Edizioni Simone - Vol. 8 Diritto processuale civile
Capitolo 3
L’invalidità degli atti processuali
Sommario
1. I vizi degli atti. - 2. L’inesistenza. - 3. La nullità. - 4. L’irregolarità.
1.I vizi degli atti
Il legislatore tratta il problema agli artt. da 156 a 162 del c.p.c., senza effettuare alcuna
contrapposizione concettuale tra nullità e annullabilità (propria del diritto sostanziale) e
utilizzando un’ampia nozione di nullità, comprensiva anche di caratteri propri dell’annullabilità. Inoltre il legislatore ha omesso di utilizzare espressamente nozioni come la irregolarità o l’inesistenza, lasciandone la definizione alla dottrina.
Dalla disciplina codicistica si evince che la nullità deve essere oggetto di pronuncia del
giudice (art. 156 c.p.c.), in mancanza della quale l’atto continua a produrre i suoi effetti.
La pronuncia ha quindi effetto costitutivo dell’inefficacia dell’atto, analogamente alla pronuncia di annullamento propria del diritto sostanziale, ove, come è noto, la nullità opera di
diritto e può essere oggetto di pronuncia dichiarativa ex tunc (azione di mero accertamento),
mentre nel caso dell’annullabilità l’atto continua ad essere efficace fino alla pronuncia costitutiva di annullamento.
La pronuncia della nullità di un atto processuale è un ibrido, perché ha carattere costitutivo
(come una pronuncia di annullamento), ma opera ex tunc (come una pronuncia di nullità).
Ciò significa che gli atti processuali conservano efficacia fino alla pronuncia di nullità.
La pronuncia di nullità determina a posteriori il crollo della intera serie procedimentale, al
pari di una costruzione alla quale è sottratto un pilastro o le fondamenta (Mandrioli).
Tale principio è stabilito dall’art. 159, co. 1 e 2 c.p.c. (Estensione della nullità).
L’impostazione seguita dal legislatore si spiega per le stesse ragioni che lo hanno indotto a
privilegiare la nozione di forma-contenuto rispetto alla volontà dell’atto processuale, ossia
per l’esigenza di ancorare l’efficacia dell’atto a parametri oggettivi, senza dar luogo a complesse indagini sull’elemento psicologico.
I vizi degli atti processuali sono determinati dalla violazione delle norme che regolano lo
svolgimento del processo.
La dottrina ha individuato varie distinzioni fra i vizi degli atti:
—vizi che determinano l’invalidità di un atto o dell’intero procedimento;
—vizi formali o non formali;
—vizi che determinano irregolarità o nullità o inesistenza degli atti (a seconda della gravità delle violazioni).
Le norme che regolano lo svolgimento del processo non hanno tutte la stessa importanza,
per cui, a seconda del tipo e della gravità della loro violazione, possono verificarsi conseguenze differenti.
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Parte IV: Gli atti processuali
Si determina l’inesistenza, in senso giuridico, quando vi sono vizi così gravi da rendere
l’atto che si è compiuto assolutamente diverso da quello previsto dalla legge.
Si determina la nullità, quando il vizio è così grave da impedire il raggiungimento dello
scopo dell’atto.
Si determina l’irregolarità, quando il vizio consente ugualmente all’atto di produrre effetti, ma comporta la necessità di una regolarizzazione o sanzioni sul piano disciplinare.
In particolare, la dottrina prevalente (Zanzucchi, Liebman etc.), che segue la falsariga della teoria generale del diritto in materia di nullità di atti, tratta la materia secondo il
seguente schema:
Invalidità
— inesistenza
assoluta
relativa
— nullità
sanabile
insanabile
— irregolarità
In pratica, l’inesistenza è l’aspetto più intenso della nullità, mentre al limite opposto c’è
l’irregolarità come vizio meno intenso rispetto alla nullità (così Mandrioli).
