RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E PROCEDURE CONCORSUALI di Antonio Caiafa, Professore Sommario: 1. Premessa - 2. La disciplina normativa pregressa - 3. L’attuale legislazione - 4. Il disegno di legge di riforma 1. Premessa Nella relazione illustrativa del disegno di legge recante “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” si sottolinea che esso tende a realizzare un mercato del lavoro dinamico, idoneo allo sviluppo ed alla crescita e creazione di occupazione, con ripristino, allo stesso tempo, della coerenza tra la flessibilità del lavoro e gli istituti assicurativi. Da un punto di vista strutturale l’articolato risulta diviso in più capi e di essi, per quel che attiene l’impatto sulle procedure concorsuali, meritano attenzione il terzo, dedicato alla disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore, per le disposizioni, in particolare, concernenti la materia dei licenziamenti collettivi ed individuali per motivo economico, attesa l’esigenza di verificare se, ed in qual misura, tale nuova regolamentazione viene ad incidere sulle possibilità per le imprese che si trovino in crisi, ovvero per l’organo di una procedura liquidatoria, di procedere alla risoluzione dei rapporti senza che da essa possano derivare conseguenze negative per il ceto creditorio. Altro capo del disegno di legge che interessa, più da vicino, le procedure di crisi o di insolvenza è il quarto, che ha operato una rivisitazione degli ammortizzatori sociali e delle tutele in costanza di rapporto di lavoro prevedendo particolari forme di protezione dei lavoratori anziani. Prima di scendere alla disamina dei singoli interventi riformatori appare utile prendere atto delle finalità del provvedimento e dei sistemi di monitoraggio e valutazione, cui fa cenno l’art. 1 del capo I dedicato a presentare il nuovo impianto normativo, specificando essere esso diretto alla individuazione di misure ed interventi volti a realizzare un mercato del lavoro dinamico che possa contribuire alla creazione dell’occupazione, in termini di quantità e qualità, e ancora la crescita sociale ed economica con riduzione permanente del tasso di disoccupazione. Vi è l’enunciazione di un ambizioso programma che il Governo è convinto di poter realizzare favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro stabili, contrastando l’uso improprio e strumentale dei sistemi di flessibilità progressivamente introdotti nel nostro ordinamento con riguardo alle diverse tipologie contrattuali e rendendo altresì maggiormente “… efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori 1 sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento della occupabilità delle persone” (art. 1, lett. d). Attenzione, ancora, meritano le disposizioni riservate all’individuazione delle norme che saranno abrogate e, in particolare, la decorrenza per esse prevista, attesa l’indiscussa incidenza sull’attuale assetto, laddove si considerino le possibilità per le imprese in crisi, ovvero insolventi, di poter usufruire degli attuali ammortizzatori sociali in ragione degli effetti che discenderanno, inevitabilmente, dalla operata rivisitazione sullo stesso impiego degli strumenti di tutela del reddito. Il riferimento è agli articoli, rispettivamente, 39 e 51, il primo dei quali individua la decorrenza con la quale le nuove norme disciplineranno gli ammortizzatori sociali ma non solo - individuando anche la data a decorrere dalla quale alcune disposizioni in tema di procedure di mobilità e licenziamento collettivo dovranno ritenersi integrate, modificate ovvero sostituite dalle nuove norme. Quanto all’art. 51, esso risulta inserito nella sezione III, del capo IV, e riguarda gli interventi in favore dei lavoratori anziani e gli incentivi all’occupazione e prevede l’abrogazione di disposizioni di grande impatto in tema di politica sociale e del lavoro che, pertanto, oltre ad incidere su quanto sin qui avvenuto, segnano il futuro non solo delle imprese ma anche, e soprattutto, di quei soggetti in favore dei quali gli interventi, ovvero gli incentivi, risultano essere stati interamente rivisitati. Una prima preoccupante constatazione va fatta con riferimento alle nuove regole dettate per quel che attiene gli ammortizzatori sociali e, in particolare, la prevista abrogazione del trattamento di integrazione salariale concorsuale, ora regolato dall’art. 3 della legge n. 223/1991, con decorrenza - a seguito dell’operata correzione - dal 1° gennaio 2016, avendo provveduto ad eliminare il Governo, nel testo presentato al Senato il 5 aprile 2012, l’evidente discrasia risultante da una lettura del primo e del secondo comma dello stesso art. 39, atteso che, in precedenza, il comma primo prevedeva l’abrogazione dell’art. 3 della legge n. 223/1991 “a decorrere dal 1 gennaio 2013” mentre il secondo comma l’abrogazione della medesima norma con decorrenza dal 1° gennaio 2016. Venuta meno la doppia abrogazione e, quindi, l’evidente increscioso errore in cui era incorso il Governo Tecnico, a seguito di una più attenta lettura delle disposizioni da esso scritte, è lecito chiedersi quale incidenza avrà il nuovo sistema sulle procedure di crisi e di insolvenza e, prima ancora, se sia davvero coerente e, soprattutto, costituzionalmente orientata una disposizione che consenta alle imprese interessate da una delle procedure concorsuali individuate all’art. 3 della legge n. 223/1991, di avvalersi solo fino al 31 dicembre 2015 del trattamento integrativo concorsuale, così consentendo al personale in organico di mantenere la condizione di occupato, ove ammesse alle relative procedure lì previste, lasciando in forse, di contro, la sorte del personale in organico alle imprese dichiarate insolventi, ovvero in crisi, in data successiva al 1° gennaio 2016. Si pone ancora un ulteriore delicato problema volto a stabilire in quale misura potranno ancora operare le disposizioni dettate per agevolare il trasferimento delle aziende in crisi, ovvero insolventi, o di singoli rami di esse, attraverso la conclusione 2 di quegli accordi collettivi trilateri, volti a consentire la realizzazione della vicenda circolatoria attraverso la flessibilizzazione degli obblighi derivanti dall’art. 2112 c.c., con diversa graduazione a seconda che il trasferimento riguardi un’impresa in crisi, ovvero insolvente, e l’attività risulti cessata o continuata, atteso che quegli accordi, rispettivamente richiamati dall’art. 47, quinto e sesto comma, della legge n. 428 del 1990, dall’art. 63 del D.Lgs. n. 270 del 1999 con riferimento all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, dagli artt. 104-bis, comma 2, e 105, comma 3, del D.Lgs. n. 169 del 2007 rispettivamente per l’affitto e la vendita nel caso del fallimento, dall’art. 182, comma 4, del D.Lgs. n. 169 del 2007 per la cessione di aziende o rami da parte del liquidatore giudiziale nel concordato preventivo con cessione dei beni omologato, dall’art. 48, comma 8, lett. a) e b), del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, rispettivamente, per l’affitto e la vendita di aziende, o rami di esse, in sequestro, quale conseguenza dell’adozione delle misure di prevenzione, presuppongono tutte il mantenimento, da parte del lavoratore, della condizione di occupato perché possa, attraverso la conservazione dell’azienda tramite il suo trasferimento ad un terzo soggetto, realizzarsi anche il mantenimento, parziale o totale, dei livelli occupazionali. Il Governo è, dunque, convinto che: la crescita produttiva incide positivamente anche sull’occupazione e che, dunque, non è più necessario consentire al lavoratore il mantenimento della condizione di occupato dal momento che, attraverso le misure di sostegno del reddito e le previste agevolazioni per le assunzioni dalle apposite liste, sarà possibile realizzare il reinserimento dei licenziati nel mercato del lavoro; le aziende che non riescono a sopravvivere alla crisi, seppur saranno costrette a licenziare i lavoratori, consentiranno una ripresa dell’attività e, dunque, un miglioramento della situazione attraverso nuove assunzioni del personale licenziato, assicurato dalla ripresa della domanda, sul presupposto che la crisi spinge verso la ricerca di soluzioni che accrescono la produttività. Crisi di impresa, innovazioni tecnologiche e concorrenza ormai globalizzata sono fattori ineliminabili del processo di crescita che non rendono affatto scontato l’aumento dell’occupazione, anche quando vi sia la ripresa produttiva, poiché raramente esiste una sola