RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E PROCEDURE CONCORSUALI
di Antonio Caiafa, Professore
Sommario: 1. Premessa - 2. La disciplina normativa pregressa - 3. L’attuale legislazione - 4. Il
disegno di legge di riforma
1. Premessa
Nella relazione illustrativa del disegno di legge recante “Disposizioni in materia di
riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” si sottolinea che esso
tende a realizzare un mercato del lavoro dinamico, idoneo allo sviluppo ed alla
crescita e creazione di occupazione, con ripristino, allo stesso tempo, della coerenza
tra la flessibilità del lavoro e gli istituti assicurativi.
Da un punto di vista strutturale l’articolato risulta diviso in più capi e di essi, per
quel che attiene l’impatto sulle procedure concorsuali, meritano attenzione il terzo,
dedicato alla disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore, per le
disposizioni, in particolare, concernenti la materia dei licenziamenti collettivi ed
individuali per motivo economico, attesa l’esigenza di verificare se, ed in qual
misura, tale nuova regolamentazione viene ad incidere sulle possibilità per le
imprese che si trovino in crisi, ovvero per l’organo di una procedura liquidatoria, di
procedere alla risoluzione dei rapporti senza che da essa possano derivare
conseguenze negative per il ceto creditorio.
Altro capo del disegno di legge che interessa, più da vicino, le procedure di crisi o di
insolvenza è il quarto, che ha operato una rivisitazione degli ammortizzatori sociali
e delle tutele in costanza di rapporto di lavoro prevedendo particolari forme di
protezione dei lavoratori anziani.
Prima di scendere alla disamina dei singoli interventi riformatori appare utile
prendere atto delle finalità del provvedimento e dei sistemi di monitoraggio e
valutazione, cui fa cenno l’art. 1 del capo I dedicato a presentare il nuovo impianto
normativo, specificando essere esso diretto alla individuazione di misure ed
interventi volti a realizzare un mercato del lavoro dinamico che possa contribuire
alla creazione dell’occupazione, in termini di quantità e qualità, e ancora la crescita
sociale ed economica con riduzione permanente del tasso di disoccupazione.
Vi è l’enunciazione di un ambizioso programma che il Governo è convinto di poter
realizzare favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro stabili, contrastando l’uso
improprio e strumentale dei sistemi di flessibilità progressivamente introdotti nel
nostro ordinamento con riguardo alle diverse tipologie contrattuali e rendendo
altresì maggiormente “… efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori
1
sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di
rafforzamento della occupabilità delle persone” (art. 1, lett. d).
Attenzione, ancora, meritano le disposizioni riservate all’individuazione delle norme
che saranno abrogate e, in particolare, la decorrenza per esse prevista, attesa
l’indiscussa incidenza sull’attuale assetto, laddove si considerino le possibilità per le
imprese in crisi, ovvero insolventi, di poter usufruire degli attuali ammortizzatori
sociali in ragione degli effetti che discenderanno, inevitabilmente, dalla operata
rivisitazione sullo stesso impiego degli strumenti di tutela del reddito.
Il riferimento è agli articoli, rispettivamente, 39 e 51, il primo dei quali individua la
decorrenza con la quale le nuove norme disciplineranno gli ammortizzatori sociali ma non solo - individuando anche la data a decorrere dalla quale alcune disposizioni
in tema di procedure di mobilità e licenziamento collettivo dovranno ritenersi
integrate, modificate ovvero sostituite dalle nuove norme.
Quanto all’art. 51, esso risulta inserito nella sezione III, del capo IV, e riguarda gli
interventi in favore dei lavoratori anziani e gli incentivi all’occupazione e prevede
l’abrogazione di disposizioni di grande impatto in tema di politica sociale e del
lavoro che, pertanto, oltre ad incidere su quanto sin qui avvenuto, segnano il futuro
non solo delle imprese ma anche, e soprattutto, di quei soggetti in favore dei quali
gli interventi, ovvero gli incentivi, risultano essere stati interamente rivisitati.
Una prima preoccupante constatazione va fatta con riferimento alle nuove regole
dettate per quel che attiene gli ammortizzatori sociali e, in particolare, la prevista
abrogazione del trattamento di integrazione salariale concorsuale, ora regolato
dall’art. 3 della legge n. 223/1991, con decorrenza - a seguito dell’operata
correzione - dal 1° gennaio 2016, avendo provveduto ad eliminare il Governo, nel
testo presentato al Senato il 5 aprile 2012, l’evidente discrasia risultante da una
lettura del primo e del secondo comma dello stesso art. 39, atteso che, in
precedenza, il comma primo prevedeva l’abrogazione dell’art. 3 della legge n.
223/1991 “a decorrere dal 1 gennaio 2013” mentre il secondo comma l’abrogazione
della medesima norma con decorrenza dal 1° gennaio 2016.
Venuta meno la doppia abrogazione e, quindi, l’evidente increscioso errore in cui
era incorso il Governo Tecnico, a seguito di una più attenta lettura delle disposizioni
da esso scritte, è lecito chiedersi quale incidenza avrà il nuovo sistema sulle
procedure di crisi e di insolvenza e, prima ancora, se sia davvero coerente e,
soprattutto, costituzionalmente orientata una disposizione che consenta alle
imprese interessate da una delle procedure concorsuali individuate all’art. 3 della
legge n. 223/1991, di avvalersi solo fino al 31 dicembre 2015 del trattamento
integrativo concorsuale, così consentendo al personale in organico di mantenere la
condizione di occupato, ove ammesse alle relative procedure lì previste, lasciando
in forse, di contro, la sorte del personale in organico alle imprese dichiarate
insolventi, ovvero in crisi, in data successiva al 1° gennaio 2016.
Si pone ancora un ulteriore delicato problema volto a stabilire in quale misura
potranno ancora operare le disposizioni dettate per agevolare il trasferimento delle
aziende in crisi, ovvero insolventi, o di singoli rami di esse, attraverso la conclusione
2
di quegli accordi collettivi trilateri, volti a consentire la realizzazione della vicenda
circolatoria attraverso la flessibilizzazione degli obblighi derivanti dall’art. 2112 c.c.,
con diversa graduazione a seconda che il trasferimento riguardi un’impresa in crisi,
ovvero insolvente, e l’attività risulti cessata o continuata, atteso che quegli accordi,
rispettivamente richiamati dall’art. 47, quinto e sesto comma, della legge n. 428 del
1990, dall’art. 63 del D.Lgs. n. 270 del 1999 con riferimento all’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese insolventi, dagli artt. 104-bis, comma 2, e 105,
comma 3, del D.Lgs. n. 169 del 2007 rispettivamente per l’affitto e la vendita nel
caso del fallimento, dall’art. 182, comma 4, del D.Lgs. n. 169 del 2007 per la
cessione di aziende o rami da parte del liquidatore giudiziale nel concordato
preventivo con cessione dei beni omologato, dall’art. 48, comma 8, lett. a) e b), del
D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, rispettivamente, per l’affitto e la vendita di
aziende, o rami di esse, in sequestro, quale conseguenza dell’adozione delle misure
di prevenzione, presuppongono tutte il mantenimento, da parte del lavoratore,
della condizione di occupato perché possa, attraverso la conservazione dell’azienda
tramite il suo trasferimento ad un terzo soggetto, realizzarsi anche il mantenimento,
parziale o totale, dei livelli occupazionali.
Il Governo è, dunque, convinto che:

la crescita produttiva incide positivamente anche sull’occupazione e che,
dunque, non è più necessario consentire al lavoratore il mantenimento della
condizione di occupato dal momento che, attraverso le misure di sostegno del
reddito e le previste agevolazioni per le assunzioni dalle apposite liste, sarà possibile
realizzare il reinserimento dei licenziati nel mercato del lavoro;

le aziende che non riescono a sopravvivere alla crisi, seppur saranno costrette
a licenziare i lavoratori, consentiranno una ripresa dell’attività e, dunque, un
miglioramento della situazione attraverso nuove assunzioni del personale licenziato,
assicurato dalla ripresa della domanda, sul presupposto che la crisi spinge verso la
ricerca di soluzioni che accrescono la produttività.
Crisi di impresa, innovazioni tecnologiche e concorrenza ormai globalizzata sono
fattori ineliminabili del processo di crescita che non rendono affatto scontato
l’aumento dell’occupazione, anche quando vi sia la ripresa produttiva, poiché
raramente esiste una sola impresa che produce un medesimo bene o servizio,
sicché il fatto che la cessazione dell’attività da parte di una e più di queste vada a
beneficio di chi è riuscito a superare la crisi, non significa che questi abbia la
necessità di assumere altro personale, essendo ciò possibile solo ove non vi siano
capacità inutilizzate, sì da consentire l’inserimento di nuovi lavoratori.
