Il mio incontro con i Palestinesi dei campi in Libano
Non era la prima volta che cercavo di andare con Un Ponte per… in Libano ma qualcosa per me in
Libano si era sempre messa di traverso. Stavolta sembrava quella buona, sia pure con patemi d’animo
fino alla vigilia innevata qui e in fibrillazione laggiù. Era annunciata, infatti, la pubblicazione della
sentenza del Tribunale Internazionale, sull’assassinio del presidente Rafiq Hariri nel 2005, evento che
già mi aveva bloccato una volta il progetto. Sembrava una piccola persecuzione del mio sogno di
abbracciare finalmente la mia figlia del cuore, la bimba che grazie a Family Happiness era, in spirito
almeno, già nella mia vita da qualche anno. Invece sul filo di lana arriva la sospirata mail di Paola Rizet
“Appuntamento domani all’aeroporto”. Salti di gioia e febbrile preparazione. Ventiquattro ore dopo a
Beirut facevo conoscenza con le due persone dal ruolo fondamentale per la delegazione, Paola del
Ponte, e Fatima di Assoumud.
Simpatia immediata con loro e le altre partecipanti della delegazione …. femminile. Tutte donne, sì, e
un paio di noi sostenitrici in trepida attesa dell’abbraccio con le nostre protette dei campi profughi
palestinesi di Beddawi e Nar El Barhed.
Amo complicarmi la vita, anche quando già semplice non è, così mi ero presa l’impegno di mandare dei
report della mia spedizione sentimental-politica libanese ad un blogger italiano. Ora che del tempo è
trascorso, le impressioni sono diverse dai giorni in cui ero là a viverle. Si sono mescolate alla nostalgia
che uniforma tutto. Beirut e la vivace Hamza, con i negozi e le case con i segni dei proiettili, la splendida
Baalbeck e il grigio ufficio di Sidone che rilascia i permessi per i campi, i caffè che ti avvolgono nel
profumo delle narghilè e gli internet point…. L’aspetto turistico, vedete, è un’autodifesa: cerca di
sovrastare le più profonde sensazioni dei vicoli dei campi profughi, il sorriso dei bimbi nella classe senza
finestre, la dignitosa compostezza delle social worker dietro la quale si indovinava un irredimibile
dolore e la sala della conferenza sul Diritto al Ritorno dove ogni persona condivideva un unico sogno:
Palestina…
E’ stato, posso dirlo, il viaggio che più di ogni altro mi ha dato conoscenza ed emozioni mescolate, con
un’alchimia che mi ha cambiato come persona. Non saprei adesso scrivere informazioni sui luoghi, le
persone, i fatti, potrei solo dire quanto desidero una seconda volta, insciallah.
Allora pesco brani del mio report del dicembre 2010, sperando che possano dare a chi legge un quadro,
non esageriamo: qualche pennellata, del molto che ho visto, vissuto e cercato di comprendere.
“Un Ponte per...” Associazione Non - Governativa di Volontariato per la Solidarietà Internazionale
piazza Vittorio Emanuele II,132 00185 Roma - Tel. 06/44702906, Fax 06/44703172 - e-mail: [email protected] - web: www.unponteper.it
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4 dicembre Shatila
… ma se non dico anche Sabra non la si ricorda. Sono due quartieri contigui di Beirut sui quali ogni
disgrazia libanese finisce per andare a parare.
Sette volte è stata distrutta Shatila, e ora ospita 17.000 persone; sorpresa: non tutti palestinesi, ci sono
anche i libanesi che abitavano qui prima dell’arrivo dei profughi, e poi siriani, egiziani… varia umanità
che cerca di sopravvivere.
Le operatrici della Ong ci introducono al loro lavoro con i bambini e le madri. Infatti vediamo dei
piccoletti dall’aria contenta, ma si percepisce una forte disciplina interiore.
Anche “giro turistico” del campo, come no!
Il cimitero della guerra civile del 1985-87 e
il cimitero del massacro. Ecco qualche
immagine nel video.
http://www.youtube.com/user/altroveable
?feature=mhum#p/u/4/Z0luSW5XdPw
Posso immaginare il campo illuminato dai
fari dell’esercito israeliano che assistette
alla carneficina o la ordinò, ma nessun
Tribunale internazionale l’ha sentenziato.
