fenandel59 10-01-2007 12:36 Pagina 37 rubriche recensiamo i recensori (dodicesima parte) elio paoloni GENERI IL COMICO - «Dio mio, che cosa triste un articolo sul comico» esordiva Luigi Sampietro accingendosi a stendere un articolo per “Il Sole 24 Ore”. «Meglio, certo, una tragedia incompiuta. Un libro sulla crisi dei valori. Ma con il comico da che parte si comincia? Dalla psicanalisi o dal solletico sotto la pianta del piede?». All’inizio aveva pensato di cavarsela copiando un articolo di Giorgio Manganelli scivolato fuori da un volume dello scrittore inglese P.G. Wodehouse. Poi, rammentando che a un certo punto della propria vita Manganelli aveva trovato anche dei lettori, decide di citare la fonte, e virgoletta questa parte: «Wodehouse è uno dei casi più puri, più esemplari, di totale assenza di idee. Ma non crediate che io dica una frase del genere per irridere o, come si dice, ridimensionare l’autore. L’assenza di idee è una delle segrete ambizioni dello scrittore, ed è un obiettivo estremamente arduo, temerario e in definitiva quasi impossibile. È difficile che uno scrittore rinunci a dire la sua sul funzionamento del mondo, sulle ambasce dell’amore e i crucci del sesso, e in genere sulle migliorie che, gratuitamente, egli propone per uno scorrevole ruotare delle galassie. In generale gli scrittori sono convinti di essere letti da Dio e non mancano di lasciar cadere delle giudiziose osservazioni che possono essere utili al grande Vecchio». Sampietro riprende citando Evelyn Waugh: «Wodehouse era nato nel paradiso terrestre, prima della cacciata di Adamo ed Eva». «Prima della storia» aggiunge Sampietro «quando il mondo era uno spazio imperiale da attraN.B. Per non appesantire la lettura mi sono preso la libertà di ricucire brani delle recensioni citate senza evidenziarlo con puntini di sospensione e parentesi. Me ne scuso con gli autori. versare in piroscafo (in prima classe): una bolla nel trascorrere del tempo nel quale i lettori hanno sempre trovato asilo politico. Siamo al grado zero della comicità: lontani da qualsiasi intento satirico, cioè moralistico. Si ride perché il mondo è buffo, non sbagliato». IL RACCONTO - «Chissà perché» si chiede Andrea Carraro nella sua rubrica su “Stilos”, citando la quarta di copertina di Parassiti di Massimiliano Governi stilata da Sandro Veronesi, «quando si parla di una raccolta di racconti che ci è piaciuta particolarmente diciamo “È come un romanzo! Ha la forza di un romanzo!”. Lo facciamo con l’intento di nobilitarlo, il libro, naturalmente, di elevarlo a una sfera superiore, quella appunto del romanzo. Insomma ci comportiamo come un diligente funzionario editoriale che deve far quadrare i conti e allora punta sul genere più spendibile sul mercato. Come se ignorassimo l’assoluta – e inassimilabile – bellezza che possono raggiungere alcuni racconti. Come se non sapessimo che Sulle nevi del Kilimangiaro vale più di qualsiasi romanzo di Hemingway. Come se avessimo dimenticato che la letteratura italiana tradizionalmente piega assai di più verso la misura breve». L’esaltazione del genere ricorda quella di Jonathan Franzen a proposito della Munro (vedi la puntata precedente di questa rubrica) mentre le considerazioni sull’inclinazione narrativa italica rispecchiano quelle seguenti. 37 fenandel59 38 10-01-2007 12:36 Pagina 38 L’IMPROPRIO - Non propriamente romanzo sarebbe, per Alfonso Berardinelli (“il Foglio”), Svenimenti di Edoardo Albinati. Del resto in Italia di romanzi che possano essere definiti tali non ne vengono pubblicati poi molti: «Prevalgono le anomalie, le bizzarrie, i prodotti ibridi, pretestuosi o pretenziosi». Il fatto è che «da quando, con la fine della passione teorica e politica, i romanzi sono diventati il solo genere di parallelepipedo cartaceo che possa sperare di essere comprato in libreria da più di duemila persone, da allora anche in Italia gli autori si sono messi al lavoro». Non Albinati, che «si ferma sulla soglia del romanzo, conoscendone i pericoli». Ma, pur non essendo un romanzo, Svenimenti «appartiene alla storia e alla fisiologia del romanzo»: Albinati «“sviene” di fronte alla possibilità del romanzo» anche se lavora con gli stessi «materiali di costruzione» del romanzo. L’ANTIMERIDIANO - Su “Il domenicale”, parlando di Luciano Bianciardi, onorato da L’Antimeridiano della ISBN edizioni perché disonorato dai Meridiani, D.B. dà ragione, in parte, a Luciana Bianciardi: «a suo padre non sarebbe piaciuto venire seppellito da un Meridiano» ma, prosegue: «Vogliamo dirla davvero tutta? Non era necessario neppure fare questo Antimeridiano, che è poi la parodia uguale uguale del Meridiano, solo che costa un paio di bigliettoni buoni in più. Bisogna ristampare l’opera intera del Bianciardi per portarsela sempre addietro, farne un culto esoterico. Bianciardi è il nostro cattivo, il nostro Steve McQueen, il nostro uomo dalla “vita spericolata”, e quelle paginette a migliaia strette strette come carta velina o carta da morto non ci vanno giù». LA GUIDA - Lonely Planet, la guida più fighetta in circolazione, «pare un incrocio perfetto tra l’epopea del garage di Steve Jobs e il Diario del Che in Bolivia. C’è l’intraprendenza e l’originalità, l’avventura e il business». Fabrizio Rondolino su “Vanity Fair” ne denuncia l’ipocrisia. Concettualmente la Lonely non è diversa dalla Coca-Cola: un prodotto seriale diffuso in tutti i paesi del mondo con la stessa confezione: «Al netto dei capitoli un poco zuccherosi sulle culture indigene e di quelli assai sanguigni sui disastri provocati dall’uomo bianco, sono indistinguibili da una Fodor’s, la guida per eccellenza della middle class americana. Così la guida della California della Fodor’s include il lungomare di Venice, dove i fricchettoni di tutto il mondo trascorrono il loro tempo fumando erba, bevendo birra e suonando i tamburi sulla spiaggia, mentre quella della Lonely descrive con tanto di piantina del parcheggio le meraviglie di Disneyland, la città ideale maccartista. Perciò non c’è nulla di più fastidioso del fastidio per la globalizzazione che le Lonely trasudano quasi a ogni pagina». Una guida schizofrenica: «Nel paragrafo dedicato ad Ayers Rock prima ti spiegano che salirci è un’esperienza irrinunciabile, un rito iniziatico, poi proseguono annunciando che gli aborigeni probabilmente vi diranno di non salire perché “provate a immaginare qualcuno che salga sull’altare della cattedrale di Notre Dame e capirete il punto di vista degli anangu. Si tratta dunque di una questione di rispetto”. Anche del viaggiatore, però». IL MEMOIR POLITICO - Stefano Di Michele sul “Foglio”, sotto il titolo Compagno diario, compie un’esaustiva ricognizione della memorialistica politica: «L’autobiografia è tutta un genere, a sinistra, una consacrazione, una rivisitazione. È il rendiconto, è la somma, è la consacrazione. Rendiconto politico, obbligo verso le masse: si deve ma quasi senza gioia; si scrive ma quasi con riluttanza. E nonostante questo solo i comunisti si sono tanto raccontati, presentati, stampati e ristampati». Storia lunga, fasi diverse: inizialmente, ricorda Di Michele citando Emanuele Macaluso, i diari erano banditi, perché sospetti.Togliatti riprese Mario Secchia a un comitato centrale: «Fai sempre verbali di riunioni». Come dire: a chi li porti? Ma poi, sotto l’impulso di Pajetta ci fu una vera e propria campagna promozionale perché la vita dei grandi vecchi della Resistenza, della galera, dei campi di concentramento fosse ricordata (di solito in opuscoli di carta scadente, poche pagine e sbiadite fotografie, distribuite a migliaia): «Vite semplici, immacolate, trasparenti e però eroiche, come sono sempre, o pensavamo che fossero, le vite dei perseguitati. Non vite di santi, ma almeno modelli di comportamento, esempi di vita» scriveva Miriam Mafai. Erano tanti monumenti al ‘militante ignoto’. Poi ci furono i libri di Pajetta, Amendola, Occhetto, Petruccioli, D’Alema, Cossutta, Macaluso (una delle autobiografie più scanzonate e sincere), e poi di Veltroni, Rossanda, Ingrao, Napolitano, prima sotto il segno della solennità (De Michele cita una dedica oggi del tutto inimmaginabile, quella di Diario di trent’anni, che Camilla Ravera pubblicò presso gli Editori Riuniti nei primi anni settanta: «Agli operai di Torino dedico questa rievocazione dei momenti e pensieri della mia milizia, dalla passione con cui li ho