Per ben comprendere le conseguenze che si verranno a produrre, in termini di
conservazione dei posti di lavoro, quante volte l’impresa, perché in crisi o
insolvente, venga assoggettata ad una delle procedure concorsuali regolate dalle
rispettive discipline normative individuate dal legislatore in ragione della grandezza
o meno delle stesse, appare opportuno procedere attraverso una ricostruzione
degli ammortizzatori sociali e, in particolare, della regolamentazione che ha
caratterizzato la disciplina pregressa e che ha preceduto quella poi dettata dal
3
legislatore, allorché, con legge 23 luglio 1991, n. 223, ha individuato le norme in
materia di cassa integrazione, mobilità e trattamenti di disoccupazione, in
attuazione delle direttive della Comunità Europea, ora destinate ad essere sostituite
dal disegno di legge, se ed in quanto sia approvato dal Parlamento nel testo
proposto al Governo.
In pratica, per meglio capire se ed in qual misura il nuovo sistema sia in grado di
soddisfare gli obiettivi che ha inteso raggiungere, occorre tener conto del sistema
precedente e, quindi, di quello attuale destinato ad essere sostituito.
2. La disciplina normativa pregressa
L’indagine che è indispensabile svolgere sulla sorte e gli effetti dei rapporti giuridici
preesistenti e, in particolare, sul contratto o rapporto di lavoro non può prescindere
dal verificare in quale modo abbia inciso su di essi il trattamento di integrazione
salariale straordinario ove l’imprenditore, assoggettato ad una delle procedure
concorsuali regolate dalla legge fallimentare ante riforma, non vi avesse fatto
ricorso anteriormente, con conseguente sospensione pregressa dei rapporti, che
pertanto, destinati a proseguire senza soluzione di continuità, pur con gli effetti
discendenti dall’art. 72 l. fall. ad essi ritenuto applicabile, sono stati oggetto, in
passato, di un intervento di politica occupazionale che, sia pure con tutte le
caratteristiche positive e negative tipiche dell’approccio congiunturale, hanno
individuato una causa autonoma di intervento e, dunque, uno speciale regime
protettivo destinato a trovare applicazione in tutti quei casi in cui l’impossibilità di
attuazione del processo di riconversione o ristrutturazione, in precedenza ritenuto
possibile, avesse determinato, al momento dell’apertura della procedura
concorsuale, un’eccedenza non più temporanea del personale in organico, ovvero
anche comportato la necessità di una totale soppressione dei posti di lavoro1.
Il legislatore, consapevole del fatto che in situazioni particolarmente qualificanti di
crisi aziendale rileva la garanzia della stabilità del posto di lavoro e del reddito,
qualora l’esistenza del rapporto abbia perso la sua funzione economica di scambio,
seppur aveva inteso, in situazioni di crisi patologica e non fisiologica, individuare
uno strumento in grado di consentire la riduzione dei livelli occupazionali, in
relazione alle diverse esigenze, ovvero il recesso da tutti i rapporti di lavoro, nel
caso in cui la situazione di crisi irreversibile avesse determinato la necessaria
cessazione di ogni attività di impresa, non aveva, tuttavia, considerato che ciò
poteva intervenire in conseguenza dell’apertura di una procedura concorsuale
liquidatoria.
1
D’ANTONA, L’intervento straordinario della Cig nelle crisi aziendali: interessi pubblici, collettivi, individuali, in Riv.
giur. lav., 1983, I, 15; MARCHITIELLO, Mutamenti della funzione della cassa integrazione e guadagni, in Dir. lav., 1982,
I, 173; DE CAROLI, La sospensione dell’attività lavorativa nell’ambito dell’intervento della cassa integrazione guadagni,
in Orient. giur. lav., 1982, 1468.
4
La finalità della legge 12 agosto 1977, n. 675 - così come si legge nella stessa
intestazione - è stata quella di dettare provvedimenti per il coordinamento della
politica industriale, attraverso la riorganizzazione, la ristrutturazione, la conversione
della struttura delle imprese operanti in un determinato settore, in ragione della
avvertita esigenza di formulare regole per migliorare la funzionalità delle stesse e, in
primo luogo, per mantenerle in vita, anche se con una differente organizzazione di
mezzi e di lavoro, ovvero per utilizzarle, comunque, in altre imprese.
La disciplina normativa, nella prospettiva del legislatore dell’epoca, non prevedeva
dunque l’ipotesi estintiva dell’impresa che, al contrario, si realizza con la procedura
fallimentare attraverso la liquidazione del complesso dei beni organizzato, mediante
cessione di esso ovvero la vendita atomistica.
Tra le innovazioni maggiormente significative, per la parte che qui interessa, oltre
alla previsione di una nuova causa di intervento straordinario, per le crisi di
imprese che presentavano particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione
occupazionale locale e produttiva del settore (art. 21, comma 2, in riferimento
all’art. 2, comma 5, lett. c) era stata prevista l’erogazione di un trattamento
integrativo in favore dei lavoratori di imprese industriali licenziati per fallimento
dell’impresa stessa (art. 25, comma 7, per come modificato dall’art. 2, l. 27 luglio
1979, n. 301).
Tale disposizione normativa aveva previsto la sospensione dell’efficacia degli
intimati licenziamenti, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro, pur se
ai soli fini dell’intervento straordinario, alla condizione dell’esistenza del decreto
ministeriale di accertamento dello stato di crisi e delle condizioni per l’applicazione
del relativo trattamento e delle procedure di mobilità2.
I rapporti di lavoro, nei settori cui la legge era applicabile, si venivano a trovare in
una particolare situazione, nel senso che questi - già sospesi per effetto della cassa
integrazione - entravano, una volta dichiarato il fallimento, in una fase di
quiescenza, in conseguenza della regola generale dettata dall’art. 72 l. fall., con la
possibilità, quante volte l’impresa appartenga al settore per il quale le relative
provvidenze sono state specificamente previste, per il personale dipendente, il cui
rapporto di lavoro venga risolto, di poter beneficiare del corrispondente
trattamento integrativo previsto per un periodo massimo di ventiquattro mesi.
Il licenziamento era, dunque, il presupposto necessario perché potesse trovare
applicazione l’art. 2 della legge n. 301 del 1979 ed il trattamento integrativo
riconosciuto viene a costituire una forma di tutela dell’occupazione con un fine
meramente assistenziale.
In particolare, la legge n. 675 del 1977, innovando rispetto alla legge 5 novembre
1968, n. 1115, oltre a prevedere e regolamentare particolari situazioni di crisi 2
Sulla relativa disciplina si vedano i primi contributi di FERRARO, Cassa integrazione guadagni e crisi aziendale nelle
leggi sulla riconversione industriale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, 1000; Id., La disciplina della cassa integrazione e
guadagni delle leggi sulla riconversione industriale, in Il diritto del lavoro nella emergenza, a cura di DE LUCA TAMAJOVENTURA, 1979, 35: MAGNANI, Provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la
riconversione e lo sviluppo del settore industriale, in Le leggi civili comm., 1978, 772.
5
richiedendo, peraltro, che le stesse fossero accertate dal CIPI (art. 2, comma 5) e
riservando al Ministero del Lavoro l’adozione dei conseguenti provvedimenti - aveva
anche previsto l’equiparazione del periodo di godimento dell’integrazione salariale
all’anzianità di iscrizione nelle liste di collocamento (art. 21, comma 3) e, ancora,
l’attribuzione, a carico del Fondo per la mobilità della mano d’opera, del contributo
addizionale di cui all’art. 12 della legge n. 164 del 1975 e delle quote di indennità di
anzianità maturate, durante il periodo di integrazione salariale, per quei lavoratori
che non fossero rioccupati nella medesima azienda al termine del periodo per
impossibilità dell’impresa di mantenere il livello occupazionale, ovvero in presenza
della necessità, condivisa dalle OO.SS., di pervenire ad una nuova dimensione
produttiva (art. 21, commi 5 e 6).
3. L’attuale legislazione
È attraverso la legge del 23 luglio 1991 n. 223 che, però, sono state individuate
nuove regole, non solo per quel che attiene le cause integrabili e la previsione di un
particolare trattamento integrativo concorsuale, riservato alle imprese operanti in
determinati settori, per consentire al lavoratore di mantenere “la condizione di
occupato” per il periodo previsto, ma anche la tipizzazione delle ipotesi e dei motivi
in presenza dei quali ricorre il licenziamento collettivo e la procedimentalizzazione
delle scelte dell’imprenditore, nell’individuazione dei lavoratori interessati,
spostando il controllo dal momento giudiziario, successivo al recesso, a quello
amministrativo e sindacale che lo precede3.
