curiosi abbecedari nella già ricordata rubrica Parliamo di Milano su Il Giorno dei primi sessanta, nei quali prende in giro le nuove mode verbali. Le
parole sono l’idea fissa al centro del suo delirio autoreferenziale: smascherarne il senso, mostrare il sipario e la buca
del suggeritore; additare i vezzi e le mode verbali non serve
ad altro che a demistificare una volta di più la figura dell’intellettuale impegnato, moderno.
Anni dopo, quando la rivista Automark lo invierà a testare la nuova FIAT 125 sulle piste del deserto marocchino,
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Bianciardi tornerà indietro con una serie di articoli poi
confluiti nel volumetto Viaggio in Barberia, del tutto reticenti sulle prestazioni dell’automobile – peraltro non aveva
neanche la patente – ma estremamente prolissi riguardo
l’etimologia dell’arabo e del francese parlati laggiù.
In questo testo Bianciardi, meno autosorvegliato del
solito, scavalca il suo io opaco e mostra forse un sintomo
della reale origine di tutte queste ossessioni e idiosincrasie:
Un bambino di dieci anni non può sapere che cosa
sia un tagliacarte, perché ormai i libri si confezionano
tutti già tagliati. Libro intonso, ecco un’espressione ormai priva di significato. Carta assorbente, altra parola
quasi desueta, dopo il gran diffondersi delle penne a sfera. E delle macchine per scrivere. Scaldino. Gazzosa con
pallina. Sfrombola. Qua si diventa vecchi. E cominciamo
a capire che questa scorribanda in Barberia è anche un
viaggio nella memoria. Cioè nell’infanzia.
(Viaggio in Barberia p. 1386)
In questo non fa altro, al solito, che rimasticarsi.
Bianciardi è un nostalgico. Rimane legato al Risorgimento solo perché è il primo oggetto narrativo e politico che
incontra nella sua vita, una specie di imprinting rafforzato
dalla tradizione filogaribaldina della Maremma. La sua
madeleine è quel libretto, I mille di Giuseppe Bandi, che il
papà gli regala non appena impara a leggere – probabilmente se il libretto fosse stato sulla Rivoluzione francese,
sarebbe stato questo il suo interesse ossessivo.
L’intera esperienza intellettuale e politica di Bianciardi
potrebbe peraltro essere definita come garibaldina, una
epopea eroica, tragica e solitaria. Un’altra grande impresa,
fare l’Italia, che finisce con una solenne disillusione: l’accettazione della ragion di stato. Ma garibaldina anche nel
senso più popolare del termine: velleitaria, avventurista,
senza niente da perdere.
Detto questo, il Risorgimento, se si eccettuano in parte
le ricostruzioni storico-divulgative di Da Quarto aTorino
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e Garibaldi, sembra ricorrere nella produzione bianciardiana sempre con valore di metafora; sovente in riferimento all’unica guerra e al successivo dopoguerra che egli abbia
realmente vissuto.
È rivelatore che tra tutti gli intellettuali, artisti e scrittori che sono passati, in modi diversi, attraverso l’esperienza della Seconda guerra mondiale, Bianciardi spicchi per la
reticenza al riguardo. La guerra non compare nei suoi
scritti pubblicati, se non dissimulata nella cornice risorgimentale, ma significativamente occupa gran parte dei suoi
Diari giovanili 1939-1946.
Come per molti altri della sua generazione Bianciardi
è costretto a diventare adulto d’un botto. Prova ne sia il radicale cambiamento di stile e di attitudine nella compilazione dei Diari giovanili, divisibili in due grandi capitoli:
gli anni dell’università (39-42) e quelli della guerra (4346). Si passa da un romanticismo liceale e goliardico a una
cronaca precisa e programmatica. Se per i primi anni di
università si trattava di raccogliere a posteriori noticine,
lettere d’amore, parodie di grandi poeti, ora Bianciardi,
sottufficiale dell’Esercito, dice chiaramente qual è il suo
progetto:
Un giorno mi venne in mente di raccontare i fatti che
stavo vivendo isolandoli e sorprendendoli in una atmosfera immobile, e mi ci provai: rimase un tentativo. […]
Mi provo dunque a raccontare quello che mi è accaduto,
dentro e fuori, nei sei mesi densi e pieni che vanno da 6
luglio del ’43 al 18 gennaio ’44. Una serie di esperienze
diverse, tragiche e comiche, che hanno agito profondamente su di me. Alla fine dove sarà possibile, voglio raccontare senza commenti (ed ora che son distante è più
facile) perché non ho ancora del tutto lasciata la vecchia
pretesa di tirarne fuori qualcosa di “narrato” (novella o
romanzo che sia). Chissà che ritornando sopra a queste
note frettolose, e conclusa anche questa attuale esperienza non mi provi…
(Diari giovanili, 1944)
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Leggendo i diari è quindi ancora più sorprendente l’assenza della guerra nella sua produzione matura. Evidentemente Bianciardi sembra non essere in grado di praticare
quell’arte del distacco che egli stesso reputa necessaria per
permettere a un romanziere di parlare di qualcosa di così
sconvolgente e totalizzante come la guerra. Rimane solo una
volontà; di concreto non c’è che il diario, il cui stile lirico e
privo di cinismo Bianciardi non ritroverà mai più. Spicca
tuttavia la visibilissima assenza di qualsiasi riferimento al
fascismo, se si eccettua quell’unica allusione nel Trattato
breve in difesa della bestemmia, la quale, scrive Bianciardi, “sarà prova d’indomito desiderio di vero e di libertà se
borbottata fra i denti dinanzi al ritratto di Mussolini.”
Anche nei Diari precedenti al ’43, quando nel gennaio
viene chiamato alle armi, non c’è alcun cenno alla guerra,
al fascismo e appunto alla sua prossima chiamata. Fatto oltremodo strano per un giovane studente di filosofia almeno
quanto la sua accettazione dello status quo senza apparenti
dubbi. Anni dopo Bianciardi, in una serie di articoli pubblicati nel 1952 su Belfagor intitolati Nascita di uomini democratici, rielabora la sua formazione politica proprio rileggendo i suoi Diari giovanili 1939-1946:
La mia reazione al fascismo, in questo senso condivisa da tre o quattro miei compagni di classe, era di tono
genericamente liberale; la nostra avversione andava agli
aspetti di tirannide e di intolleranza del fascismo, alla
soppressione delle libertà democratiche, ma più esattamente forse alla comprensione della libertà in senso assoluto. Se rileggo certe mie note ingenue di allora, mi accorgo proprio di questo senso individualistico, esclusivo,
e perciò astratto, della mia libertà a diciotto anni. E a rigore non poteva essere altrimenti: non potevo prescindere da quell’esperienza, come non potevo prescindere
dall’esperienza crociana.