impresa che produce un medesimo bene o servizio, sicché il fatto che la cessazione dell’attività da parte di una e più di queste vada a beneficio di chi è riuscito a superare la crisi, non significa che questi abbia la necessità di assumere altro personale, essendo ciò possibile solo ove non vi siano capacità inutilizzate, sì da consentire l’inserimento di nuovi lavoratori. Per ben comprendere le conseguenze che si verranno a produrre, in termini di conservazione dei posti di lavoro, quante volte l’impresa, perché in crisi o insolvente, venga assoggettata ad una delle procedure concorsuali regolate dalle rispettive discipline normative individuate dal legislatore in ragione della grandezza o meno delle stesse, appare opportuno procedere attraverso una ricostruzione degli ammortizzatori sociali e, in particolare, della regolamentazione che ha caratterizzato la disciplina pregressa e che ha preceduto quella poi dettata dal 3 legislatore, allorché, con legge 23 luglio 1991, n. 223, ha individuato le norme in materia di cassa integrazione, mobilità e trattamenti di disoccupazione, in attuazione delle direttive della Comunità Europea, ora destinate ad essere sostituite dal disegno di legge, se ed in quanto sia approvato dal Parlamento nel testo proposto al Governo. In pratica, per meglio capire se ed in qual misura il nuovo sistema sia in grado di soddisfare gli obiettivi che ha inteso raggiungere, occorre tener conto del sistema precedente e, quindi, di quello attuale destinato ad essere sostituito. 2. La disciplina normativa pregressa L’indagine che è indispensabile svolgere sulla sorte e gli effetti dei rapporti giuridici preesistenti e, in particolare, sul contratto o rapporto di lavoro non può prescindere dal verificare in quale modo abbia inciso su di essi il trattamento di integrazione salariale straordinario ove l’imprenditore, assoggettato ad una delle procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare ante riforma, non vi avesse fatto ricorso anteriormente, con conseguente sospensione pregressa dei rapporti, che pertanto, destinati a proseguire senza soluzione di continuità, pur con gli effetti discendenti dall’art. 72 l. fall. ad essi ritenuto applicabile, sono stati oggetto, in passato, di un intervento di politica occupazionale che, sia pure con tutte le caratteristiche positive e negative tipiche dell’approccio congiunturale, hanno individuato una causa autonoma di intervento e, dunque, uno speciale regime protettivo destinato a trovare applicazione in tutti quei casi in cui l’impossibilità di attuazione del processo di riconversione o ristrutturazione, in precedenza ritenuto possibile, avesse determinato, al momento dell’apertura della procedura concorsuale, un’eccedenza non più temporanea del personale in organico, ovvero anche comportato la necessità di una totale soppressione dei posti di lavoro1. Il legislatore, consapevole del fatto che in situazioni particolarmente qualificanti di crisi aziendale rileva la garanzia della stabilità del posto di lavoro e del reddito, qualora l’esistenza del rapporto abbia perso la sua funzione economica di scambio, seppur aveva inteso, in situazioni di crisi patologica e non fisiologica, individuare uno strumento in grado di consentire la riduzione dei livelli occupazionali, in relazione alle diverse esigenze, ovvero il recesso da tutti i rapporti di lavoro, nel caso in cui la situazione di crisi irreversibile avesse determinato la necessaria cessazione di ogni attività di impresa, non aveva, tuttavia, considerato che ciò poteva intervenire in conseguenza dell’apertura di una procedura concorsuale liquidatoria. 1 D’ANTONA, L’intervento straordinario della Cig nelle crisi aziendali: interessi pubblici, collettivi, individuali, in Riv. giur. lav., 1983, I, 15; MARCHITIELLO, Mutamenti della funzione della cassa integrazione e guadagni, in Dir. lav., 1982, I, 173; DE CAROLI, La sospensione dell’attività lavorativa nell’ambito dell’intervento della cassa integrazione guadagni, in Orient. giur. lav., 1982, 1468. 4 La finalità della legge 12 agosto 1977, n. 675 - così come si legge nella stessa intestazione - è stata quella di dettare provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, attraverso la riorganizzazione, la ristrutturazione, la conversione della struttura delle imprese operanti in un determinato settore, in ragione della avvertita esigenza di formulare regole per migliorare la funzionalità delle stesse e, in primo luogo, per mantenerle in vita, anche se con una differente organizzazione di mezzi e di lavoro, ovvero per utilizzarle, comunque, in altre imprese. La disciplina normativa, nella prospettiva del legislatore dell’epoca, non prevedeva dunque l’ipotesi estintiva dell’impresa che, al contrario, si realizza con la procedura fallimentare attraverso la liquidazione del complesso dei beni organizzato, mediante cessione di esso ovvero la vendita atomistica. Tra le innovazioni maggiormente significative, per la parte che qui interessa, oltre alla previsione di una nuova causa di intervento straordinario, per le crisi di imprese che presentavano particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale e produttiva del settore (art. 21, comma 2, in riferimento all’art. 2, comma 5, lett. c) era stata prevista l’erogazione di un trattamento integrativo in favore dei lavoratori di imprese industriali licenziati per fallimento dell’impresa stessa (art. 25, comma 7, per come modificato dall’art. 2, l. 27 luglio 1979, n. 301). Tale disposizione normativa aveva previsto la sospensione dell’efficacia degli intimati licenziamenti, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro, pur se ai soli fini dell’intervento straordinario, alla condizione dell’esistenza del decreto ministeriale di accertamento dello stato di crisi e delle condizioni per l’applicazione del relativo trattamento e delle procedure di mobilità2. I rapporti di lavoro, nei settori cui la legge era applicabile, si venivano a trovare in una particolare situazione, nel senso che questi - già sospesi per effetto della cassa integrazione - entravano, una volta dichiarato il fallimento, in una fase di quiescenza, in conseguenza della regola generale dettata dall’art. 72 l. fall., con la possibilità, quante volte l’impresa appartenga al settore per il quale le relative provvidenze sono state specificamente previste, per il personale dipendente, il cui rapporto di lavoro venga risolto, di poter beneficiare del corrispondente trattamento integrativo previsto per un periodo massimo di ventiquattro mesi. Il licenziamento era, dunque, il presupposto necessario perché potesse trovare applicazione l’art. 2 della legge n. 301 del 1979 ed il trattamento integrativo riconosciuto viene a costituire una forma di tutela dell’occupazione con un fine meramente assistenziale. In particolare, la legge n. 675 del 1977, innovando rispetto alla legge 5 novembre 1968, n. 1115, oltre a prevedere e regolamentare particolari situazioni di crisi 2 Sulla relativa disciplina si vedano i primi contributi di FERRARO, Cassa integrazione guadagni e crisi aziendale nelle leggi sulla riconversione industriale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, 1000; Id., La disciplina della cassa integrazione e guadagni delle leggi sulla riconversione industriale, in Il diritto del lavoro nella emergenza, a cura di DE LUCA TAMAJOVENTURA, 1979, 35: MAGNANI, Provvedimenti per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la riconversione e lo sviluppo del settore industriale, in Le leggi civili comm., 1978, 772. 5 richiedendo, peraltro, che le stesse fossero accertate dal CIPI (art. 2, comma 5) e riservando al Ministero del Lavoro l’adozione dei conseguenti provvedimenti - aveva anche previsto l’equiparazione del periodo di godimento dell’integrazione salariale all’anzianità di iscrizione nelle liste di collocamento (art. 21, comma 3) e, ancora, l’attribuzione, a carico del Fondo per la mobilità della mano d’opera, del contributo addizionale di cui all’art. 12 della legge n. 164 del 1975 e delle quote di indennità di anzianità maturate, durante il periodo di integrazione salariale, per quei lavoratori che non fossero rioccupati nella medesima azienda al termine del periodo per impossibilità dell’impresa di mantenere il livello occupazionale, ovvero in presenza della necessità, condivisa dalle OO.SS., di pervenire ad una nuova dimensione produttiva (art. 21, commi 5 e 6). 