Opinioni
Poiché l’art. 156, co. 1 e 2, c.p.c. contiene un richiamo all’assenza dei requisiti di forma o formali, si
è ritenuto che la norma non riguardi i vizi non formali (Denti, Satta, Martinetto). Tuttavia, deve
osservarsi che vi sono requisiti (come i presupposti processuali o le condizioni dell’azione) che non
hanno natura formale e che gli atti processuali devono essere considerati come elementi di una serie
procedimentale, con la conseguenza che la nullità del precedente può ripercuotersi sul successivo
dipendente (art. 159 c.p.c.).
È quindi preferibile ritenere che anche i requisiti non formali finiscono, con lo svolgersi della serie
procedimentale, col divenire requisiti formali (Mandrioli; contra: Martinetto, Tavormina).
In tal senso l’art. 156, co. 2, c.p.c. è un corollario del principio di strumentalità della forma allo scopo
astrattamente attribuito dalla legge all’atto (artt. 121 e 131 c.p.c.). Per esempio si pensi alla nullità (ex
art. 164, co. 1, c.p.c.) dell’atto di citazione in cui manchi la data dell’udienza. In tal caso il convenuto
potrebbe comunque coltivare il giudizio qualora vi avesse interesse, sanando così la nullità dell’atto
per raggiungimento dello scopo (art. 156, co. 3, c.p.c.).
2.L’inesistenza
A) Nozione
Il legislatore non utilizza il termine inesistenza, eppure tale nozione è ormai acquisita soprattutto in giurisprudenza.
Va precisato che con il termine inesistenza non si fa riferimento alla inesistenza materiale,
ossia alle ipotesi in cui l’atto non viene proprio compiuto.
L’inesistenza in senso giuridico si ha quando un atto viene compiuto, ma è privo di elementi essenziali, per cui non può essere inquadrato in uno di quelli previsti dalla legge.
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B) Le ipotesi
L’ipotesi tipica di atto inesistente è quella prevista dall’art. 161, co. 2, c.p.c.: la sentenza
priva della sottoscrizione del giudice.
Opinioni
Secondo alcuni, è necessario distinguere l’ipotesi del rifiuto intenzionale del giudice di sottoscrivere (che comporta l’inesistenza), dall’ipotesi di mancata sottoscrizione dovuta a distrazione o dimenticanza (a cui si può rimediare mediante la procedura di correzione, ai sensi degli artt. 287 e ss. c.p.c.)
(PROTO PISANI; Cass. 15-10-1980, n. 5540).
Secondo l’opinione prevalente, in ogni caso di mancanza di sottoscrizione la sentenza è affetta da
vizio insanabile (DENTI, MARTINETTO; Cass. 7055/1999; Cass. 2582/1998; Cass. 246/1995), con
la conseguenza che, anche in esito al giudizio di cassazione, la causa deve essere rimessa allo
stesso giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione (Cass. 3-2-1999, n. 927; Cass.
27-2-1995, n. 2292). Tale vizio, inoltre, è deducibile anche in via d’opposizione avverso l’esecuzione
intrapresa in forza di detta sentenza, da qualificarsi come opposizione all’esecuzione stessa, in quanto si traduce nella contestazione del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata (Cass.
6-11-1986, n. 6483).
Altre ipotesi di inesistenza sono state individuate dalla dottrina (tra gli altri, LUISO) e dalla giurisprudenza:
—la sentenza emessa da colui che non è un giudice;
—la sentenza emessa da un giudice diverso da quello davanti al quale si sia svolta l’udienza di discussione (Cass. 15629/2005; Cass. 16045/2000; Cass. 5100/1998);
—la sentenza priva del dispositivo (o con dispositivo impossibile, indeterminato, contraddittorio, incomprensibile);
—la sentenza emessa in forma orale;
—la sentenza pronunciata contro un soggetto deceduto prima dell’inizio del processo (Cass.