La legge ha offerto una compiuta regolamentazione, dunque, non solo degli
ammortizzatori sociali, ma anche dei licenziamenti collettivi, prevedendo due
distinte ipotesi, rispettivamente, all’art. 4, per la messa in mobilità dei lavoratori già
in CIGS, e all’art. 24, per riduzione di personale, individuando il requisito per
l’applicabilità della norma nel numero dei dipendenti occupati (più di quindici)
anche quando le imprese intendano cessare l’attività.
La legge ha abrogato l’art. 2 della legge n. 301 del 1979, che aveva aggiunto il
settimo comma all’art. 25 della legge 675 del 1977, anch’esso caducato unitamente
all’art. 8 della legge n. 1115 del 1968 sulla disoccupazione speciale per i lavoratori
dell’industria4.
Ebbene, qualora si intenda verificare l’attuale “stato dell’arte” e stabilire se,
nell’ambito del sistema normativo vigente - destinato ad essere sostituito da quello
diretto a realizzare la riforma del mercato del lavoro -, siano state individuate
soluzioni appaganti ed in grado di permettere, realisticamente, la conservazione
3
GALANTINO, I licenziamenti collettivi, Milano, 1984, 9; CESSARI, Dai licenziamenti ai trasferimenti collettivi, in
CESSARI-DE LUCA TAMAJO, Dal garantismo al controllo, Milano, 1982, 169; FOGLIA, Riduzione di personale e
licenziamenti economici, in Dir. lav., 1997, I, 4.
4
Sul regime delle obbligazioni si veda PAPALEONI, L’indennità di mobilità, in PAPALEONI, DEL PUNTA, MARIANI, La
nuova cassa integrazione guadagni e la mobilità, Padova, 1993, 520.
6
dell’impresa e, al tempo stesso, il mantenimento dei livelli occupazionali senza la
necessità di pervenire alla scomposizione dei beni che compongono l’azienda,
mediante l’individuazione di un soggetto terzo interessato all’acquisizione della
stessa, è indispensabile soffermarsi sull’art. 3 della legge n. 223 del 1991, di cui è
prevista l’abrogazione a far data dal 1° gennaio 2016.
E difatti, solo attraverso la ricostruzione delle regole introdotte da un sistema che
aveva ridisegnato gli ammortizzatori sociali, pervenendo all’abrogazione dell’art. 2
della legge n. 301 del 1979 - che aveva creato notevoli difficoltà di ordine
sistematico in conseguenza del fatto che le prestazioni erano riconosciute con
riferimento ad un rapporto di lavoro formalmente cessato, atteso che il
licenziamento era lo strumento necessario ed inevitabile perché potesse trovare
applicazione - sarà possibile valutare se, incidendo sul potere del lavoratore di
mantenere la condizione di occupato, sarà ancora possibile privilegiare quelle
soluzioni circolatorie dell’azienda che il legislatore ha inteso assicurare attraverso le
norme sopra richiamate.
L’art. 3 della legge n. 223 del 1991 ha, difatti, introdotto una nuova fattispecie di
derogabilità delle integrazioni salariali al fine di garantire la stabilità del posto di
lavoro e del reddito, tentando di assicurarne la permanenza, nonostante l’apertura
della procedura concorsuale, attraverso la diversa previsione che il licenziamento
può essere attuato, rispettivamente, ai sensi dell’art. 4 o 24 della stessa legge n. 223
del 1991, allorché, al termine del periodo di integrazione salariale che ha permesso
al lavoratore di mantenere la condizione di occupato, non risulti possibile realizzare
alcuna delle ipotesi circolatorie dell’azienda, considerate al secondo comma dello
stesso art. 3 e, per l’effetto, i rapporti dovranno essere necessariamente risolti5.
La legge n. 223 del 1991, nel disciplinare la sorte del contratto di lavoro nel
fallimento e nelle altre procedure concorsuali, ha distinto, espressamente, l’ipotesi
della prosecuzione dell’attività d’impresa, per la quale ha escluso i licenziamenti,
stabilendo, nel caso di cessazione, che i rapporti rimangano sospesi per un periodo
massimo di dodici mesi con l’intervento della cassa integrazione.
L’ammissione è automatica dovendosi individuare l’unica condizione, per la
concessione del beneficio, nella presentazione della domanda da parte dell’organo
competente.
Al secondo comma dell’art. 3 è previsto, poi, che il primo periodo massimo di dodici
mesi possa essere, ulteriormente, prorogato allorché vi siano fondate prospettive di
continuazione o ripresa dell’attività risultando condizionato il riconoscimento, in
questo caso, dalla presentazione di una domanda, da parte dell’organo
rappresentativo della procedura, approvata dal giudice delegato, nella quale
5
MISCIONE, L’integrazione salariale ed eccedenza di personale, in Giur. it., 1991, IV, 4; CINELLI, La nuova disciplina
della Cigs, in Dir. prat. lav., 1991, 2575; GIUDICI, Licenziamenti collettivi per riduzione di personale, in Dir.prat.lav.,
1991, inserto 34; LEBRA, L’indennità di mobilità, ivi, 1992, 149; CAIAFA A., Sopravvivenza dell’impresa nelle procedure
concorsuali e sorte dei rapporti di lavoro, in Dir. lav., 1991, I, 48; Id., Insolvenza del datore di lavoro e tutela dei
dipendenti, in Il fall., 1992, 559; Id., I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, Padova, 1994, 22.
7
dovranno essere puntualizzate le ragioni che suggeriscono l’estensione del
beneficio.
La nuova disciplina, a differenza della precedente, è caratterizzata dall’intento di
realizzare la permanenza dei rapporti di lavoro facenti capo all’impresa sottoposta
ad una procedura concorsuale e dalla possibile salvaguardia di tali rapporti
mediante “… cessione dell’azienda o di sue parti”.
In sostanza, mentre la legge 27 luglio 1979, n. 301, operava il mantenimento
fittizio dei rapporti, stabilendo che questi, una volta risolti, proseguivano, in realtà,
ai soli fini della cassa integrazione; l’attuale disciplina normativa, di contro, ha
previsto esattamente l’inverso, dal momento che la continuazione dei rapporti
medesimi, pur se in stato di sospensione riguardo alle obbligazioni principali proprie
del contratto (retribuzione e prestazione), è effettiva e reale.
Il predetto trattamento riconosciuto in favore delle imprese appartenenti al settore
industriale che occupino più di quindici dipendenti e, per effetto di una serie di
disposizioni che nel tempo hanno modificato la originaria previsione, anche a quelle
del settore commerciale che ne occupino più di cinquanta, è ora esteso, in virtù di
quanto previsto dall’art. 40 del disegno di legge - che modifica l’art. 12 della legge n.
223 del 1991 - a decorrere dal 1 gennaio 2013, anche alle agenzie di viaggio e
turismo, compresi gli operatori turistici, con più di cinquanta dipendenti, alle
imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti e, ancora, alle imprese del
trasporto aereo e del sistema aeroportuale a prescindere dal numero di
dipendenti.
Le imprese minori sono escluse dall’ambito di applicazione della messa in mobilità,
regolata dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, dal momento che tale norma
presuppone che vi sia stato un preventivo intervento di integrazione salariale
straordinaria che, come si è visto, presuppone l’esistenza di requisiti numerici, non
potendo il numero dei dipendenti delle imprese industriali essere, in nessun caso,
inferiore a quindici, o a cinquanta se operanti nel settore commercio, laddove, in
alcuni casi, l’integrazione salariale è del tutto esclusa.
Attraverso l’art. 4 della legge n. 236 del 1993 è stata prevista l’estensione, in favore
dei lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo da imprese che occupino
meno di quindici dipendenti, dei benefici, però, non economici derivanti dalla
iscrizione nelle liste di mobilità, anche perché questi avevano, in precedenza, diritto
all’indennità di disoccupazione speciale di cui all’art. 8 della legge 5 novembre 1968,
n. 1115, abrogata dall’art. 16, comma quarto, della legge n. 223 del 19916.