[…] Il mio liberalsocialismo del ’41 e del ’42, quanto
a manifestazioni concrete, fu del resto ben poca cosa:
qualche riunione furtiva in una cameretta della NormaXXII
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le, contatti fra Pisa e la mia città, dove mi incontravo anche con Geno Pampaloni e con Tullio Mazzoncini, qualche privata e goliardica alzata d’ingegno (una volta scrissi una lettera a Mussolini, chiedendogli le dimissioni, dopo quelle di Badoglio) e nulla più. [...] …il richiamo alle
armi, all’inizio di quel tragico e denso 1943, mi colse impreparato. Molto ingenuamente, io decisi di accettare la
vita militare come una prova di disciplina e di equilibrio.
(Nascita di uomini democratici, in Belfagor, MessinaFirenze, VII, 4, 31 luglio 1952, pp. 466-471)
La diserzione si presenta alla mente di Bianciardi come
una possibilità del tutto nuova e lontana dai valori Risorgimentali appresi da suo padre:
Appunto un contadino calabrese, analfabeta e primitivo, avevo conosciuto in quei giorni tragici. Sarebbe ritornato a casa, mi diceva, per nascondersi e non ripresentarsi mai più sotto le armi. Sua nonna lo aveva spesso
incitato a disertare. […] Fin da piccolo avevo sentito
questa parola, pronunziata da mio padre con orrore e
disprezzo […] e credevo veramente che la diserzione
fosse un grave reato: ora cominciavo a capire che nell’atteggiamento della contadina calabrese c’era un’elementare reazione difensiva, perfettamente legittima.
(Nascita di uomini democratici, in Belfagor, MessinaFirenze, VII, 4, 31 luglio 1952, pp. 466-471)
E così la prima delle mille delusioni di Bianciardi riguarda l’esercito, gli ideali di fierezza, lealtà ed “equilibrio”
inculcatigli da un padre bancario che lo voleva ufficiale.
Questa delusione ha una data e un luogo precisi: Foggia,
notte del 22 luglio 1943, il bombardamento alleato più duro e sanguinoso cui dovette assistere il sottufficiale Bianciardi:
Il bombardamento ha un senso tutto particolare,
originalissimo: credo che non sarebbe possibile creare
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artificialmente una città bombardata. Particolarissime
buche, alberi schiantati in una maniera inimitabile, case
sfondate tutte allo stesso modo ed anche i morti, animali
ed uomini, erano caratteristici. Il volto scuro, la pelle colorita di un bruno scuro, come se fossero stati rotolati
nella polvere, i cavalli con la pancia gonfia, enorme.
(Diari giovanili, Locorotondo, Maggio-Giugno 1944)
Se si fa un salto in avanti vengono subito in mente l’esplosione delle miniere di Ribolla e il vagheggiato attentato
al “torracchione”, come a formare la dolorosa trilogia
bianciardiana dei traumi, insieme al bombardamento. E a
ognuno di questi traumi, corrisponderà una rinuncia:
Ci siamo rassegnati a troppe cose, e siccome rinunciare è bello, ma non serve più a nulla quando non c’è più
nulla a cui rinunciare, […] dicemmo a noi stessi che probabilmente ci avevano presi in giro e decidemmo di farla
finita. Tanto è vero che, appena possibile, abbiamo rinunciato anche alla “dignità del signor ufficiale” e ce ne
siamo andati a fare i pastori, gli attori, gli interpreti, i
cuochi, i camerieri, i mandriani, gli insegnanti, i manovali, i meccanici, tutto quel che potesse permetterci di
non portare più le stellette addosso.
(Diari giovanili, Locorotondo, Maggio-Giugno 1944)
6. L’io romantico
Anche la lettura dei Diari inediti del periodo universitario
si rivela interessante. Come detto, in questi ultimi la cesura
tra giovanile romanticismo ed esperienza di guerra avviene
brutalmente: dalle lettere sentimentali, liriche alle colleghe
di corso si passa alla cronaca dei giorni di guerra. Questo
stile romantico e idealista, Bianciardi lo abbandonerà per
sempre, salvo che ne La battaglia soda in cui l’eroe, Giuseppe Bandi si innamora durante una gita a Capri di una giovane americana. Ma Bandi, il garibaldino de I Mille qui
riciclato come ennesimo frammento dell’io opaco, è anche
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un eroe di guerra, anzi è l’antieroe, battuto, come il suo capo Garibaldi, dalla meschinità della ragion di stato dell’arcinemico Cavour e consolato solo da un amore incredibilmente privo di qualsiasi corporeità. Dunque per Bianciardi il recupero del Risorgimento è una sorta di madeleine, al
pari dell’idea giovanile di un amore romantico: non quello
piccolo borghese con la prima moglie Adria; non quello antiborghese e carnale con Maria Jatosti, ma quello idealizzato della giovane incontrata dal protagonista de La battaglia soda. La fascinazione risorgimentale infantile si riallaccia alla vena romantica adolescenziale e all’esperienza
sotto le armi. Per una volta ci sembra di avere accesso all’animo di Luciano Bianciardi, senza alcuna opacità.
Non esiste nella produzione di Bianciardi un vero e
proprio ciclo risorgimentale. Se ne La battaglia soda trionfano nostalgia, amore romantico, speranze non tradite fino
in fondo, in Aprire il fuoco, sovente accostato a esso proprio sulla base di una continuità tematica, si assiste invece
alla caotica distruzione di quell’io opaco che è il centro di
tutta la sua opera. Non più nostalgia, ma rimpianto; non
più amore romantico, ma termini osceni e sesso consumato
rapidamente; non più speranze, ma un tempo eternamente
presente schiacciato tra un passato allucinato e l’attesa di
un segno futuro, quello per l’appunto di “aprire il fuoco”,
che non arriva mai. Nell’ultimo romanzo di Bianciardi
convivono un faticoso tentativo di messa in scena distopica
– la storia di una Milano in cui il Risorgimento non si è mai
compiuto – e l’immobile fissità di un’attesa che ricorda da
vicino quella del tenente Giovanni Drogo ne Il deserto dei
tartari di Buzzati. In Aprire il fuoco assistiamo dunque alla resa definitiva di Bianciardi di fronte al suo io opaco, al
quale sembra non riuscire più a tener testa.
