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rubriche
recensiamo
i recensori
(dodicesima parte)
elio paoloni
GENERI
IL COMICO - «Dio mio, che cosa triste un articolo
sul comico» esordiva Luigi Sampietro accingendosi a
stendere un articolo per “Il Sole 24 Ore”. «Meglio,
certo, una tragedia incompiuta. Un libro sulla crisi dei
valori. Ma con il comico da che parte si comincia? Dalla
psicanalisi o dal solletico sotto la pianta del piede?».
All’inizio aveva pensato di cavarsela copiando un articolo di Giorgio Manganelli scivolato fuori da un volume
dello scrittore inglese P.G. Wodehouse. Poi, rammentando che a un certo punto della propria vita
Manganelli aveva trovato anche dei lettori, decide di
citare la fonte, e virgoletta questa parte: «Wodehouse
è uno dei casi più puri, più esemplari, di totale assenza
di idee. Ma non crediate che io dica una frase del genere per irridere o, come si dice, ridimensionare l’autore.
L’assenza di idee è una delle segrete ambizioni dello
scrittore, ed è un obiettivo estremamente arduo, temerario e in definitiva quasi impossibile. È difficile che uno
scrittore rinunci a dire la sua sul funzionamento del
mondo, sulle ambasce dell’amore e i crucci del sesso, e
in genere sulle migliorie che, gratuitamente, egli propone per uno scorrevole ruotare delle galassie. In generale gli scrittori sono convinti di essere letti da Dio e non
mancano di lasciar cadere delle giudiziose osservazioni
che possono essere utili al grande Vecchio». Sampietro
riprende citando Evelyn Waugh: «Wodehouse era nato
nel paradiso terrestre, prima della cacciata di Adamo
ed Eva». «Prima della storia» aggiunge Sampietro
«quando il mondo era uno spazio imperiale da attraN.B. Per non appesantire la lettura mi sono preso la
libertà di ricucire brani delle recensioni citate senza evidenziarlo con puntini di sospensione e parentesi.
Me ne scuso con gli autori.
versare in piroscafo (in prima classe): una bolla nel trascorrere del tempo nel quale i lettori hanno sempre
trovato asilo politico. Siamo al grado zero della comicità: lontani da qualsiasi intento satirico, cioè moralistico.
Si ride perché il mondo è buffo, non sbagliato».
IL RACCONTO - «Chissà
perché» si chiede Andrea
Carraro nella sua rubrica su
“Stilos”, citando la quarta di
copertina di Parassiti di
Massimiliano Governi stilata da
Sandro Veronesi, «quando si parla
di una raccolta di racconti che ci
è piaciuta particolarmente diciamo “È come un romanzo! Ha la
forza di un romanzo!”. Lo facciamo con l’intento di nobilitarlo, il
libro, naturalmente, di elevarlo a
una sfera superiore, quella appunto del romanzo. Insomma ci comportiamo come un diligente funzionario editoriale che deve far quadrare i
conti e allora punta sul genere più spendibile sul mercato. Come se ignorassimo l’assoluta – e inassimilabile –
bellezza che possono raggiungere alcuni racconti. Come
se non sapessimo che Sulle nevi del Kilimangiaro vale più
di qualsiasi romanzo di Hemingway. Come se avessimo
dimenticato che la letteratura italiana tradizionalmente
piega assai di più verso la misura breve».
L’esaltazione del genere ricorda quella di Jonathan
Franzen a proposito della Munro (vedi la puntata precedente di questa rubrica) mentre le considerazioni sull’inclinazione narrativa italica rispecchiano quelle seguenti.
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L’IMPROPRIO - Non propriamente romanzo sarebbe, per Alfonso Berardinelli (“il Foglio”), Svenimenti di
Edoardo Albinati. Del resto in Italia di romanzi che possano essere definiti tali non ne vengono pubblicati poi
molti: «Prevalgono le anomalie, le bizzarrie, i prodotti
ibridi, pretestuosi o pretenziosi». Il fatto è che «da
quando, con la fine della passione teorica e politica, i
romanzi sono diventati il solo genere di parallelepipedo cartaceo che possa sperare di essere comprato in
libreria da più di duemila persone, da allora anche in
Italia gli autori si sono messi al lavoro». Non Albinati,
che «si ferma sulla soglia del romanzo, conoscendone i
pericoli». Ma, pur non essendo un romanzo, Svenimenti
«appartiene alla storia e alla fisiologia del romanzo»:
Albinati «“sviene” di fronte alla possibilità del romanzo» anche se lavora con gli stessi «materiali di costruzione» del romanzo.