3. L’attuale legislazione È attraverso la legge del 23 luglio 1991 n. 223 che, però, sono state individuate nuove regole, non solo per quel che attiene le cause integrabili e la previsione di un particolare trattamento integrativo concorsuale, riservato alle imprese operanti in determinati settori, per consentire al lavoratore di mantenere “la condizione di occupato” per il periodo previsto, ma anche la tipizzazione delle ipotesi e dei motivi in presenza dei quali ricorre il licenziamento collettivo e la procedimentalizzazione delle scelte dell’imprenditore, nell’individuazione dei lavoratori interessati, spostando il controllo dal momento giudiziario, successivo al recesso, a quello amministrativo e sindacale che lo precede3. La legge ha offerto una compiuta regolamentazione, dunque, non solo degli ammortizzatori sociali, ma anche dei licenziamenti collettivi, prevedendo due distinte ipotesi, rispettivamente, all’art. 4, per la messa in mobilità dei lavoratori già in CIGS, e all’art. 24, per riduzione di personale, individuando il requisito per l’applicabilità della norma nel numero dei dipendenti occupati (più di quindici) anche quando le imprese intendano cessare l’attività. La legge ha abrogato l’art. 2 della legge n. 301 del 1979, che aveva aggiunto il settimo comma all’art. 25 della legge 675 del 1977, anch’esso caducato unitamente all’art. 8 della legge n. 1115 del 1968 sulla disoccupazione speciale per i lavoratori dell’industria4. Ebbene, qualora si intenda verificare l’attuale “stato dell’arte” e stabilire se, nell’ambito del sistema normativo vigente - destinato ad essere sostituito da quello diretto a realizzare la riforma del mercato del lavoro -, siano state individuate soluzioni appaganti ed in grado di permettere, realisticamente, la conservazione 3 GALANTINO, I licenziamenti collettivi, Milano, 1984, 9; CESSARI, Dai licenziamenti ai trasferimenti collettivi, in CESSARI-DE LUCA TAMAJO, Dal garantismo al controllo, Milano, 1982, 169; FOGLIA, Riduzione di personale e licenziamenti economici, in Dir. lav., 1997, I, 4. 4 Sul regime delle obbligazioni si veda PAPALEONI, L’indennità di mobilità, in PAPALEONI, DEL PUNTA, MARIANI, La nuova cassa integrazione guadagni e la mobilità, Padova, 1993, 520. 6 dell’impresa e, al tempo stesso, il mantenimento dei livelli occupazionali senza la necessità di pervenire alla scomposizione dei beni che compongono l’azienda, mediante l’individuazione di un soggetto terzo interessato all’acquisizione della stessa, è indispensabile soffermarsi sull’art. 3 della legge n. 223 del 1991, di cui è prevista l’abrogazione a far data dal 1° gennaio 2016. E difatti, solo attraverso la ricostruzione delle regole introdotte da un sistema che aveva ridisegnato gli ammortizzatori sociali, pervenendo all’abrogazione dell’art. 2 della legge n. 301 del 1979 - che aveva creato notevoli difficoltà di ordine sistematico in conseguenza del fatto che le prestazioni erano riconosciute con riferimento ad un rapporto di lavoro formalmente cessato, atteso che il licenziamento era lo strumento necessario ed inevitabile perché potesse trovare applicazione - sarà possibile valutare se, incidendo sul potere del lavoratore di mantenere la condizione di occupato, sarà ancora possibile privilegiare quelle soluzioni circolatorie dell’azienda che il legislatore ha inteso assicurare attraverso le norme sopra richiamate. L’art. 3 della legge n. 223 del 1991 ha, difatti, introdotto una nuova fattispecie di derogabilità delle integrazioni salariali al fine di garantire la stabilità del posto di lavoro e del reddito, tentando di assicurarne la permanenza, nonostante l’apertura della procedura concorsuale, attraverso la diversa previsione che il licenziamento può essere attuato, rispettivamente, ai sensi dell’art. 4 o 24 della stessa legge n. 223 del 1991, allorché, al termine del periodo di integrazione salariale che ha permesso al lavoratore di mantenere la condizione di occupato, non risulti possibile realizzare alcuna delle ipotesi circolatorie dell’azienda, considerate al secondo comma dello stesso art. 3 e, per l’effetto, i rapporti dovranno essere necessariamente risolti5. La legge n. 223 del 1991, nel disciplinare la sorte del contratto di lavoro nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, ha distinto, espressamente, l’ipotesi della prosecuzione dell’attività d’impresa, per la quale ha escluso i licenziamenti, stabilendo, nel caso di cessazione, che i rapporti rimangano sospesi per un periodo massimo di dodici mesi con l’intervento della cassa integrazione. L’ammissione è automatica dovendosi individuare l’unica condizione, per la concessione del beneficio, nella presentazione della domanda da parte dell’organo competente. Al secondo comma dell’art. 3 è previsto, poi, che il primo periodo massimo di dodici mesi possa essere, ulteriormente, prorogato allorché vi siano fondate prospettive di continuazione o ripresa dell’attività risultando condizionato il riconoscimento, in questo caso, dalla presentazione di una domanda, da parte dell’organo rappresentativo della procedura, approvata dal giudice delegato, nella quale 5 MISCIONE, L’integrazione salariale ed eccedenza di personale, in Giur. it., 1991, IV, 4; CINELLI, La nuova disciplina della Cigs, in Dir. prat. lav., 1991, 2575; GIUDICI, Licenziamenti collettivi per riduzione di personale, in Dir.prat.lav., 1991, inserto 34; LEBRA, L’indennità di mobilità, ivi, 1992, 149; CAIAFA A., Sopravvivenza dell’impresa nelle procedure concorsuali e sorte dei rapporti di lavoro, in Dir. lav., 1991, I, 48; Id., Insolvenza del datore di lavoro e tutela dei dipendenti, in Il fall., 1992, 559; Id., I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, Padova, 1994, 22. 7 dovranno essere puntualizzate le ragioni che suggeriscono l’estensione del beneficio. La nuova disciplina, a differenza della precedente, è caratterizzata dall’intento di realizzare la permanenza dei rapporti di lavoro facenti capo all’impresa sottoposta ad una procedura concorsuale e dalla possibile salvaguardia di tali rapporti mediante “… cessione dell’azienda o di sue parti”. In sostanza, mentre la legge 27 luglio 1979, n. 301, operava il mantenimento fittizio dei rapporti, stabilendo che questi, una volta risolti, proseguivano, in realtà, ai soli fini della cassa integrazione; l’attuale disciplina normativa, di contro, ha previsto esattamente l’inverso, dal momento che la continuazione dei rapporti medesimi, pur se in stato di sospensione riguardo alle obbligazioni principali proprie del contratto (retribuzione e prestazione), è effettiva e reale. Il predetto trattamento riconosciuto in favore delle imprese appartenenti al settore industriale che occupino più di quindici dipendenti e, per effetto di una serie di disposizioni che nel tempo hanno modificato la originaria previsione, anche a quelle del settore commerciale che ne occupino più di cinquanta, è ora esteso, in virtù di quanto previsto dall’art. 40 del disegno di legge - che modifica l’art. 12 della legge n. 223 del 1991 - a decorrere dal 1 gennaio 2013, anche alle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più di cinquanta dipendenti, alle imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti e, ancora, alle imprese del trasporto aereo e del sistema aeroportuale a prescindere dal numero di dipendenti. Le imprese minori sono escluse dall’ambito di applicazione della messa in mobilità, regolata dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, dal momento che tale norma presuppone che vi sia stato un preventivo intervento di integrazione salariale straordinaria che, come si è visto, presuppone l’esistenza di requisiti numerici, non potendo il numero dei dipendenti delle imprese industriali essere, in nessun caso, inferiore a quindici, o a cinquanta se operanti nel settore commercio, laddove, in alcuni casi, l’integrazione salariale è del tutto esclusa. Attraverso l’art. 4 della legge n. 236 del 1993 è stata prevista l’estensione, in favore dei lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo da imprese che occupino meno di quindici dipendenti, dei benefici, però, non economici derivanti dalla iscrizione nelle liste di mobilità, anche perché questi avevano, in precedenza, diritto all’indennità di disoccupazione speciale di cui all’art. 8 della legge 5 novembre 1968, n. 1115, abrogata dall’art. 16, comma quarto, della legge n. 223 del 19916. Le aree non coperte dalla legge n. 223 del 1991 - come modificata dalla legge n. 236 del 1993 - riguardano tutte le imprese che abbiano un numero di dipendenti, inferiore a quindici unità, individuato secondo il criterio dettato dall’art. 1 della 6 Sul tema si vedano i contributi di FERRARO, Le integrazioni salariali, in Integrazioni salariali, eccedenza di personale e mercato del lavoro, commento sistematico alla legge 223/91, a cura di FERRARO, MAZZIOTTI, SANTONI, Napoli, 1992, 41; NAPOLI, Le nuove disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e di mobilità, in Riv. giur. lav., 1993, I, 189; PAPALEONI, DEL PUNTA, MARIANI, La nuova cassa integrazione guadagni e mobilità, Padova, 1993, 521. 