Istituto in tecnologie avanzate e modelli assistenziali in oncologia
Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico
Arcispedale S. Maria Nuova
Direzione Professioni Sanitarie – D.P.S.
Dott.ssa Marina Iemmi Direttore
Il modello per intensità di cura e
complessità assistenziale:
il punto di vista della DPS
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Partita IVA 01614660353
INDICE
INTRODUZIONE......................................................................................................................................................3
MODELLI ASSISTENZIALI E RUOLI “COLLANTI”....................................................................................6
Primary nursing e primary nurse ...................................................................................................................6
Case management e case manager ................................................................................................................6
Bed Management e bed manager ..................................................................................................................8
Ipotesi requisiti per “Figure Collanti” .........................................................................................................9
Ipotesi modalità di reclutamento ...............................................................................................................10
INTENSITA’ DI CURA E COMPLESSITA’ ASSISTENZIALE ................................................................11
GLI STRUMENTI PER IL GOVERNO ASSISTENZIALE ..........................................................................12
Percorsi Clinico Assistenziali.......................................................................................................................12
Le scale di valutazione ..................................................................................................................................12
Clinical Audit ...................................................................................................................................................13
CONTINUITÀ DELLE CURE ...............................................................................................................................14
COLLABORAZIONE-INTEGRAZIONE ............................................................................................................15
L’OFFERTA DEI SERVIZI TECNICO-DIAGNOSTICI ..............................................................................15
QUALE FUNZIONE DI COORDINAMENTO
NEL MODELLO PER INTENSITA’ DI CURA.................................................................................................17
FORMAZIONE A SUPPORTO DELLO SVILUPPO ORGANIZZATIVO E PROFESSIONALE ..........20
CASE MANAGER ....................................................................................................................................................22
PERCORSI DIAGNOSTICO-TERAPEUTICO-ASSISTENZIALI (PDTA)..............................................22
PROGRAMMI DI AUDIT......................................................................................................................................22
Emissione 21/05/2012
2
INTRODUZIONE
L’ospedale per intensità di cura è il modello organizzativo che si colloca in continuità nel lungo
processo di cambiamento, volto a caratterizzare sempre di più l’ospedale come luogo di cura delle
acuzie. Il modello per intensità di cura è un’ opportunità da non perdere per superare le criticità del
sistema e per consolidare i miglioramenti del servizio già conseguiti. Il livello di cure richiesto dal
singolo caso consegue a una valutazione di instabilità clinica, associata a determinate alterazioni dei
parametri fisiologici e alla complessità assistenziale. La graduazione dell’intensità delle cure
permette di rispondere in modo diverso e appropriato con tecnologie, competenze, quantità e qualità
del personale assegnato ai diversi gradi di instabilità clinica e complessità assistenziale.
L’organizzazione dell’ospedale per intensità di cura richiede nuovi ruoli professionali, nuovi strumenti
e un ripensamento della presa in carico del paziente, perché sia il più possibile personalizzata,
univoca, condivisa a tutti i livelli di cura.
Occorre quindi passare dall’idea di curare la malattia a quella di farsi carico del malato, dall’hosting
al case management “gestore del caso”(Venuti et al, 2008).
Questo determina la necessità di introdurre modelli di lavoro multidisciplinari per percorsi e
obiettivi, con definizione di linee guida e protocolli condivisi, e presuppone la creazione di un team
multidisciplinare capace di operare secondo tale impostazione concettuale. In base a tale approccio,
medici e infermieri sono chiamati a una funzione di primissimo piano nello sviluppo di tutte le attività
comprese nel percorso diagnostico-terapeutico assistenziale del paziente.
A qualsiasi livello d’intensità di cura ci sono complessità assistenziali diverse. A volte instabilità e
complessità assistenziale coincidono perfettamente, in molti casi no. Possiamo distinguere i setting
assistenziali prevalentemente su 3 livelli:
Livello di intensive care che comprende le terapie intensive e sub intensive; deve essere
centralizzato, polivalente e curare la reale instabilità clinica; l’accesso a questo livello è
caratterizzato dalla instabilità del paziente e deve avvenire in una logica di appropriatezza.
Livello di high care costituito dalle degenze ad alto grado di assistenza di breve durata, nel
quale confluisce gran parte della casistica, è caratterizzato dalla complessità, una elevata variabilità
della complessità medica ed infermieristica.
Livello di low-care che è invece dedicato alla cura delle postacuzie. Fanno parte di questo
livello le degenze a basso grado di assistenza. E’ da ritenere che la lowcare identifichi un’area in cui
vengono accolti pazienti con pluripatologie, che necessitano ancora di assistenza sanitaria, ma non ad
alto contenuto tecnologico ed ad alta intensività assistenziale.
Il ruolo del dipartimento di E/U risulta fondamentale ed è quello di stabilizzare e stratificare
clinicamente il paziente, avviandolo al livello di degenza più appropriata. L’ospedale sarà quindi
organizzato in Strutture modulate sull’intensità di cura, all’interno delle quali si svolgeranno i
percorsi di presa in carico da èquipe di lavoro multidisciplinari e multi professionali.
Il dibattito sui modelli organizzativi di erogazione delle cure infermieristiche è molto vivace sia in
letteratura che tra gli infermieri del nostro Paese. Tuttavia, la terminologia utilizzata, talvolta
importata da sistemi infermieristici di altri Paesi, come ad esempio il Primary Nursing, ostacola una
comprensione approfondita della tematica.
Neisner et al.1 in una revisione della letteratura sull’efficacia dei diversi modelli organizzativi,
propone una distinzione tra i sistemi tradizionali e i nuovi modelli. I sistemi organizzativi per
l’erogazione dell’assistenza infermieristica sono centrati sui pazienti e i più descritti in letteratura
sono: il team/functional nursing (assistenza per compiti/per piccole équipe), il primary nursing
(assistenza con infermiere referente/responsabile), ed il patient focused care (assistenza centrata
sul paziente). Oltre a questi modelli che hanno avuto una funzione storica rilevante, negli ultimi dieci
Neisner J, Brian R. Nurse staffing and care delivery models: a review of the evidence. Kaiser
Permanent Institute for Health Policy, 2002.
1
3
anni si sono sviluppati sistemi organizzativi centrati sui professionisti e sui rapporti tra
professionisti e organizzazione.
Questi modelli si differenziano da quelli tradizionali per una o più delle seguenti variabili:
il grado di autonomia/tipologia di attività di ciascun infermiere, correlato al livello di
formazione acquisito o all’esperienza maturata;
il livello di autogestione degli infermieri o l’autonomia gestionale del coordinatore;
il grado con cui viene sviluppata la gestione dei casi (case management);
il grado di coinvolgimento dell’equipe.
I nuovi modelli sono stati sviluppati con l’obiettivo di aumentare la soddisfazione degli infermieri,
trattenerli e produrre una maggiore efficienza; questi comprendono il modello professionale,
l’assistenza infermieristica differenziata, la gestione condivisa, l’assistenza infermieristica
specializzata/ esperta (advanced practice) ed il case management.
Esistono numerose varianti nei modelli descritti che dipendono dai costi, dalla disponibilità di
personale per ciascun ruolo, dai bisogni di assistenza dei pazienti e dalle preferenze dei singoli e
dell’organizzazione.
Pochi studi tuttavia, ne hanno esaminano l’efficacia. Molta letteratura, infatti, si limita a descrivere
le esperienze, talvolta con risultati contraddittori. In particolare, non sembra esistere alcuna
relazione tra modelli e soddisfazione del paziente, degli operatori, e riduzione degli eventi avversi.
Va tuttavia riconosciuto che probabilmente l’utilizzo di un unico modello nelle organizzazioni
complesse è poco efficace.
Gli studi più attuali hanno spostato l’attenzione sulla cultura degli ospedali e dei reparti, sulla
composizione quali-quantitativa del gruppo assistenziale, sul ruolo dei manager.
In ogni caso la revisione della letteratura suggerisce che la qualità dell’assistenza ai pazienti si
raggiunge in ambienti in cui c’è un elevato grado di soddisfazione di pazienti, medici e infermieri.
Negli ambienti con modelli assistenziali orientati alla presa in carico del paziente si percepiscono
maggiore autonomia, controllo sulla pratica, soddisfazione sul lavoro degli infermieri, c’è meno
turnover e migliori risultati sui pazienti.
modelli di professionali innovativi quali l’introduzione di infermieri specializzati/esperti, case
manager hanno un effetto su costi, soddisfazione del paziente e coordinamento dell’assistenza.