Quel giorno c’erano qualche vecchio e tante donne con i bambini. Chi poteva immaginare che la
bestialità delle Falangi maronite si sarebbe scatenata su di loro? Che cosa hanno provato, poi,
pensando di aver fatto connivenza con gli invasori del proprio stato?
Sarà per colpa del mio Asus dalla tastiera nevrotica se non riesco a scrivere di più, qui in questo bar che
come quasi tutti nel centro di Beirut ha il wireless?
Oppure è la somma disordinata di emozioni di questo giorno e del tormentato privilegio di aver
ascoltato dalla voce di due sopravvissute, donne dolci e vigorose, i loro ricordi di quel sanguinoso
giorno dell’ira e dell’odio.
http://www.youtube.com/watch?v=p3Z6AKtLIw0
Sulla spianata del cimitero camminavo sulla terra che copre migliaia di corpi sepolti dentro involucri di
plastica e guardavo la vita che non si è arresa. Scherzavo con Fadel, Fauzi e Hasa, tre bambinetti
chiacchierini, due parole di inglese … tanto arabo e sguardi d’intesa, una pietra su cui pestavano non so
cosa e le prodezze con il pallone.
Quando è nato il campo con i primi profughi le case affacciate sui vicoli erano basse, poi mentre
i figli crescevano e mettevano su famiglia, anche le abitazioni acquistavano via via un piano in più, una
stratificazione generazionale sulla testa dei nonni (..!). Ora il sole non riesce penetrare fino ai piani
bassi e le case svettano verso il cielo dominando sulle macerie delle ultime guerre. Assorbivo lo spirito
indomabile di questa gente, ma sapevo che dentro le mura ci sono dolori, eroismo, tensioni di uomini
senza lavoro e senza speranza, che
a volte sfocia in violenza, donne
che possono fare ben poco per
aiutarli ad essere diversi. I bambini
trovano felicità nel centro della
Ong Beit Aftal Assomoud che fa da
consultorio medico, assistenza
sociale, erogazione di sussidi, asilo
ai piccoli , con metodi didattici
avanzatissimi, e doposcuola ai più
grandi.
Ci siamo affacciate in una di queste aule, senza finestre, con una ventina di bambini sorridenti,
orgogliosi direi dell’essere lì a studiare, compiaciuti del loro inglese: where are you from, what is your
name, e un intraprendente già seduttore, puntando nel nostro gruppo la ragazza dai bei capelli lunghi:
how old are you?
S’impara presto lo spirito del luogo: non si fotografa dove sventolano bandiere, lì c’è un minuscolo
gruppo di attivisti politici. Lo si fa dove ondeggiano decorazioni, ci sono uomini seduti a fumare
l’asciscia, la narghilè per intenderci. Pochi passi più in là un mercato, musica spaccatimpani, dolci che
trasudano zucchero, scarichi di auto appestanti, donne egiziane in questua con i loro bambini. Perché
sono qui? Mille motivi, ma di sicuro non hanno marito, fuggito o morto, e nemmeno cognati che le
potessero sposare. Ombre di una tristezza indicibile.
Quale parola ho sentito ripetere più spesso ieri a Chatila? Cancer, cancro. Si nutre dello stress e ogni
famiglia ha il suo malato che lo lascia come unica eredità. Non raro che dopo la morte del marito la
moglie si ammali e i bambini vengano accolti dagli zii… se ci sono.
Domani respirerò lontana da questo smog di Beirut perché andiamo al bosco dei cedri. Libano dei
sogni e della poesia, finalmente. Non sono così forte da sopportare senza conseguenze interiori tanta
vera e dolorosa vita umana come quella che ho sentito palpitare oggi.
5 dicembre Il Libano dei cedri
Il percorso in questa parte del Libano si snoda nella valle Qadeesha: montagne color terracotta come
scodelle rovesciate sopra profonde gole verdi. Zona a prevalenza cristiana pullula di croci e di madonne
su ogni casa.