8 medesima legge con riferimento a quelli occupati mediamente nel semestre precedente7, ovvero tenendo conto dell’organico oggettivo e, dunque, normalmente necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa8. Il trattamento integrativo straordinario costituisce lo strumento per rinviare i licenziamenti il più a lungo possibile, e per consentire ai lavoratori interessati di mantenere la condizione di occupati, anche se nelle imprese con meno di quindici dipendenti, ovvero che ne occupino un numero superiore, ma inferiore a quello necessario per ottenere l’indennità di mobilità, l’art. 4, comma 1, legge n. 236 del 1993 ha riconosciuto l’iscrizione nelle liste, ove il recesso sia stato determinato da un giustificato motivo oggettivo, senza, tuttavia l’estensione dei benefici economici, sia diretti che indiretti, per quel che attiene la corresponsione, in favore dei datori di lavoro che li assumono, della metà del trattamento economico spettante al lavoratore (art. 8, comma 4, legge n. 223 del 1991). 4. Il disegno di legge di riforma L’art. 22 del disegno di legge, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro, prevede l’istituzione, presso l’INPS, con decorrenza dal 1° gennaio 2013, dell’assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) e ne regola l’ambito di applicazione in favore di quei lavoratori “...che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione”, riconoscendo loro un’indennità mensile di disoccupazione e comprendendo, tra questi, gli apprendisti, i soci lavoratori di cooperative che abbiano stabilito un rapporto di lavoro in forma subordinata a seguito della adesione od instaurazione di quello associativo, con esclusione dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato per i quali trovano applicazione norme specifiche. L’indennità viene riconosciuta alla condizione che i lavoratori interessati possano far valere almeno due anni di assicurazione, ovvero un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione, e sono esclusi coloro che si siano dimessi volontariamente o abbiano risolto, consensualmente, il rapporto, con conseguente mantenimento dell’indennità in favore di quanti abbiano inteso rassegnare le dimissioni per giusta causa. Per quel che concerne la durata massima legale (art. 32), con riferimento ai nuovi eventi di disoccupazione che si verranno a verificare a decorrere dal 1° gennaio 2013 sino al 31 dicembre 2015, vengono previsti termini diversi per il godimento 7 In tal senso la circolare ministeriale n.155 del 1991 in Dir. prat. lav., 1991, 3321; in dottrina, seppur con riferimento alle ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro, MAGRINI, Il licenziamento collettivo nella giurisprudenza sulla legge n.223/1991, in Lav. inf., 1997, II, 9; FOGLIA, Riduzione di personale e licenziamenti economici, in Dir. lav., 1997, I, 5. 8 ALLEVA, L’ambito di applicazione e la tutela reale contro il licenziamento, in La disciplina dei licenziamenti dopo le leggi 108/90 e 223/91, a cura di CARINCI, Napoli, 1991, 25; GRAMICCIA, Dimensioni dell’impresa e personale normalmente occupato, in Mass. giur. lav., 1975, 503; VACCARO, Sul criterio per il calcolo dei dipendi nell’azienda, in Mass. giur. lav., 1973, 167. 9 delle prestazioni, con riferimento a ciascun anno sino al 2015 e di diversa durata in ragione della età anagrafica dei soggetti interessati (inferiore, pari o superiore a cinquanta anni, ma inferiore a cinquantacinque e, quindi, età anagrafica pari o superiore a quest’ultima). Il successivo art. 33 regola, in via transitoria, il periodo massimo di diritto dell’indennità di mobilità, di cui all’art. 7, commi 1 e 2, della legge n. 223 del 1991, con durata diversa riferita al periodo di collocazione in mobilità, alla causale e, ancora una volta, all’età anagrafica dei soggetti interessati. In particolare, la durata massima è previsto che decresca per ciascuno degli anni compresi tra il 2013 ed il 2016 e con un trattamento ancorato all’età dei lavoratori interessati: dodici mesi per i più giovani, quarantotto mesi per i più anziani. L’art. 37 disciplina la transizione verso il nuovo sistema degli ammortizzatori sociali, consentendo la concessione, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti di integrazione salariale e di mobilità che è previsto possano essere adottati dal Ministro del Lavoro e dalle Politiche Sociali, di concerto con quello dell’Economia e delle Finanze, sulla base di specifici accordi governativi, per periodi però non superiori a dodici mesi, il cui riconoscimento è previsto avvenga nei limiti delle risorse finanziarie ed a tal fine destinate nell’ambito del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione. E’ anche prevista la possibilità della proroga dei trattamenti di integrazione salariale e di mobilità per ulteriori periodi non superiore a dodici mesi. Il sistema così ridisegnato si sovrappone all’attuale e, pertanto, si vengono a creare, inevitabilmente, problemi di compatibilità che, invero, non sembrano essere stati attentamente valutati, dal momento che l’art. 39 ha operato - come già anticipato l’abrogazione dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991, a far data dal 1° gennaio 2016, sicché forse avrebbe dovuto essere non già rivista la disposizione, nel senso di eliminare la discrasia e, pertanto, la relativa decorrenza abrogativa, per come poi attuata nel testo presentato al Senato il 5 aprile 2012, quanto, piuttosto, mantenendo e conservando efficacia alla norma sino al 31 dicembre 2012, rendendola così compatibile con le disposizioni precedenti. Quali allora le conseguenze della diversa operata previsione? Ebbene, sembrano piuttosto evidenti, dal momento che la richiesta di intervento straordinario dovrà - una volta divenuta operativa la riforma - trovare idonea giustificazione nel programma che deve essere predisposto, atteso l’obbligo per la parte richiedente di considerare, complessivamente, il risultato di impresa, il fatturato e l’indebitamento riguardante il biennio precedente, sì da lasciare emergere un andamento a carattere negativo, ovvero involutivo, tale da giustificare, in via generale, la necessità della prevista fase di ristrutturazione, riorganizzazione, conversione, ovvero di ridimensionamento dell’organico aziendale, in ragione della denunciata crisi. Nel caso della crisi, oltre ad essere richiesta una relazione tecnica, recante le motivazione a supporto della critica situazione economico-finanziaria (art. 1, lett. a), vi è l’obbligo, per l’impresa, di presentare un “piano di risanamento” con 10 definizione delle “azioni intraprese o da intraprendere, per il superamento delle difficoltà … distinte per ciascun settore di attività dell’impresa stessa, nonché per ciascuna unità aziendale interessata dall’intervento straordinario di integrazione salariale” e anche un “piano di gestione” degli esuberi strutturali. Ciò è quanto viene sollecitato per l’ipotesi in cui la causa della crisi non sia dovuta ad un evento imprevedibile ed improvviso, essendo richiesto in tal caso solo il piano di risanamento e di gestione degli esuberi (rispettivamente lettere c) e d) dell’art. 1). Il D.M. 18 dicembre 2002 regola, anche, la concessione del trattamento nei casi di cessione dell’attività, precisando all’art. 2 che tale evento può riguardare l’intera azienda, ovvero un settore della stessa, imponendo in tal caso la presentazione di un “piano di gestione dei lavoratori in esubero” inteso a ridurre il ricorso alla mobilità, purché nel corso del periodo dell’intervento integrativo richiesto, “… ovvero nell’arco dei dodici mesi successivi al termine di tale intervento”, la mobilità non costituisca uno strumento di ricollocazione, anche parziale, del personale in organico. L’art. 3, poi, non prevede alcuna causa di esclusione qualora il trattamento integrativo venga richiesto per cessazione dell’attività, mentre esclude da quello per crisi aziendale le imprese che abbiano iniziato l’attività