È importante esaminare le relazioni fra numero di infermieri e qualità dell’assistenza. L’assistenza è
più efficace se erogata da un gruppo la cui composizione varia in relazione ai bisogni del paziente,
all’acuzie, alla tipologia dei casi. Un maggior numero di infermieri non è sempre la soluzione, ma
esiste un’ampia evidenza che un adeguato numero di personale e una più ricca presenza
infermieristica nella composizione dell’equipe hanno un effetto positivo sugli esiti dei pazienti e sulla
soddisfazione sia dei pazienti che degli infermieri.
È necessario lavorare su due piani: capire come erogare meglio l’assistenza, e come organizzare i
processi di lavoro di un reparto. Gli esiti misurati sono la soddisfazione del paziente, le cadute, le
lesioni da decubito; i costi, l’efficienza (riduzione del tempo dedicato a particolari attività, ad
esempio accettazione dei pazienti); la riduzione delle riammissione, la soddisfazione e stabilità
dell’equipe infermieristica. Lo scopo verso cui tendere, coerentemente con la letteratura è quello di
restituire agli infermieri clinici l’autorità di influenzare le decisioni, di condividere le logiche e
priorità gestionali e di partecipare a pieno titolo alle scelte organizzative.
Per rispondere in modo adeguato alla complessità e alla multidimensionalità dei pazienti diventa
indispensabile attivare processi che consentano alle persone di acquisire nuove competenze,
modificando i propri comportamenti professionali.
La competenza generalista è offerta dal neolaureato: costituisce, per definizione la posizione
lavorativa iniziale. Ha competenze garantite dal percorso formativo di base molte delle quali
4
trasversali. L’infermiere generalista ha una conoscenza “formale”e procede per confronti (spesso
pochi) visti fare o vissuti. La competenza esperta è erogata da un professionista che ha riflettuto
criticamente sulla propria pratica in cui ha trascorso un determinato periodo di tempo.
(apprendimento dall’esperienza.) Riconosce una modalità proattiva di stare dentro l’organizzazione
sanitaria, è capace di “sentire il paziente” prima che questo manifesti in modo conclamato un quadro
clinico. Ha conoscenze tacite, vissute, e anche in situazioni complesse riesce a tenere sotto controllo
il “tutto”. La competenza avanzata si sviluppa attraverso la pratica clinica a cui si aggiunge una
formazione accademica realizzata generalmente con un Master universitario. L’infermiere con
competenze avanzate svolge funzioni di assistenza diretta rivolta ai pazienti in situazioni
particolarmente complesse sul piano clinico e relazionale, ma riveste un ruolo fondamentale anche
nell’educazione del paziente e del caregiver, fungendo da “mentor” per sviluppare capacità di
autocura e di autogestione della malattia.
L’American Nursing Association (ANA) afferma che la pratica infermieristica avanzata si realizza
attraverso l’esperienza clinica e percorsi di formazione (master o dottorati), che consentono agli
infermieri non solo di acquisire abilità e conoscenze specialistiche superiori, ma anche di estendere
le loro competenze cliniche, attraverso la gestione dei problemi ad elevata complessità
Il dibattito internazionale sulla competenza avanzata introduce i concetti di espansione ed
estensione.
Il concetto di estensione del ruolo è da intendersi come un ampliamento nel senso della
specializzazione, ovvero dell’acquisizione di attività che in passato venivano tradizionalmente svolte
ed attribuite ad altri professionisti. Al contrario, il concetto di espansione tende ad approfondire
conoscenze, abilità e competenze tipiche della professione infermieristica. Lo studio e il
rafforzamento di questa base “core” della disciplina infermieristica sono fondamentali, non si tratta
di aggiungere o sommare attività nuove a quelle che tradizionalmente gli infermieri svolgono, ma di
dare attuazione a ciò che è infermieristico e che magari, distratti o travolti dalla routine lasciamo
ad altri o non facciamo.
Si considera, infine, che può essere perseguito un valore aggiunto a sostegno dell’appropriatezza
assistenziale e dello sviluppo professionale attraverso l’implementazione di un sistema di
autovalutazione delle competenze.
Il processo di autovalutazione si dovrà riferire a criteri dichiarati e condivisi, volti alla
valorizzazione del potenziale dei professionisti.
5
MODELLI ASSISTENZIALI E RUOLI “COLLANTI”
Primary nursing e primary nurse
Il Primary nursing si è sviluppato a partire dagli anni settanta, come evoluzione dell’assistenza
infermieristica di equipe o funzionale (per compiti) e come un modo per migliorare la qualità
dell’assistenza e il livello professionale degli infermieri.
Il Primary nursing è orientato alla continuità dell’assistenza.
Nel Primary nursing (PN) l’infermiere si assume la responsabilità di un certo numero di pazienti:
seleziona quelli da assistere, valuta le loro necessità, stende un piano di assistenza e prescrive gli
interventi infermieristici. Il modello consente la continuità assistenziale tra turni e può essere
applicato a qualsiasi servizio sanitario. Quando l’infermiere referente non è di turno, gli infermieri
seguono le indicazioni del piano, che viene via via ridefinito in base alle modificazioni delle condizioni
cliniche.
Una critica al Primary nursing è che non garantisce un buon rapporto costo-efficacia/efficienza:
dove è stato applicato gli infermieri erogano tutta l’assistenza anche quella di base, se non vengono
previsti operatori di supporto. L’assistenza prestata da un solo infermiere può ridurre i ritardi
terapeutici, migliorare la collaborazione con altre figure professionali ed esaltare il rapporto
paziente-infermiere. In questo modello, l’infermiere ha un elevato livello di autonomia, e miglior e
collaborazione con i medici. Gli studi sulla relazione tra primary nursing e qualità dell’assistenza
hanno dato risultati contrastanti. Uno studio longitudinale durato 5 anni e condotto alla fine degli
anni ‘80 ha confrontato reparti organizzati con il modello primary nursing e con il team nursing.
L’assistenza nei reparti con primary nursing era di qualità più elevata, gli infermieri erano più
soddisfatti del lavoro, c’era minore turnover e costi più bassi per giornata di degenza.5
Uno studio britannico del 1996, ha indagato se i pazienti assistiti secondo il primary nursing
riuscivano ad identificare un infermiere come il loro referente e erano, per questo, più soddisfatti.
Sono state osservate differenze molto piccole per la percezione degli infermieri e degli operatori di
supporto nel sostegno nel lavoro, supervisione, autonomia e pressione del lavoro a favore del primary
nursing rispetto al team-nursing7. Kangas et al.8 hanno esaminato tre ospedali dove si attuavano
rispettivamente modelli di team nursing, case management e primary nursing senza osservare
differenze nella soddisfazione degli infermieri e dei pazienti.
Case management e case manager
Il case manager è considerato un ruolo rilevante della pratica clinica esperta. Per lo svolgimento di
questo ruolo deve essere richiesta una formazione di tipo avanzato, Cronin2 suggerisce almeno un
master o una specializzazione: sono richieste, infatti, approfondite conoscenze di assistenza, di
dinamiche organizzative, di finanza e risorse comunitarie.
Le competenze di pratica clinica esperta che elevano al ruolo di case manager includono:
- la comprensione del modello organizzativo assistenziale,
- la conoscenza di una specifica popolazione di pazienti,
- le diagnosi cliniche correlate e i trattamenti medici,
- conoscenze sulla gestione delle risorse, sull’uso dei piani di assistenza, dei protocolli e delle linee
guida,
Uno studio condotto da Conti R.3 sul ruolo del case manager ha rilevato che esso ha una dimensione
clinica, manageriale, e finanziaria.
2
Chiari P., Santullo A., L’infermiere Case Manager, ed. McGraw-Hill, Milano 2001
3
Conti R., Nurse Case Manager Roles: Implication for Practice and Education, Nursing Administration
Quarterly, 21(1), 1996
6
Una delle principali competenze richieste al case manager è quella di avere un buon background
clinico-specialistico, oltre ad un’elevata capacità di prendere decisioni.