vissuti, indelebilmente incisi nella mia memoria»), poi più riflessive e problematiche, fino alla mera nostalgia veltroniana. fenandel59 10-01-2007 12:36 Pagina 39 IL MEMOIR MATRIMONIALE Apparentemente meno politica un’altra recente autobiografia, aggredita da Daniele Brolli nella sua rubrica su Pulp: «Un altro volume inutile è Insieme, autori Flavia e Romano Prodi, editore San Paolo. Ovvero la vita coniugale della signora Flavia e del Professore. Il risvolto di quarta, che ospita di solito la biografia dell’autore, recita: “Flavia e Romano Prodi si sono sposati il 31 maggio 1969”. Oltre a essere catalogato alla voce ‘marchette’, questo libro, di cui ho carotato passaggi qua e là, è di una noia mortale, è utile solo a farci capire che in Italia siamo tra due fuochi. Ma la biografia matrimoniale (con tanto di inserto fotografico centrale) in cui si inscrivono tutte le stronzate successe nella vita insieme, pubbliche e private (ma non troppo private) è un genere tutto da scoprire. Insipiente, inutile, moralista, antipatico, buonista, cerchiobottista, ridicolo, è lungo 250 pagine, costa 14 euro e dovrebbero pagarvi per leggerlo». IL MEMOIR VENDICATIVO - Guia Soncini si occupava spesso sul “Foglio” di libri non pubblicati in Italia, da quelli di geopolitica ai più leggeri: «Suzanne Hansen, che è dell’Oregon, dove alle partite di basket non c’è un parcheggiatore che si aspetta cinquanta dollari di mancia e dove alle feste non rischi di vedere Sydney Pollack in costume da bagno di lycra viola, è stata in California e ne è tornata con una morale ben precisa, e con rivelazioni che scuoteranno le fondamenta della vostra serenità. Respirate profondamente, perché nel corso della lettura di You’ll Never Nanny In This Town Again (Crown, 22 dollari) apprenderete cose sconvolgenti. I ricchi hanno personale di servizio. Il personale di servizio è considerato personale di servizio, non parte della famiglia. Se il personale di servizio deputato ad accudire i figli segue la famiglia in vacanza questo non significa riposo: ci si aspetta – incredibile – che la tata si pupazzi i figli, mentre la mamma – incredibile e orrore – se ne sta in panciolle in bikini senza mai porsi il problema – incredibile, orrore e raccapriccio – che la tata, poverina, non potrebbe mai permettersi un così bel posto per le proprie vacanze, e insomma una volta che è lì sarebbe opportuno lasciare che se lo godesse anche lei, magari assumendo una tata stagionale che sollevi la tata dai suoi compiti senza però sollevarla dal pernottare in grandi alberghi caraibici. Il genere “memoir vendicativo” ha una certa fortuna. Ha uno schema di gestazione tradizionale: Hansen si è trovata ad avere a che fare con gente famosa, e ha pensato che raccontare quanto sono stronzi i ricchi e famosi l’avrebbe resa un po’ ricca e un po’ famosa. Non farai mai più la tata in questa città ricalca il titolo del memoir della produttrice Julia Phillips (You’ll Never Eat Lunch In This Town Again), e allo stesso tempo ne è sideralmente distante. Perché Phillips era stata una donna di enorme successo, e assumersi il rischio di non ottenere più un tavolo al ristorante, nella città in cui conti solo per i posti che hai alla partita e i tavoli che hai al ristorante, be’, era un atto di coraggio. Hansen, invece, è una squinzia dell’Oregon che non era all’altezza neppure delle stanze della servitù di L.A.; si ritrovò a fare la tata a casa di Michael Ovitz (all’epoca capo della CAA, tra gli uomini più potenti di Hollywood, agente di gentucola tipo Tom Cruise e Julia Roberts; erano, per capirci, gli anni in cui Mike trattava il passaggio di Letterman dalla Nbc alla Cbs per 14 milioni di dollari l’anno).Tutto quel che ha da raccontare, per 286 pagine pubblicate diciotto anni dopo l’arrivo a casa Ovitz, è che alle feste, a Hollywood, non la invitavano “in quanto se stessa” ma solo se gli Ovitz decidevano di portare i figli, e lei con loro. Quale raccapricciante crudeltà mentale. E i cani degli amici degli Ovitz le abbaiavano contro: “Erano addestrati a riconoscere chi non valeva milioni di dollari”. Ma certo, Suzy. Ora però prendi le pasticche». www.eliopaoloni.it Illustrazione di Francesca Quatraro 39