5-10-2001, n. 12292; Cass. 18-9-2001, n. 11688);
—la sentenza collegiale che rechi la sottoscrizione del solo presidente e non anche del
giudice estensore (Cass. ord. 22705/2010);
—la citazione comunicata al convenuto con mezzi diversi dalla notificazione;
—la notificazione effettuata ad una persona o in un luogo in nessun modo riferibili al destinatario o con modalità totalmente estranee al modello legale.
C) La disciplina
L’inesistenza impedisce che l’atto possa produrre effetti giuridici sostanziali o processuali.
Essa può essere fatta valere in ogni momento, da qualsiasi interessato e non può mai essere
sanata.
Se l’inesistenza della sentenza viene fatta valere in sede di gravame, il giudice dell’impugnazione deve rimettere la causa al primo giudice (così gli artt. 354, co. 1, e 383, co. 3, c.p.c. per
l’ipotesi di sentenza priva di sottoscrizione; vedi anche Cass. 1816/1999; Cass. 5100/1998).
In ogni caso, la sentenza inesistente non è idonea a passare in giudicato, per cui l’inesistenza può essere fatta valere in ogni tempo con un’autonoma azione di accertamento (la cd.
actio nullitatis) (DENTI, D’ONOFRIO, LIEBMAN, MARTINETTO, ORIANI; Cass.
12292/2001; Cass. 9661/1993; Cass. 4025/1992).
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Si ritiene che l’inesistenza possa essere fatta valere anche in via di eccezione (la cd. exceptio nullitatis) o con l’opposizione all’esecuzione (D’ONOFRIO, MANDRIOLI; Cass.
12292/2001).
L’inesistenza si distingue, dunque, dalla nullità assoluta ed insanabile.
La nullità, anche se rilevabile d’ufficio ed insanabile, deve essere fatta valere con i mezzi di impugnazione
previsti dalla legge (cfr. art. 161, co. 1, c.p.c.) e viene, comunque, eliminata a seguito del passaggio in giudicato della sentenza (cfr. Cass. S.U. ord. 14889/2009 in merito alla sanatoria, per mancata impugnazione, della
sentenza emessa in difetto di giurisdizione).
L’inesistenza può essere accertata in qualsiasi tempo e non ammette sanatoria di alcun genere (Cass. 14-10-1988,
n. 5566).
3.La nullità
A) Nozione
La nullità è la conseguenza di una violazione delle norme processuali, così grave da rendere l’atto inidoneo a raggiungere il proprio scopo.
B) Le ipotesi
Il legislatore indica due criteri per individuare le ipotesi di nullità.
Innanzitutto, vi è il principio della cd. tassatività delle nullità:
—la nullità si determina quando è espressamente prevista dalla legge (cfr. l’art. 156, co.1,
c.p.c. che rinvia alle disposizioni in cui la legge sancisce esplicitamente la nullità: artt.
158, 160, 161, 164, 221, 480, 807, 808, 829 c.p.c.).
In secondo luogo, vi è il principio della inidoneità allo scopo:
—la nullità si determina quando l’atto non si presenta – in astratto – idoneo a conseguire
la propria funzione (art. 156, co. 2, c.p.c.) (ad es. è nulla la sentenza priva di motivazione, in quanto non adempie alle finalità che la legge attribuisce alla sentenza).
Un altro importante principio è, però, quello della cd. strumentalità delle forme, secondo
cui se lo scopo dell’atto è – in concreto – raggiunto, la nullità non può essere dichiarata (ad
es. la notificazione dell’atto di impugnazione che non rispetti l’ordine dei luoghi indicato
dall’art. 330 c.p.c. è nulla in quanto, in astratto, non idonea allo scopo; se, però, l’altra parte si costituisce, la nullità non può essere dichiarata, in quanto l’atto ha, in concreto, raggiunto il proprio scopo).