Le aree non coperte dalla legge n. 223 del 1991 - come modificata dalla legge n. 236
del 1993 - riguardano tutte le imprese che abbiano un numero di dipendenti,
inferiore a quindici unità, individuato secondo il criterio dettato dall’art. 1 della
6
Sul tema si vedano i contributi di FERRARO, Le integrazioni salariali, in Integrazioni salariali, eccedenza di personale e
mercato del lavoro, commento sistematico alla legge 223/91, a cura di FERRARO, MAZZIOTTI, SANTONI, Napoli, 1992,
41; NAPOLI, Le nuove disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e di mobilità, in Riv. giur. lav., 1993, I, 189;
PAPALEONI, DEL PUNTA, MARIANI, La nuova cassa integrazione guadagni e mobilità, Padova, 1993, 521.
8
medesima legge con riferimento a quelli occupati mediamente nel semestre
precedente7, ovvero tenendo conto dell’organico oggettivo e, dunque,
normalmente necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa8.
Il trattamento integrativo straordinario costituisce lo strumento per rinviare i
licenziamenti il più a lungo possibile, e per consentire ai lavoratori interessati di
mantenere la condizione di occupati, anche se nelle imprese con meno di quindici
dipendenti, ovvero che ne occupino un numero superiore, ma inferiore a quello
necessario per ottenere l’indennità di mobilità, l’art. 4, comma 1, legge n. 236 del
1993 ha riconosciuto l’iscrizione nelle liste, ove il recesso sia stato determinato da
un giustificato motivo oggettivo, senza, tuttavia l’estensione dei benefici economici,
sia diretti che indiretti, per quel che attiene la corresponsione, in favore dei datori
di lavoro che li assumono, della metà del trattamento economico spettante al
lavoratore (art. 8, comma 4, legge n. 223 del 1991).
4. Il disegno di legge di riforma
L’art. 22 del disegno di legge, recante disposizioni in materia di riforma del mercato
del lavoro, prevede l’istituzione, presso l’INPS, con decorrenza dal 1° gennaio 2013,
dell’assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) e ne regola l’ambito di applicazione
in favore di quei lavoratori “...che abbiano perduto involontariamente la propria
occupazione”, riconoscendo loro un’indennità mensile di disoccupazione e
comprendendo, tra questi, gli apprendisti, i soci lavoratori di cooperative che
abbiano stabilito un rapporto di lavoro in forma subordinata a seguito della
adesione od instaurazione di quello associativo, con esclusione dei dipendenti delle
Pubbliche Amministrazioni e degli operai agricoli a tempo determinato o
indeterminato per i quali trovano applicazione norme specifiche.
L’indennità viene riconosciuta alla condizione che i lavoratori interessati possano far
valere almeno due anni di assicurazione, ovvero un anno di contribuzione nel
biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione, e sono esclusi coloro che
si siano dimessi volontariamente o abbiano risolto, consensualmente, il rapporto,
con conseguente mantenimento dell’indennità in favore di quanti abbiano inteso
rassegnare le dimissioni per giusta causa.
Per quel che concerne la durata massima legale (art. 32), con riferimento ai nuovi
eventi di disoccupazione che si verranno a verificare a decorrere dal 1° gennaio
2013 sino al 31 dicembre 2015, vengono previsti termini diversi per il godimento
7
In tal senso la circolare ministeriale n.155 del 1991 in Dir. prat. lav., 1991, 3321; in dottrina, seppur con riferimento
alle ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro, MAGRINI, Il licenziamento collettivo nella giurisprudenza sulla legge
n.223/1991, in Lav. inf., 1997, II, 9; FOGLIA, Riduzione di personale e licenziamenti economici, in Dir. lav., 1997, I, 5.
8
ALLEVA, L’ambito di applicazione e la tutela reale contro il licenziamento, in La disciplina dei licenziamenti dopo le
leggi 108/90 e 223/91, a cura di CARINCI, Napoli, 1991, 25; GRAMICCIA, Dimensioni dell’impresa e personale
normalmente occupato, in Mass. giur. lav., 1975, 503; VACCARO, Sul criterio per il calcolo dei dipendi nell’azienda, in
Mass. giur. lav., 1973, 167.
9
delle prestazioni, con riferimento a ciascun anno sino al 2015 e di diversa durata in
ragione della età anagrafica dei soggetti interessati (inferiore, pari o superiore a
cinquanta anni, ma inferiore a cinquantacinque e, quindi, età anagrafica pari o
superiore a quest’ultima).
Il successivo art. 33 regola, in via transitoria, il periodo massimo di diritto
dell’indennità di mobilità, di cui all’art. 7, commi 1 e 2, della legge n. 223 del 1991,
con durata diversa riferita al periodo di collocazione in mobilità, alla causale e,
ancora una volta, all’età anagrafica dei soggetti interessati.
In particolare, la durata massima è previsto che decresca per ciascuno degli anni
compresi tra il 2013 ed il 2016 e con un trattamento ancorato all’età dei lavoratori
interessati: dodici mesi per i più giovani, quarantotto mesi per i più anziani.
L’art. 37 disciplina la transizione verso il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali,
consentendo la concessione, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di
integrazione salariale e di mobilità che è previsto possano essere adottati dal
Ministro del Lavoro e dalle Politiche Sociali, di concerto con quello dell’Economia e
delle Finanze, sulla base di specifici accordi governativi, per periodi però non
superiori a dodici mesi, il cui riconoscimento è previsto avvenga nei limiti delle
risorse finanziarie ed a tal fine destinate nell’ambito del Fondo sociale per
l’occupazione e la formazione.
E’ anche prevista la possibilità della proroga dei trattamenti di integrazione salariale
e di mobilità per ulteriori periodi non superiore a dodici mesi.
Il sistema così ridisegnato si sovrappone all’attuale e, pertanto, si vengono a creare,
inevitabilmente, problemi di compatibilità che, invero, non sembrano essere stati
attentamente valutati, dal momento che l’art. 39 ha operato - come già anticipato l’abrogazione dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991, a far data dal 1° gennaio 2016,
sicché forse avrebbe dovuto essere non già rivista la disposizione, nel senso di
eliminare la discrasia e, pertanto, la relativa decorrenza abrogativa, per come poi
attuata nel testo presentato al Senato il 5 aprile 2012, quanto, piuttosto,
mantenendo e conservando efficacia alla norma sino al 31 dicembre 2012,
rendendola così compatibile con le disposizioni precedenti.
Quali allora le conseguenze della diversa operata previsione?
Ebbene, sembrano piuttosto evidenti, dal momento che la richiesta di intervento
straordinario dovrà - una volta divenuta operativa la riforma - trovare idonea
giustificazione nel programma che deve essere predisposto, atteso l’obbligo per la
parte richiedente di considerare, complessivamente, il risultato di impresa, il
fatturato e l’indebitamento riguardante il biennio precedente, sì da lasciare
emergere un andamento a carattere negativo, ovvero involutivo, tale da
giustificare, in via generale, la necessità della prevista fase di ristrutturazione,
riorganizzazione, conversione, ovvero di ridimensionamento dell’organico
aziendale, in ragione della denunciata crisi.
Nel caso della crisi, oltre ad essere richiesta una relazione tecnica, recante le
motivazione a supporto della critica situazione economico-finanziaria (art. 1, lett. a),
vi è l’obbligo, per l’impresa, di presentare un “piano di risanamento” con
10
definizione delle “azioni intraprese o da intraprendere, per il superamento delle
difficoltà … distinte per ciascun settore di attività dell’impresa stessa, nonché per
ciascuna unità aziendale interessata dall’intervento straordinario di integrazione
salariale” e anche un “piano di gestione” degli esuberi strutturali.
Ciò è quanto viene sollecitato per l’ipotesi in cui la causa della crisi non sia dovuta
ad un evento imprevedibile ed improvviso, essendo richiesto in tal caso solo il piano
di risanamento e di gestione degli esuberi (rispettivamente lettere c) e d) dell’art.
1).
Il D.M. 18 dicembre 2002 regola, anche, la concessione del trattamento nei casi di
cessione dell’attività, precisando all’art. 2 che tale evento può riguardare l’intera
azienda, ovvero un settore della stessa, imponendo in tal caso la presentazione di
un “piano di gestione dei lavoratori in esubero” inteso a ridurre il ricorso alla
mobilità, purché nel corso del periodo dell’intervento integrativo richiesto, “…
ovvero nell’arco dei dodici mesi successivi al termine di tale intervento”, la mobilità
non costituisca uno strumento di ricollocazione, anche parziale, del personale in
organico.