Inaspettatamente capitiamo al museo di Kahil Gibran, che è altresì la sua tomba. Non so se nel
sarcofago ci sia realmente qualcuno, ma l’ambiente è raccolto. Bello stile, alle pareti i suoi quadri.
“Every drawing is the beginning of another” diceva Gibran, ogni disegno è l'inizio di un altro.
Forse lo si può dire di ogni incontro…
I cedri del bosco sono davvero plurisecolari, fantasiosi nelle forme che hanno saputo assumere.
Ricordando che è terapeutico abbracciare un albero, sfacciatamente intraprendo un incontro
ravvicinato con uno che ha la corteccia tale quale al carapace di una tartaruga.
E’ vero, qualcosa accade, l’albero comunica, sono vibrazioni, un dialogo fra viventi di specie diversa?
Non elenco il menù del pranzo, anche se sapessi scrivere in arabo, ma è del tutto degno della fama
della cucina libanese. E il tramonto? Un cielo rosso, con strisce di azzurro scuro, chiazze rosa pallido e
qua e là sprazzi di color verde acqua! Non ne ho mai visti di così variopinti e il suo ricordo mi fa
compagnia nell’estenuante rientro a Beirut di domenica sera.
8 dicembre La città di Bal
Un dio di cui poco so, Bal, ma che cattivo non doveva essere se ha reso così belli questi posti.
Le rovine … colonne di oltre 80 metri, le più alte del mondo…
E , magnetici per lo sguardo, i raffinati bassorilievi nella pietra, l’imponenza dei templi, i racconti che
si snodano nei decori a sbalzo intorno alle porte.. .
Basta lasciamo l’antico e parliamo del presente.
Per arrivare al sito e al campo profughi ci siamo addentrati nel Libano profondo, entrando nella valle
della Bekà in territorio molto filo Hezbollah.
A 1200 mt sul livello del mare, senza problemi di spazio, il campo di Baalbeck ha case basse, vie non
larghe ma assolate, le donne si distinguono per l’eleganza accurata e la simpatia, gli uomini sono una
presenza rara perché molti hanno potuto espatr…
eh no: sono dei senza patria, diciamo che hanno
potuto uscire dal Libano e andare a lavorare
altrove.
Mentre ci crogioliamo al sole su una panoramica
terrazza, le donne raccontano sorridendo che
quando le giornate sono fredde non c’è modo di
scaldarsi. E’ montagna, è ventilato… ma sorridono
mentre lo dicono.
Ci invitano a conoscere le madri. No: le Madri,
perché la loro dignità è maiuscola. Sono le testimoni viventi che la Palestina esisteva per loro, e che
tornerà ad esistere per le altre generazioni.
Intanto mi sono comperata la kefiyyah bianca e nera e un po’ “filistiniyya” adesso sono anche
nell’aspetto oltre che nell’animo…
Domani è il gran giorno: incontro la “mia” ragazzina. Sono emozionata, lo avevo tanto sperato in
questi anni e poi sempre qualcosa andava storto.
A parte questo sentimento, la situazione è assurda: cosa abbiamo da dirci? Lei non sa immaginare
come si vive nel mio paese, io so sempre meglio come vive lei ma posso forse dirle “che pena” ?
Magari sfoggerà il suo inglese con orgoglio e ci scambieremo domande senza molto senso, ma
qualcosa di sincero fra di noi passerà.
Il suo campo è Beddawi, vicino a Tripoli. L’altra Tripoli, non quella libica che conosco tanto bene! Sarà
interessante fare un confronto.
9 dicembre Tripoli e campo di Beddawi
E’ avvenuto l’incontro con la mia protetta, ed è stato più
bello di quanto avessi sperato.
Giuro che l’ho riconosciuta fra le altre ragazze prima che la
social worker, preziosissima donna, ci presentasse. Un bel
viso pulito, la chioma e gli occhi scuri, una quindicenne in
camicetta candida e tanta timidezza. Ora che abbiamo
scavalcato ostacoli e prassi e ci siamo abbracciate, so che saremo l’una per l’altra un vero affetto.
