Note su un corso di speleologia Il Centro Ricerche Naturalistiche “Monti Lessini” ha organizzato nell’estate 1981 un breve corso di speleologia con lo scopo di divulgare sempre più questa affascinante attività e di far conoscere il patrimonio speleologico. Considerazioni preliminari Parlare di speleologia al giorno d’oggi significa coinvolgere molteplici aspetti affatto diversi fra loro e forse anche non del tutto amalgamati. La speleologia può infatti essere definita sia come una pratica sportiva, per l’intenso esercizio fisico che richiede, sia come un’attività escursionistica per il notevole contributo estetico se non paesaggistico che le grotte offrono; non vanno tralasciati inoltre i fattori naturalistici e scientifici che spaziano dalla geologia all’ecologia, il cui interesse cresce ogni giorno d’importanza nel nostro Paese, se pur in ritardo rispetto agli altri stati europei. La speleologia possiede inoltre una fondamentale qualità socializzante derivata dalla necessità di lavorare in gruppo e dal fatto che durante le spedizioni, per quanto riguarda la sicurezza da infortuni, ci si deve talvolta fidate ciecamente delle azioni degli altri; inoltre i momenti passati assieme nel superare qualche disagio accidentale in grotta e le bicchierate all’uscita hanno sempre creato nuove amicizie tra i partecipanti. Le associazioni speleologiche assumono un ruolo di fondamentale importanza anche sotto il profilo scientifico e divulgativo per l’apporto di conoscenze sempre nuove e approfondite nello studio del territorio; a tale scopo esse redigono schede particolareggiate delle cavità sotterranee, ricerche su fenomeni specifici, opuscoli e materiale documentario di vario genere. I gruppi speleologici sono organizzati tra loro sia a livello provinciale che a livello regionale con un albo e un catasto, e operano spesso in fitta collaborazione specie per le ricerche di maggior mole. Grazie ai mezzi offerti dalla tecnologia, che permette azioni sempre più ardite, le ricerche e le esplorazioni vengono effettuate non solo su nuove cavità ma anche su quelle già esplorate in passato con tecniche oggi superate. Una volta le discese nei cosiddetti “pozzi” (1) si facevano con corde di canapa, i soli imbraghi a disposizione erano i cinturoni da elettricista (2) e le tute impermeabili ancora non esistevano; tutta l’attrezzatura era pesante ed ingombrante e i passaggi angusti creavano delle barriere spesso insuperabili. Oggi invece con le scalette superleggere e con le tecniche in sola corda si riduce il materiale al seguito in volumi assai minori, e ci si può permettere di esplorare più a fondo, con i metodi e gli strumenti specifici, le grotte per così dire “lasciate a metà” dagli attivisti di un tempo, con il risultato di migliorare sempre più il patrimonio delle nostre conoscenze sugli effetti dell’erosione sotterranea. Un altro risultato che la speleologia sta inseguendo è quello di cancellare definitivamente quell’alone di mistero che specie in passato avvolgeva ogni fenomeno di origine carsica e talvolta anche antropica legato al sottosuolo. Storie di fate e diavoli associate agli antri oscuri erano pane di tutti i giorni e la fantasia popolare di fronte al buio di una voragine nel terreno partoriva distorsioni soprattutto sull’origine semidivina e sull’abnormità delle dimensioni della caverna. Ancora oggi si sente parlare, specie presso certi anziani, di gallerie lunghe chilometri che collegavano o collegherebbero il castello di Montorio e le Torricelle, o di una caverna che da Cancello conduceva fino a Mizzole o addirittura di sotterranei scavati dai Romani tra l’Arena e le varie prigioni da dove sarebbero affluiti i cristiani per il supplizio. Chiaramente, condotte sotterranee per lo scolo delle acque venivano costruite già dai tempi più antichi, ma un conto è parlare di fognature e un conto di segreti passaggi sotterranei. Basterebbe andare una sola volta in grotta per rendersi conto di quanto sia lungo un chilometro sottoterra. In tema di profondità le cose vanno anche peggio: ricordo che spesso il gruppo speleologico C.R.N. di cui faccio parte, è uscito su segnalazioni di contadini ad esplorare grotte dichiarate profondissime e pericolosissime e rivelatesi poi buchi di pochi metri, pochi ma abbastanza per nascondere il fondo alla luce e innescare così i meccanismi dell’immaginazione. Talora la fantasia galoppa in altre direzioni: spesso esiste la paura che gli speleologi giungano, attraverso non so quali poteri, a “sequestrare” il terreno privato in nome di una inesistente protezione naturalistica tesa a salvaguardare le bellezze del sottosuolo; oppure si teme che ai proprietari dei terreni possano essere attribuite le responsabilità di eventuali incidenti avvenuti durante le esplorazioni speleologiche. Tali paure