Il ruolo clinico consiste nell’applicazione del processo del nursing, quindi valutare i pazienti per
individuare i loro problemi reali e potenziali, cercando di adattare il piano di assistenza al clinical
pathway che il case manager ha sviluppato precedentemente insieme al team multidisciplinare, a
identificare qualsiasi variazione degli standards previsti e provvedere a risolvere le varianze insieme
al team.
Nel suo ruolo manageriale il case manager ha la responsabilità di facilitare e coordinare l’assistenza
dei pazienti durante la loro presa in carico.
Egli valuta la qualità dell’assistenza per assicurare il raggiungimento degli obiettivi con un
appropriato uso delle risorse e identifica qualsiasi opportunità di miglioramento della qualità.
La continuità delle cure è anch’essa molto importante. Il case manager deve coordinare l’assistenza
lungo un continuum che va dall’ammissione, al follow-up del paziente dopo la dimissione. Il case
manager può seguire direttamente il paziente nei diversi contesti clinici o coordinare le informazioni
che possiede sul paziente, in modo che ogni persona che si occupa del paziente possa avere le
informazioni necessarie sulla sua salute per assisterlo nel modo migliore.
Il case manager ha una importante funzione di educatore sia nei confronti dell’equipe assistenziale
sia nei confronti del paziente e della sua famiglia. Quindi fornisce al paziente e alla famiglia
informazioni basilari per affrontare la malattia e per mettere in atto i nuovi comportamenti che
sono necessari.
Egli contribuisce a migliorare la qualità di vita del paziente che affronta l’esperienza della malattia,
rilevando e sviluppando, insieme al team, le capacità residue al fine di aumentarne l’autonomia ed
evidenziando i bisogni dei pazienti secondo un ordine di priorità.
Nella dimensione finanziaria del ruolo egli raccoglie informazioni sui DRG che tratta, ne stima le
variazioni e agisce per controllare e contenere le spese.
Seago4 nella sua revisione per valutare l’efficacia del case management su esiti clinici ed economici
sottolinea come aumenta la soddisfazione degli infermieri, dei pazienti, dei medici e migliora la
qualità dell’assistenza, si riduce la degenza e, di conseguenza, i costi.
In Europa il case manager è una figura che inizia ad affacciarsi nei diversi ambiti dei servizi sanitari
e sociali.
In Inghilterra Kesby5 sostiene che per gli infermieri questo è il momento giusto per assumere il
ruolo di case manager in tutti i contesti di cura. Il rilancio delle cure domiciliari, l’avvento
dell’infermiere General practitioner, che gestisce gruppi assistenziali integrati (operatori sanitari e
sociali), e la riforma dei servizi sanitari e sociali hanno creato i presupposti affinché l’infermiere
diventi l’operatore leader del gruppo assistenziale. Il problema maggiore in Inghilterra, come in
Italia, nei programmi di attuazione del case management è la mancanza di continuità delle cure tra
ospedale e territorio, specialmente quando si tratta di malattie croniche e pazienti anziani. Questa
difficoltà nel garantire la continuità rende difficile la presa in carico dei pazienti nel territorio6.
In Italia le esperienze documentate di applicazione del case management sono state condotte
presso il Reparto di Medicina dell’Ospedale Maggiore di Bologna e presso l’Unità Operativa PostAcuti (UOPA) di Rimini. I due progetti nascono in seguito alle esigenze di rimodulazione strutturale
del sistema sanitario, nonché dalla volontà dei dirigenti infermieri di valorizzare il ruolo
dell’infermiere.
Seago JA. Nurse staffing, models of care delivery, and interventions in evidence report/technology assessment No.
43. Making health care safer: a critical analysis of patient safety practices. USA: AHRQ Publication No. 01-E058,
2003.
5
Kesby S., Nursing care e collaborative practice, Journale of Clinical Nursing , nov 2002
6
Finkelman AW., Managed care: a nursing perspective, Upper Saddler River, NJ: Prentice-Hall, 2001.
4
7
Inoltre Friedmann, in uno studio per valutare l’efficacia del case management, sostiene che
l’introduzione di queste figure è efficace, solo se viene definito in modo specifico il professionista
che svolge questo ruolo, in quanto solo così costituisce effettivamente un punto di riferimento
chiaro per il team con il quale si deve rapportare.7
L’ Associazione Infermieri Case Manager (A.I.C.M.) nata in Italia con la finalità di studio e ricerca
dei processi di trasformazione delle professioni, delle tecnologie e dei modelli organizzativi
dell'assistenza sanitaria riguardanti il Case Management, ha elaborato il profilo del case manager,
che potrebbe costituire un elemento di confronto ai fini della definizione del nostro profilo.
Profilo dell'Infermiere Case Manager
L'Infermiere Case Manager è un professionista che si occupa di percorsi assistenziali complessi.
Nasce allo scopo di finalizzare le risorse mantenendo un elevato standard di qualità assistenziale
nelle logica del contenimento dei costi.
Il Case Management è una metodologia che permette di mantenere il coordinamento di
professionalità e risorse governando l'intero processo e garantendo una assistenza personalizzata.
In genere il ruolo viene affidato al professionista che ha la prevalenza professionale rispetto al
gruppo che si occupa del caso.
Il ruolo del Case Manager è affidato a una figura infermieristica in quanto il processo che deve
essere governato, per competenze, abilità e conoscenze è riconducibile al profilo dell'infermiere. La
metodologia utilizzata dal Case Manager è la presa in carico del paziente e della sua famiglia con
percorsi assistenziali semplici e complessi allo scopo di agevolarne il rientro a domicilio o il percorso
verso le strutture territoriali preposte favorendo il raggiungimento della massima autonomia
possibile.
Il Case Manager attiva le risorse professionali sociali e sanitarie necessarie al caso (Unità di
Valutazione Geriatria Ospedaliera, Servizio Sociale Ospedaliero), governa il processo di dimissione
attivando le risorse disponibili nel territorio già al momento dell'accoglienza, individuando il
percorso extra ospedaliero più appropriato; prende contatti con le strutture stesse, attiva le
risorse strumentali necessarie a garantire la continuità e la sicurezza assistenziale al domicilio, in
un'ottica di gradualità delle cure e dimissione protetta.
Bed Management e bed manager
Il bed management o gestione dei posti letto è definibile come il processo che regola l’allocazione, la
permanenza e il trasferimento interno del paziente ed è una area del management infermieristico
che si è molto sviluppato negli ultimi 10 anni8.
Secondo Proudlove, Boaden, Jorgensen (2007) il bed management differisce in struttura e
definizione da un’organizzazione all’altra. Per questo motivo è difficile riportare ricerche che
dimostrino relazioni causali tra bed management e una migliore assistenza al paziente. Nonostante
questa mancanza, gli Autori sono convinti che la fluidità del flusso di pazienti non solo
contribuirebbe all’ottimizzazione delle risorse disponibili, ma anche a migliorare l’esperienza del
paziente.
7
Peter D. Friedmann, James C. Hendrickson, Dean R. Gerstein and Zhiwei Zhang “Designated case
managers as facilitators of medical and psychosocial service delivery in addiction treatment programs,
The Journal of Behavioral Health Services and Research
Volume 31, Number 1, 86-97;
8
Consulting Group Società (CMC) di consulenza internazionale specializzata nel settore medicale e farmaceutico.
http://cmcconsulting.blogspot.com/2010/06/la-figura-del-bed-manager-per.html. Accessed Febbraio, 2012.
8
Tale processo è regolato da un insieme di politiche, procedure e standard coerenti con l’allocazione
delle dotazioni tra unità organizzative e attività cliniche, ma è anche condizionato dalle decisioni
quotidiane di medici e professionisti sanitari, almeno, ancora attualmente regolate da logica
«incrementale» (ovvero della disponibilità immediata). La carenza di posti letto per ricoveri urgenti
e programmati rappresenta per i professionisti sanitari un vincolo frequentemente citato perché
occupa molta parte del loro tempo di lavoro. L’Autit Commission (2003) sostiene che il problema dei
posti letti è il sintomo di problemi organizzativi sottesi e non la causa di tali problemi.
ll bed management richiede sforzi per svilupparsi e diffondersi, ma l’esigenza della razionalizzazione
delle risorse ha già spinto gli USA e diversi Paesi del Nord Europa ad attivarsi su questo fronte.