L’art. 3, poi, non prevede alcuna causa di esclusione qualora il trattamento
integrativo venga richiesto per cessazione dell’attività, mentre esclude da quello
per crisi aziendale le imprese che abbiano iniziato l’attività produttiva nel biennio
antecedente, ovvero non l’abbiano avviata, o abbiano subito significative
trasformazioni societarie, avvenute tra imprese che presentino assetti proprietari
sostanzialmente coincidenti, allo scopo di contenere i costi di gestione.
Non risultano richiamati, dal disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, tra
le disposizioni oggetto di abrogazione, il D.M. 18 dicembre 2002 e la stessa legge 3
dicembre 2004, n. 291 di conversione, con modificazioni, del D.L. 5 ottobre 2004, n.
249, recante interventi urgenti in materia di politica del lavoro e sociale, che all’art.
1, seppur nei limiti di spesa previsti dal Fondo per l’occupazione di cui art. 1, comma
7, della legge 19 luglio 1993, n. 236, ha previsto la proroga del trattamento
straordinario di integrazione salariale per crisi aziendale per un periodo di dodici
mesi, nel caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda9.
Gli strumenti cui si è però ora fatto cenno hanno un preciso onere per l’impresa,
non previsto nel caso del trattamento regolato dall’art. 3 della legge n. 223 del
1991, con la finalità di consentire la prosecuzione del rapporto non già per fini
previdenziali di tutela del reddito, ma per il mantenimento della condizione di
occupato, venendo il rapporto mantenuto in vita non in virtù di una sorta di fictio
iuris, dal momento che la continuazione dello stesso, pur se sospeso, riguarda le
obbligazioni principali che gravano sulle parti, come risulta dimostrato dalla
circostanza che durante il periodo di integrazione maturano, come conseguenza
dell’anzianità acquisita, le relative quote di fine rapporto10.
9
Per un commento del D.M. 18 dicembre 2002 si veda GALLO, La modifica dei crediti concessivi della Cigs, in Dir. prat.
lav., 2002, 2770; CAIAFA A., Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure di insolvenza, in Diritto Europeo: crisi di
impresa e sorte dei rapporti di lavoro, Milano, 2008, 119.
10
Cass., 2 dicembre 1991, n. 12908, in Il fall., 1992, 575.
11
La finalità di gran lunga preminente che il legislatore aveva inteso realizzare
attraverso l’art. 3 della legge n. 223 del 1991 - di cui ora è prevista l’ abrogazione risiede nell’intento di salvaguardare la professionalità acquisita dai lavoratori
dell’impresa in crisi ovvero insolvente, consentendo la continuità del rapporto,
attraverso la garanzia del reddito, per permettere, attraverso il subentro di nuovi
imprenditori, che venga tutelata anche l’occupazione11.
Conclusa l’analisi sistemica del campo di applicazione delle nuove cause di
intervento, ordinario e straordinario, e i nuovi strumenti individuati in termini di
tutela del reddito, ma non già più volti a consentire la sospensione del rapporto di
lavoro per assicurarne il suo mantenimento nell’ipotesi in cui sia possibile realizzare
una vicenda traslativa temporanea (affitto), ovvero definitiva (vendita),
dell’azienda, o dei singoli rami cui il lavoratore era addetto, occorre verificare se, ed
in quale misura, la disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutela del lavoro,
regolata dal capo III delle disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro
nella dichiarata prospettiva di crescita, e le correlate modifiche, apportate alla legge
15 luglio 1966, n. 604 con riferimento, in particolare, al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo - quante volte l’impresa dichiarata fallita occupi meno
di quindici dipendenti -, viene ad incidere sul potere dell’organo della procedura di
risolvere il rapporto di lavoro.
Per poter comprendere le conseguenze derivanti dall’operata riscrittura della
disposizione normativa, che è destinata a trovare applicazione anche nell’ipotesi in
cui l’imprenditore abbia i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 9, della
legge n. 300 del 1970, per come modificato dalle nuove disposizioni, appare utile
soffermarsi sulla disciplina vigente e, in particolare, su quanto previsto,
rispettivamente, dagli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, che, individuando due
distinte fattispecie di risoluzione del rapporto, non trovano applicazione nei
confronti dei lavoratori delle piccole imprese, per tali intendendosi quelle che
occupano, ora, meno di quindici dipendenti nell’unità produttiva ovvero nell’ambito
dello stesso Comune12.
Per quel che concerne i limiti dimensionali, l’art. 14, nel riformulare e modificare
l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, precisa che trovano applicazione le precedenti
disposizioni in tema di risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo,
ovvero nel caso di licenziamento dichiarato inefficace, o per ritenuta assenza della
dedotta giustificazione, ove il motivo oggettivo sia stato individuato nella inidoneità
fisica o psichica del lavoratore, o, ancora, di recesso disposto in violazione dell’art.
2110, secondo comma, c.c. nei confronti del datore di lavoro che, in ciascuna sede
11
ALLEVA, Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure concorsuali, in Collana di Studi giuridici dell’Ordine degli
Avvocati di Bari, Bari, 2000, 29; CAIAFA A., Nuovo diritto delle procedure concorsuali, Padova, 2006, 374.
12
Vi sono aree che, indipendentemente dalla dimensione delle imprese e dal numero dei dipendenti occupati, sono,
comunque, escluse dalla disciplina in ragione della regolamentazione specifica del relativo settore, come per gli
autoferrotranvieri, i dipendenti delle imprese esattoriali, degli enti pubblici non economici, delle imprese di
navigazione marittima e aerea.
12
“stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo” - cui era addetto il lavoratore -,
occupi alle sue dipendenze più di quindici dipendenti, o più di cinque se
imprenditore agricolo, potendo, peraltro, il requisito dimensionale sussistere
nell’ambito dello stesso Comune, anche quando ciascuna unità produttiva,
singolarmente considerata, non lo raggiunge.
Per i licenziamenti collettivi - come vedremo - il legislatore ha previsto una specifica
procedura cui ha correlato, nell’ipotesi di inosservanza, conseguenze diverse a
seconda che il recesso non sia stato intimato per iscritto (reintegrazione), o in
violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma dodici, prevedendo, in tal
caso, un risarcimento non inferiore a cinque mensilità e non maggiore di dodici, con
obbligo di un versamento dei contributi oltre gli interessi, senza sanzioni, per
l’intero periodo compreso tra la data del licenziamento e quella di ricostituzione del
rapporto, sanzioni queste di non diverso contenuto quante volte la violazione abbia
riguardato i criteri di scelta previsti dal comma primo dello stesso art. 4.
In assenza del presupposto numerico, l’imprenditore non è vincolato da procedure
e criteri di scelta quand’anche intenda effettuare la riduzione di personale, ovvero
procedere ad una risoluzione di tutti i rapporti dando luogo, nell’ipotesi
considerata, ad un licenziamento individuale plurisoggettivo per giustificato
motivo oggettivo13, anche se è tenuto a fornire la dimostrazione dell’impossibilità
di utilizzare diversamente la prestazione.
Dunque l’unica reale sostanziale differenza risiede nell’obbligo o meno di seguire la
procedura sindacale di consultazione ed informazione, vincolante solo per gli
imprenditori che abbiano più di quindici dipendenti e intendano procedere alla
risoluzione del rapporto di lavoro di più di cinque di essi nell’arco di centoventi
giorni, non essendovi, al contrario, tenuti coloro che hanno un organico inferiore.
Dopo l’emanazione, difatti, della legge n. 108 del 1990, tutti i licenziamenti, anche
quelli che non ricadono nell’ambito della legge n. 223 del 1991, rientrano senz’altro
nella disciplina limitatrice dei recessi individuali, con il conseguente obbligo del c.d.
repechage previsto, esclusivamente, per quelli individuali e non già per gli altri
collettivi, peraltro espressamente esclusi allora dall’art. 11 della legge n. 604 del
1966, ma ora regolamentati dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991, atteso che
questa, al comma 5, testualmente afferma essere i licenziamenti collettivi
disciplinati da tale articolo14.
13
SOMA, Licenziamento collettivo e licenziamento individuale: ancora incertezze dopo la legge n.223/1991?, in Orient.
giur. lav., 1994, 632; CAIAFA A., Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure di insolvenza, in Diritto Europeo: crisi di
impresa e sorte dei rapporti di lavoro, cit. 238; in senso contrario NOCELLA, Licenziamenti collettivi, crisi aziendali e
piccola impresa, in Dir. lav., 1998, I, 336, che ha escluso tale qualificazione del recesso sul presupposto che verrebbe a
riproporre la superata distinzione ontologica tra licenziamento individuale e collettivo preferendo la soluzione di
individuare la disciplina applicabile ai licenziamenti collettivi non rientranti nell’ambito di applicazione della legge n.
