◗ Chiara ROSSI titolo Spezie, spezie delle mie brame… testo Il tocco aperto della personalissima pittura di Vittore Carpaccio, artista veneziano, effonde dalle sue squisite rappresentazioni dei velieri all’ancora, che ci è dato oggi di ammirare all’accademia di Venezia, nelle tele del ciclo di sant’Orsola. Grazie a questo “fotografo”, possiamo così immaginarci con quali imbarcazioni si commerciavano le Spezie. Siamo nel 1514. L’eleganza delle caracche, orgogliose dei loro alti e snelli tre alberi e la magnificenza di quelle superbe velature morbidamente incurvate dal vento, certo dava lustro alla composta flotta della Marina Mercantile della Serenissima. Nessuno dimentica infatti che la città dei Dogi fu l’unica città-stato italiana ad aver vissuto per gran parte della sua affascinante storia un intenso rapporto di scambio con le contrade più esotiche e lontane: il fiuto incomparabile per i commerci, l’abilità astuta delle alleanze politiche e l’arroganza temibile della spada crearono insieme quel capolavoro economico e militare da cui derivò la ricchezza artistica di Venezia intera. La Repubblica del leone alato si mostrava all’Europa contemporanea prospera ed opulenta, creatura d’aria e d’acqua, ancor oggi del resto invidiata nel mondo: Petrarca addirittura per descriverne la straordinaria notorietà scriveva che i vini di Venezia scintillavano nei bicchieri dei pescatori bretoni e che miele veneziano si serviva persino nelle case russe... La forza di Venezia tuttavia non stava nei suoi policromi vetri soffiati o nelle pur magnifiche sete e lane o, ancora, nel sale prodotto nella città stessa, ma piuttosto nella vera e propria arte di saper acquistare e trasportare merci ricercate provenienti soprattutto da terre lontane. Così, per le calli vivaci, sulle gondole affusolate, sui ponti gettati a caso tra i vari quartieri, era tutto un viavai di forestieri e Rialto - il centro dei traffici - pullulava di mercanti ebrei, olandesi, toscani, francesi, genovesi e tedeschi (questi, per primi, aprirono un fondaco per depositarvi le merci in transito). La domanda di spezie era allora relativamente più alta che non ai giorni nostri, per il posto straordinariamente importante che rivestivano in cucina: pepe e noce moscata, zenzero e cannella, zeodaria e radice rossa di galanga (dalla Cina), chiodi di garofano e za’faran1 erano infatti assai ricercati in un mondo che conosceva ben poche altre maniere per conservare le carni o stimolare le monotone e parche pietanze d’allora. I trattati medici e i ricettari poi decantavano tutti ampiamente le virtù di questi esclusivi prodotti: se il pepe era considerato “buon antidoto contro i veleni”, la noce moscata era “buona contro le lentiggini”; se la cannella “calmava le irritazioni intestinali”, i chiodi di garofano “riscaldavano il cuore”... Ma i centri di produzione di tante meraviglie erano purtroppo soprattutto nelle Indie, nell’arcipelago indonesiano e nella Cina meridionale, tutte località in cui solo eccezionalmente si spingevano dall’Occidente i missionari e qualche audace mercante. Così di regola erano i commercianti malesi ed arabi a trasportare per via mare spezie e zucchero di canna, essenze profumate e robbia colorante, gommalacca e gomma adragante, minerale d’allume2 ed ancora sete, perle e pietre preziose... Le raccoglievano nei loro porti del Golfo Persico o del Mar Rosso e le 1 2 Ossia “giallo”; diffuso dagli Arabi in Spagna fin dal IX sec. Usato per fissare le tinture. trasportavano con le carovaniere ai limiti del mondo cristiano. Un ricco centro di smistamento fu certo Costantinopoli, dove i bizantini riunivano quei costosi tesori da Trebisonda (sul Mar Nero) o da Antiochia (sul Mediterraneo musulmano) od ancora da Alessandria e Laodicea. E così pian piano l’accesso a quei mercati d’Oriente dai nomi tanto fiabeschi favoriva intanto la conoscenza tra popoli, forme di governo e religioni diverse. Venezia si inseriva in questo giro d’affari con sempre maggior prepotenza, tanto che