Negli ultimi tempi si sta sviluppando e diffondendo anche in Italia la figura del Bed manager,
mutuata dai modelli anglosassoni quale snodo di riferimento in grado di fare incontrare le diverse
esigenze cliniche, assistenziali e logistiche del percorso del paziente in ospedale e nella supervisione
dei posti letto al fine di raggiungere il setting assistenziale ottimale rispetto alle risorse assegnate
(Scotton et al, 2011).
Nelle organizzazioni sanitarie, i professionisti che quotidianamente si occupano di raccogliere
informazioni sulla disponibilità di posti letto appartengono ai diversi profili sanitari con diversi titoli,
ciò varia in relazione al contesto ed al flusso di pazienti. Tale variabilità determina una varietà di
termini con i quali viene indicato il professionista che se ne occupa: coordinatore del flusso dei
pazienti, coordinatore clinico di contesto; indipendentemente dal profilo professionale, dal titolo
posseduto e dalla denominazione utilizzata, il professionista che si occupa della gestione dei posti
letto deve essere capace di sviluppare efficaci rapporti con i professionisti chiave in ciascuna fase
del flusso del paziente.
La Letteratura straniera riporta che tale funzione è svolta quasi esclusivamente da infermieri ed
anche l’esperienza dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Bologna S. Orsola-Malpighi (Scotton et
al, 2011) fa riferimento ad “un bed manager che forte di un’esperienza infermieristica ha
interpretato il modello del bed management arricchendolo dello specifico professionale in
collaborazione con i colleghi coordinatori”.
La funzione del bed manager può accrescersi nella misura in cui il professionista acquisisce la
capacità di occuparsi della gestione dei posti letto oltre la semplice visione del quotidiano bisogno di
letti e diviene capace di ragionare in una logica di utilizzo efficace dei posti letto disponibili che è la
vera causa della mancanza di posti letto.
Da ciò la necessità che il bed manager sia in grado di unire competenze cliniche e logistiche nella
supervisione dei posti letto coniugando tutto ciò con una profonda conoscenza della dinamica dei
flussi dei pazienti.
Attualmente rispetto al bed manager si tratta di definirne:
il ruolo a partire da un quadro normativo condiviso a livello nazionale;
il percorso formativo per l’acquisizione di conoscenze e competenze specifiche rispetto al
flusso dei pazienti;
un assetto organizzativo che ne riconosca l’utilità e le specifiche funzioni ed integrazioni con
il territorio (pensando alla prevalenza delle malattie cronico-degenerative);
l’identificazione dei flussi informativi necessari per impostare un processo unitario e
sostenibile di gestione dei posti letto e dei meccanismi organizzativi necessari per garantire il
coerente funzionamento del processo.
A tal proposito si ritiene fondamentale definire in modo univoco i requisiti/criteri con i quali
individuare i professionisti che svolgeranno tale ruolo.
Ipotesi requisiti per “Figure Collanti”
1.
2.
Assunzione a tempo indeterminato
Esperienza finalizzata (3/5 anni in Dipartimento/Area)
9
3.
Disponibilità ad un orario di lavoro flessibile
4.
Disponibilità a frequentare Corsi/Master stabiliti dall’Azienda Ospedaliera S. Maria Nuova di
Reggio Emilia
5.
Impegno per una permanenza in Azienda di almeno 2 anni dalla conclusione del percorso
formativo come da art. 21 del CCNL 19/04/2004
6.
Crediti ECM raggiunti
7.
Possesso di corsi di perfezionamento/Master (criterio preferenziale)
Ipotesi modalità di reclutamento
Avviso di disponibilità per Dipartimento/Area/Aziendale
Colloquio motivazionale/psicoattitudinale con un componente della commissione appartenente all’Area
degli Psicologi
10
INTENSITA’ DI CURA E COMPLESSITA’ ASSISTENZIALE
La necessità di un nuovo modello di assistenza basato sulla valutazione della complessità clinica e
dell’intensità assistenziale richiede l’adozione di strumenti informativi ad uso dei professionisti che
permettano una preliminare stratificazione della criticità, gravità, complessità, dipendenza
assistenziale e valutazione del rischio di rapido deterioramento clinico.
Il fine che ci si propone è garantire una assistenza ottimale e appropriata ad ognuna delle fasce di
appartenenza in cui vengono suddivise i pazienti.
Nell’ambito della letteratura infermieristica sono presenti numerose esperienze che riguardano i
sistemi di codifica delle condizioni dei pazienti. Sia la regione Lombardia che la regione Toscana
hanno adottato la MEWS come strumento di valutazione della complessità medica (Modified Early
Warning Score), ma l’analisi della letteratura recente impone l’individuazione di uno strumento che
permetta di analizzare la complessità clinica sia dal punto di vista medico, che assistenziale (i pochi
studi sinora condotti a livello nazionale confermano la non congruità fra valutazione infermieristica
dell’intensità assistenziale e valutazione medica della complessità clinica).
Uno strumento integrato di valutazione di intensità assistenziale e di complessità medica
permetterà di individuare i pazienti che necessitano di cure a alta , media e bassa intensità e
favorire l’allocazione iniziale nel setting adeguato e i successivi trasferimenti in relazione al
cambiamento delle condizioni del paziente.
La complessità assistenziale è stata studiata negli ultimi anni attraverso diversi metodi e
sperimentata in varie realtà italiane. I metodi che si stanno approfondendo possono essere così
rappresentati:
L’ICA , Indice di Complessità Assistenziale di Bruno Cavaliere9 il quale, a partire dal “Modello
delle Prestazioni Infermieristiche” di Marisa Cantarelli, definisce un set di indicatori tecnicamente
validi, affidabili e coerenti con alcuni postulati definiti nel modello.
I parametri presi in considerazione per lo sviluppo dello studio in argomento, si identificano con le
prestazioni di competenza infermieristica, indicate dal modello delle prestazioni e ne misurano la
complessità in relazione all’espressione del continuum salute/malattia; in altre parole individuano le
finalità che l’infermiere deve realizzare rispetto alla prestazione stessa, mediante la sua
comparazione con la condizione dell’individuo rispetto al soddisfacimento dei bisogni di assistenza
infermieristica.
Il MAP, Modello Assistenziale Professionalizzante10, modello proposto dalla Federazione
Nazionale Collegi IPASVI , che pone l’attenzione sul paziente e sulle variabili cliniche che incidono
sulla complessità, la centralità del paziente emerge come elemento fondamentale e innovativo.
Il SIPI , Sistema Informativo della Performance Infermieristica11 dell’università di Milano,
che pone l’attenzione sull’infermiere e sulla classificazione delle prestazioni erogate e considera
tutte le variabili che concorrono a definire la complessità assistenziale oltre a quelle cliniche,
organizzative di contesto di assistenza diretta.
.
E’ necessario quindi decidere chi si occuperà della prima valutazione per la giusta collocazione del
paziente, in che tempi deve essere eseguita e della scelta di una collocazione
supplementare\temporanea in occasione della carenza dei posti letto.
9
B. Cavaliere “Misurare la complessità assistenziale. Strumenti operativi per le professioni sanitarie” Maggioli
Editore – Collana Sociale e Sanità, 2009
10
A Silvestro, R. Maricchio, A. Montanaro, M. Molinar Min, P. Rossetto “La complessità assistenziale Concettualizzazione, modello di analisi e metodologia applicativa “ Edizioni Mac Graw Hill, 2009
11
C. Moiset, M. Vanzetta “Misurare l'assistenza - Il SIPI: dalla progettazione all'applicazione” Edizioni Mac
Graw Hill, 2009
11
GLI STRUMENTI PER IL GOVERNO ASSISTENZIALE
Percorsi Clinico Assistenziali
Il principio che sottende alla riorganizzazione proposta dalla Direzione è il governo clinico.
In tale ottica metodologie e strumenti riferiti alla definizione di percorsi clinico-assistenziali
rappresentano una valida opportunità a disposizione della professione infermieristica in termini di
autonomia organizzativa e professionale.
In conformità a questi elementi chiave, un Percorso Diagnostico Terapeutico (PDT)/Percorso
Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) può dunque essere inteso come un metodo di
management del percorso di cura e/o assistenza, elaborato a livello locale, per un gruppo di pazienti
ben definito e con specifiche condizioni cliniche, durante un altrettanto ben definito periodo di
tempo, costruito sulla base di elementi di cura e/o assistenza basati su evidenze scientifiche
riconosciute, best practice ed aspettative del paziente (De Bleser, 2006).