per esempio hanno spinto i proprietari dei terreni ad ostruire le aperture di alcune grotte che il C.R.N. aveva recentemente scoperto e purtroppo la legge in questo senso offre poche garanzie alla conservazione delle manifestazioni carsiche (vedi notiziario). Fortunatamente questi tipi di ostracismo sono rari ma dovrebbero del tutto scomparire se non altro grazie alle numerose campagne di sensibilizzazione che molti gruppi speleologici hanno promosso con mostre fotografiche, proiezioni di diapositive, divulgazioni di vario materiale ecc., non ultimo questo Quaderno. Il corso Per divulgare l’importanza scientifica e naturalistica della speleologia, dopo aver preparato un documentario su diapositive (3), il C.R.N., Centro Ricerche Naturalistiche Monti Lessini ha organizzato la scorsa estate un corso di speleologia (4) cui hanno partecipato studenti delle scuole superiori ed alcuni altri appassionati di varie età. Il corso che si è svolto in otto lezioni aveva scopi divulgativi ed iniziatori, una specie di introduzione a quanti volessero poi continuare ad approfondire questa attività definita ai limiti tra avventura, sport e scienza. Era la prima volta che il nostro gruppo assumeva iniziative del genere e quindi né io né gli altri miei colleghi speleologi conoscevamo bene quali metodi didattici usare; per questo si è scelta la soluzione più elementare, riassumibile molto stringatamente nel famoso detto “quando l’acqua arriva alla gola si impara a nuotare” (più o meno) ovvero abbiamo cercato di trasmettere quella che dovrebbe essere l’arte di arrangiarsi con qualsiasi mezzo nelle situazioni sempre nuove che uno speleologo deve affrontare. Durante il corso portavamo gli allievi in grotta stimolandoli a superare piccole difficoltà con il solo aiuto della loro iniziativa personale, anche se ovviamente sotto il massimo controllo dal punto di vista della sicurezza: in questo modo essi hanno cominciato a prendere confidenza con un ambiente inizialmente ostile, ma che può essere affrontato in tutta tranquillità se si usano le dovute cautele e le tecniche adeguate. Alcune delle lezioni si sono svolte all’esterno: alla palestra di roccia dei Tracchi e alle palestre naturali di speleologia del Covolo di Camposilvano e del Ponte di Veja dove si sono provate le metodologie di discesa e risalita verticale con l’ausilio di scalette, corde e altre attrezzature specifiche. Queste esperienze sono particolarmente emozionanti per il fatto di dover rimanere a penzoloni nel vuoto affidati al sostegno di una corda di nylon che sembra tanto più sottile quanto più in alto si rimane sospesi. Il tutto è complicato dall’uso di piccoli attrezzi necessari alle manovre sulla corda, attrezzi di semplice uso se si studiano con i piedi appoggiati al terreno, ma che sembrano intricati marchingegni quando ci si trova appesi per aria e si cerca disperatamente di farli funzionare. Più tranquilla dal punto di vista emotivo è stata invece la lezione di topografia. Per imparare il rilievo e l’orientamento sul posto essa è stata tenuta all’interno della ben conosciuta “Tana delle Sponde”, una grotta orizzontale abbastanza ramificata e sufficientemente facile: qui, muniti di matita, quaderno e corda metrica gli allievi del corso, dopo aver misurato in lungo e in largo, hanno tracciato la pianta della grotta ed hanno localizzato il punto sulla cartina topografica. Questo è un lavoro tipico dei gruppi speleologici quando si scoprono nuove cavità; il disegno completo o “rilievo” corredato di una scheda comprendente tutte le notizie utili viene poi spedito al catasto regionale delle grotte dove, archiviato con tutti gli altri, resta a disposizione di chiunque voglia consultarlo (5). Altre tre esercitazioni pratiche hanno concluso il ciclo delle lezioni: la prima alla grotta Noè, in provincia di Trieste, famosa per il suo gigantesco “pozzo” di entrata del diametro di quaranta metri alla sommità e profonda più di ottanta, un mastodontico affossamento tristemente noto per un incidente mortale occorso ad una spedizione veronese alcuni anni fa; alla base del “pozzo” si sviluppa un’ampia cavità costellata di concrezioni ed in particolare di stalagmiti alte anche più di quattro metri. Qui, dato il tipo di sviluppo a ragno e l’ampiezza delle dimensioni si è potuto dividere l’insieme dei partecipanti in piccoli gruppetti autonomi per permettere loro di visitare separatamente e tranquillamente le varie ramificazioni. La divisione in gruppetti è servita anche per semplificare la procedura di risalita in scaletta, che generalmente è un’operazione lenta a causa della profondità della voragine e deve essere compiuta da una persona per volta (6), e l’avvicendamento diluito dei piccoli gruppi ha evitato la noia di lunghe soste sul fondo del pozzo in attesa del turno