Del resto, nel periodo della stesura del romanzo, le pareti della sua claustrofobica stanza nella casa di Rapallo si
fanno sempre più vicine e minacciose. La convivenza stessa
con la Jatosti – alla quale è dedicato il libro con la poco lusinghiera qualifica di “padrona di casa” – da ancora di salvezza
è diventata la triste routine dell’assediato, del separato in
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casa. La stanza di Bianciardi per la prima volta non è più un
rifugio e nemmeno l’officina degli inizi, ma una cella dalla
quale guarda fiducioso verso l’orizzonte, sperando di ricevere un segnale. Il cancro che divora il suo corpo raggiunge la
sua macchina per scrivere. L’io opaco muore. Bianciardi finisce i suoi giorni a Milano in una casa nella quale non c’è
neanche più la stanza della macchina per scrivere.
7. Oggetto della modernità
Bianciardi capisce e sperimenta in proprio che l’intellettuale moderno è quello che riesce ad avere una faccia, prima che delle idee; una “figura” prima che dei pensieri riconoscibili, e quindi vendibili. Non esistono le idee dell’uomo
di cultura; c’è solo l’uomo di cultura. A Bianciardi accade
ciò che è normale per qualsiasi “firma”. Ciò che dice in fondo è privo di interesse, l’importante è che sia lui a dirlo. Che
il testo appaia sotto la fotografia da pirata. Che tutti abbiano ben chiaro quanto sia arrabbiato.
Per questo, se si vuole rintracciare la modernità dell’opera di Bianciardi, è forse meglio rivolgersi alla sua stessa
condizione di lavoratore intellettuale. Scorrendo le sue centinaia di critiche televisive scritte per quotidiani (Avanti!,
l’Unità) e periodici anche molto diversi tra loro (L’informatore letterario, ABC, Playmen) risulta subito chiaro
come la loro collocazione sia al livello delle fonti e non degli
studi. Bianciardi non è moderno, è un oggetto della modernità. Interessanti non sono quasi mai le idee di Bianciardi
sulla televisione – nonostante Eco gli tributi un debito di
riconoscenza per la sua celebre Fenomenologia di Mike
Buongiorno – ma il suo renderci l’epoca e soprattutto se
stesso: la condizione di intellettuale il cui lavoro consiste nel
passare la serata davanti alla tv bevendo grappini. Bianciardi non si avvicina alla televisione perché ne individua il
potenziale rivoluzionario; scrive di televisione perché gli
capita di vederla, in questo confermando una tendenza che
sembra attraversare tutta la sua opera, riflesso incondizionato della pratica delle sue giornate. Di nuovo Bianciardi è
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oggetto di modernità: gran precursore del pubblico televisivo odierno: atomizzato, individualizzato, narcotizzato. La
sera non frequenta qualche comunità intellettuale. Sta a
casa. Con la famiglia, a guardare la tv.
Bianciardi diventa un campione di quell’industria
culturale del boom che i suoi colleghi “impegnati” studiano con i nuovi mezzi di cui sopra. Esibito (le foto, l’arrabbiato di professione, ecc.) e al tempo stesso nascostissimo
(l’oscuro traduttore, spesso sotto pseudonimo di manuali
per segretarie e narrativa ultrapopolare americana). Il suo
io opaco è una specie di crasi assurda del suo disinteresse
verso lo studio della modernità e del suo diventare oggetto
di studio, o addirittura una sorta di “corpo del reato”
quando, a causa del racconto La solita zuppa, viene accusato di oscenità. L’appartenenza di Bianciardi alla comunità intellettuale del tempo è un’appartenenza scandalosa. Eccomi, sono qua con tutta la mia tristezza, sono tutti
voi. È inutile che vi sediate a bere Martini parlando di
Darstellung dal momento che siete come me coi miei
grappini davanti alla Cronaca differita del Secondo
Tempo di una partita del Campionato di Serie A. Se volete ridere, ridete pure.
Questo continuo mettersi in scena è l’articolazione che
ci permette di passare dall’analisi della sua pratica quotidiana alla comprensione del suo stile di scrittura. L’invenzione dell’io opaco si contraddistingue innanzitutto per
una netta differenza dagli altri io narrativi classici o del
primo Novecento. L’io proustiano, dostojevskiano, joyciano, sveviano, sono io che si guardano dentro. L’io opaco di
Bianciardi è un io estroflesso, che si guarda da casa, dalla
sua postazione alla macchina da scrivere si insegue nel suo
aggirarsi per il mondo, nel suo assolvere alla funzione di intellettuale a cottimo: apro una porta e c’è una riunione,
torno a casa e le macchine mi schiacciano contro il muro. È
uno sguardo in terza persona perché in qualche modo
Bianciardi non ha alcuna solidarietà profonda con questo
io e quindi deve estrofletterlo, senza tuttavia trasformarlo
in un proprio alter ego, in un’invenzione letteraria. È solo
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mera funzione: in questo forse troviamo la vera modernità
della sua scrittura. Quasi come in un fumetto, in Bianciardi non c’è alcuno spazio per l’analisi psicologica. L’io opaco
esiste in quanto funzione e non finzione narrativa. Non c’è
alcuno spazio per la letteratura, per la fiction. Bianciardi
lavora alla macchina per scrivere dalla mattina alla sera in
questa specie di miniera che è Milano, dove si scava un fosso solo per riempire una buca:
Intanto sono arrivati gli operai coi picconi e scavano
la fossa. […]
Aperta la buca, se ne vanno. Il giorno dopo altri operai provvedono a rimettere a posto la terra scavata, che
risulta sempre troppa e fa montarozzo, sicché bisogna far
venire il rullo compressore a schiacciarla, e poi un’altra
macchina a stendere altro asfalto, bitume e ghiaino. Gli
scavatori intanto si sono spostati un poco più in là, sempre sul marciapiede, e scavano una fossa nuova, che sarà
riempita puntualmente il giorno dopo.