produttiva nel biennio antecedente, ovvero non l’abbiano avviata, o abbiano subito significative trasformazioni societarie, avvenute tra imprese che presentino assetti proprietari sostanzialmente coincidenti, allo scopo di contenere i costi di gestione. Non risultano richiamati, dal disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, tra le disposizioni oggetto di abrogazione, il D.M. 18 dicembre 2002 e la stessa legge 3 dicembre 2004, n. 291 di conversione, con modificazioni, del D.L. 5 ottobre 2004, n. 249, recante interventi urgenti in materia di politica del lavoro e sociale, che all’art. 1, seppur nei limiti di spesa previsti dal Fondo per l’occupazione di cui art. 1, comma 7, della legge 19 luglio 1993, n. 236, ha previsto la proroga del trattamento straordinario di integrazione salariale per crisi aziendale per un periodo di dodici mesi, nel caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda9. Gli strumenti cui si è però ora fatto cenno hanno un preciso onere per l’impresa, non previsto nel caso del trattamento regolato dall’art. 3 della legge n. 223 del 1991, con la finalità di consentire la prosecuzione del rapporto non già per fini previdenziali di tutela del reddito, ma per il mantenimento della condizione di occupato, venendo il rapporto mantenuto in vita non in virtù di una sorta di fictio iuris, dal momento che la continuazione dello stesso, pur se sospeso, riguarda le obbligazioni principali che gravano sulle parti, come risulta dimostrato dalla circostanza che durante il periodo di integrazione maturano, come conseguenza dell’anzianità acquisita, le relative quote di fine rapporto10. 9 Per un commento del D.M. 18 dicembre 2002 si veda GALLO, La modifica dei crediti concessivi della Cigs, in Dir. prat. lav., 2002, 2770; CAIAFA A., Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure di insolvenza, in Diritto Europeo: crisi di impresa e sorte dei rapporti di lavoro, Milano, 2008, 119. 10 Cass., 2 dicembre 1991, n. 12908, in Il fall., 1992, 575. 11 La finalità di gran lunga preminente che il legislatore aveva inteso realizzare attraverso l’art. 3 della legge n. 223 del 1991 - di cui ora è prevista l’ abrogazione risiede nell’intento di salvaguardare la professionalità acquisita dai lavoratori dell’impresa in crisi ovvero insolvente, consentendo la continuità del rapporto, attraverso la garanzia del reddito, per permettere, attraverso il subentro di nuovi imprenditori, che venga tutelata anche l’occupazione11. Conclusa l’analisi sistemica del campo di applicazione delle nuove cause di intervento, ordinario e straordinario, e i nuovi strumenti individuati in termini di tutela del reddito, ma non già più volti a consentire la sospensione del rapporto di lavoro per assicurarne il suo mantenimento nell’ipotesi in cui sia possibile realizzare una vicenda traslativa temporanea (affitto), ovvero definitiva (vendita), dell’azienda, o dei singoli rami cui il lavoratore era addetto, occorre verificare se, ed in quale misura, la disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutela del lavoro, regolata dal capo III delle disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro nella dichiarata prospettiva di crescita, e le correlate modifiche, apportate alla legge 15 luglio 1966, n. 604 con riferimento, in particolare, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo - quante volte l’impresa dichiarata fallita occupi meno di quindici dipendenti -, viene ad incidere sul potere dell’organo della procedura di risolvere il rapporto di lavoro. Per poter comprendere le conseguenze derivanti dall’operata riscrittura della disposizione normativa, che è destinata a trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui l’imprenditore abbia i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 9, della legge n. 300 del 1970, per come modificato dalle nuove disposizioni, appare utile soffermarsi sulla disciplina vigente e, in particolare, su quanto previsto, rispettivamente, dagli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991, che, individuando due distinte fattispecie di risoluzione del rapporto, non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori delle piccole imprese, per tali intendendosi quelle che occupano, ora, meno di quindici dipendenti nell’unità produttiva ovvero nell’ambito dello stesso Comune12. Per quel che concerne i limiti dimensionali, l’art. 14, nel riformulare e modificare l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, precisa che trovano applicazione le precedenti disposizioni in tema di risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo, ovvero nel caso di licenziamento dichiarato inefficace, o per ritenuta assenza della dedotta giustificazione, ove il motivo oggettivo sia stato individuato nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore, o, ancora, di recesso disposto in violazione dell’art. 2110, secondo comma, c.c. nei confronti del datore di lavoro che, in ciascuna sede 11 ALLEVA, Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure concorsuali, in Collana di Studi giuridici dell’Ordine degli Avvocati di Bari, Bari, 2000, 29; CAIAFA A., Nuovo diritto delle procedure concorsuali, Padova, 2006, 374. 12 Vi sono aree che, indipendentemente dalla dimensione delle imprese e dal numero dei dipendenti occupati, sono, comunque, escluse dalla disciplina in ragione della regolamentazione specifica del relativo settore, come per gli autoferrotranvieri, i dipendenti delle imprese esattoriali, degli enti pubblici non economici, delle imprese di navigazione marittima e aerea. 12 “stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo” - cui era addetto il lavoratore -, occupi alle sue dipendenze più di quindici dipendenti, o più di cinque se imprenditore agricolo, potendo, peraltro, il requisito dimensionale sussistere nell’ambito dello stesso Comune, anche quando ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non lo raggiunge. Per i licenziamenti collettivi - come vedremo - il legislatore ha previsto una specifica procedura cui ha correlato, nell’ipotesi di inosservanza, conseguenze diverse a seconda che il recesso non sia stato intimato per iscritto (reintegrazione), o in violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma dodici, prevedendo, in tal caso, un risarcimento non inferiore a cinque mensilità e non maggiore di dodici, con obbligo di un versamento dei contributi oltre gli interessi, senza sanzioni, per l’intero periodo compreso tra la data del licenziamento e quella di ricostituzione del rapporto, sanzioni queste di non diverso contenuto quante volte la violazione abbia riguardato i criteri di scelta previsti dal comma primo dello stesso art. 4. In assenza del presupposto numerico, l’imprenditore non è vincolato da procedure e criteri di scelta quand’anche intenda effettuare la riduzione di personale, ovvero procedere ad una risoluzione di tutti i rapporti dando luogo, nell’ipotesi considerata, ad un licenziamento individuale plurisoggettivo per giustificato motivo oggettivo13, anche se è tenuto a fornire la dimostrazione dell’impossibilità di utilizzare diversamente la prestazione. Dunque l’unica reale sostanziale differenza risiede nell’obbligo o meno di seguire la procedura sindacale di consultazione ed informazione, vincolante solo per gli imprenditori che abbiano più di quindici dipendenti e intendano procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di più di cinque di essi nell’arco di centoventi giorni, non essendovi, al contrario, tenuti coloro che hanno un organico inferiore. Dopo l’emanazione, difatti, della legge n. 108 del 1990, tutti i licenziamenti, anche quelli che non ricadono nell’ambito della legge n. 223 del 1991, rientrano senz’altro nella disciplina limitatrice dei recessi individuali, con il conseguente obbligo del c.d. repechage previsto, esclusivamente, per quelli individuali e non già per gli altri collettivi, peraltro espressamente esclusi allora dall’art. 11 della legge n. 604 del 1966, ma ora regolamentati dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991, atteso che questa, al comma 5, testualmente afferma essere i licenziamenti collettivi disciplinati da tale articolo14. 