fu introdotto l’uso quotidiano di diffondere in parecchie copie piccole cedole contenenti i prezzi medi delle spezie sul mercato di Rialto; anzi le spezie stesse venivano usate come mezzo di pagamento, se veniva a mancare il denaro contante. Per il loro commercio di piazza all’ingrosso, riservato ai grandi banchieri più che agli speziali, vigeva addirittura il sistema dell’incanto: a Rialto era tutto un sussurrarsi all’orecchio offerte segrete... e i “messeti del pepe” (vero oro nero del tempo) divennero una categoria apposita di sensali di nomina statale! Ma dal 1498 tutto cambiò. Come una sferzata si diffuse tra i rii e le calli della Serenissima una ferale notizia: tre navi portoghesi (la Sao Gabriel, la Sao Rafael e la Berrio), partite alla ricerca delle Isole delle Spezie al comando di un ammiraglio trentasettenne, tale Vasco de Gama, erano sbarcate ad Aden e Calcutta. La rotta era davvero lunga e pericolosa ma permetteva finalmente a Lisbona di evitare le mediazioni veneziane e musulmane. Entro il 1515 i portoghesi, navigatori privi di scrupoli ma audaci, avevano installato fortificate stazioni commerciali nelle più strategiche località di quell’impero che si estendeva ormai dall’Atlantico al Mar della Cina: dall’Africa orientale, da Ormuz, da Cochin e Cananor, dalla dorata Goa, dalla Malacca e dalle Molucche... venivano letteralmente drenate le ricchezze più ambite dall’Europa e sui moli di Lisbona si accumulavano splendidi ed odorosi tesori. Facendo un passo indietro, ci si imbatterà tuttavia in una curiosità: l’uomo che catalizzò le energie e le ambizioni del Portogallo non partecipò mai ad alcun viaggio di esplorazione. Enrico il Navigatore, erudito uomo di lettere, celibe e cinto di cilicio sotto gli abiti principeschi, spirito tormentato e grande conoscitore geografico del sapere antico, fu il patrocinatore di innumerevoli spedizioni, coniugando la ricerca di un mondo ricco con una visione da crociato della missione cristiana. Con il suo motto “il desiderio di far il bene” si prodigò così per seminare quel terreno che il suo successore re Manuel I3 avrebbe poi coltivato. Fu durante il regno di questo monarca che Vasco de Gama riuscì infatti a proiettare il minuscolo Portogallo nella più grande avventura marinara della sua storia. Le armi e i Capitani rinomati che dalla Occidua sponda Lusitana per mari mai dapprima navigati... e anche le memorie gloriose di quei Re che operaron propagando Fede e impero... cantando esalterò per ogni parte se a tanto mi varran l’ingegno e l’arte. 4 Così poetò Luís Vaz de Camões ed ancor oggi arrivando in Portogallo ci si sente davvero dentro un desiderio di navigare verso l’ignoto, di partire per partire, di ampliare le barriere geografiche: le ricchezze delle colonie, la voglia di scoperte, l’entusiasmo di seguire il Tago che s’abbraccia al pieno Oceano, nel punto in cui è conosciuto come “mare di paglia” per la sua traccia color ocra... non furono che la conseguenza di questo eterno sogno. Stando ai piedi del monumento ai Navigatori di Lisbona, si ha l’impressione di vedere che dall’aria che brilla come d’un folto pulviscolo d’oro quasi resuscita la figura pensosa di quel re 3 4 1495-1521. Luís Vaz de Camões, I Lusiadi, canto I. Manuel, innamorato del mare, inseparabile compagno della storia portoghese. E chissà quante volte nei suoi occhi si saranno riflessi i colori vivaci delle vele quadre delle caracche all’ancora lungo l’estuario del Tago, arrotondate da una brezza sempre carica d’attesa... Da quella costa del Mare Oceano Bartolomeo Dias aveva aperto la via “oltre” il fatidico Capo delle Tempeste, ribattezzato Capo di Buona Speranza, come per esorcizzare la paura che da sempre incuteva. Vasco de Gama, dieci anni dopo s’apprestava a navigare per 27.000 magnifiche ed impervie miglia d’acqua salata, fino all’India, suadente reame esuberante di spezie. Stupore: belle spiagge e rigogliosi palmizi. L’aria pregna della fragranza di odori intensi ed inebrianti; indigeni scuri di pelle