223 del 1991.
14
NOCELLA, Licenziamenti collettivi, crisi aziendali e piccola impresa, cit., 338, che, argomentando al contrario, ha
osservato sottintendere la previsione di cui all’art. 24, comma 5, la possibilità che vi siano altri licenziamenti collettivi
che non rientrano nella legge, relativamente ai quali troverebbero applicazione le norme sui licenziamenti individuali
e, in particolare, quegli degli accordi interconfederali quante volte l’impresa rientri nel campo di applicazione di questi
ultimi.
13
L’art. 5 della legge n. 108 del 1990, invero, ha introdotto un iter procedimentale per
i licenziamenti individuali realizzati nella piccola impresa con riferimento, però, alla
impugnazione e, dunque, relativo alla fase successiva alla avvenuta intimazione,
attraverso la previsione che la domanda in giudizio non può essere proposta ove
non sia stata preceduta dalla richiesta di conciliazione, secondo le procedure
previste dai contratti o dagli accordi collettivi di lavoro, ovvero dagli artt. 410 e 411
c.p.c. con conseguente improcedibilità della stessa, rilevabile anche d’ufficio, nella
prima udienza di discussione, e con il potere per il giudice di assegnare alle parti un
termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la proposizione della
richiesta del tentativo di conciliazione15.
L’art. 13, nell’operare la riforma del mercato di lavoro in una prospettiva di crescita
modifica, in parte, la legge n. 604 del 1966, prevedendo che la comunicazione di
licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno
determinato, riducendo il termine entro il quale il ricorso, volto alla impugnazione,
deve essere depositato in cancelleria, ovvero deve essere data comunicazione alla
parte datoriale della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato (centottanta
giorni), ma, per quel che più interessa, introduce una procedura di conciliazione
davanti alla Commissione Provinciale presso la Direzione Territoriale del Lavoro, da
esperirsi prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero
determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, alla organizzazione del lavoro
ed al regolare funzionamento di essa (art. 3, seconda parte, legge n. 604 del 1966),
che costituisce ora condizione di improcedibilità non ai fini della proposizione della
domanda giudiziale, quanto, piuttosto, per la stessa intimazione del licenziamento,
che, in caso di violazione, deve ritenersi inefficace.
Ed allora, affianco al licenziamento collettivo, determinato da una effettiva e stabile
trasformazione della struttura dell’impresa o anche da una riduzione dell’elemento
personale correlata con un ridimensionamento dell’attività aziendale, o anche reso
indispensabile dall’intenzione di cessare l’attività, viene a collocarsi un
licenziamento determinato da un motivo economico, con una sua diversa
regolamentazione a seconda che l’impresa occupi più o meno di quindici dipendenti
e, naturalmente, sempreché la risoluzione del rapporto di lavoro riguardi un
numero di dipendenti inferiori a cinque, nell’arco di centoventi giorni.
La legge n. 223 del 1991 ha, difatti, espressamente regolato i licenziamenti
tecnologici in precedenza contemplati dall’accordo interconfederale del 1965, che
espressamente prevedeva l’ipotesi del recesso, per riduzione di personale, “… come
conseguenza di trasformazione o riorganizzazione tecnologica”16.
15
Sul tema Corte Cost., 4 marzo 1992, n.82.
16
Sul punto VENEZIANI, Innovazioni tecnologiche e licenziamenti collettivi, in Riv. giur. lav., 1989, I, 423; CARINCI,
Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, in Dir. lav. rel. ind., 1985, 203; DEL PUNTA,
Licenziamenti collettivi, riduzione di attività, innovazione tecnologica, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, 331. In particolare
l’art.13, nell’indicare l’iter procedimentale, precisa che l’intenzione di procedere al licenziamento deve contenere
l’indicazione dei motivi, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato ed il
termine perentorio “sette giorni” perché la Direzione Territoriale convochi le parti dinanzi alla Commissione, di cui
all’art. 410 c.p.c., per consentire alle stesse – che possono essere assistite dalle rispettive organizzazioni, ovvero da un
14
Ebbene, l’inesistenza di una diversità ontologica, ormai, tra licenziamento collettivo
ed individuale plurimo - in precedenza dovuta al contenuto dell’atto posto in
essere dall’imprenditore ed alla decisione di questi di attenersi, nella individuazione
dei soggetti, ai criteri di scelta previsti dagli accordi interconfederali, laddove nel
caso del licenziamento individuale, ancorché plurimo, sarebbe stato onerato della
dimostrazione della soppressione dei singoli posti di lavoro, così come
dell’impossibilità di una utilizzazione dei lavoratori poi licenziati -, risulta ora
superata attraverso la nuova previsione di una regolamentazione particolare del
licenziamento determinato da motivo economico, ancorché in realtà, non diverso
da quello per giustificato motivo oggettivo, dovuto alla soppressione del posto di
lavoro, a seguito di una riorganizzazione dell’azienda mirata ad una sua più
economica gestione, ma che per la sua attuazione richiede un diverso iter in ragione
del numero dei dipendenti occupati.
Il mancato rispetto del descritto procedimento determina l’inefficacia del recesso,
con le conseguenze di cui al comma 6 dell’art. 14, che prevede l’attribuzione di
un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di sei ed un massimo di dodici
mensilità dell’ultima retribuzione, in relazione alla gravità della violazione formale o
procedurale commessa, laddove per l’impresa di minori dimensioni l’indennità
risarcitoria rimane quella prevista dalla legge n. 108 del 1990.
Nonostante l’operata distinzione e la rivisitazione dell’iter procedimentale per quel
che attiene la sussistenza, o meno, dell’indicato motivo oggettivo, troveranno,
tuttavia, ancora applicazione i principi più volte enunciati dalla Suprema Corte17.
Vigente l’attuale disciplina - la cui abrogazione è prevista dal 1° gennaio 2016 - e,
dunque, sino al 31 dicembre 2015, il curatore potrà procedere alla risoluzione dei
rapporti, prima della scadenza del termine di cui al primo comma dell’art. 3, e,
ancora, nell’ipotesi in cui sia stata autorizzata la proroga, allo spirare del successivo
termine di sei mesi, qualora accerti non essere “… possibile la continuazione
dell’attività, anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti …” e, naturalmente, il
licenziamento riguarderà tutto il personale, salvo che non sia possibile la
avvocato o da un consulente del lavoro – di individuare ed esaminare anche soluzioni alternative al recesso e che
decorso il termine di venti giorni dal momento in cui la direzione ha trasmesso la convocazione per l’incontro, ove il
tentativo non riesca, abilita la comunicazione del licenziamento.
17
La Suprema Corte, nel pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato
da soppressione del posto di lavoro, in conseguenza di una riorganizzazione mirata ad una più economica gestione
dell’azienda, ha ribadito che, ai fini della configurabilità dello stesso, non è necessario vengano soppresse tutte le
mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed
attribuite (Cass., 24 febbraio 2005, n.3848, in Not. giur. lav., 2005, 502; Cass., 14 giugno 2005, n.12869, ivi, 2006, 77),
e, ancora, che il fatto giustificativo del recesso non deve necessariamente sussistere al momento della intimazione,
potendo essere esso anche deciso in vista di un futuro riassetto aziendale (Cass., 24 febbraio 2005, n.8348, in Not.
giur. lav., 2005, 502), pur se incombe sul datore di lavoro di provare la effettività delle ragioni e la impossibilità di
adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe rispetto a quelle svolte in precedenza (Cass., 4 novembre
2004, cit., Cass., 23 marzo 2004, n.5808, in Not. giur. lav., 2004, 577; Cass., 20 dicembre 2001, n.16106, ivi, 2002, 356
con ulteriori richiami). Sul tema CAIAFA A., Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure di insolvenza, in Diritto
Europeo: crisi di impresa e sorte dei rapporti di lavoro, nella Collana diretta da PANZANI, Milano, 2008, 241.
15
conservazione di alcuni posti di lavoro per lo svolgimento delle attività strettamente
connesse alla fase di liquidazione.
L’art. 3, comma 3, della legge n. 223 del 1991, richiama, rispettivamente, gli artt. 4 e
24 della stessa legge e lascia ritenere che, qualora non sia possibile la continuazione
dell’attività anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti, o qualora i livelli
occupazionali possano essere salvaguardati solo parzialmente, il curatore debba
procedere, nella prima ipotesi, al licenziamento, secondo le regole fissate dall’art.
24, e, nella seconda, alla collocazione in mobilità, ai sensi dell’art. 4, dei lavoratori
eccedenti18.