13 SOMA, Licenziamento collettivo e licenziamento individuale: ancora incertezze dopo la legge n.223/1991?, in Orient. giur. lav., 1994, 632; CAIAFA A., Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure di insolvenza, in Diritto Europeo: crisi di impresa e sorte dei rapporti di lavoro, cit. 238; in senso contrario NOCELLA, Licenziamenti collettivi, crisi aziendali e piccola impresa, in Dir. lav., 1998, I, 336, che ha escluso tale qualificazione del recesso sul presupposto che verrebbe a riproporre la superata distinzione ontologica tra licenziamento individuale e collettivo preferendo la soluzione di individuare la disciplina applicabile ai licenziamenti collettivi non rientranti nell’ambito di applicazione della legge n. 223 del 1991. 14 NOCELLA, Licenziamenti collettivi, crisi aziendali e piccola impresa, cit., 338, che, argomentando al contrario, ha osservato sottintendere la previsione di cui all’art. 24, comma 5, la possibilità che vi siano altri licenziamenti collettivi che non rientrano nella legge, relativamente ai quali troverebbero applicazione le norme sui licenziamenti individuali e, in particolare, quegli degli accordi interconfederali quante volte l’impresa rientri nel campo di applicazione di questi ultimi. 13 L’art. 5 della legge n. 108 del 1990, invero, ha introdotto un iter procedimentale per i licenziamenti individuali realizzati nella piccola impresa con riferimento, però, alla impugnazione e, dunque, relativo alla fase successiva alla avvenuta intimazione, attraverso la previsione che la domanda in giudizio non può essere proposta ove non sia stata preceduta dalla richiesta di conciliazione, secondo le procedure previste dai contratti o dagli accordi collettivi di lavoro, ovvero dagli artt. 410 e 411 c.p.c. con conseguente improcedibilità della stessa, rilevabile anche d’ufficio, nella prima udienza di discussione, e con il potere per il giudice di assegnare alle parti un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la proposizione della richiesta del tentativo di conciliazione15. L’art. 13, nell’operare la riforma del mercato di lavoro in una prospettiva di crescita modifica, in parte, la legge n. 604 del 1966, prevedendo che la comunicazione di licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato, riducendo il termine entro il quale il ricorso, volto alla impugnazione, deve essere depositato in cancelleria, ovvero deve essere data comunicazione alla parte datoriale della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato (centottanta giorni), ma, per quel che più interessa, introduce una procedura di conciliazione davanti alla Commissione Provinciale presso la Direzione Territoriale del Lavoro, da esperirsi prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa (art. 3, seconda parte, legge n. 604 del 1966), che costituisce ora condizione di improcedibilità non ai fini della proposizione della domanda giudiziale, quanto, piuttosto, per la stessa intimazione del licenziamento, che, in caso di violazione, deve ritenersi inefficace. Ed allora, affianco al licenziamento collettivo, determinato da una effettiva e stabile trasformazione della struttura dell’impresa o anche da una riduzione dell’elemento personale correlata con un ridimensionamento dell’attività aziendale, o anche reso indispensabile dall’intenzione di cessare l’attività, viene a collocarsi un licenziamento determinato da un motivo economico, con una sua diversa regolamentazione a seconda che l’impresa occupi più o meno di quindici dipendenti e, naturalmente, sempreché la risoluzione del rapporto di lavoro riguardi un numero di dipendenti inferiori a cinque, nell’arco di centoventi giorni. La legge n. 223 del 1991 ha, difatti, espressamente regolato i licenziamenti tecnologici in precedenza contemplati dall’accordo interconfederale del 1965, che espressamente prevedeva l’ipotesi del recesso, per riduzione di personale, “… come conseguenza di trasformazione o riorganizzazione tecnologica”16. 15 Sul tema Corte Cost., 4 marzo 1992, n.82. 16 Sul punto VENEZIANI, Innovazioni tecnologiche e licenziamenti collettivi, in Riv. giur. lav., 1989, I, 423; CARINCI, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale, in Dir. lav. rel. ind., 1985, 203; DEL PUNTA, Licenziamenti collettivi, riduzione di attività, innovazione tecnologica, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, 331. In particolare l’art.13, nell’indicare l’iter procedimentale, precisa che l’intenzione di procedere al licenziamento deve contenere l’indicazione dei motivi, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato ed il termine perentorio “sette giorni” perché la Direzione Territoriale convochi le parti dinanzi alla Commissione, di cui all’art. 410 c.p.c., per consentire alle stesse – che possono essere assistite dalle rispettive organizzazioni, ovvero da un 14 Ebbene, l’inesistenza di una diversità ontologica, ormai, tra licenziamento collettivo ed individuale plurimo - in precedenza dovuta al contenuto dell’atto posto in essere dall’imprenditore ed alla decisione di questi di attenersi, nella individuazione dei soggetti, ai criteri di scelta previsti dagli accordi interconfederali, laddove nel caso del licenziamento individuale, ancorché plurimo, sarebbe stato onerato della dimostrazione della soppressione dei singoli posti di lavoro, così come dell’impossibilità di una utilizzazione dei lavoratori poi licenziati -, risulta ora superata attraverso la nuova previsione di una regolamentazione particolare del licenziamento determinato da motivo economico, ancorché in realtà, non diverso da quello per giustificato motivo oggettivo, dovuto alla soppressione del posto di lavoro, a seguito di una riorganizzazione dell’azienda mirata ad una sua più economica gestione, ma che per la sua attuazione richiede un diverso iter in ragione del numero dei dipendenti occupati. Il mancato rispetto del descritto procedimento determina l’inefficacia del recesso, con le conseguenze di cui al comma 6 dell’art. 14, che prevede l’attribuzione di un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, laddove per l’impresa di minori dimensioni l’indennità risarcitoria rimane quella prevista dalla legge n. 108 del 1990. Nonostante l’operata distinzione e la rivisitazione dell’iter procedimentale per quel che attiene la sussistenza, o meno, dell’indicato motivo oggettivo, troveranno, tuttavia, ancora applicazione i principi più volte enunciati dalla Suprema Corte17. Vigente l’attuale disciplina - la cui abrogazione è prevista dal 1° gennaio 2016 - e, dunque, sino al 31 dicembre 2015, il curatore potrà procedere alla risoluzione dei rapporti, prima della scadenza del termine di cui al primo comma dell’art. 3, e, ancora, nell’ipotesi in cui sia stata autorizzata la proroga, allo spirare del successivo termine di sei mesi, qualora accerti non essere “… possibile la continuazione dell’attività, anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti …” e, naturalmente, il licenziamento riguarderà tutto il personale, salvo che non sia possibile la avvocato o da un consulente del lavoro – di individuare ed esaminare anche soluzioni alternative al recesso e che decorso il termine di venti giorni dal momento in cui la direzione ha trasmesso la convocazione per l’incontro, ove il tentativo non riesca, abilita la comunicazione del licenziamento. 17 La Suprema Corte, nel pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da soppressione del posto di lavoro, in conseguenza di una riorganizzazione mirata ad una più economica gestione dell’azienda, ha ribadito che, ai fini della configurabilità dello stesso, non è necessario vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite (Cass., 24 febbraio 2005, n.3848, in Not. giur. lav., 2005, 502; Cass., 14 giugno 2005, n.12869, ivi, 2006, 77), e, ancora, che il fatto giustificativo del recesso non deve necessariamente sussistere al momento della intimazione, potendo essere esso anche deciso in vista di un futuro riassetto aziendale (Cass., 24 febbraio 2005, n.8348, in Not. giur. lav., 2005, 502), pur se incombe sul datore di lavoro di provare la effettività delle ragioni e la impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe rispetto a quelle svolte in precedenza (Cass., 4 novembre 2004, cit., Cass., 23 marzo 2004, n.5808, in Not. giur. lav., 2004, 577; Cass., 20 dicembre 2001, n.16106, ivi, 2002, 356 con ulteriori richiami). Sul tema CAIAFA A., Sorte del rapporto di lavoro nelle procedure di insolvenza, in Diritto Europeo: crisi di impresa e sorte dei rapporti di lavoro, nella Collana diretta da PANZANI, Milano, 2008, 241. 