per risalire. Un’altra esercitazione ha avuto luogo nel “Buso del Bolpe” di Roverè Veronese, una grotta molto bella e variamente concrezionata della profondità totale di circa trenta metri. Tale cavità ha permesso agli allievi del corso di provare l’emozione di perlustrare un piccolo anfratto in parte sconosciuto. L’esplorazione di tratti non conosciuti è il momento più affascinante e avventuroso dell’attività di uno speleologo; è anche il momento più faticoso e delicato perché i colpi di martello non hanno ancora bene allargato la via. I nuovi passaggi spesso si presentano angusti ed intricati e riducono la velocità di marcia anche a pochi metri all’ora o addirittura a pochi metri al giorno e obbligano ad assumere posizioni contorte ed innaturali a chi ostinatamente avanza nella speranza di trovare ancora qualche proseguimento. I proseguimenti ovviamente sono sempre in numero minore di quelli sperati e quindi la maggior parte dei tentativi si risolve in un nulla di fatto, ma quando si riesce a centrare la “fessura” (7) giusta si prova un indescrivibile entusiasmo per la nuova scoperta. Questo è appunto successo se pur in forma non rilevante, data la limitatezza dei proseguimenti, anche ai partecipanti del corso. L’ultima esercitazione ha avuto luogo a Badia Calavena nel “Buso dei Volpi” altrettanto noto come grotta dell’Onice, nome che deriva da una cava di onice adiacente e che da una chiara idea della sua indiscutibile bellezza anche se non certo a portata di mano. Per raggiungere la “sala” (8) finale bisogna infatti superare, dopo alcuni piccoli pozzi, uno stretto cunicolo in cui si deve avanzare strisciando per circa sessanta metri trascinandosi dietro, talvolta legate ad un piede, le corde e gli zaini con il materiale per l’ultima discesa. È una grande sfacchinata ma una volta giunti sul fondo ci si accorge che ne valeva la pena se non altro per ammirare uno dei migliori fenomeni carsici del veronese. Durante quest’uscita la via del ritorno è stata rallentata da uno dei peggiori disagi che possono accadere in grotta: il buio. Infatti il grosso della comitiva, nonostante le mie raccomandazioni, era sprovvisto di pile di riserva, forte delle esperienze precedenti dove i tempi di attuazione erano stati abbastanza corti da non imporre l’uso dei ricambi; inoltre l’intenso stillicidio dal soffitto (in alcuni tratti sembrava che piovesse a dirotto) oltre a spegnere continuamente le lampade a carburo aveva anche messo fuori uso cerini e accendini necessari ad accenderle. Dopo aver strategicamente distribuito le poche pile di riserva rimaste il gruppo, nonostante le testonate nella penombra e le pedate su chi seguiva carponi, è riuscito a guadagnare l’aperto, comportandosi, come era prevedibile, con la dovuta calma e abilità di chi “ormai alla conclusione del corso” è all’altezza di tali situazioni. Specialmente nelle ultime due escursioni gli allievi hanno imparato a superare alcuni degli aspetti meno piacevoli della speleologia come attraversare strette fessure ove occorre espellere il fiato per poter passare, o rivoli d’acqua gelata su cui si deve arrancare supini per tempi interminabili, o cunicoli di fango dove si striscia imbrattandosi da capo a piedi. Molte volte di fronte a situazioni del genere mi sono chiesto quale fosse la molla che mi spingeva a proseguire; e se lo sono chiesto anche gli iscritti a questo corso. Secondo Freud esistono motivi reconditi che spingono l’uomo ad esplorare le caverne (9), forse vi sono anche spiegazioni più semplici, comunque tutti i partecipanti uscendo da ogni grotta infangati, stanchi, laceri, bagnati fradici giuravano di essersi pazzamente divertiti. …. Boh! Se anche qualcuno di voi volesse provare questo genere di divertimento può seguire il corso che verrà ripetuto questa estate mettendosi in contatto con me o con il C.R.N. Monti Lessini. (1) In gergo si chiamano “pozzi” i tratti verticali di cui sono costituite le grotte. Esistono pozzi profondi anche centinaia di metri. (2) Imbraghi in uso agli operai delle società elettriche per le ispezioni sui pali delle linee. (3) Vedi il notiziario del Quaderno culturale “la Lessinia ieri oggi domani” edizione 1981. (4) Il corso è stato tenuto, oltre che da chi scrive, da Girardi Lino, Girardi Fabio, Zorzin Roberto. (5) Esiste un analogo catasto, per le grotte in territorio veronese, al Museo di Scienze Naturali e alla sede del gruppo speleologico G.A.M. (6) Per motivi di sicurezza (7) La fessura in gergo è un cunicolo che collega due zone più ampie della grotta. Ha prevalente andamento orizzontale e dimensioni trasversali ridotte. (8) Il termine “sala” indica in gergo un ampio allargamento della grotta. (9) Desiderio inconscio di rifugio nell’utero materno. Estratto da “LA LESSINIA – IERI OGGI DOMANI” Quaderno culturale 1982