che appartenevano ad una cultura antica, popolata di dèi dalle molteplici braccia che detenevano un potere illimitato. Donne che con i loro saari multicolori bilanciavano con grazia sul capo pesanti giare d’acqua dolce. Elefanti che destavano soggezione e rispetto e, lungo le banchine dei porti straripanti di folla, navi arabe, cinesi, malesi, birmane che imbarcavano spezie... E da Calicut, crocevia delle rotte commerciali tra Oriente ed Occidente, via sulla costa del Malabar, a Goa e poi a Malindi, Mozambico e, regolandosi con le stagioni dei monsoni, di nuovo il Capo di Buona Speranza, Capo Verde, le Canarie, il Marocco... Dopo un’assenza di due anni infine il rientro in patria. Il re era euforico, tanto da far coniare una moneta d’oro commemorativa da 10 crusado e da inviare opuscoli a tutte le capitali europee. A Belem, vicina alla foce del Tago, fece anche costruire una magnifica chiesa che i portoghesi avrebbero visitato con profondo affetto. L’Europa intera seppe per bocca di quel re che il Portogallo, scoprendo la rotta per l’India, stava ormai per assicurarsi il monopolio diretto delle spezie. Con il finanziamento dei banchieri fiorentini, de Gama nel 1504 portò in Europa 5.000 tonnellate di pepe e 35.000 quintali di altre spezie: i guadagni si aggiravano attorno al 400%! Lisbona accentrò i commerci del Nord Europa, mettendo momentaneamente in crisi la Serenissima. I profitti continuavano ad affluire copiosi ed intanto un altro portoghese, Pedro Alvares Cabral, in sei settimane era arrivato in Brasile, riportando anche lui un superbo carico di spezie. Ad Anversa i lusitani fondarono una Borsa per regolare le vendite, mentre gli empori di quelle colorate ed odorose “monete” si moltiplicavano ormai all’infinito. E re Manuel divenne “Re per grazia di Dio, del Portogallo e dell’Algarve, Signore di Guinea in Africa, Signore della Conquista, della Navigazione e del Commercio d’Etiopia, d’Arabia, della Persia e dell’India”. I rivali invidiosi ne abbreviarono il titolo in... “il re droghiere”! Chiunque oggi a Lisbona visiti quell’incomparabile opera d’arte che è il chiostro del convento dos Jerònimos, potrà leggere nei perenni e misteriosi decori in puro stile manuelino l’apologia di quell’era di grandi scoperte geografiche e potrà rendersi conto di come persino la costruzione delle chiese fosse allora una gigantesca operazione di carpenteria navale. Lisbona non guarirà mai da quella sua leggera febbre che l’anima e la fa apparire vera città narrativa, come se vi stesse sempre per accadere qualcosa... e respirando la sua atmosfera non ci si potrà mai sottrarre alla provocazione di ritrovarsi con la mente incendiata dai miraggi incantevoli suggeriti ad ogni sguardo, verso quel Mare che portava al magico Mondo delle Spezie. bibliografia: • AA.VV., I grandi navigatori, volumi: Gli esploratori, La Via delle Indie, I Veneziani, 1988, Mondadori • Enciclopedia Italiana Treccani, alla voce “spezie” • G. Simonetti, Spezie ed aromi, 1990, Mondadori © all rights reserved titolo Questa è la storia mai raccontata* del coraggioso Principe Paul della dinastia degli Atreides. (*quella che non è narrata nei fotogrammi della celebre pellicola cinematografica di D. Lynch intitolata Dune) testo In una galassia infinitamente lontana, sul pianeta Arrakis, si combattevano guerre cruente per la conquista del melange, la Spezia capace di far viaggiare attraverso il tempo e lo spazio: chiunque detenesse il potere su questa mirabile e portentosa sostanza di conoscenza, inequivocabilmente, controllava l’Universo intero. Ecco che tra le dune di sabbia luccicante come un vetro triturato, alla luce tenue di un chiarore esile e acerbo, una dolcezza sonnolenta calava sugli occhi stanchi del principe guerriero. E Paul lentamente si ubriacava del morbido trascorrere delle costellazioni, in quell’aria della sera inoltrata, gravida delle fragranze persuasive del melange. Finalmente le lente dita del sonno gli chiusero le palpebre, insinuandosi nei suoi pensieri: gli parve di vedersi aggirare smarrito in una zona neutra, quasi un confine tra il mondo dei vivi e la terra dei morti. I suoi occhi divenivano sempre più lontani, come quelli delle statue, mentre nelle sue orecchie permaneva la risonanza come d’una voce che non fosse più sua. Ingannevoli folate di ricordi lo stupivano e lo rapivano. Improvvisamente fu per lui come attraversare un paese su una passerella che collega due sogni. Non era quello il tempo che aveva lasciato... Graffiato dalla sorpresa era obbligato a ricordare un passato misterioso e la rimembranza si snodava nella narrazione che faceva a se stesso delle sue precedenti vite. Nacque. Rinacque. Assurdamente questo suo attraversare i millenni, si mescolava e si confondeva con le vicende avventurose sempre vissute sulla Via delle Spezie. Si svegliò vedendo il suo mare. Il sole era tondo, bello e generoso e la favolosa Terra di Punt si duplicava in un pulviscolo dorato. Paul Atreides nella sua prima vita fu un semplice marinaio: stentava a credere a questa verità, eppure era davvero stato un egizio al servizio della reale spedizione voluta dalla sovrana Hatshepsut, “la prima dei nobili”. Si diceva che gli dèi avessero posto su di lei la loro magica protezione: ottenuto così il governo di un regno senza confini e la promessa di grandi vittorie, la Signora dei diademi, Re dell’Alto e del Basso Egitto, si preoccupò di farsi eternare quale sovrana saggia e lungimirante, amante della pace e premurosa del benessere dei suoi sudditi. E fu così che l’Egitto conobbe un fiorire di commerci con i mercati stranieri posti sia a Oriente, sia a Sud. Ma la regina-faraone andava particolarmente fiera soprattutto di una spedizione inviata nel Paese di Punt, tanto da tramandarne i fatti salienti nel porticato sud della grande terrazza intermedia del suo magnifico tempio di Deyr al-Bahri. Amon in persona, Signore di Karnak, aveva esortato la sua diletta figlia ad inviare cinque navi per riportare da Punt gli aromi di cui quella contrada era ricca: incenso, mirra, terebinto, ginepro e tutte le spezie necessarie per i servizi divini e di imbalsamazione. A quel tempo gli Egizi chiamavano “terrazze dell’incenso” i Paesi dai quali provenivano le preziose essenze, le piante balsamiche, le spezie inebrianti dalle quali si traevano olii profumati, cosmetici odorosi, farmaci indispensabili e le bacche aromatiche da bruciare durante le sacre cerimonie. Ed ecco, nell’anno 1502 a.C., le cinque navi reali viaggiare sul Nilo, mentre il marinaio del nostro racconto viveva stupito quell’esperienza insolita e audace. Ogni cosa su cui gli si posava lo sguardo era vergine, sconvolgente, voluttuosa ed una musica di sistri lo pervadeva, come pure gli odori: quello dolciastro del grande fiume, quello asprigno della sua gente serena, quello polveroso e speziato dell’aria tiepida di quei giorni. Si bagnava della linfa di quel Paese che amava, proprio come il Nilo che effonde l’acqua, quando nella stagione dell’inondazione prende possesso dei campi... Gli equipaggi infine presero terra in un Paese sabbioso lambito dal Mar Rosso, territorio fertile dalla vegetazione tipicamente composta da palme, sicomori e arbusti di incenso: gli inviati egiziani offrirono, in cambio degli aromi, armi e gioielli all’alto e snello re Parehu ed alla sua davvero grassa e deforme consorte Ati. L’esito felice di quegli scambi di doni permise di caricare le stive dei battelli con grande abbondanza, non solo degli alberi delle essenze con le loro radici, ma anche di legni preziosi, di ebano e vario, di oro e collirio nero. Non mancavano poi scimmie e babbuini, pelli di pantere del Sud, levrieri e gente indigena. Mai una ricchezza tanto insolita era stata offerta ad alcun re e le labbra di Hatshepsut, sottili e morbide di inquietanti sorrisi, si atteggiarono certo in un impercettibile sorriso di compiacimento... Paul Atreides viaggiava ancora stordito dalla fragranza del melange, lungo quegli invisibili fiumi che sono formati dai pensieri