Opinioni
Secondo l’opinione prevalente, lo scopo dell’atto non è quello soggettivo di colui che lo compie, ma
quello oggettivo previsto dalla legge: è la funzione tipica che la legge ha assegnato all’atto all’interno
del processo (ANDRIOLI, LIEBMAN, ORIANI, REDENTI, SATTA). In particolare, si è osservato (VERDE)
che l’art. 156, co. 3, c.p.c. ha la funzione di «moltiplicatore» delle fattispecie costitutive di effetti, consentendo di aggiungere alla fattispecie tipica quella comunque idonea al raggiungimento dello scopo. In
particolare, l’autore sintetizza la funzione della disposizione in esame nella equazione: fattispecie formalmente invalida + fatto che integra il conseguimento dello scopo = fattispecie formalmente perfetta.
Occorre, tuttavia, precisare che il principio di cui all’art. 156, co. 3, c.p.c., si riferisce esclusivamente alle nullità di ordine processuale derivanti da vizi di forma, con esclusione dei termini
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perentori e dei casi di decadenza dall’azione, incidenti sul diritto materiale della parte (Cass. 6-122002, n. 17404; Cass. 2-6-1997, n. 4894).
C) La rilevabilità della nullità
Per quanto riguarda il modo in cui va rilevata la nullità, il legislatore prevede che:
—di regola, la nullità deve essere eccepita dalla parte (si tratta delle cd. nullità relative);
—nei casi previsti dalla legge, la nullità può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice (si
tratta delle cd. nullità assolute).
Opinioni
Si è posto il problema se la rilevabilità d’ufficio deve essere espressamente prevista dalla legge
(come apparentemente dispone l’art. 157, co. 1, c.p.c.) o può anche risultare implicitamente dall’importanza del vizio.
Secondo alcuni, la regola prevista dall’art. 157, co. 1, c.p.c. vale solo per le nullità per vizi formali,
mentre per le nullità derivanti da vizi non formali vale la regola opposta (secondo cui il giudice può
sempre rilevare la nullità d’ufficio) (ANDRIOLI, DENTI, MARTINETTO).
Secondo altri, la nullità può essere rilevata d’ufficio, non solo quando è espressamente previsto dalla
legge (ex art. 157, co. 1, c.p.c.), ma anche quando la nullità deriva dalla violazione di norme poste a
tutela non di interessi di parte, ma del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (arg. ex art.
157, co. 2, c.p.c.) (ORIANI).
Per quanto riguarda le nullità relative, va precisato che l’istanza con cui la parte deve far
rilevare la nullità è un’eccezione processuale in senso proprio.
L’art. 157 c.p.c. prevede i seguenti limiti alla possibilità di eccepire la nullità:
—l’istanza va proposta nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso,
altrimenti la nullità resta sanata e non può essere eccepita dalla parte interessata (Cass.
n. 16204/05) (limite temporale);
—l’istanza va proposta dalla parte nel cui interesse è stabilito il requisito, la cui mancanza
ha causato il vizio (limite positivo);
—l’istanza non può essere proposta da chi ha causato la nullità (limite negativo);
—l’istanza non può essere proposta da chi ha rinunciato (anche tacitamente) a far valere la
nullità (limite negativo).
Va precisato che le nullità (sia quelle rilevabili su istanza di parte, sia quelle rilevabili d’ufficio) devono essere oggetto di una pronuncia da parte del giudice (cd. pronuncia costitutiva), in mancanza della quale l’atto nullo rimane in vita (Cass. 29-8-1997, n. 8232).
D)La sanatoria delle nullità
Una importante distinzione tra le nullità è quella tra:
—nullità sanabili;
—nullità insanabili.
Nullità sanabili sono le nullità relative, le quali possono essere sanate in due modi:
—se non vengono eccepite dalla parte nei modi e limiti previsti dalla legge (cfr. art. 157,
co. 2 e 3, c.p.c.);
—se l’atto ha raggiunto lo scopo (art. 156, co. 3, c.p.c.).
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Nullità sanabili sono anche le nullità assolute, le quali si sanano per il raggiungimento
dello scopo (infatti, è evidente che, se l’atto viziato ha raggiunto lo scopo, il giudice non
può dichiarare la nullità neppure se essa sia rilevabile di ufficio).