L’ANTIMERIDIANO - Su “Il domenicale”, parlando
di Luciano Bianciardi, onorato da L’Antimeridiano della
ISBN edizioni perché disonorato dai Meridiani, D.B. dà
ragione, in parte, a Luciana Bianciardi: «a suo padre non
sarebbe piaciuto venire seppellito da un Meridiano»
ma, prosegue: «Vogliamo dirla davvero tutta? Non era
necessario neppure fare questo Antimeridiano, che è
poi la parodia uguale uguale del Meridiano, solo che
costa un paio di bigliettoni buoni in più. Bisogna ristampare l’opera intera del Bianciardi per portarsela sempre addietro, farne un culto esoterico. Bianciardi è il
nostro cattivo, il nostro Steve McQueen, il nostro
uomo dalla “vita spericolata”, e quelle paginette a
migliaia strette strette come carta velina o carta da
morto non ci vanno giù».
LA GUIDA - Lonely Planet,
la guida più fighetta in circolazione, «pare un incrocio perfetto tra l’epopea del garage
di Steve Jobs e il Diario del
Che in Bolivia. C’è l’intraprendenza e l’originalità, l’avventura e il business». Fabrizio
Rondolino su “Vanity Fair” ne
denuncia l’ipocrisia. Concettualmente la Lonely non è
diversa dalla Coca-Cola: un
prodotto seriale diffuso in
tutti i paesi del mondo con la
stessa confezione: «Al netto dei capitoli un poco zuccherosi sulle culture indigene e di quelli assai sanguigni
sui disastri provocati dall’uomo bianco, sono indistinguibili da una Fodor’s, la guida per eccellenza della middle
class americana. Così la guida della California della
Fodor’s include il lungomare di Venice, dove i fricchettoni di tutto il mondo trascorrono il loro tempo fumando
erba, bevendo birra e suonando i tamburi sulla spiaggia,
mentre quella della Lonely descrive con tanto di piantina del parcheggio le meraviglie di Disneyland, la città
ideale maccartista. Perciò non c’è nulla di più fastidioso
del fastidio per la globalizzazione che le Lonely trasudano quasi a ogni pagina». Una guida schizofrenica: «Nel
paragrafo dedicato ad Ayers Rock prima ti spiegano che
salirci è un’esperienza irrinunciabile, un rito iniziatico, poi
proseguono annunciando che gli aborigeni probabilmente vi diranno di non salire perché “provate a immaginare qualcuno che salga sull’altare della cattedrale di
Notre Dame e capirete il punto di vista degli anangu. Si
tratta dunque di una questione di rispetto”. Anche del
viaggiatore, però».
IL MEMOIR POLITICO - Stefano Di Michele sul
“Foglio”, sotto il titolo Compagno diario, compie
un’esaustiva ricognizione della memorialistica politica:
«L’autobiografia è tutta un genere, a sinistra, una consacrazione, una rivisitazione. È il rendiconto, è la somma,
è la consacrazione. Rendiconto politico, obbligo verso
le masse: si deve ma quasi senza gioia; si scrive ma quasi
con riluttanza. E nonostante questo solo i comunisti si
sono tanto raccontati, presentati, stampati e ristampati». Storia lunga, fasi diverse: inizialmente, ricorda Di
Michele citando Emanuele Macaluso, i diari erano banditi, perché sospetti.Togliatti riprese Mario Secchia a un
comitato centrale: «Fai sempre verbali di riunioni».
Come dire: a chi li porti? Ma poi, sotto l’impulso di
Pajetta ci fu una vera e propria campagna promozionale perché la vita dei grandi vecchi della Resistenza, della
galera, dei campi di concentramento fosse ricordata (di
solito in opuscoli di carta scadente, poche pagine e
sbiadite fotografie, distribuite a migliaia): «Vite semplici,
immacolate, trasparenti e però eroiche, come sono
sempre, o pensavamo che fossero, le vite dei perseguitati. Non vite di santi, ma almeno modelli di comportamento, esempi di vita» scriveva Miriam Mafai. Erano
tanti monumenti al ‘militante ignoto’. Poi ci furono i libri
di Pajetta, Amendola, Occhetto, Petruccioli, D’Alema,
Cossutta, Macaluso (una delle autobiografie più scanzonate e sincere), e poi di Veltroni, Rossanda, Ingrao,
Napolitano, prima sotto il segno della solennità (De
Michele cita una dedica oggi del tutto inimmaginabile,
quella di Diario di trent’anni, che Camilla Ravera pubblicò presso gli Editori Riuniti nei primi anni settanta: «Agli
operai di Torino dedico questa rievocazione dei
momenti e pensieri della mia milizia, dalla passione con
cui li ho vissuti, indelebilmente incisi nella mia memoria»), poi più riflessive e problematiche, fino alla mera
nostalgia veltroniana.