Siamo una testimonianza del possibile quando tutto sembra dire di no e abbiamo preso un duplice
accordo: la prossima volta conoscerò anche la sua coraggiosissima madre sopravvissuta al massacro di
Tal al Zatar, e un giorno più lontano ci incontreremo in Palestina, se tutto questo Dio vorrà. Questa è
la gemma, il momento aureo del viaggio per me, per lei la consolazione che non tutti nel mondo a lei
sconosciuto dimenticano la sua gente.
Il campo è ben attrezzato, le vie sono assolate e ben tenute, ho sentito di nuovo vibrare lo spirito
determinato all’ottimismo di Chatila, forse per questo non ho notato il muro di cinta, ma c’è, le foto lo
testimoniano. Per quelle di noi che ancora non sapevano, è stato un brutto colpo sentire che nello
stesso campo che ospita anche siriani e libanesi, questi possono avere permessi di lavoro o di espatrio,
possono risparmiare e comperare una casa da lasciare agli eredi, ma i palestinesi no: loro non possono
avere proprietà di alcun genere. Perché? Ma per il loro bene, dicono! Che accadrebbe del loro popolo
se si radicasse in Libano disperdendo le sue memorie? L’ipocrisia politica non ha limiti… Allora stiano
così provvisori e incerti e pensino sempre al ritorno, all’Auda, che verrà ... se Dio vorrà, perché nessuno
chiede a Israele di rispettare le risoluzioni che esigono la restituzione dei territori occupati.
“Dite voi se questo è un uomo” scrisse Primo Levi, perché non dovrebbe valere anche per questi
uomini e donne in balia di forze che non possono controllare?
14 Dicembre Commiato
Sapevo prima di partire ciò che avrei trovato perché le informazioni non mancano, beninteso se si
vogliono trovare. E il Ponte ci aveva fatto avere due opuscoli preziosissimi sulla questione Palestinese.
Andavo per dimostrare ciò che ai rifugiati in Libano sta a cuore: non sono del tutto dimenticati e per
incontrare la mia Hanaa.
Obiettivi raggiunti per i quali sono grata alle ong che ci hanno procurato i permessi d’entrata e
infinitamente alle persone palestinesi che mi hanno aperto i loro spazi, mostrato ciò che fanno e
lasciato constatare i loro molteplici bisogni.
Sono arricchita da questi incontri, ma sta montando una grande malinconia.
Vicino a loro si può parlare del ritorno in Palestina, perché ci credono o vogliono crederci, ma è un
evento talmente di là da venire e , avvenendo, non sarebbe come se lo immaginano. Ci sono storture
della storia che non si raddrizzano più.
La Naqba, la grande catastrofe del 48, ha sradicato delle comunità di agricoltori, ora i discendenti non
conoscono nulla della terra, dei suoi ritmi, di come coltivarla e amarla anche quando è avara. Qui ci
sono giovani che sono cresciuti in uno spazio quadrato di un km per lato, senza verde, senza un luogo
per tirare calci a un pallone… Uno solo ne ho visto ed era la spianata che ricopre i corpi dei martiri di
Chatila. Che male c’è se lì un bambino riesce finalmente a giocare e non pensa, lui, che un metro sotto
giacciono i martiri del suo popolo?
Ho ammirato la solidarietà che li unisce all’interno di ogni campo, ma con stupore ho sentito una social
worker allontanare una questuante straniera dicendo “lo fanno per abitudine, non hanno voglia di
lavorare” e mi sono sentita trasportata di colpo in Italia ad ascoltare una “signora perbene” parlare dei
rom. Come ci somigliamo tutti!
Un po’ di malinconia viene anche dalla sensazione di aver assistito spesso a reticenze, alla volontà di
non esporre apertamente le fratture ideologiche, lo scarso contatto fra i campi, il totale silenzio su
Gaza. Ma cosa ne posso capire io?
Io posso solo condividere la speranza che li accomuna tutti: RITORNO
… non voglio chiudere senza ricordarvi il campo di Bourj al Shamali con i suoi coloratissimi murales
Il suo teatro, i suoi musicisti con le cornamuse. Ho usato le loro bellissime musiche come colonna
sonora del video girato a Bourj Al Barajneh. Un campo difficile quello, dai tetti al suolo, come potete
vedere da qui:
http://www.youtube.com/user/altroveable?feature=mhee#p/u/9/-72JYZgoLpg
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