Ad es., poiché lo scopo della notificazione degli atti di vocatio in ius è quello di attuare il principio del contraddittorio, tale finalità è raggiunta con la costituzione in giudizio del destinatario dell’atto, rimanendo conseguentemente sanato con effetto ex tunc qualsiasi eventuale vizio della notificazione stessa (Cass. 1-6-2004,
n. 10495; Cass. 29-12-1997, n. 13094), e ciò anche se la costituzione del convenuto sia tardiva ed effettuata al
fine dichiarato di far rilevare il vizio (Cass. 5-2-2002, n. 1548).
Anche l’incompetenza territoriale dell’ufficiale giudiziario determina la nullità solamente relativa della notificazione, che, quindi, è suscettibile di essere sanata con effetto retroattivo dalla costituzione dell’intimato ovvero tramite la rinnovazione disposta dal giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (ex multis, Cass. 17-1-2003, n. 637).
In ipotesi, invece, di omissione o inesistenza giuridica della notifica del ricorso per cassazione, la costituzione della parte intimata ha efficacia sanante ex nunc e, pertanto, l’inammissibilità del ricorso non è esclusa dalla
notifica del controricorso ove questa sia avvenuta oltre il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza
(Cass. 27-1-1996, n. 620).
In generale, la rinnovazione della notificazione nulla di un atto di citazione a giudizio (disposta ed eseguita
ai sensi dell’art. 291 c.p.c.) non può ritenersi idonea a determinare effetti interruttivi del corso della prescrizione con decorrenza retroattiva alla data della notificazione invalida, a nulla rilevando la (apparentemente contraria) disposizione di cui all’art. 291, la quale, stabilendo che «la rinnovazione della citazione nulla
impedisce ogni decadenza», ha, evidentemente, riguardo ad un istituto ben diverso, per natura e funzione, rispetto a quello della prescrizione (Cass. 14-8-1997, n. 7617).
Nullità insanabili sono solo quelle nullità assolute che la legge qualifica espressamente
insanabili (cfr. ad es. l’art. 158 c.p.c.). Anche queste nullità, però, sono insanabili solo entro
il grado di giudizio nel quale si sono verificate. Dopo la pronuncia della sentenza devono
essere fatte valere con i mezzi di impugnazione, altrimenti vengono sanate dal passaggio in
giudicato della sentenza (arg. ex art. 161, co. 1, c.p.c.). In applicazione del principio di
conservazione, il legislatore tende a limitare le conseguenze della nullità.
Sono previsti tre limiti all’estensione della nullità:
—la nullità non colpisce gli atti precedenti, né quelli successivi ma indipendenti (cd. limite esterno), per il principio dell’«utile per inutile non vitiatur»;
—la nullità parziale di un atto non si estende alle altre parti dell’atto che ne sono indipendenti (cd. limite interno);
—la nullità dell’atto non impedisce all’atto di produrre effetti diversi da quelli dell’atto
originario nullo (cd. conversione dell’atto nullo) (ad es. un atto di riassunzione nullo
può valere come atto introduttivo di un autonomo giudizio) (cfr. Cass. 4-2-1988, n. 1122).
Quando viene rilevata la nullità di un atto del processo, possono verificarsi due ipotesi:
—il giudice, dopo aver pronunciato la nullità, dispone la rinnovazione degli atti, se ciò è
possibile, per consentire al processo di proseguire verso il suo esito normale (art. 162 c.p.c.);
—il giudice emette una sentenza che dichiara la nullità del processo e conclude il giudizio
(è la cd. absolutio ab instantia).
E) La nullità della sentenza
La sentenza può essere nulla:
—per nullità cd. derivata;
—per vizi che si sono verificati nella formazione stessa della sentenza.
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Per quanto riguarda la nullità derivata, va precisato che in base all’art. 159, co. 1, c.p.c. la
nullità degli atti processuali si estende a tutti gli atti successivi dipendenti (e quindi anche
alla sentenza). Pertanto, quando il giudice decide nel merito, anziché pronunciare la nullità
di un atto anteriore del processo, la sentenza è nulla.