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IL MEMOIR
MATRIMONIALE
Apparentemente meno politica un’altra recente autobiografia, aggredita da Daniele
Brolli nella sua rubrica su
Pulp: «Un altro volume inutile è Insieme, autori Flavia e
Romano Prodi, editore San
Paolo. Ovvero la vita coniugale della signora Flavia e del
Professore. Il risvolto di quarta, che ospita di solito la biografia dell’autore, recita:
“Flavia e Romano Prodi si sono sposati il 31 maggio
1969”. Oltre a essere catalogato alla voce ‘marchette’,
questo libro, di cui ho carotato passaggi qua e là, è di
una noia mortale, è utile solo a farci capire che in Italia
siamo tra due fuochi. Ma la biografia matrimoniale (con
tanto di inserto fotografico centrale) in cui si inscrivono tutte le stronzate successe nella vita insieme, pubbliche e private (ma non troppo private) è un genere
tutto da scoprire. Insipiente, inutile, moralista, antipatico, buonista, cerchiobottista, ridicolo, è lungo 250 pagine, costa 14 euro e dovrebbero pagarvi per leggerlo».
IL MEMOIR
VENDICATIVO - Guia
Soncini si occupava spesso
sul “Foglio” di libri non pubblicati in Italia, da quelli di
geopolitica ai più leggeri:
«Suzanne Hansen, che è
dell’Oregon, dove alle partite
di basket non c’è un parcheggiatore che si aspetta cinquanta dollari di mancia e
dove alle feste non rischi di
vedere Sydney Pollack in
costume da bagno di lycra
viola, è stata in California e ne è tornata con una morale ben precisa, e con rivelazioni che scuoteranno le fondamenta della vostra serenità. Respirate profondamente, perché nel corso della lettura di You’ll Never Nanny
In This Town Again (Crown, 22 dollari) apprenderete
cose sconvolgenti. I ricchi hanno personale di servizio.
Il personale di servizio è considerato personale di servizio, non parte della famiglia. Se il personale di servizio
deputato ad accudire i figli segue la famiglia in vacanza
questo non significa riposo: ci si aspetta – incredibile –
che la tata si pupazzi i figli, mentre la mamma – incredibile e orrore – se ne sta in panciolle in bikini senza
mai porsi il problema – incredibile, orrore e raccapriccio – che la tata, poverina, non potrebbe mai permettersi un così bel posto per le proprie vacanze, e insomma una volta che è lì sarebbe opportuno lasciare che
se lo godesse anche lei, magari assumendo una tata stagionale che sollevi la tata dai suoi compiti senza però
sollevarla dal pernottare in grandi alberghi caraibici. Il
genere “memoir vendicativo” ha una certa fortuna. Ha
uno schema di gestazione tradizionale: Hansen si è trovata ad avere a che fare con gente famosa, e ha pensato che raccontare quanto sono stronzi i ricchi e famosi l’avrebbe resa un po’ ricca e un po’ famosa. Non farai
mai più la tata in questa città ricalca il titolo del memoir
della produttrice Julia Phillips (You’ll Never Eat Lunch In
This Town Again), e allo stesso tempo ne è sideralmente distante. Perché Phillips era stata una donna di enorme successo, e assumersi il rischio di non ottenere più
un tavolo al ristorante, nella città in cui conti solo per i
posti che hai alla partita e i tavoli che hai al ristorante,
be’, era un atto di coraggio. Hansen, invece, è una squinzia dell’Oregon che non era all’altezza neppure delle
stanze della servitù di L.A.; si ritrovò a fare la tata a casa
di Michael Ovitz (all’epoca capo della CAA, tra gli
uomini più potenti di Hollywood, agente di gentucola
tipo Tom Cruise e Julia Roberts; erano, per capirci, gli
anni in cui Mike trattava il passaggio di Letterman dalla
Nbc alla Cbs per 14 milioni di dollari l’anno).Tutto quel
che ha da raccontare, per 286 pagine pubblicate diciotto anni dopo l’arrivo a casa Ovitz, è che alle feste, a
Hollywood, non la invitavano “in quanto se stessa” ma
solo se gli Ovitz decidevano di portare i figli, e lei con
loro. Quale raccapricciante crudeltà mentale. E i cani
degli amici degli Ovitz le abbaiavano contro: “Erano
addestrati a riconoscere chi non valeva milioni di dollari”. Ma certo, Suzy. Ora però prendi le pasticche». www.eliopaoloni.it
Illustrazione di Francesca Quatraro
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