Il percorso clinico-assistenziale, deve nascere da confronto multiprofessionale e multidisciplinare.
Consente lo sviluppo di modalità sistematiche di revisione e valutazione della pratica clinicoassistenziale, garantendo comportamenti appropriati ed omogenei dei professionisti ed il miglior
trattamento/diagnosi disponibile per il paziente, tendendo a ridurre la variabilità dei comportamenti
e mantenendo quelli più appropriati e virtuosi. Il percorso clinico-assistenziale rappresenta uno
strumento di orientamento della pratica clinica che, mediante l'adattamento alle linee guida
internazionali, coinvolge e integra tutti gli operatori interessati al processo, con l'obiettivo di un
progressivo passaggio da una gestione per specialità a una gestione per processi, attraverso la
definizione della migliore sequenza di azioni e del tempo ottimale degli interventi.
Il (PDTA) è’ uno strumento concettuale fondamentale per supportare i nuovi flussi logistici dei
pazienti attraverso un impegno sinergico di tutte le componenti professionali, permette
l’integrazione delle Competenze professionali e l’uniformità dei processi di cura alle migliori evidenze
cliniche consentendo così una presa in carico unica del paziente. Esso permette il confronto12
(benchmarking) e la misurazione delle attività e degli esiti con indicatori specifici, al fine di
migliorare l’efficacia e l’efficienza delle prestazioni assistenziali. Per attuare il percorso è’ indicato
l’utilizzo di diagnosi infermieristiche secondo la tassonomia NANDA.
Sempre più nei Corsi di Laurea in Infermieristica si sta diffondendo l’utilizzo dei collegamenti fra i
tre linguaggi standard riconosciuti dall’American Nurses Association. Tali linguaggi sono le Diagnosi
elaborate dalla North American Nursing Diagnosis Association (NANDA), i Risultati della Nursing
Outcomes Classification (NOC) e gli Interventi della Nursing Interventions Classification (NIC).
Anche nella clinica si stanno diffondendo progetti per l’utilizzo delle tassonomie per promuovere lo
sviluppo dei piani di assistenza infermieristica all’interno di un modello organizzativo di assistenza
personalizzata.
Le scale di valutazione
Le scale di valutazione13 sono strumenti in grado di individuare i bisogni del paziente e se ripetute
nel tempo possono dare indicazioni sull’andamento dello stato generale del paziente, permettendo di
qualificare i miglioramenti o i peggioramenti, possono essere utilizzate per la trasmissione di
informazioni, permettono di conoscere in tempo reale l’esistenza e la dimensione di un fenomeno, di
valutare l’efficacia di piani assistenziali, di esprimere giudizi sui carichi di lavoro, sulla qualità e sulle
12
P. Chiari, D. Mosci, E. Naldi e il Centro Studi EBN Evidence-Based Clinical Practice Edizioni Mc Graw Hill
Milano 2011
13
Santullo A, (a cura di) Le scale di valutazione in sanità. McGraw Hill Milano, 2009, pag 281-291
12
caratteristiche generali di una area come ad esempio (l’Area Critica, Neonatologica/Pediatrica,
Oncologica, Cardiologica e la Riabilitativa).
Tra gli scopi di un utilizzo sistematico delle scale vi è anche la possibilità di rendere oggettivabile
l’impiego delle risorse con un minor spreco possibile.
La ricerca bibliografica ha evidenziato l’esistenza di numerose scale di valutazione validate, ma la
provenienza inglese o americana e quindi calibrate su sistemi sanitari diversi da quello italiano può
rendere problematica la scelta di una unica scala; infatti solo un’ampia sperimentazione a livello
operativo può indicare la validità della scelta effettuata.
Diversi gli strumenti in uso nella nostra Azienda ad oggi, tra i più utilizzati vi per indagare il dolore
troviamo N.R.S (numerical rating scale); V.A.S. FACES; B.P.S (behavioural pain scale) per il paziente
che non può comunicare; PREMATURE INFANT PAIN PROFILE (utile nel prematuro con dolore
acuto da procedura); NEONATAL PAIN and DISCOMFORT SCALE (EDIN) per il riconoscimento del
dolore cronico sempre nel prematuro e C.P.S. (chest pain score) per la valutazione del dolore
toracico.
Rispetto lo studio da rischio da pressione viene utilizzata la scala di Braden, e per il rischio cadute la
scala di Conley, nell’area che riguarda la disabilità vi è l’adozione sistematica della F.I.M. (Functional
Indipendence Measure) e l’utilizzo della test dell’acqua per la definizione del grado di disfagia.
Troviamo ancora l’uso sistematico dell’indice di B.R.A.S.S. (Blaylock Risk Assessment Screening
Score) come strumento di screening per definire e sostenere gli operatori a sviluppare interventi di
continuità assistenziali appropriati in modo tempestivo.
Si può però affermare che, nessun strumento operativo può sostituire l’esperienza e la preparazione
del professionista che non esauriscono la naturale complessità del fenomeno persona, ma il fine è di
ottenere informazioni per il miglioramento continuo dei processi assistenziali.
Clinical Audit
Un altro strumento che dovrà essere adottato, in un’ottica di rivalutazione e miglioramento è
rappresentato dall’Audit Clinico-Assistenziale.
L’audit clinico è un processo con cui tutti i professionisti sanitari, effettuano una revisione regolare
e sistematica della propria pratica clinica e, dove necessario, la modificano”14.
Questa modalità consolidata di feedback rappresenta uno dei metodi più appropriati per valutare il
grado di aderenza delle attività cliniche alle migliori pratiche disponibili al fine di assicurare
standard elevati di assistenzai.
La più recente revisione sistematica sul tema ha concluso che fornire ai professionisti sanitari dati
relativi alla loro performance sotto forma di audit e feedback può contribuire a migliorare la loro
pratica assistenziale., in quanto rappresenta il migliore strumento disponibile per valutare se i
pazienti stiano ricevendo la migliore qualità delle cure e la migliore pratica assistenziale.ii
Le caratteristiche fondamentali dell’audit clinico sono : il coinvolgimento di tutti i professionisti
sanitari; è un’attività continua e sistematica che non può essere limitata a singoli casi. Ha come
oggetto principale l’appropriatezza dei processi (anche se può essere utilizzato per misurare gli esiti
assistenziali). E permette di misurare il grado di inappropriatezza (in eccesso e/o in difetto) e
identificare quali aree della pratica professionale devono essere oggetto di miglioramento.
In altri termini, il clinical audit è un approccio di verifica e miglioramento di problematiche
assistenziali rilevanti che si caratterizza per la “professionalità” dell’iniziativa, la competenza clinica
dei partecipanti, la confidenzialità dei risultati e per l’oggetto fortemente connesso alla qualità
tecnico-professionale.
14
Primary Health Care Clinical Audit Working Group, 1995
13
CONTINUITÀ DELLE CURE
Il tema della continuità delle cure è da decenni al centro degli studi di management sanitario.
La letteratura fornisce molte e distinte definizioni di “continuità assistenziale”, che si differenziano
tra loro per l’ambito sanitario in cui si sono sviluppate e per la classificazione delle diverse tipologie
e dimensioni di analisi.
Nell’ambito di uno studio richiesto dal Governo canadese Haggerty, Freeman et al. 2003;
suggeriscono di non concentrarsi su una definizione unitaria e onnicomprensiva di “continuità”, ma di
ricercare una definizione multidimensionale, costruita su due assi: 1) i tipi di continuità e 2) gli
elementi concettuali-chiave che li uniscono.
La continuità delle cure, partendo da tali elementi, può essere definita come il livello attraverso il
quale una serie di eventi correlati alla condizione di un paziente viene coordinata da uno o più
interlocutori sanitari (medici e non solo), con l’obiettivo di dare una risposta appropriata alla
problematica di salute del medesimo paziente.
Gli obiettivi attesi dalla continuità sono essenzialmente due:
1) una maggiore efficienza delle cure, attraverso la razionalizzazione del servizio sulla base delle
effettive esigenze di salute manifestate dal paziente e percepite dal sanitario, la continuità deve
essere strutturata in relazioni tra paziente e professionisti, all’interno di un processo di cura.
2) un aumento della soddisfazione del personale sanitario e dei pazienti, attraverso relazioni
interpersonali più durature e strutturate. La continuità assistenziale implica un effettivo
trasferimento delle conoscenze tra paziente e professionista e tra professionisti.