Nessuno ha mai saputo perché facciano queste fosse.
[…] Che cosa ci sia sotto nessuno l’ha mai capito bene,
ma intanto, dicono, ci ha lavorato un branco di gente, e
come si sa il lavoro fa circolare la grana, l’operaio spende
i dané e se ne avvantaggiano tutti.
Per motivi di ricerca sociologica ho provato anch’io,
una volta, a mettermi panni dimessi, camicia senza colletto, calzoni turchini sporchi di calce, la barba lunga e i
capelli scarruffati. Ho provato, in questa tenuta, e munito di piccone, paline bianche e rosse a strisce e lanternino
cieco per la notte – scelto un altro quartiere perché qui
ormai mi conoscono – ho provato a scavare uno spicchio
di strada, e poi a lasciarci la buca. Nessuno me lo ha vietato, e anzi il giorno dopo c’erano operai a disfare il mio
lavoro, a riempire la mia buca, guidati da un geometra in
camicia bianca ma senza cravatta, serio. «Che lavori sono?» chiesi, e lui fece un gesto vago, senza rispondere. Mi
pagarono anche la giornata, quando mi presentai all’ufficio tecnico comunale, poco ma me la pagarono, e io
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conservo il mandato e posso anche esibirlo a richiesta, se
qualcuno non ci crede.
(La vita agra, pp. 706-707)
Insomma, è una specie di Fantozzi. Si alza al mattino
solo per mettersi alla macchina da scrivere, che non abbandona neanche quando a fine lavoro scrive lettere a sua madre. Finisce di lavorare ma è come se non riuscisse mai ad
allontanarsi dal suo gesto ossessivo e ripetuto, dal suo strumento di lavoro e di schiavitù, la macchina per scrivere,
simbolo estremo della modernità e dell’industrial design
milanese, gadget dell’utopia industriale olivettiana. Tant’è
vero che Bianciardi tratterà sempre quell’oggetto da par
suo, desacralizzandolo totalmente: “‘tiro il carrello’ da mane a sera” dice di sé citando Gianni Brera.
Bianciardi sta in qualche modo in mezzo a due figure,
l’operaio e l’intellettuale, vivendone i drammi più dolorosi:
non ha l’adesione morale e psicologica al suo lavoro tipica
dell’intellettuale impegnato (che quindi accetta, e forse gode dell’assenza di una linea netta di demarcazione tra vita
e lavoro) né la possibilità di esserne veramente alienato, come l’operaio che però, finito il turno, finalmente vive. Sta
giusto in mezzo. Forse nel futuro. Il suo lavoro è genuinamente alienato e coincide con tutta la sua vita. Nessuna rivoluzione potrà liberarlo dal suo giogo. Al limite, la scarsamente probabile rivoluzione neocristiana “a sfondo disattivistico e copulatorio”, progettata ne La vita agra. Giacché il
sesso sembra essere l’unico spazio eccentrico rispetto al suo
tran-tran da intellettuale a cottimo. Non a caso nella fase
conclusiva della sua vita l’ultimo sussulto militante sarà in
favore di pillole e divorzio, battaglie sovente combattute
dalle pagine di riviste erotico-culturali come Playmen o
Executive. Bianciardi coltiva l’idea della pornografia come
ultima liberazione. Per lui il sesso è appunto “esterno” alla
macchina stritolatrice: l’idea mostra tutta la sua ingenuità
e al tempo stesso il suo debito nei confronti di Henry Miller,
da lui tradotto, difeso dalle accuse di oscenità e sempre stimato, pubblicamente, come il migliore.
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8. Il menisco
Oltre al sesso, Bianciardi ama il pallone. Anche in questo
caso non sembra essere mosso da un interesse sociologico o
scientifico verso un fenomeno di massa, cultural-popolare.
L’amore per il calcio, così come quello per il sesso, è uno dei
pochi temi che attraversa naturalmente tutta la sua produzione. Solo che a differenza del sesso, il calcio non sembra
mai essere toccato dalle sconfitte, dalle svolte della sua vita.
La passione insorge in tenera età. Tifa Fiorentina. Sua
figlia Luciana conserva ancora tra le vecchie carte del padre
un tema di quinta elementare intitolato Il mio gioco preferito, ovviamente il calcio. Anche il piacere di raccontarlo è
una passione giovanile: tra le primissime collaborazioni per
La Gazzetta di Livorno nel 1952 ci sono pezzi di argomento
calcistico e in generale sportivo. In uno di questi, Bianciardi
arriva a riscrivere una genesi autobiografica di questa passione, del tutto falsa – gli piace dare quattro calci a un pallone, ma non è mai stato calciatore, nemmeno dilettante –
ma rivelatrice al tempo stesso. Esistono almeno cinque versioni – e innumerevoli autocitazioni – di un racconto, Menisco fragile, nel quale l’io opaco ci mette a conoscenza di
come, promettente calciatore e figlio di portiere professionista, abbandoni infine la carriera per un infortunio al menisco. Ma non solo il padre non è mai stato un portiere di calcio, anche tutta la vicenda del menisco, della speranza di
diventare giocatore professionista è una semplice proiezione di un desiderio. Eppure, su questa vicenda apparentemente marginale del menisco, sembra incrinarsi di nuovo
la tenuta dell’io opaco. Intanto perché subito viene da chiedersi se la storia sia vera oppure no, fatto inusuale per il lettore di Bianciardi. Bianciardi stesso in alcune versioni spinge verso la finzionalità – il protagonista finisce medico; in
altre non dà elementi utili a dissolvere il dubbio. In ogni caso non mette in scena un alter ego calciatore; propone invece una versione alternativa della sua biografia, il cui cardine non è che una nuova delusione, un desiderio frustrato.
Quando racconta di calcio, Bianciardi non ha nulla da
dimostrare, nessuna particolare competenza da far valere,
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ma solo la necessità di usarsi come mezzo espressivo, di
guardarsi guardare una partita di calcio e a volte neanche
quella. Va a Mosca in treno a seguire la nazionale e racconta della sua ritrosia al viaggio. Va a vedere la finale di Coppa del Mondo a Wembley e si intestardisce a parlare del suo
vicino di posto; sul Guerin sportivo di Brera dopo una singola apparizione come cronista della partita di cartello (è
la sua Fiorentina e, per colmo di sventura nell’anno dello
scudetto, pareggia malamente zero a zero) viene dirottato
alla rubrica delle lettere dove si diverte ad accostare personaggi dell’oggi, non sempre calcistici, a eroi risorgimentali.