La stessa eliminazione, dal testo approvato, della previsione contenuta all’art. 25,
comma 3, di esclusione del complesso iter fissato per l’attuazione dei licenziamenti
collettivi, nei casi di “cessazione dell’attività e provvedimento dell’Autorità
giudiziaria”19, appare essere coerente con la diversa previsione contenuta nell’art. 3
della legge n. 223 del 1991, che, difatti, al terzo comma, disciplina, in modo
alternativo, situazioni tra loro sostanzialmente diverse, prevedendo, appunto, sia il
licenziamento collettivo, di cui all’art. 24, sia la collocazione in mobilità, di cui
all’art. 4 della stessa legge20.
In pratica, la differenza tra le due ipotesi normativamente considerate dagli artt. 4 e
24 non va vista in relazione alla possibilità di realizzare o meno il programma di
risanamento, espressamente richiesto dall’art. 1 della legge n. 223 del 1991 per le
imprese in bonis, atteso che non sussiste un obbligo per il curatore di presentare
alcun programma, quanto, piuttosto, con riferimento alla possibilità di risolvere, al
termine del periodo di integrazione salariale, parte o tutti i rapporti di lavoro a
causa della impossibilità di attuare l’ipotizzata vicenda circolatoria che ne aveva
consentito la conservazione temporanea.
Non può ignorarsi peraltro che, nonostante l’espressione letterale dovuta alla
circostanza che l’art. 24, al comma 2, prevede che le disposizioni sui licenziamenti
collettivi trovano applicazione nella sola ipotesi in cui l’imprenditore “intenda
18
Cass., 12 maggio 1997, n.4146, in Mass.giur.lav., 1997, 916 ha ritenuto applicabile la disciplina prevista per i
licenziamenti collettivi nella sola ipotesi di esercizio provvisorio, consentendo tale istituto la conservazione di alcuni
rapporti di lavoro e, non già, anche qualora venga a cessare l’attività di impresa, con conseguente impossibilità di
prosecuzione, dunque, di tutti i rapporti di lavoro; in senso contrario: Cass., 27 aprile 2004, n. 8047, cit., ha, di contro,
riconosciuto avere la disciplina prevista dagli artt. 3, 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, carattere generale,
con la conseguenza che la obbligatorietà di essa “… non trova limite nell’ipotesi di cessazione dell’attività aziendale” e,
ciò, sul presupposto che “… la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la
ricollocazione dei lavoratori”, sicché “…. essa assurge ad espressione di un principio generale, che non può non valere
anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa”; nello stesso senso Corte Cost., 1 febbraio
1999, n. 6, in Foro it., 1999, I, 1865, con nota di CIPRIANI; Corte Cost., 13 giugno 2000, n.190, in Mass. giur. lav., 2000,
I, 494.
19
Disegno di legge n. 585 ter B, in Lavori preparatori – Decima legislatura – luglio 1991, Camera dei Deputati 469,470.
20
Cass., 7 febbraio 2003, n.1832, in Not.giur.lav., 2003, 532; Cass., 27 aprile 2004, n.8047, che ha sottolineato derivare
una siffatta interpretazione dall’iter formativo della legge che, nel testo originariamente approvato dal Senato, aveva
escluso che la normativa dovesse trovare applicazione nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’impresa per
provvedimento dell’Autorità giudiziaria, ma che, poi, nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, per effetto della
operata soppressione di quella previsione, è evidente espressione di una volontà legislativa volta ad estendere la
normativa anche all’ipotesi predetta.
16
cessare l’attività”, tuttavia la giurisprudenza di legittimità è nel senso che l’iter
procedimentale richiamato dalla norma, in ragione del rinvio, riguarda anche
l’ipotesi in cui l’attività sia già cessata.
Al di fuori dell’ipotesi considerata, quindi, della vicenda circolatoria temporanea,
ovvero definitiva dell’azienda, qualora all’apertura della procedura concorsuale
segua la cessazione di ogni attività produttiva e non sia, quindi, possibile il ricorso a
misure alternative, il curatore, laddove risulti impossibile la vendita dell’azienda o di
suoi rami, è tenuto, al termine del periodo di integrazione iniziale di dodici mesi, o
di quello eventualmente prorogato, nonostante la disgregazione del complesso dei
beni, a risolvere i rapporti di lavoro ancora non estinti, in quanto sospesi, seguendo
l’iter descritto dalla norma.
Il legislatore non ha, difatti, preso in considerazione l’ulteriore ipotesi in cui la
vendita dell’azienda possa essere realizzata decorso il periodo previsto per il
trattamento di integrazione salariale, ancorché prorogato, tant’è che, in tal caso,
non vi sarà l’obbligo per il curatore di svolgere la prevista attività di informazione e
consultazione, presupponendo essa l’esistenza di un organico minimo (più di
quindici dipendenti).
Ed infatti l’art. 3, comma 3, della legge n. 223 del 1991 chiaramente prevede che al
termine di fruizione del trattamento straordinario possano verificarsi due diverse
ipotesi, a seconda che sia stata realizzata una vicenda circolatoria, totale o parziale
dell’azienda, e, quindi, salvaguardati alcuni dei posti di lavoro, o, di contro, sia stata
constatata l’impossibilità di cessione, con conseguente obbligo dell’immediata
risoluzione di tutti i rapporti.
La soluzione, ancorché diversa, a seconda che l’attività sia già cessata e non
continuata, per non esservi stata gestione temporanea o esercizio provvisorio
dell’azienda, o, ancora, per non aver potuto il curatore realizzare la cessione
dell’azienda, o di sue parti, e salvaguardare i livelli occupazionali, ha avuto una sorte
non diversa dalla precedente, con conseguente obbligo di seguire la prevista
procedura per l’attuazione del licenziamento di tutto il personale, pur risiedendo la
differenza, tra la dichiarazione di mobilità (art. 4) ed il licenziamento collettivo (art.
24), nella sussistenza di prospettive per garantire l’eventuale reimpiego dei
lavoratori sospesi.
Non avendo la legge (art. 24) escluso dalla fattispecie del licenziamento collettivo
l’ipotesi della cessazione di attività, conseguente all’apertura della procedura
concorsuale, ci si viene a trovare dinanzi ad un recesso che presenta, tra i suoi
elementi costitutivi, non più la sussistenza di una “riduzione o trasformazione
dell’attività di lavoro”21, ma, anche, la cessazione dell’attività, avendo il legislatore
inteso superare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il
licenziamento sorretto da tale ragione andava configurato come recesso plurimo
per giustificato motivo oggettivo.
21
Forma, questa, mutuata dagli accordi interconfederali del 20 dicembre 1950 e 5 maggio 1965 sui licenziamenti per
riduzione di personale.
17
A tale conclusione la Suprema Corte è pervenuta sul presupposto che la disciplina
prevista dagli artt. 3, 4, 5 e 24 legge 24 luglio 1991, n. 223 ha un carattere
assolutamente generale, sicché la sua obbligatorietà non trova limite nell’ipotesi di
cessazione dell’attività aziendale, in quanto “la messa in mobilità viene a coniugarsi
con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori”, di
talché “essa assurge ad espressione d’un principio generale, che non può che valere
anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa” 22.
In particolare i giudici di legittimità23 hanno ritenuto che nell’ipotesi in cui,
nell’ambito del fallimento, si ritenga impossibile la continuazione dell’attività, non
emerge alcun limite espresso alla obbligatorietà della procedura, dal momento che
l’art. 3, terzo comma, testualmente prevede che “quando non sia possibile la
continuazione dell’attività, anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti, o
quando i livelli occupazionali possano essere salvaguardati solo parzialmente, il
curatore,…. ha facoltà di collocare in mobilità, ai sensi dell’art. 4 ovvero dell’art. 24,
i lavoratori eccedenti”.
Infondata è stata altresì ritenuta l’argomentazione che deduce la non obbligatorietà
della procedura dalla natura speciale della normativa che disciplina il fallimento,
nell’ambito della quale prevarrebbero gli interessi dei creditori, poiché il curatore
non può non attenersi alle indicazioni degli organi cui compete il compito di
autorizzare la scelta dal primo operata.
Al riguardo è stato osservato che il rapporto fra norma generale e speciale
presuppone l’identità della materia, ma la seconda si trova in rapporto di specie a
genere, rispetto alla prima, in quanto contiene, oltre ad elementi comuni, anche
elementi particolari o specializzanti, non contenuti nella norma generale24.