Tra le caratteristiche della continuità vi è una dimensione temporale che è definita “longitudinale”:
essa, infatti, studia le relazioni tra pazienti e professionisti e le loro evoluzioni lungo un arco di
tempo, dove la vi è la necessità di una “strategia coerente” di cura e le relazioni tra professionisti e
gli scambi informativi, devono essere orientati al percorso di cura del paziente medesimo e non
essere casuali.
La continuità si struttura lungo una dimensione che si può definire “informativa” l’oggetto della
relazione è l’informazione relativa al passato o al presente del paziente in cura, all’identificazione
delle sue problematiche e dei suoi bisogni.
I benefici storicamente ascritti dalla letteratura alla continuità delle cure sono essenzialmente due
(Haggerty, 1970; Becker, Drachman et al., 1974; Saultz, 2003):
1) una maggiore soddisfazione degli utenti del sistema, attraverso la valorizzazione di relazioni
interpersonali strutturate in grado di rendere più stimolante il lavoro per i professionisti e di
aumentare il senso di cura percepita da parte dei pazienti;
2) una maggiore efficienza nei processi di cura, attraverso una crescente razionalizzazione del
percorso di cura (e di conseguenza minore rischio di duplicazioni di prestazioni non necessarie),
minori costi di transazione e minori asimmetrie informative.
L’ Azienda partendo da una rilevazione di criticità riscontrate nella fase di dimissione ospedaliera di
alcuni pazienti particolarmente complessi ha maturato, già in passato, l’esigenza di migliorare il
processo per quanto riguarda gli ambiti di competenza infermieristica.
Come conseguenza di questa analisi nel 2007 nasce il Progetto Teseo che ha consentito
l’implementazione di una procedura interaziendale per facilitare la continuità assistenziale
infermieristica ospedale e territorio con particolare attenzione alle situazioni di dimissione protetta
che rivelano un’alta complessità assistenziale, e nei casi in cui il contesto familiare di appartenenza
abbia difficoltà di gestione autonoma della situazione familiare concomitante alla fase di dimissione.
Tale procedura si integrerà nel prossimo futuro con le innovazioni organizzative conseguenti
all’attivazione del Punto Unico di Accesso alle cure domiciliari (P.U.A.).
Il P.U.A. secondo la più recente normativa (PSSR 2008-2010 e relative linee di indirizzo regionali –
DGR n.427/09) rappresenta uno dei presupposti fondamentali per lo sviluppo delle cure domiciliari,
in quanto ha la funzione di promuovere la conoscenza e l’accesso alle cure. Punto di riferimento unico,
quindi, per le segnalazioni di tutti gli operatori dei servizi sanitari (Medicina Generale, ospedali,
14
case di cura, etc.) qualora si configurino difficoltà di carattere sanitario, sociale e socio-sanitario
nella assistenza ad una persona.
L’integrazione fra gli operatori assegnati dalla AUSL al P.U.A. (infermieri ed O.S.S.) ed il personale
delle strutture organizzative dell’Ospedale, sarà la condizione fondamentale per garantire la
continuità dell’assistenza. Si sono già attivati momenti di scambio fra gli operatori del P.U.A. ed i
Coordinatori Infermieristici dell’ASMN, al fine di individuare le migliori modalità operative per le
dimissioni protette.
COLLABORAZIONE-INTEGRAZIONE
Il passaggio a un modello organizzativo/assistenziale per intensità di cura richiede ai professionisti
sanitari di lavorare in team multidisciplinari e multi professionali.
Il termine “Collaborare” significa lavorare tutti i giorni insieme ad altri professionisti (medici di
diverse specialità, infermieri, farmacisti, fisioterapisti, psicologi, assistenti sociali, tecnici, ecc.) per
ottenere un beneficio condiviso e raggiungere un obiettivo comune.
In Sanità questo concetto è quasi del tutto inseparabile da quello di miglioramento è un modo per
raggiungere obiettivi comuni in un sistema di interdipendenze.
“Collaborazione” significa quindi soluzione di problemi attraverso decisioni e responsabilità condivise
e coordinamento di azioni individuali per il raggiungimento degli obiettivi.
Data la natura dell’assistenza sanitaria si pensa che la collaborazione sia un elemento centrale per
ogni professionista coinvolto, invece spesso viviamo fallimenti a causa da incomprensioni, contrasti e
conflitti; le cause sono molteplici a titolo di esempio: informazioni non condivise, all’urgenza, alla
competizione, alle pressioni verso maggiore produttività e minori costi.
Secondo Mintzberg le organizzazioni e in modo particolare quelle sanitarie, sono indicate come
burocrazie professionali nelle quali gli operatori sanitari tendono a identificarsi fortemente nella
propria disciplina, nel proprio linguaggio, nei propri valori e nelle sue pratiche ma, allo stesso tempo,
desiderano poter lavorare da soli.
Come riportato dalla letteratura “Malgrado la collaborazione costituisca uno dei nodi della pratica
infermieristica, medici ed infermieri non sono allenati a lavorare insieme, in quanto la loro
formazione non comprende esperienze interdisciplinari di comunicazione (AIR 2006 25,2)” ma è
anche vero che sono proprio le caratteristiche dell’ambiente sociale e organizzativo a creare
presupposti per l’instaurarsi di relazioni collaborative (Axelrod, 1984).
In tal senso la via da percorrere per avere risposte a questa criticità è implementare strumenti
capaci di consentire l’integrazione delle competenze professionali e l’uniformità dei processi di cura
la formalizzazione dei criteri, clinici e gestionali, e le metodologie per l’invio del paziente deve
avvenire con tutti i professionisti coinvolti nel processo, tendendo alle migliori evidenze cliniche.
Si propone l’utilizzo della “Jefferson Scale of Attitudes Toward Physician-Nurse Collaboration”che
ha l’obiettivo di indagare l’attitudine alla collaborazione tra professionisti medici e infermieri e
definire i fattori individuali e organizzativi che possono favorirla.
L’OFFERTA DEI SERVIZI TECNICO-DIAGNOSTICI
La riflessione deve centrarsi su come far co-evolvere i servizi diagnostici rispetto ai cambiamenti
dell’organizzazione dell’ospedale. L’obsolescenza delle apparecchiature diagnostiche sarà sempre più
rapida, e le sostituzioni dovranno avvenire sempre più improntate a criteri di massima flessibilità.
Presenza sempre maggiore di reti integrate a livello provinciale “hub and spoke”, per garantire la
continuità assistenziale Ospedale/territorio, con la presenza di tecnologie informatiche che
permettono alle strutture di diverso livello di comunicare ed effettuare, se necessario, diagnosi e
refertazioni a distanza.
Inoltre alcune tecnologie oggi complesse, nel futuro saranno “di massa” e potranno essere diffuse a
livello domiciliare e gestite direttamente dai pazienti. La gestione e programmazione delle aree
15
produttive dell’area radiologica e laboratoristica avranno sempre più l’obiettivo di realizzare
un’organizzazione modulare e flessibile capace, se necessario, di riallocare risorse e spazi a seconda
dell’evoluzione della domanda.
Al fine di una maggiore integrazione tra diverse figure professionali, che garantisca una risposta
globale ed esauriente ai bisogni del paziente, è necessario stabilire le modalità di condivisione delle
conoscenze da parte dei professionisti e l’implementazione di strumenti di comunicazioni che
rendano più snelli i passaggi nelle varie fasi dei percorsi assistenziali (soprattutto nei soggetti in
condizioni di cronicità).
La maggiore efficienza operativa e gestionale sarà raggiunta trovando soluzioni organizzative capaci
di rispondere ad una intensità diversificata attraverso:
L’adozione di scelte organizzative che permettano la riduzione del “TAT” (Turn-AroundTime) con l’intento di ridurre il tempo di percorso, dalla richiesta al referto, di una
prescrizione diagnostica, necessario per una per una migliore e tempestiva assegnazione del
paziente al setting più appropriato;
La predisposizione di percorsi di accesso ai Servizi Diagnostici differenziati non solo tra
urgenza e ordinario ma in riferimento al grado di intensità di cura della degenza.