15 conservazione di alcuni posti di lavoro per lo svolgimento delle attività strettamente connesse alla fase di liquidazione. L’art. 3, comma 3, della legge n. 223 del 1991, richiama, rispettivamente, gli artt. 4 e 24 della stessa legge e lascia ritenere che, qualora non sia possibile la continuazione dell’attività anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti, o qualora i livelli occupazionali possano essere salvaguardati solo parzialmente, il curatore debba procedere, nella prima ipotesi, al licenziamento, secondo le regole fissate dall’art. 24, e, nella seconda, alla collocazione in mobilità, ai sensi dell’art. 4, dei lavoratori eccedenti18. La stessa eliminazione, dal testo approvato, della previsione contenuta all’art. 25, comma 3, di esclusione del complesso iter fissato per l’attuazione dei licenziamenti collettivi, nei casi di “cessazione dell’attività e provvedimento dell’Autorità giudiziaria”19, appare essere coerente con la diversa previsione contenuta nell’art. 3 della legge n. 223 del 1991, che, difatti, al terzo comma, disciplina, in modo alternativo, situazioni tra loro sostanzialmente diverse, prevedendo, appunto, sia il licenziamento collettivo, di cui all’art. 24, sia la collocazione in mobilità, di cui all’art. 4 della stessa legge20. In pratica, la differenza tra le due ipotesi normativamente considerate dagli artt. 4 e 24 non va vista in relazione alla possibilità di realizzare o meno il programma di risanamento, espressamente richiesto dall’art. 1 della legge n. 223 del 1991 per le imprese in bonis, atteso che non sussiste un obbligo per il curatore di presentare alcun programma, quanto, piuttosto, con riferimento alla possibilità di risolvere, al termine del periodo di integrazione salariale, parte o tutti i rapporti di lavoro a causa della impossibilità di attuare l’ipotizzata vicenda circolatoria che ne aveva consentito la conservazione temporanea. Non può ignorarsi peraltro che, nonostante l’espressione letterale dovuta alla circostanza che l’art. 24, al comma 2, prevede che le disposizioni sui licenziamenti collettivi trovano applicazione nella sola ipotesi in cui l’imprenditore “intenda 18 Cass., 12 maggio 1997, n.4146, in Mass.giur.lav., 1997, 916 ha ritenuto applicabile la disciplina prevista per i licenziamenti collettivi nella sola ipotesi di esercizio provvisorio, consentendo tale istituto la conservazione di alcuni rapporti di lavoro e, non già, anche qualora venga a cessare l’attività di impresa, con conseguente impossibilità di prosecuzione, dunque, di tutti i rapporti di lavoro; in senso contrario: Cass., 27 aprile 2004, n. 8047, cit., ha, di contro, riconosciuto avere la disciplina prevista dagli artt. 3, 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, carattere generale, con la conseguenza che la obbligatorietà di essa “… non trova limite nell’ipotesi di cessazione dell’attività aziendale” e, ciò, sul presupposto che “… la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori”, sicché “…. essa assurge ad espressione di un principio generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa”; nello stesso senso Corte Cost., 1 febbraio 1999, n. 6, in Foro it., 1999, I, 1865, con nota di CIPRIANI; Corte Cost., 13 giugno 2000, n.190, in Mass. giur. lav., 2000, I, 494. 19 Disegno di legge n. 585 ter B, in Lavori preparatori – Decima legislatura – luglio 1991, Camera dei Deputati 469,470. 20 Cass., 7 febbraio 2003, n.1832, in Not.giur.lav., 2003, 532; Cass., 27 aprile 2004, n.8047, che ha sottolineato derivare una siffatta interpretazione dall’iter formativo della legge che, nel testo originariamente approvato dal Senato, aveva escluso che la normativa dovesse trovare applicazione nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’impresa per provvedimento dell’Autorità giudiziaria, ma che, poi, nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, per effetto della operata soppressione di quella previsione, è evidente espressione di una volontà legislativa volta ad estendere la normativa anche all’ipotesi predetta. 16 cessare l’attività”, tuttavia la giurisprudenza di legittimità è nel senso che l’iter procedimentale richiamato dalla norma, in ragione del rinvio, riguarda anche l’ipotesi in cui l’attività sia già cessata. Al di fuori dell’ipotesi considerata, quindi, della vicenda circolatoria temporanea, ovvero definitiva dell’azienda, qualora all’apertura della procedura concorsuale segua la cessazione di ogni attività produttiva e non sia, quindi, possibile il ricorso a misure alternative, il curatore, laddove risulti impossibile la vendita dell’azienda o di suoi rami, è tenuto, al termine del periodo di integrazione iniziale di dodici mesi, o di quello eventualmente prorogato, nonostante la disgregazione del complesso dei beni, a risolvere i rapporti di lavoro ancora non estinti, in quanto sospesi, seguendo l’iter descritto dalla norma. Il legislatore non ha, difatti, preso in considerazione l’ulteriore ipotesi in cui la vendita dell’azienda possa essere realizzata decorso il periodo previsto per il trattamento di integrazione salariale, ancorché prorogato, tant’è che, in tal caso, non vi sarà l’obbligo per il curatore di svolgere la prevista attività di informazione e consultazione, presupponendo essa l’esistenza di un organico minimo (più di quindici dipendenti). Ed infatti l’art. 3, comma 3, della legge n. 223 del 1991 chiaramente prevede che al termine di fruizione del trattamento straordinario possano verificarsi due diverse ipotesi, a seconda che sia stata realizzata una vicenda circolatoria, totale o parziale dell’azienda, e, quindi, salvaguardati alcuni dei posti di lavoro, o, di contro, sia stata constatata l’impossibilità di cessione, con conseguente obbligo dell’immediata risoluzione di tutti i rapporti. La soluzione, ancorché diversa, a seconda che l’attività sia già cessata e non continuata, per non esservi stata gestione temporanea o esercizio provvisorio dell’azienda, o, ancora, per non aver potuto il curatore realizzare la cessione dell’azienda, o di sue parti, e salvaguardare i livelli occupazionali, ha avuto una sorte non diversa dalla precedente, con conseguente obbligo di seguire la prevista procedura per l’attuazione del licenziamento di tutto il personale, pur risiedendo la differenza, tra la dichiarazione di mobilità (art. 4) ed il licenziamento collettivo (art. 24), nella sussistenza di prospettive per garantire l’eventuale reimpiego dei lavoratori sospesi. Non avendo la legge (art. 24) escluso dalla fattispecie del licenziamento collettivo l’ipotesi della cessazione di attività, conseguente all’apertura della procedura concorsuale, ci si viene a trovare dinanzi ad un recesso che presenta, tra i suoi elementi costitutivi, non più la sussistenza di una “riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro”21, ma, anche, la cessazione dell’attività, avendo il legislatore inteso superare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il licenziamento sorretto da tale ragione andava configurato come recesso plurimo per giustificato motivo oggettivo. 21 Forma, questa, mutuata dagli accordi interconfederali del 20 dicembre 1950 e 5 maggio 1965 sui licenziamenti per riduzione di personale. 17 A tale conclusione la Suprema Corte è pervenuta sul presupposto che la disciplina prevista dagli artt. 3, 4, 5 e 24 legge 24 luglio 1991, n. 223 ha un carattere assolutamente generale, sicché la sua obbligatorietà non trova limite nell’ipotesi di cessazione dell’attività aziendale, in quanto “la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori”, di talché “essa assurge ad espressione d’un principio generale, che non può che valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa” 22. In particolare i giudici di legittimità23 hanno ritenuto che nell’ipotesi in cui, nell’ambito del fallimento, si ritenga impossibile la continuazione dell’attività, non emerge alcun limite espresso alla obbligatorietà della procedura, dal momento che l’art. 3, terzo comma, testualmente prevede che “quando non sia possibile la continuazione dell’attività, anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti, o quando i livelli occupazionali possano essere salvaguardati solo parzialmente, il curatore,…. ha facoltà di collocare in mobilità, ai sensi dell’art. 4 ovvero dell’art. 24, i lavoratori eccedenti”. Infondata è stata altresì ritenuta l’argomentazione che deduce la non obbligatorietà della procedura dalla natura speciale della normativa che disciplina il fallimento, nell’ambito della quale prevarrebbero gli interessi dei creditori, poiché il curatore non può non attenersi alle indicazioni degli organi cui compete il compito di autorizzare la scelta dal primo operata. Al riguardo è stato osservato che il rapporto