Secondo l’indicato indirizzo, l’art. 3 della legge n. 223 del 1991 è norma speciale, in
quanto contiene elementi comuni alla materia disciplinata dalla legge fallimentare
ed altri dettati per regolamentare il licenziamento collettivo quante volte risulti
impossibile la continuazione dell’attività aziendale, sicché prevale sulla seconda.
Risulta invece integralmente confermata la disciplina per quel che attiene la
materia dei licenziamenti collettivi, avendo l’art. 15 previsto delle modifiche che
incidono, in particolare, sull’art. 4, comma 9, attraverso la sostituzione
dell’espressione “contestualmente”, con la previsione che l’elenco dei lavoratori, il
cui rapporto viene risolto, con l’indicazione dell’interessato, del luogo di residenza,
della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché,
in particolare, della puntuale indicazione delle modalità con le quali sono state
applicati i criteri di scelta, di cui all’art. 5, comma 1, della stessa legge, deve essere
comunicato all’Ufficio Regionale del Lavoro e della Massima Occupazione, nonché
22
Corte cost. n.6 del 1999, id., Rep. 1999, voce Previdenza sociale, n.361, e n.190 del 2000, id., Rep. 2000, voce Lavoro
(rapporto), n.1893.
23
Cass., 3 marzo 2003, n. 3129, id., Rep. 2003, voce Fallimento, n. 468.
24
Cass., 18 giugno 1999, n. 6146, id., Rep. 2000, voce Farmacia, n. 52; 5 febbraio 1975, n. 427, id., Rep. 1975, voce
Turismo, n. 19.
18
alla Commissione Regionale per l’Impiego ed alle Associazioni di Categoria, entro
sette giorni dalla intimazione dei recessi.
E’ stata altresì rivista la possibilità per le parti “nell’ambito di un accordo sindacale
concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo” di sanare eventuali
vizi della comunicazione, con conseguente modifica dell’art. 4, comma 12.
Risulta, infine, sostituito l’art. 5, comma 3, per quel che attiene le conseguenze
dell’intimato licenziamento ove non venga osservata la forma scritta, ovvero siano
state violate le procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, e non siano stati
eliminati i vizi della comunicazione, attraverso l’accordo sindacale previsto dal
secondo comma dell’art. 15, o ancora nel caso di violazione dei criteri di scelta.
Coerente con le disposizioni transitorie, previste dall’art. 33, per quel che concerne
l’indennità per i lavoratori collocati in mobilità a decorrere dal 1° gennaio 2013 sino
al 31 dicembre 2016, appare essere la ridefinizione del trattamento in ragione di
quanto previsto dall’art. 7 della legge 23 luglio 1991 n. 223, di cui l’art. 39 dispone
l’abrogazione con decorrenza, coerentemente, dal 1° gennaio 2017, data questa
prevista per il venir meno, rispettivamente, di alcuni commi dell’art. 5 (4, 5 e 6)
dell’art. 10 (comma 2), dell’art. 16 (commi da 1 a 3), dell’art. 25 (comma 9) e degli
artt. da 6 a 9.
Per quel che attiene la gestione transitoria verso il nuovo assetto degli
ammortizzatori sociali, l’art. 37, nell’introdurre la possibilità, per gli anni compresi
tra il 2013 ed il 2016, della concessione di trattamenti integrativi o di mobilità, al
fine di consentire il passaggio dal vecchio al nuovo sistema, condizionato
all’esistenza delle risorse finanziarie e, peraltro, nei limiti di esse, così come nel
prevedere la proroga dei trattamenti di integrazione di mobilità, già riconosciuti, per
un ulteriore periodo, indicato in dodici mesi, con importo decrescente, pone in
evidenza la previsione di un trattamento diverso, che non può risultare coerente sol
perché dettato dalla esigenza di gestire una fase transitoria, risultando esso del
tutto ingiustificato rispetto alla differente operata regolamentazione degli eventi di
disoccupazione che si vengono a verificare a decorrere dal 1° gennaio 2013, per i
quali trova, di contro, applicazione l’ASPI.
E d'altronde, la causa che determina il riconoscimento dell’assicurazione sociale per
l’impiego viene individuata nella disoccupazione involontaria ed è correlata,
dunque, a tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro non sia cessato per dimissioni o
per risoluzione consensuale, salvo che - come già sottolineato - le prime non siano
state determinate da una giusta causa, in conseguenza del mancato pagamento
della retribuzione, ovvero nell’ipotesi prevista dall’art. 2112, comma 4, c.c. qualora
le condizioni di lavoro, nell’ipotesi di trasferimento dell’azienda, abbiano subito una
sostanziale modifica, avendo il legislatore in tal caso riconosciuto al lavoratore, per
l’appunto, la possibilità di rassegnare le dimissioni, nei tre mesi successivi, con gli
effetti di cui all’art. 2119, comma 1, c.c.
Abbiamo, dunque, due categorie di lavoratori disoccupati per i quali le tutele
risultano essere molte diverse in termini di durata, laddove si considerino le
disposizioni transitorie di cui agli artt. 32 e 33.
19
La sezione prima del capo IV, dedicata agli ammortizzatori sociali, all’art. 39
individua la data di abrogazione, con decorrenza dal primo gennaio 2016, dell’art. 3
della legge 23 luglio 1991, n. 223 sul presupposto che a quella data dovrebbe essere
ormai a regime la diversa tutela derivante dall’assicurazione sociale per l’impiego,
prevista in favore del lavoratori che abbiamo perduto involontariamente la propria
occupazione, ma che si sostanzia nel venir meno - come più volte sottolineato della “condizione di occupato”, riconosciuta al fine di utilizzare il voluto risultato
della conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurandone la
sopravvivenza attraverso la cessione (ciò in quanto l’integrazione salariale
concorsuale ha la funzione di impedire la risoluzione dei rapporti di lavoro e di
garantire la continuità giuridica di essi sino al momento in cui sia possibile
l’acquisizione dell’azienda da parte di altre imprese con maggiori capacità
manageriali ed ha costituito, sicuramente, una fonte di integrazione del reddito
correlata all’obiettivo per il quale ne è stata prevista la concessione)25.
L’alternatività fra i due modelli regolati, rispettivamente, dagli artt. 1 e 3 della legge
n. 223 del 1991, sino ad oggi concettualmente chiara, è destinata a venir meno nel
momento in cui la seconda delle disposizioni normative sarà definitivamente
abrogata.
Ed infatti, qualora la continuazione dell’attività risulti dettata non già da finalità
produttive in senso proprio, quanto, piuttosto, risulti utile per ragioni conservative
e, quindi, venga a costituire un passaggio strumentale obbligato per tentare la
realizzazione di una vicenda traslativa, temporanea o definitiva, ed attraverso
questa favorire il mantenimento dei livelli occupazionali, oltre la migliore
soddisfazione delle ragioni creditorie, sarà inevitabile il ricorso al modello, ormai
unico, previsto dall’art. 1 della legge n. 223 del 1991.
Non può, peraltro, ignorarsi che, in ragione della diversità di struttura e finalità delle
due fasi di intervento sino ad oggi note, regolate rispettivamente dagli artt. 1 e 3
della legge n. 223 del 1991, non è affatto certo che la ricorrenza di una delle ipotesi
previste, specificamente, dalla prima norma (art. 1) sia idonea a legittimare il potere
generale di sospensione, atteso che si richiede l’esistenza di una stretta
interdipendenza tra causa integrabile e sospensione del relativo rapporto, con la
conseguenza che la decisione di ricorrervi deve essere giustificata, ai fini della sua
legittimità, dalla sussistenza, in concreto, di una delle fattispecie astratte previste
(ristrutturazione, riorganizzazione, conversione, ovvero crisi), dal momento che il
venir meno della relativa condizione legittimante verrebbe a comportare l’obbligo
del pagamento della retribuzione corrispondente, atteso che il provvedimento di
ammissione al trattamento ha efficacia costitutiva e, al tempo stesso, derogatoria
della disciplina del rapporto di lavoro26.
25
CAIAFA A., Il rapporto di lavoro subordinato dalla dichiarazione di fallimento all’eventuale sopravvivenza e
circolazione dell’azienda, in Mass. giur., 1999, 1240.
26
Cass., 6 agosto, 1996, n. 7194, in Orient. giur. lav., 1996, 966; Cass. 10 maggio 1995, n.5090, ivi, 1995, 535, che
hanno ritenuto determinare il rigetto della domanda l’obbligo per il datore di lavoro di procedere al pagamento delle
retribuzioni quante volte la sospensione sia stata da lui unilateralmente disposta.
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riforma del mercato del lavoro e procedure concorsuali