16
QUALE FUNZIONE DI COORDINAMENTO
NEL MODELLO PER INTENSITA’ DI CURA
Dovendo immaginare un quadro futuro relativo al management delle professioni sanitarie, dobbiamo
inevitabilmente considerare tre livelli nei quali la professione infermieristica si articola:
•
Pratica Clinica (Professional)
•
Funzioni di Coordinamento
•
Direzione
Il Coordinatore rappresenta all’interno dell’Azienda uno snodo fondamentale per le competenze
manageriali che gli appartengono, quali:
GOVERNO DELLE STRUTTURE che gli vengono assegnate, sapendo gestire i cambiamenti richiesti
dalla direzione e l’applicazione nei vari contesti sanitari (aggregazione di competenze)
GESTIONE DELLE RISORSE umane, materiali, tecnologiche, e strutturali con lo scopo di
raggiungere gli obiettivi definiti.
GESTIONE DELLA PRATICA CLINICA attraverso lo sviluppo di relazioni con l’utenza e analizzando
i vari sistemi di erogazione dell’assistenza.
Il suo ruolo deve saper coniugare la matrice disciplinare con quella gestionale (coordinamento).
Aver sviluppato queste competenze specifiche da spendere nel contesto organizzativo assegnato
rendono il coordinatore capace di affrontare le situazioni, perché in grado di:
- analizzarle (raccogliendo tutte le informazioni necessarie)
- affrontarle ( perché prende decisioni in modo ponderato e con rapidità sapendo scegliere le azioni
più efficaci e sapendo istaurare una relazione positiva con i collaboratori)
- valutarle ( in tutte le sue fasi di sviluppo e nei risultati raggiunti).
Nel modello organizzativo “per intensità di cura” l’applicazione di schemi organizzativi che prevedono
l’introduzione di infermieri clinici che gestiscono processi ad alto impatto organizzativo in base alla
complessità assistenziale clinica di gruppi di pazienti assegnati ( Case manager, primary nursing)
richiede necessariamente che il coordinatore sviluppi maggiormente le aree manageriali e formative,
che in dettaglio possiamo riassumere in:
1.
controllo della qualità assistenziale;
2.
gestione della complessità assistenziale ( aggregazione delle competenze)
3.
gestione condivisione del budget assegnato
4.
formazione/sviluppo e valutazione del personale
5.
ricerca;
6.
gestione del rischio.
Le competenze manageriali si esprimono quindi attraverso il coordinamento delle risorse, nel
coaching clinico e nella gestione dei processi organizzativi.
Il coordinatore deve saper restare ancorato alla propria specificità professionale e appartenenza
professionale, in quanto i coordinatori non possono organizzare e garantire gli obiettivi di un reparto
se non sono innanzitutto leader di buona pratica assistenziale: conoscere come assistere bene i
malati, non significa erogare assistenza in prima persona, ma è necessario conoscere la specificità
assistenziale per poter esser garanti di una assistenza adeguata e di alta qualità.
Concludendo: al coordinatore viene richiesto di saper sviluppare il suo ruolo verso una managerialità
coniugandola con un forte ancoraggio alla specifico della professione di appartenenza. .
17
SISTEMA INFORMATIVO A SUPPORTO DEL PROGETTO
(CARTELLA CLINICO-ASSISTENZIALE INFORMATIZZATA)
Per parlare di sistema strumentale comunicativo, a supporto del progetto intensità di cura, occorre
mantenere ben vividi gli elementi costituenti la filosofia sottesa:
• assistenza patient-oriented,
• visione olistica della persona dinamicamente integrata nel percorso clinico-assistenziale,
• aderenza al modello “Lean Thinking”,
• cultura della multi-professionalità e multidimensionalità,
• logica della condivisione e confronto,
• indissolubilità del legame severità clinica e complessità assistenziale, quale funzione precipua
del processo di cura .
Dall'analisi degli elementi spicca come valore radice la persona; unica titolare di bisogni e diritti
siano essi di natura fisica, sanitaria, emozionale o sociale. Se l'elemento unificatore del sistema è la
singola persona, una sola deve essere la documentazione sanitaria; come tale, essa racchiude, quale
sintesi del percorso clinico assistenziale, il progetto sull’individuo esplicitato in fase di assessment
clinico ed assistenziale.
La cartella clinica integrata è il principale strumento di integrazione professionale, comune tra le
varie figure professionali che intervengono sul paziente e che lo accompagnerà in tutte le fasi
dell’intensità di cura. Tale strumento, che rappresenta uno dei presupposti della continuità e della
personalizzazione dell’assistenza, deve essere costruito in modo da essere fruibile da tutti gli
operatori coinvolti nel processo assistenziale, e deve fornire l’informazione che serve, dove serve,
nel modo adeguato ed esclusivamente a chi è deputato a farne uso. Le informazioni ivi contenute,
anagrafiche, socio-sanitarie, nonché i dati sintetici del ricovero devono favorire la visione
immediata degli interventi di tutte le figure coinvolte (medici, infermieri,professionisti tecnico e
dell’area riabilitativa) ed assurgere a pieno titolo alla sua funzione comunicativa, di confronto e
proattiva alla sicurezza.
Se logica è la sua necessità in un processo per intensità di cura, in un ottica di crescente
complessità, per arricchimento degli strumenti investigativi e di monitoraggio dell’effettuato, la
costituzione informatizzata diviene pressoché indispensabile per assolvere alla sua piena funzione di
contenimento e fruizione delle informazioni.
Una moderna visione dello strumento informatizzato, richiede una architettura a moduli che
consenta, attraverso una interfaccia grafica avanzata e finestre di Help in linea, l’ampliamento e/o
modifica delle funzioni e degli applicativi.
Se passiamo dalla cartella integrata, in senso lato, ad una analisi della cartella infermieristica
informatizzata, per rimanere in un ambito più pertinente alla riflessione professionale,
intravvediamo alcuni elementi costitutivi indispensabili in ottica di reale efficacia dello strumento:
1.
possibilità di aderire ad una filosofia professionale per la definizione degli items di
assessment;
2.
possibilità di accedere alle informazioni/registrazioni con autorizzazioni differenziate per le
diverse sezioni;
3.
possibilità di disporre delle schede di accertamento presenti in letteratura, per la
valutazione ed il monitoraggio di alcuni parametri;
4.
possibilità di accedere ed aderire alle diagnosi infermieristiche;
5.
disponibilità di applicativo per correlare diagnosi ad interventi assistenziali (NANDA-NICNOC) da erogare mantenendo il legame fra diagnosi, obiettivi, interventi e schede accessorie.
6.
possibilità di pianificazione delle attività, che deve seguire la schedulazione sui turni,
mantenendo monitorato lo svolgimento delle attività (chi, quando ..) con possibilità di segnalazione
quando i parametri si discostano dal range di normalità;
7.
disponibilità di un diario infermieristico per il completamento delle registrazioni, in linea con
i moderni concetti di corretta tenuta della documentazione sanitaria.
18
La sperimentazione effettuata, presso alcune strutture del ASMN nel corso del 2011, con
l'introduzione delle diagnosi infermieristiche secondo la tassonomia NANDA, hanno evidenziato la
necessità di avere uno strumento informatizzato per gestire l'elevato numero di informazioni ed
elementi disponibili per e nella pianificazione assistenziale. L'assenza di tale strumento
informatizzato minimizza la fattiva possibilità di introdurre nuovi modelli assistenziali
nell'organizzazione, contribuendo al divario culturale tra quanto materialmente eseguito nelle
strutture e quanto insegnato nei corsi universitari e previsto da una moderna filosofia professionale.
19
FORMAZIONE A SUPPORTO DELLO SVILUPPO ORGANIZZATIVO E
PROFESSIONALE
Il progetto di riorganizzazione per Intensità di Cura porta con sé una nuova cultura: la centralità
della persona. Nella varietà di significati che si possono attribuire a questa cultura, rimane
comunque in primo piano il valore aggiunto che determina per la persona utente/paziente, ma anche
per la persona professionista.
Poiché l’azione di rinnovo si colloca su un piano culturale e non solo di implementazione di modelli,
richiede l’attivazione di un processo di sviluppo dell’esistente (termine che può sostituire la parola
cambiamento, per le reazioni di resistenza che quest’ultima evoca), di spinta all’innovazione, di
potenziamento della motivazione e di definizione delle competenze attese. Ognuno di questi elementi
è il risultato di un apprendimento.
La formazione quindi assume diverse valenze, si connota cioè come un processo, ma anche come uno
strumento.