Esibisce spesso la sua amicizia con “Giorgio Ghezzi di Cesenatico”, portiere del Milan, anche se uno dei suoi eroi è
Manlio Scopigno, tecnico del Cagliari scudettato, amato
soprattutto per la sua propensione alla filosofia, alla bottiglia e alla libertà sessuale, sua e dei suoi giocatori, tema
quest’ultimo di due racconti “calcistici” di Bianciardi, Il ritiro e Il prete.
La vicinanza tra sesso e calcio nell’universo bianciardiano sottolinea l’attitudine ludica con la quale si avvicinava a questi due meravigliosi fenomeni naturali. Con il
sesso (ai tempi della sua “militanza” pro divorzista nelle
riviste erotico-culturali di fine sessanta) e con il calcio,
(anche con l’estremo tentativo della rubrica delle lettere
al Guerino), Bianciardi rintraccia un minimo senso di
appartenenza a una qualche comunità che non può che
essere non impegnata, non ideologica, in ultima analisi
ludica.
Io, come al solito gioco centromediano, metodista.
Oggi si dice centrocampista. Coordino, imposto, a volte
concludo. Stop di ginocchio, finta di corpo al piccoletto,
che ormai non ride più perché con la palla regolamentare sono io che lo dribblo, palla all’ala, che centra, testa e
rete. Schema classico. Ma lo scatto non è più quello di un
tempo, il fiato neanche, ogni tanto debbo fermarmi a riprenderlo.
(Viaggio in Barberia, p. 1427)
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9. Esistenzialista
Il mondo di Bianciardi è pervaso dal dolore di una ferita
originaria e via via incarnata nella storia: il bombardamento di Foggia, l’esplosione della miniera, il tradimento
degli ideali risorgimentali, in un quadro di sconfitta, di caduta esistenziale irrimediabile. Ogni secondo della sua vita
e della sua scrittura è posteriore a questa caduta e prende la
forma classica di un futuro negato. La sua attitudine all’incompletezza, alla perdita, alla nostalgia si concretizza nell’impossibilità a far fruttare uno solo dei suoi talenti, di
rendere completa una sola delle sue relazioni e sembra inscriversi nel quadro di una forzata adesione alla concezione
esistenzialista dell’uomo. Ma Bianciardi non è un filosofo,
al contrario è il protagonista di un romanzo esistenzialista.
Oppure è una specie di figura cristologica, il cui calvario coincide con la carriera tipica dell’intellettuale del tempo: l’estrazione provinciale, la formazione universitaria, le
prime collaborazioni ai fogli locali, infine il grande salto
verso la metropoli, il successo, i compromessi, la tarda decadenza. La pratica di questo calvario senza redenzione è tuttavia da colletto bianco, impiegatizia, fantozziana per
l’appunto. Bianciardi finisce per essere stritolato dall’universo cui si è adeguato perché non riesce a prendere una distanza, a guardarsi veramente dall’esterno, a provare
un’autoanalisi. Né sembra mai problematizzare le sue scelte, sdoppiarsi in una istanza superiore in grado di giudicarle per individuare una via d’uscita. Probabilmente questo tipo di pensieri erano proprio quelli che lui cercava di
scacciare, di giorno alienandosi alla macchina da scrivere,
la sera davanti alla tivù, e di notte con le sue infinite grappe. Bianciardi, se si eccettua un significativo passo giovanile, non si pronuncia su questa angoscia, sul non senso, sull’assurdità del proprio vivere; per l’appunto vive tutto come figura cristologica. E non se ne redime.
Ho sempre avuto, a momenti, l’ossessione dell’Io, la
noia angosciosa di essere sempre presente a me stesso.
Lavoro, mangio, passeggio, mi diverto, ma solo sempre
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in compagnia di un me stesso che mi guarda, mi sorveglia, e non si stacca mai. Solo nel sonno senza fantasmi
mi libero del secondo me stesso: e allora benedico quelle
poche ore di vera solitudine.
(Diari giovanili, Forlì, luglio 1945)
Nonostante l’accenno al sonno come unica possibilità
di evasione da se stessi ritorni nella conclusione de La vita
agra (“Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono
più” La vita agra p. 732 ), non esiste nella produzione ufficiale di Bianciardi un passo che possa in qualche modo ricollegarsi a questo. Eppure sembra che qui sia riassunta efficacemente non solo la sua vita, ma anche la sua scrittura
e, in primo luogo, l’invenzione dell’io opaco attraverso il
quale prova a oggettivare quest’io che lo accompagna e, al
contempo, a uccidere quello che lo guarda davvero da lontano, da sopra, da dentro: l’io interiore.
10. Scavare una buca per riempire un fosso
Tutta l’opera di Bianciardi, la costruzione del personaggio
di intellettuale vessato e impotente, è una visione del futuro. Nel 2005 questo è il lavoro culturale: una semplice funzione/finzione dell’economia. Bianciardi, modernamente, non racconta tutto ciò, lo mette in scena. Per un uomo
dotato del suo innegabile talento e cultura, l’idea fissa di fare il traduttore a cottimo, di scrivere scampoli di articoli per
i giornali e di mandarli col titolo cambiato a tre riviste diverse ci dice questo: l’intellettuale non appartiene a una
classe separata; si arrangia. Come tutti gli altri.
Non si può non vedere una certa autoindulgenza nel rassegnarsi alla mancanza di senso del lavoro dell’intellettuale.