Per quanto riguarda i vizi propri della sentenza, vanno ricordate le seguenti ipotesi:
—il vizio relativo alla costituzione del giudice (art. 158 c.p.c.);
—il difetto della motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.);
—il difetto di alcuno dei requisiti formali della sentenza previsti dall’art. 132 c.p.c.
Opinioni
La giurisprudenza non ritiene, però, motivi di nullità della sentenza:
— l’omissione o l’incompletezza dell’intestazione (ad es. in relazione all’indicazione delle parti o dei
difensori, se tali dati si ricavano dal testo della sentenza) (Cass. 22-4-1992, n. 4843; Cass. 12-112003, n. 16989);
— la mancanza, l’incompletezza o l’erroneità della menzione delle conclusioni delle parti (purché di
esse si sia tenuto conto in motivazione) (Cass. 8-4-2002, n. 5024);
— il difetto di sottoscrizione del verbale di udienza, se la mancanza di tale firma non ha pregiudicato
o influito in alcun modo sulla sentenza (Cass. 2820/1999);
— la mancanza della data della deliberazione (cioè della data in cui la decisione è stata presa in
camera di consiglio) (Cass. 3-12-1999, n. 13505).
Al contrario, la giurisprudenza configura la nullità della sentenza nelle seguenti ipotesi:
— radicale mancanza della motivazione (Cass. S.U. 12-6-1999, n. 319);
— omessa lettura del dispositivo all’udienza di discussione della causa nelle controversie soggette
al rito del lavoro (Cass. S.U. 16-1-1987, n. 299) e nel procedimento di opposizione ad ordinanzaingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa (Cass. 8-3-2005, n. 4970);
— decisione della controversia sulla base di una questione sollevata d’ufficio dal giudice e non previamente sottoposta alle parti (Cass. 21-11-2001, n. 14637).
La nullità della sentenza può essere fatta valere solo nei limiti e secondo le regole delle
impugnazioni. La mancata proposizione dell’impugnazione fa passare in giudicato la sentenza e comporta una sanatoria del vizio (art. 161, co. 1, c.p.c.).
Alla base di tale fenomeno c’è la regola della conversione dei vizi di nullità in motivi d’impugnazione.
Ciò vale solo per atti idonei al giudicato. Nel caso, invece, di atti inidonei al giudicato (si
pensi alla sentenza inesistente) opera, come già detto, il rimedio dell’actio nullitatis o della
exceptio nullitatis (art. 161, co. 2, c.p.c.).
Opinioni
Secondo l’opinione prevalente, la regola della conversione delle nullità in motivi di impugnazione,
vale per tutti i provvedimenti a contenuto decisorio (anche se non hanno forma di sentenza) (ANDRIOLI, DENTI, MANDRIOLI, ORIANI).
F) Il difetto di costituzione del giudice
La nullità degli atti processuali per difetto di costituzione del giudice è disciplinata dall’art.
158 c.p.c., che, però, non rivela espressamente in cosa consistono tali vizi. Secondo l’opi-
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nione prevalente la nozione di costituzione del giudice può essere ricavata dalla disciplina
prevista dall’art. 178 lett. a) c.p.p. (che indica le ipotesi di nullità per vizi di costituzione
del giudice penale).
Rientrano tra i vizi di costituzione del giudice le violazioni:
—alle norme sulla nomina e le altre condizioni di capacità del giudice stabilite dall’Ordinamento giudiziario (ad es. sono nulli gli atti compiuti dal giudice temporaneamente
privo di funzioni giurisdizionali o trasferito presso un altro ufficio);
—alle disposizioni sul numero dei giudici necessari per costituire i collegi;
—alle regole del codice di rito sulla legittimazione del giudice (ad es., ai sensi dell’art. 276
c.p.c., è nulla la sentenza deliberata da un giudice non presente alla discussione).