più intimi: mille anni erano trascorsi da quella sua prima felice vita. Rinacque mercante nabateo, astuto, ricco e ospitale. Amava infatti circondarsi di amici nella sua splendida dimora nella capitale del regno: Petra, la città rosa. Al seguito di una carovana giunta dalle terre affacciate sul Mediterraneo, entrarono in città viaggiatori inconsueti: un cartografo fenicio, un astronomo di Alessandria e un giovane studioso delle Isole, che avrebbe dato origine ad una illustre dinastia di medici, quella degli Asclepiadi. Il mercante non poté trattenersi dall’invitare questi tre interessanti uomini e, dopo una cena davvero sontuosa, le chiacchiere si sciolsero in un piacevole conversare... Paul, che a quel tempo aveva ovviamente un altro nome, offrendo l’immancabile infuso dorato, simbolo dell’accoglienza, fu felice di abbandonarsi al ruolo di narratore, rispondendo così alle molte domande postegli dai suoi convitati, assetati di conoscenza. Raccontò allora che dalla stirpe di Abramo e Ismaele nacque Nabayot: la sua tribù - quella dei Nabatei, appunto - allevava cammelli, cacciava e predava. Avendo però la fortuna di vivere in un territorio tanto fiorente, posto nel punto strategico di incontro tra le principali vie commerciali d’allora (la “strada dei Re”, che collegava il Nilo a Babilonia e che a Damasco entrava in contatto con la “via della Seta” - quella che portava in Cina; e la “via dell’Incenso”, che collegava Petra al regno di Saba nella mitica Arabia Felix), fu facile per quei nomadi saccheggiare le numerose carovane di passaggio. Ma fu più astuta l’idea di farsi pagare una tassa per ottenere protezione dall’... ospitalità nabatea. Da qui il controllo dei commerci fu inevitabile ed il transito di oro, perle, incenso, nardo, cannella, zafferano, pepe nero e verde, cinnamomo, cassia, coriandolo e mirra portò la ricchezza. Petra divenne capitale di quell’impero: vi era acqua in abbondanza e le provviste non mancavano mai. Era sicura ed imprendibile, racchiusa in una fortezza naturale fantastica e nascosta. Il mercante consigliò ai suoi ospiti ammirati di vagabondare da soli per le vie di quella città unica, perché così avrebbero potuto portare nelle loro rispettive patrie la testimonianza di quella preziosa magnificenza. E l’astronomo fu affascinato da quel cielo azzurro che pareva diluirsi in infinitesime particelle di colore, che restavano impigliate nelle montagne. Il cartografo era ammutolito per la vitalità sfolgorante di quella cosmopolita capitale, fiabesca come un palazzo di cristallo rosato. Il medico invece era sopraffatto dalla bellezza unica di quella profusione di case decorate e dal contrasto tra il deserto circostante e quella gente raffinata. E pensò che davvero tutti i toni delle spezie tingevano quella città-fortezza ardente di sole, vitrea al tramonto, ciprea all’alba, in uno scenario di fiammate d’arancio e d’oro rosso, di porpora e amaranto, di scarlatto e di vermiglio, del colore giallo dello zolfo e del sole allo zenith. Il mercante si soffermò davanti al disegno di una spirale che ornava il muro della sua dimora e guardandolo si accorse che il tempo man mano perdeva significato... Il melange faceva davvero star bene Paul degli Atreides dentro quelle illusioni delle sue precedenti vite, anse della storia. Continuava a respirare la Spezia voluttuosamente e sempre più aveva consapevolezza di appartenere anche ad altri mondi, ad altre geografie, travasato in un racconto da un altro racconto. La sua visione lo portava ora in una Venezia rigogliosa, ai tempi del massimo commercio del pepe e dello zenzero, delle noci moscate e della cannella, della canfora e dei chiodi di garofano... La loro importazione ed esportazione costituì allora lo stimolo più forte alla ricerca della via marittima per le Indie e la fortunata avventura di Vasco de Gama, portoghese senza riserve, assicurò nuovi sbocchi e nuovi trattati. Ma questa è ancora un’altra storia, che il Principe doveva ancora raccontarsi... © all rights reserved