Bianciardi si rinchiude in una stanza. E scrive dell’essersi
rinchiuso in una stanza a scrivere. È come un carcerato: l’iniziale sofferenza segue un momento di pace dovuta alla
totale deresponsabilizzazione. In carcere nessuno può pretendere niente da te. Nessuno deve aspettarsi nulla da lui,
esiliato nel suo raccontare claustrofobico, nessuno spazio
per la letteratura, per una trama o per un meccanismo narXXXIII
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rativo. C’è solo lui, Bianciardi Luciano, intellettuale a cottimo, testimone della sua epoca. Vengono in mente, in ordine sparso, la carriera di assicuratore del regno di Franz
Kafka o le distopie orwelliane. Kafka come Bianciardi scrive di domenica, nelle ore rubate al suo lavoro a cottimo. Ma
non scrive di quello, metabolizza la sua biografia, la sua vita quotidiana trasformandola in incubi. Bianciardi al contrario biografizza il suo difficile metabolismo. Inoltre, se
Kafka si ritrova a fare l’assicuratore, Bianciardi al contrario decide volontariamente di esiliarsi in un menàge lavorativo alienante che non gli lascia alcuno spazio. Rimastica
continuamente brandelli della sua vita quotidiana rimanendo fatalmente intossicato da un veleno che non sembra
appartenere all’anno 1964, bensì al 1984.
Il riconoscimento dell’assenza di spazio al di fuori della
macchina è senz’altro una delle caratteristiche più innovative e preveggenti del doloroso calvario di Luciano Bianciardi. Visto (e letto) da qui, dal 2005, Bianciardi colpisce
per il modo in cui parla di noi; di quelli che lavorano tra le
macerie dell’industria culturale di cui egli aveva già mostrato la faccia liscia; dei lamentosi orfani dell’impegno intellettuale che lui aveva abbandonato nel momento di suo
massimo splendore mediatico; dei precari di ogni tipo di lavoro.
Il carattere totalizzante della macchina non consente
di darsi a essa parzialmente; l’io coincide con la macchina.
Nella sua opera Bianciardi si misura con i nuovi dispositivi
di controllo biopolitico, che coincide con l’affermarsi, proprio in quel tempo, della società dei consumi. Egli si misura
con essa a partire dalla sua posizione in qualche modo atipica. In Bianciardi, l’annuncio del postmoderno si qualifica col suo essere ostentatamente pre-moderno, ottocentesco, risorgimentale. Le sue armi spuntate di moralista sono
tragicamente vane se commisurate al loro campo d’azione.
In Bianciardi il postmoderno, giammai ridotto ad annuncio di un tempo pacificato e men che meno a regola d’astrazione, teoria, armamentario concettuale, prende invece le
forme di un corpo, il suo, crocefisso col chiodo della moderXXXIV
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L’io opaco
nissima routine milanese.
Tradurre a cottimo e uscire poi per strada a guardare i
nuovi “operai” della grande fabbrica milanese che non
sanno di essere tali. Bianciardi non prova neanche a convincerli; fin da subito decide, o non può altro che il sacrificio. Vede quello che gli altri non vedono e non trova altro
mezzo per esprimersi se non quello di appartarsi su un personalissimo calvario, nella tipica indifferenza della città:
«C’è un ubriaco là per terra.»
«E allora?»
«Datemi una mano a rialzarlo.»
«Si rialzerà da sé.»
«Non ce la fa. L’ho aiutato io, ma m’è ricaduto e perde
sangue.»
«E noi cosa ci entriamo? È successo a lei, no? Se la veda lei.» E riattaccarono a giocare a carte.
(La vita agra, p. 649)
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a cura di Luciana Bianciardi
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1922-1931
Luciano Bianciardi nasce a Grosseto, il 14 dicembre,
da Adele Guidi, insegnante elementare, e Atide, cassiere
alla locale Banca Toscana. Fin dai primissimi anni la madre pretende da lui eccellenza negli studi (“io sono stato
suo alunno, prima che figlio, per la bellezza di trentadue
anni. È come avere una ‘maestra a vita’, e le maestre a vita
non sono comode”) mentre il padre stabilisce con lui un
rapporto di parità (“mi diceva ‘amico’ fin da quando ero
bambino, e ogni volta ne ero orgoglioso”). Nel tempo libero, Luciano studia il violoncello e le lingue straniere.
Lettore accanito, a otto anni riceve in regalo il libro che
amerà di più in assoluto per tutta la vita, I Mille di Giuseppe Bandi, la storia della spedizione di Garibaldi raccontata da un garibaldino: e per tutta la vita coltiverà
l’interesse e l’amore per il Risorgimento.
1932-1942
Compie gli studi a Grosseto, frequenta il Ginnasio e
poi il Liceo Classico Carducci-Ricasoli (“Non trascorsi
anni sereni: sgobbai perdutamente per diventare il ‘primo della classe’, e ci riuscii, senza peraltro capire niente
di quello che studiavo. La retorica imperversava anche
nell’insegnamento della letteratura italiana: il nostro
professore ci spacciava per Omero la grancassa ottocentesca del Monti... I componimenti scritti erano poi la vera fiera dell’impudenza; non mi pare che fossero altro se
non una crescente variazione di aggettivi roboanti sui
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medesimi temi”). Dopo la promozione alla terza liceo,
decide di dare l’esame di maturità in quello stesso anno e
lo supera nella sessione autunnale. In novembre, non ancora diciottenne, si iscrive all’Università di Pisa, Facoltà
di Lettere e Filosofia; frequenta le lezioni di Aldo Capitini, Guido Calogero e Luigi Russo, studia sodo, si fa qualche amico. (“Ricordo tra di loro Umberto Comi e Nino
Maccarone: parlammo insieme, specialmente con il secondo, piuttosto a lungo, ma non c’intendemmo, neppure dopo che ebbi ‘scoperto’ l’esistenza del problema
della giustizia, accanto a quello della libertà. Non c’intendemmo perché, appunto, la mia fu una scoperta tecnica, una deduzione che avevo svolto con l’aiuto e sotto il
controllo di Guido Calogero, che mi fu maestro, tra l’altro, di liberalsocialismo. Molti giovani della Scuola Normale erano allora liberalsocialisti – il termine già circolava, pur ignorando noi tutti chi lo avesse costruito; oggi
essi sono in gran parte passati al partito comunista – ricordo, perché mi furono più vicini, Nicola Vaccaro e
Giorgio Piovano – ma credo che l’origine liberalsocialista conservi ancora, per loro, un significato, come lo conserva per me. Il mio liberalsocialismo del ’41 e del ’42,
quanto a manifestazioni concrete, fu del resto ben poca
cosa: qualche riunione furtiva in una cameretta della
Normale, contatti tra Pisa e la mia città, dove mi incontravo con Geno Pampaloni e Tullio Mazzoncini, qualche
privata e goliardica alzata d’ingegno – una volta scrissi
una lettera a Mussolini, chiedendogli le dimissioni, dopo
quelle di Badoglio – e nulla più”).