Processo attraverso il quale l’individuo e l’organizzazione apprendono e strumento che accompagna e
sostiene l’agire, la crescita e lo sviluppo.
Ciò vale ancor di più quando si tratta di sostenere i professionisti nella gestione della complessità e
quindi oltre una logica di pianificazione lineare.
La formazione interviene sulle persone in quanto professionisti e il suo “bersaglio” è costituito dalle
loro performance/competenze.
Da ciò si evince che i piani di formazione che verranno progettati a sostegno della riorganizzazione,
richiederanno una mappatura delle competenze attese per ogni setting operativo e ciò coinvolgerà
diverse aree professionali che afferiscono alla Direzione delle Professioni Sanitarie.
Vista la pluridimensionalità caratterizzante questo processo, si prevede che le competenze attese si
collocheranno negli ambiti: manageriale, gestionale e tecnico-professionale.
Inoltre si tratta di considerare che gli apprendimenti vedranno il coinvolgimento dei singoli
professionisti, ma contemporaneamente dei team e dei gruppi di lavoro intra e interprofessionali per
la forte valenza multidisciplinare che l’applicazione del modello per Intensità di cura richiede.
Peraltro il coinvolgimento professionale non si esaurirà all’interno dell’ASMN, ma richiederà
necessariamente l’integrazione con i professionisti che operano sul territorio.
La dimensione individuale e collettiva della formazione verranno reciprocamente sollecitate affinché
possano potenziarsi a vicenda. Non è secondario l’elemento partecipativo che caratterizza la
formazione, ed è proprio attraverso il coinvolgimento dei soggetti in apprendimento che la
formazione raggiunge il valore della condivisione e della collaborazione.
Inoltre la leva motivazionale che sottende a qualunque processo di apprendimento, richiederà una
costante attenzione per mantenere il dialogo fra i bisogni di formazione espressi dai professionisti
(analisi proattiva) e le spinte strategiche della Direzione.
Un altro elemento da presidiare sarà la progettualità della formazione.
Una progettualità che richiederà un particolare sforzo, affinché sia condivisa e pianificata
attraverso interventi formativi a breve, medio e lungo termine, secondo uno sviluppo in progress che
rispetti la fisiologia degli apprendimenti e le opportune valutazioni di esito degli interventi formativi
messi in campo.
Il particolare investimento in formazione che si prevede sarà necessario, sollecita uno specifico
sviluppo di modalità e strumenti di valutazione di efficacia degli apprendimenti, attraverso opportuni
indicatori e relativo monitoraggio.
Si tratta inoltre di considerare che gli apprendimenti attesi, le cui aree tematiche di riferimento
verranno sintetizzate di seguito, si collocano a diversi livelli e ciò richiede di pensare ad una
formazione che va ben oltre l’evento d’aula classico.
Andrà infatti considerata una formazione a tutto campo, il più possibile in forma blended, che
comprende la formazione residenziale, la formazione sul campo ed eventuali stage presso realtà
20
italiane e straniere (il confronto con altre realtà può essere molto positivo anche come leva
motivazionale).
Anche la componente didattica della formazione richiede una riflessione. Vista la pluralità dei
contenuti che verranno affrontati, è prevedibile che in alcuni casi sarà necessario ricorrere a
professionisti esterni all’Azienda, in altri sarà possibile afferire alle competenze disponibili presso i
CdL della sede di Reggio Emilia, in altri ancora verranno coinvolti i professionisti stessi dell’ASMN
con le competenze richieste, anche inerenti la didattica.
Sarà auspicabile una scelta equilibrata, anche nella considerazione della componente economica, fra
know how interno ed esterno all’Azienda, con l’attenzione ad evitare l’autoreferenzialità eccessiva o,
dall’altra parte, l’eteroreferenzialità.
Le aree tematiche che richiederanno una progettualità formativa sono riferibili a:
• implementazione di modelli organizzativi per intensità di cura (Intensive Care, High Care, Low
care, Week hospital, Discharge Room, Admission Unit)
• implementazione di modelli assistenziali di presa in carico e pianificazione (primary nursing,
diagnosi infermieristiche e pianificazione assistenziale secondo modello NANDA – NIC-NOC)
• profili di competenza per intensità di cura (profili distintivi)
• profili di competenza avanzata nella gestione di processi e percorsi (case manager – primary
nurse)
• implementazione di strumenti per l’individuazione della complessità assistenziale
• implementazione di strumenti di integrazione multi professionale
• benessere organizzativo: supporto ai team di lavoro
Si ritiene importante sottolineare che anche dall’elaborazione dei dati relativi all’indagine sul
fabbisogno formativo dei professionisti ASMN per il 2012/2013, emerge, in particolare, che il 65%
degli operatori e il 70% dei professionisti con funzioni dirigenziali e di Coordinamento delle
Professioni Sanitarie, ritiene che l’ambito dei modelli organizzativi atti a migliorare la qualità del
loro lavoro sia prioritario nella propria formazione.
Particolare attenzione richiederà la formazione rivolta ai Ruoli di Coordinamento.
Si tratta di una formazione a sostegno di una trasformazione di ruolo per le mutazioni dei setting
sia sul piano organizzativo che professionale.
In queste situazioni la formazione assume una valenza di vero e proprio accompagnamento, in
sinergia con le progressive trasformazioni interne ed esterne ai soggetti coinvolti.
L’intera gamma degli eventi formativi a supporto della riorganizzazione per intensità di cura,
occuperà gran parte dei Piani di formazione della Direzione delle Professioni Sanitarie per il
prossimo biennio, poiché ad essa afferiranno diversi progetti a valenza trasversale, e dei
Dipartimenti maggiormente coinvolti, assumendo carattere di priorità su tutto il resto dell’offerta
formativa aziendale.
Infine è significativo sottolineare lo stretto rapporto fra formazione e ricerca, quindi le
progettualità in ambito formativo richiederanno, in alcuni casi, di essere pensate con l’attenzione ad
una metodologia della ricerca che possa valutare il pre e l’ex post, affinché il cambiamento e i
relativi outcome siano misurabili e valutabili.
Nell’ambito complessivo delle tematiche indicate, emergono alcune priorità che riflettono la base
professionale e metodologica a sostegno della riorganizzazione.
21
Case Manager
I professionisti che verranno individuati per ricoprire questa funzione, parteciperanno ad un
percorso di formazione finalizzato all’acquisizione delle competenze distintive.
Il percorso specifico verrà individuato anche attraverso la collaborazione con il Dott. Paolo Chiari,
Ricercatore
Settore Disciplinare MED45, presso il Dipartimento di Medicina Interna,
dell’Invecchiamento e delle Malattie Nefrologiche dell’Università di Bologna, per la comprovata
competenza ed esperienza sul tema.
Percorsi Diagnostico-Terapeutico-Assistenziali (PDTA)
Lo sviluppo dei PDT/PDTA, richiede l’acquisizione di competenze organizzative.
Sarà importante considerare infatti la stretta correlazione tra dimensione assistenziale e
organizzativa dell’assistenza.
E’ significativo sottolineare che anche dall’elaborazione dei dati relativi all’indagine sul fabbisogno
formativo dei professionisti ASMN per il 2012/2013, emerge, in particolare, che il 53% degli
operatori con funzioni dirigenziali e di Coordinamento delle Professioni Sanitarie, ritiene questo
ambito prioritario nella propria formazione.
Tali competenze potranno maturare con il supporto delle basi metodologiche, necessarie al fine di
consentire ai professionisti di divenire soggetti attivi .
Il personale infermieristico maggiormente coinvolto verrà formato attraverso un percorso
formativo interno all’ASMN, accreditato ECM.
Verrà realizzato attraverso il coinvolgimento di professionisti esperti dell’ASMN, in qualità di
formatori.
Programmi di Audit
Il processo di revisione sistematica della pratica clinica richiede l’acquisizione di un metodo che sia
garante della attendibilità delle valutazioni che lo caratterizza.
A tal proposito verrà individuata una “task force” di professionisti appartenenti alle aree
assistenziali più coinvolte dalla riorganizzazione ai quali sarà rivolta la formazione specifica su
questa metodologia.
Anche in questo caso il percorso formativo sarà interno all’ASMN, accreditato ECM. Verrà
realizzato attraverso il coinvolgimento di professionisti esperti dell’ASMN, in qualità di formatori
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Il modello per intensità di cura e complessità assistenziale DPS