fra norma generale e speciale presuppone l’identità della materia, ma la seconda si trova in rapporto di specie a genere, rispetto alla prima, in quanto contiene, oltre ad elementi comuni, anche elementi particolari o specializzanti, non contenuti nella norma generale24. Secondo l’indicato indirizzo, l’art. 3 della legge n. 223 del 1991 è norma speciale, in quanto contiene elementi comuni alla materia disciplinata dalla legge fallimentare ed altri dettati per regolamentare il licenziamento collettivo quante volte risulti impossibile la continuazione dell’attività aziendale, sicché prevale sulla seconda. Risulta invece integralmente confermata la disciplina per quel che attiene la materia dei licenziamenti collettivi, avendo l’art. 15 previsto delle modifiche che incidono, in particolare, sull’art. 4, comma 9, attraverso la sostituzione dell’espressione “contestualmente”, con la previsione che l’elenco dei lavoratori, il cui rapporto viene risolto, con l’indicazione dell’interessato, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché, in particolare, della puntuale indicazione delle modalità con le quali sono state applicati i criteri di scelta, di cui all’art. 5, comma 1, della stessa legge, deve essere comunicato all’Ufficio Regionale del Lavoro e della Massima Occupazione, nonché 22 Corte cost. n.6 del 1999, id., Rep. 1999, voce Previdenza sociale, n.361, e n.190 del 2000, id., Rep. 2000, voce Lavoro (rapporto), n.1893. 23 Cass., 3 marzo 2003, n. 3129, id., Rep. 2003, voce Fallimento, n. 468. 24 Cass., 18 giugno 1999, n. 6146, id., Rep. 2000, voce Farmacia, n. 52; 5 febbraio 1975, n. 427, id., Rep. 1975, voce Turismo, n. 19. 18 alla Commissione Regionale per l’Impiego ed alle Associazioni di Categoria, entro sette giorni dalla intimazione dei recessi. E’ stata altresì rivista la possibilità per le parti “nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo” di sanare eventuali vizi della comunicazione, con conseguente modifica dell’art. 4, comma 12. Risulta, infine, sostituito l’art. 5, comma 3, per quel che attiene le conseguenze dell’intimato licenziamento ove non venga osservata la forma scritta, ovvero siano state violate le procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, e non siano stati eliminati i vizi della comunicazione, attraverso l’accordo sindacale previsto dal secondo comma dell’art. 15, o ancora nel caso di violazione dei criteri di scelta. Coerente con le disposizioni transitorie, previste dall’art. 33, per quel che concerne l’indennità per i lavoratori collocati in mobilità a decorrere dal 1° gennaio 2013 sino al 31 dicembre 2016, appare essere la ridefinizione del trattamento in ragione di quanto previsto dall’art. 7 della legge 23 luglio 1991 n. 223, di cui l’art. 39 dispone l’abrogazione con decorrenza, coerentemente, dal 1° gennaio 2017, data questa prevista per il venir meno, rispettivamente, di alcuni commi dell’art. 5 (4, 5 e 6) dell’art. 10 (comma 2), dell’art. 16 (commi da 1 a 3), dell’art. 25 (comma 9) e degli artt. da 6 a 9. Per quel che attiene la gestione transitoria verso il nuovo assetto degli ammortizzatori sociali, l’art. 37, nell’introdurre la possibilità, per gli anni compresi tra il 2013 ed il 2016, della concessione di trattamenti integrativi o di mobilità, al fine di consentire il passaggio dal vecchio al nuovo sistema, condizionato all’esistenza delle risorse finanziarie e, peraltro, nei limiti di esse, così come nel prevedere la proroga dei trattamenti di integrazione di mobilità, già riconosciuti, per un ulteriore periodo, indicato in dodici mesi, con importo decrescente, pone in evidenza la previsione di un trattamento diverso, che non può risultare coerente sol perché dettato dalla esigenza di gestire una fase transitoria, risultando esso del tutto ingiustificato rispetto alla differente operata regolamentazione degli eventi di disoccupazione che si vengono a verificare a decorrere dal 1° gennaio 2013, per i quali trova, di contro, applicazione l’ASPI. E d'altronde, la causa che determina il riconoscimento dell’assicurazione sociale per l’impiego viene individuata nella disoccupazione involontaria ed è correlata, dunque, a tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro non sia cessato per dimissioni o per risoluzione consensuale, salvo che - come già sottolineato - le prime non siano state determinate da una giusta causa, in conseguenza del mancato pagamento della retribuzione, ovvero nell’ipotesi prevista dall’art. 2112, comma 4, c.c. qualora le condizioni di lavoro, nell’ipotesi di trasferimento dell’azienda, abbiano subito una sostanziale modifica, avendo il legislatore in tal caso riconosciuto al lavoratore, per l’appunto, la possibilità di rassegnare le dimissioni, nei tre mesi successivi, con gli effetti di cui all’art. 2119, comma 1, c.c. Abbiamo, dunque, due categorie di lavoratori disoccupati per i quali le tutele risultano essere molte diverse in termini di durata, laddove si considerino le disposizioni transitorie di cui agli artt. 32 e 33. 19 La sezione prima del capo IV, dedicata agli ammortizzatori sociali, all’art. 39 individua la data di abrogazione, con decorrenza dal primo gennaio 2016, dell’art. 3 della legge 23 luglio 1991, n. 223 sul presupposto che a quella data dovrebbe essere ormai a regime la diversa tutela derivante dall’assicurazione sociale per l’impiego, prevista in favore del lavoratori che abbiamo perduto involontariamente la propria occupazione, ma che si sostanzia nel venir meno - come più volte sottolineato della “condizione di occupato”, riconosciuta al fine di utilizzare il voluto risultato della conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurandone la sopravvivenza attraverso la cessione (ciò in quanto l’integrazione salariale concorsuale ha la funzione di impedire la risoluzione dei rapporti di lavoro e di garantire la continuità giuridica di essi sino al momento in cui sia possibile l’acquisizione dell’azienda da parte di altre imprese con maggiori capacità manageriali ed ha costituito, sicuramente, una fonte di integrazione del reddito correlata all’obiettivo per il quale ne è stata prevista la concessione)25. L’alternatività fra i due modelli regolati, rispettivamente, dagli artt. 1 e 3 della legge n. 223 del 1991, sino ad oggi concettualmente chiara, è destinata a venir meno nel momento in cui la seconda delle disposizioni normative sarà definitivamente abrogata. Ed infatti, qualora la continuazione dell’attività risulti dettata non già da finalità produttive in senso proprio, quanto, piuttosto, risulti utile per ragioni conservative e, quindi, venga a costituire un passaggio strumentale obbligato per tentare la realizzazione di una vicenda traslativa, temporanea o definitiva, ed attraverso questa favorire il mantenimento dei livelli occupazionali, oltre la migliore soddisfazione delle ragioni creditorie, sarà inevitabile il ricorso al modello, ormai unico, previsto dall’art. 1 della legge n. 223 del 1991. Non può, peraltro, ignorarsi che, in ragione della diversità di struttura e finalità delle due fasi di intervento sino ad oggi note, regolate rispettivamente dagli artt. 1 e 3 della legge n. 223 del 1991, non è affatto certo che la ricorrenza di una delle ipotesi previste, specificamente, dalla prima norma (art. 1) sia idonea a legittimare il potere generale di sospensione, atteso che si richiede l’esistenza di una stretta interdipendenza tra causa integrabile e sospensione del relativo rapporto, con la conseguenza che la decisione di ricorrervi deve essere giustificata, ai fini della sua legittimità, dalla sussistenza, in concreto, di una delle fattispecie astratte previste (ristrutturazione, riorganizzazione, conversione, ovvero crisi), dal momento che il venir meno della relativa condizione legittimante verrebbe a comportare l’obbligo del pagamento della retribuzione corrispondente, atteso che il provvedimento di ammissione al trattamento ha efficacia costitutiva e, al tempo stesso, derogatoria della disciplina del rapporto di lavoro26. 25 CAIAFA A., Il rapporto di lavoro subordinato dalla dichiarazione di fallimento all’eventuale sopravvivenza e circolazione dell’azienda, in Mass. giur., 1999, 1240. 26 Cass., 6 agosto, 1996, n. 7194, in Orient. giur. lav., 1996, 966; Cass. 10 maggio 1995, n.5090, ivi, 1995, 535, che hanno ritenuto determinare il rigetto della domanda l’obbligo per il datore di lavoro di procedere al pagamento delle retribuzioni quante volte la sospensione sia stata da lui unilateralmente disposta. 20