1943-1947
Alla fine di gennaio del 1943 viene chiamato alle armi: dopo un breve periodo di addestramento come allievo ufficiale, parte per la Puglia, dove il 22 luglio assiste al
bombardamento di Foggia. (“Il richiamo alle armi, all’inizio di quel tragico e denso 1943, mi colse impreparato.
Molto ingenuamente, io decisi di accettare la vita militare come una prova di disciplina e di equilibrio. Credevo
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che la scuola allievi ufficiali, con la sua signorile miseria
quotidiana, avesse proprio questa funzione, ed ebbi fiducia nei superiori, gli ufficiali di carriera che ci parlavano
ogni giorno di onore e di coraggio, di Patria e di Sovrano,
ma soprattutto della dignità di chiamarsi ‘signori ufficiali’. Non fu necessario attendere a lungo, per vedere quale
fosse la verità: certe orribili giornate pugliesi dell’estate e
dell’autunno di quell’anno mi rivelarono lo sfacelo.”)
Dopo 1’8 settembre, si aggrega a un reparto di soldati inglesi, la 508.va compagnia nebbiogeni, in qualità di interprete, e si trasferisce a Forlì, poi finalmente torna a casa, a Grosseto. Nel novembre dello stesso anno riprende
gli studi universitari alla Scuola Normale di Pisa, alla
quale viene ammesso in seguito a un concorso bandito
per i reduci. Nel frattempo, nell’autunno del ’45, si iscrive al partito d’azione: “Io mi ero iscritto – c’è bisogno di
dirlo? – al partito d’azione, il quale partito non è facile
ora dire che cosa sia stato, anche perché fu molte, troppe
cose. Mi pare però di poter dire che fu un altro tentativo
di governo (l’ultimo?) della piccola borghesia intellettuale. Cadde per le contraddizioni interne e per la incapacità ormai accertata del nostro ceto, privo di contatti
con gli strati operai e quindi largamente disposto a tutti
gli sterili intellettualismi ed alla costruzione gratuita di
problemi astratti”. Nel ’47, quando il partito si scioglie,
Bianciardi prova una forte delusione, tanto da non voler
più in seguito iscriversi a nessun partito politico.
1948-1950
Nel febbraio del 1948 si laurea discutendo con Guido
Calogero una tesi di laurea su John Dewey. Nell’aprile
dello stesso anno sposa Adria Belardi e nell’ottobre del
1949 nasce il primo figlio, Ettore. (“Venne anche mio padre, quel giorno, accanto alla nuova culla, e parlammo
della nostra vita, e di quella nuova vita che era nata ora.
Dovemmo concludere che avevamo fallito, lui ed io, e
forse anche suo padre, se c’erano state due guerre mondiali con tanti morti, e la miseria e la fame, e così scarsa
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sicurezza di vita e di lavoro e di libertà per gli uomini del
mondo. Io conclusi che non doveva più accadere tutto
questo, che non volevo che mio figlio, come me e come
mio padre, rischiasse un giorno di morire o di uccidere,
di soffrire la fame o di finire in carcere per avere idee sue,
libere. Non potevo neppure più rinunciare ad avere fiducia nel mio mondo e nei miei simili, chiudermi in un bel
giardinetto umanistico e di ozio incredulo, soddisfatto
dell’aforisma che al mondo non c’è nulla di vero. Dovevo
scegliere, la presenza di mio figlio me lo imponeva, non
potevo neppure pensare di risolvere il problema individualmente, o di rimandarlo a più tardi, cercare, al momento buono, di truffare l’Ufficio leva, o creare per mio
figlio una situazione di privilegio, far di lui ‘il primo della
classe’, come aveva voluto mia madre. Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per
tutti i bambini del mondo, anche questo mi pareva abbastanza chiaro... non basta essere soli col proprio lavoro e
con la propria miseria, ci vuole anche un figlio per desiderare l’avvenire e lavorare a costruirlo.”) Dopo aver insegnato per qualche anno inglese in una scuola media,
diventa professore di storia e filosofia al Liceo Classico di
Grosseto, lo stesso che aveva frequentato come studente.
1951-1953
Nel ’51 accetta l’incarico di direttore della locale Biblioteca Chelliana, semidistrutta dai bombardamenti e
dall’alluvione del ’46, crea il Bibliobus, un furgone carico
di libri della Biblioteca che viaggia per la campagna grossetana andando a raggiungere anche i paesi più isolati. Si
occupa attivamente di un cineclub, organizza cicli di
conferenze e dibattiti. Insieme a Carlo Cassola, che in
quegli anni appunto si era stabilito a Grosseto, partecipa
alla creazione del “Movimento di Unità Popolare” e si
schiera contro la cosiddetta “legge truffa”. Nel ’52 Umberto Comi, ex compagno di Università, assume la direzione della Gazzetta di Livorno e invita Bianciardi a collaborare con la rubrica “Incontri Provinciali”. Nello stesXLII
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so periodo comincia a collaborare anche a Belfagor, all’Avanti! e, nel 1953, a II Mondo; nel ’54, chiamato da Salinari e Trombadori, inizierà la collaborazione con II
Contemporaneo.
1954
Insieme con Cassola, Bianciardi scrive per l’Avanti!
un’inchiesta sulle condizioni di vita dei minatori; con il
Bibliobus, i due si recano spesso a Ribolla, un piccolo agglomerato di case di minatori nei pressi di Grosseto;
Bianciardi si informa sulle condizioni di lavoro dei minatori, parla con loro, li intervista, scrive le loro biografie, ne diventa amico. Il 4 maggio 1954 uno dei pozzi di
Ribolla salta in aria per un’esplosione di grisù: per Bianciardi è qualcosa di più che non un incidente, sia pur terribile: è una frattura, la tragica fine di un periodo. (“E
quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata se ne
andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante
macchine sugli sterrati. Io mi ritrovai solo sugli scalini
dello spaccio che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.”)
Quando Trombadori gli chiede la disponibilità per partecipare alla costituzione di una nuova casa editrice, la
Feltrinelli, accetta immediatamente e parte per Milano.