Opinioni
Quanto al vizio di costituzione del giudice (nullità assoluta ed insanabile), all’art. 158 c.p.c. si tende a
ricondurre anche ipotesi più propriamente di inesistenza (es. è affetta da nullità insanabile, rilevabile
d’ufficio ex art. 158 c.p.c., la sentenza deliberata da un giudice diverso da quello che ha assistito
all’udienza di precisazione delle conclusioni, Cass. 22-2-1999, n. 1473; sentenza pronunciata da
collegio con un numero inferiore o superiore di giudici, Cass. S.U. 28-4-1959, n. 1246; Cass. S.U.
20-4-1962, n. 810 e in dottrina Redenti, Andrioli, Martinetto, Denti). Tipico esempio di vizio
di costituzione è quello di magistrato non presente alla discussione che tuttavia partecipi alla deliberazione o di collegio del quale faccia parte un magistrato già trasferito ad altro ufficio (Cass. 14-1-1988,
n. 200; Cass. S.U. 7-12-1999, n. 857). Altra ipotesi è data dall’assenza del P.M. in uno dei casi dell’art.
70 c.p.c. (Cass. 3-5-2000, n. 5504).
Quando il vizio di costituzione dà luogo a nullità insanabile (e non ad inesistenza), quest’ultima può essere rilevata d’ufficio, ma resta in ogni caso salva la regola della conversione
delle cause di nullità in motivi di gravame, sancita dall’art. 161 c.p.c.
Di conseguenza, la mancata tempestiva denuncia del vizio in questione comporta la necessità di farlo valere attraverso lo strumento (e secondo regole, limiti e preclusioni) dell’impugnazione, e la mancata denuncia di detta nullità in sede di gravame comporta l’impossibilità di rilevarla ed, in definitiva, la sua sanatoria (Cass. 236/2010; Cass. S.U. 14699/2003).
Opinioni
Si discute se la nullità per vizio di costituzione del giudice sia rilevabile d’ufficio solo durante il grado di giudizio in cui si è verificata o in ogni stato e grado del processo.
Secondo la dottrina prevalente, anche il giudice dell’impugnazione può rilevare d’ufficio tali nullità
(BONSIGNORI, CONSO, MANDRIOLI, MARTINETTO, ORIANI).
Secondo la giurisprudenza, invece, la parte deve far valere la nullità come specifico motivo di appello (o di ricorso per cassazione) (Cass. 6-9-1990, n. 9197 e, in dottrina, POLI).
Varie opinioni sussistono anche riguardo ai poteri del giudice di appello che rileva la nullità della
sentenza di primo grado per difetto di costituzione del giudice.
Secondo alcuni, il giudice dell’impugnazione deve dichiarare la nullità dell’intero giudizio (CERINO
CANOVA, DENTI).
Secondo altri, deve rimettere la causa al giudice di primo grado (COSTA, PROTO PISANI).
Secondo altri ancora, deve pronunciare la nullità e decidere nel merito (ORIANI, SATTA).
Capitolo 3: L’invalidità degli atti processuali
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Il vizio di costituzione del giudice non va confuso con il difetto di giurisdizione.
Le norme sulla giurisdizione riguardano il potere in astratto di decidere una controversia.
Le norme sulla costituzione riguardano il se ed il come un giudice può in concreto esercitare la giurisdizione.
4.L’irregolarità
Non tutte le disposizioni che regolano il processo sono essenziali al raggiungimento dello
scopo. Vi sono, infatti, anche disposizioni dettate al fine di consentire semplicemente un più
ordinato svolgimento delle operazioni e delle attività processuali.
La violazione di queste norme dà luogo a difformità formali di minima importanza.
L’irregolarità è la conseguenza di un vizio dell’atto così lieve, da comportare solo sanzioni
sul piano disciplinare (si pensi ad es. alla violazione di quelle norme che prevedono termini ordinatori) o la necessità di procedere ad una regolarizzazione (vedi ad es. l’art. 182, co.
1, c.p.c.).
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