1955
Nell’aprile gli nasce la figlia Luciana. Comincia a collaborare a Nuovi Argomenti e a l’Unità. Nel frattempo lo
raggiunge a Milano Maria Jatosti, che sarà sua compagna
di vita per più di quindici anni e che gli darà il terzo figlio, Marcello, nato nel 1958.
1956
Con Carlo Cassola pubblica presso Laterza I minatori della Maremma. Intanto comincia a lavorare a Cinema
Nuovo, rivista diretta da Guido Aristarco e finanziata da
Feltrinelli, ma dopo pochi anni passa alla redazione della
casa editrice vera e propria, insieme a Giampiero Brega,
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Valerio Riva e Luigi Diemoz, con Fabrizo Onofri come
caporedattore. Sarà proprio lui a offrirgli la traduzione
de Il flagello della svastica, il secondo titolo pubblicato
dalla neonata Feltrinelli, che Bianciardi traduce in pochi
mesi; è l’inizio della carriera di traduttore, che continuerà fino alla morte (“il mio diuturno battonaggio, carte su
carte di ribaltatura”.)
1957-1959
Bianciardi viene licenziato dalla Feltrinelli “per scarso rendimento”. “E mi licenziarono soltanto per via di
questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi
guardo intorno anche quando non è indispensabile”. Feltrinelli gli garantisce però che continuerà ad affidargli lavori di traduzione, e in fondo per Bianciardi è una liberazione: niente orari da rispettare, e soprattutto niente
ipocrisie inutili. “La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una
madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a
dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso.” Parallelamente al lavoro di traduzione, Bianciardi pensa a una cosa tutta sua,
una sorta di autobiografia: nasce così II lavoro culturale,
pubblicato da Feltrinelli nello stesso anno. Nel luglio del
1959, a Chianciano, in dieci giorni di “vacanza traduttoria”, Bianciardi scrive L’integrazione, pubblicato da Bompiani l’ anno seguente.
1960-1963
Bianciardi continua il lavoro di traduzione e “di domenica, solo di domenica” scrive cose sue. Nasce così Da
Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille,
pubblicata da Feltrinelli nel 1960. Traduce entusiasticamente i Tropici di Miller e scrive quello che diventerà il
suo capolavoro: La vita agra. (“In quanto a me, riesco finalmente a lavorare un po’ meno; son riuscito a scrivere
un libro, che ritengo la mia cosa migliore. Calvino ne è
entusiasta, e lo pubblicherebbe anche subito. Si intitola
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La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura,
scritta in prima persona singolare.”) Rizzoli pubblica il
romanzo nel 1962, ed è subito un grande successo: “il libro va veramente molto bene, sia come critica che come
vendite (cinquemila copie in una decina di giorni). Forse
la vita agra stavolta è finita davvero”. De Laurentiis acquista i diritti cinematografici e Lizzani nel 64 ne ricaverà
un film. Bianciardi gira l’Italia per presentare il suo libro,
prova l’euforia del successo e ne è travolto, anche se solo
fino a un certo punto. “Ormai sto girando come un rappresentante di commercio, ho battuto i marciapiedi dell’Emilia e adesso mi preparo a fare la medesima cosa nel
Veneto. Viene con me Domenico Porzio, e a volte sembriamo due comici di avanspettacolo: sempre le stesse
battute, e sempre con l’aria di chi le dice per la prima volta. Mi comincio a vergognare, e perciò ho ricominciato
col solito lavoro di tutti i giorni, per riconquistarmi la
stima di me medesimo.” In ogni caso, mantiene intatta la
sua carica di autoironia: “Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo,
come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero... Ma io non mi concedo”. Dopo aver rifiutato una
collaborazione fissa al Corriere, accetta di scrivere per Il
Giorno, collaborazione che durerà fino al 1966.
1964-1969
Bianciardi decide di abbandonare il filone del presente nella sua narrativa, e recupera il Risorgimento con
il romanzo La battaglia soda, pubblicato da Rizzoli nel
1964. (“il libro sul Bandi... è un grosso tentativo, anche
linguistico... Non so se alla televisione hai visto il Verdi di
Cancogni; be’, lo stile del libro dovrebbe essere un po’
quello, forse meno divulgativo, più approfondito, ma
quello. Gente con la barba (vera) che parla vero, s’incazza, piange, s’appassiona, urla, bestemmia, dice: ‘Chiudi il
becco se non vuoi che te lo chiuda io coi ceffoni che si
scordò di darti tuo padre’. Capisci? Prolissa e retorica anXLV
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che nell’ira, ma sinceramente retorica, sinceramente appassionata. Rispetterò fedelissimamente la storia, per
quanto riguarda i fatti maggiori, i personaggi maggiori.
E per i minori mi rifarò alla cronaca dei tempi nostri, di
personaggi contemporanei. Non so, il sergente parco di
parole ma lesto a intendere e impavido al fuoco si chiamerà Ghezzi, e sarà di Cesenatico, come il portiere del
Milan, che è amico mio.”)
Sempre nel ’64, si trasferisce a Sant’Anna di Rapallo,
in provincia di Genova, una sorta di fuga nella fuga. Si
isola sempre di più, intristisce, rifiuta di portare avanti il
filone che l’aveva reso famoso, la tematica “dell’incazzatura”. (“Sto lavorando, ma per la pagnotta... devo ricominciare a lavorare per Il Giorno, che io speravo di evitare, per diversi motivi, collaboro a Le Ore, tutta roba che
non mi piace molto, ma che altro vuoi fare? Leggo parecchio, la sera, un po’ di tutto... E facciamoci coraggio.”) La
collaborazione iniziata a Le Ore proseguì su ABC, con
una rubrica di critica televisiva, forse la prima di questo
genere, che prese il nome di TeleBianciardi. Nel 1969
escono Aprire il fuoco, Daghela avanti un passo! e Viaggio
in Barberia. Continua le traduzioni e le collaborazioni a
periodici, tra i quali Kent, Executive, Playmen e il Guerin
Sportivo.
1970-1971
Bianciardi torna a Milano; ha ormai imboccato la via
dell’autodistruzione attraverso l’alcol (“sopportatemi,
duro ancora poco”, diceva a chi gli era vicino), che lo porterà alla morte, il 14 novembre 1971, un mese prima del
compimento dei quarantanove anni.
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