UNIVERSALI E PARTICOLARI DEL LINGUAGGIO:
UNA RASSEGNA CRITICA
Concetta Mastrangelo
RIASSUNTO
L’approccio psicolinguistico al problema degli universali nasce dalla necessità di scoprire se vi
sono delle tendenze comuni nelle diverse lingue ed il modo in cui si manifestano. La facilità di
acquisizione della lingua madre, la genesi linguistica, il “Senso di grammaticalità” presente nel
porre attenzione all’ordine delle parole, il silenzio, il bisogno dialogico insito nella competenza
comunicativa caratterizzano i vari e differenti linguaggi presenti nel mondo. Ogni lingua è
espressione dell’uomo, del suo bagaglio culturale, è uno strumento sociale, è un’arte che l’essere
umano è predisposto ad acquisire e senza il quale non potrebbe vivere.
Parole chiave: Universali del linguaggio, approccio psicolinguistico.
SUMMARY
The psycolinguistical approach to the problem of the universals emerges from the necessity of
finding out if there are some common tendencies in the different languages and how they are
expressed.
The easiness to acquire one own’s language, the linguistic genesis, the evident “Sense of
grammaticality”in paying attention to the order of words, the opportunity to communicate without
speaking, the dialogical need implied into the communicative competence portray several and
different languages in the world. Each language is expression of man, and of his education, it is a
social instrument, it is a true art that the human being is induced to acquire, and without which he
could not live.
Key words:Universals of language, psycolinguistical approach.
Parte Prima
POSIZIONI A CONFRONTO
L’uomo è quotidianamente immerso in un fiume di parole, un fiume che abbonda di
significati diversi, di forme diverse per poter confluire nel medesimo oceano, qual’ è l’universale
competenza linguistica.
“Come il linguaggio si fa lingua”, per usare una valida e succinta espressione di R. Titone
(1985:17), “come” l’universale linguistico si manifesta nelle diverse lingue presenti nel mondo è il
fine del presente saggio. Un fine che, data la complessità ed eterocliticità del sistema linguistico,
può essere perseguito iniziando, con F. De Saussurre, a paragonare la lingua al gioco degli scacchi,
quindi ad “un sistema di cui non è indispensabile conoscere l’origine, quanto le regole su cui si basa
per poterlo giocare ”(1970:378).
In particolare, Saussurre notò sia l’aspetto differenziale caratteristico degli elementi linguistici, che
l’elemento rassomigliante presente nella competenza linguistica, giungendo ad affermare che: “Il
meccanismo linguistico ruota interamente su identità e differenze, non essendo queste che la
controparte di quelle” (1970:132). In questo modo si ha l’impressione che, per Saussurre
l’universale e il particolare linguistico siano due facce della stessa medaglia o che le concepisca
secondo la sua “mania dicotomica”, una mania di cui lo studioso ginevrino è consapevole tanto da
sostenere che: “Il linguaggio è riducibile a cinque o sei opposizioni o paia di
cose”(Mounin,1972:43). Fra le opposizioni saussuriane quelle che rispecchiano il tema degli aspetti
universali e particolari del linguaggio sono la terza e la quinta. Infatti, la terza è l’opposizione tra
‘langue’ e ‘parole’, dove all’unità di regole insite nel sistema linguistico si contrappone il fatto
individuale, ossia l’uso che il parlante fa della sua competenza nei limiti della reciproca
comprensione, mentre la quinta è l’opposizione fra la prospettiva sincronica e quella diacronica,
cioè fra lo studio della lingua in un dato punto del tempo e quello attinente lo svolgimento storico
dei fatti linguistici.
Naturalmente, con Saussurre il complesso gioco del parlare viene analizzato in tutti i suoi svariati e
complessi aspetti determinando in modo particolare, il passaggio dallo studio microlinguistico a
quello macrolinguistico, o per meglio dire, dallo studio del sistema linguistico “in se stesso e per se
stesso”(1970:282) allo studio delle lingue sia in se stesse che per le loro funzioni socio-culturali.
Si può ben dire con Simone che: “In questa oscillazione fra i due poli dello specifico e del generale,
dell’empirico e del teorico, la linguistica è in grado di stabilire importanti connessioni con altri
ambiti d’indagine”(1991:6-7). Infatti, durante la prima metà del nostro secolo, il sistema linguistico
viene visto sia come prodotto che come strumento del pensiero e della cultura ed il suo studio viene
affrontato con una metodologia sia induttiva che deduttiva. Per quanto riguarda l’approccio ‘theory
oriented’, una tappa fondamentale è rappresentata dal Simposio ‘sull’universale nella teoria
linguistica’, svoltosi ad Austin (Texas) nel 1966, a cui si può ideologicamente contrapporre quello
di Dobbs Ferry (New York) del 1961, dove J.Greenberg presentò la sua ricerca in una chiara
impostazione ‘data oriented’. La ricerca greenberghiana sugli universali linguistici si realizza
tramite lo studio particolareggiato di un campione di trenta lingue presenti nel mondo in base
all’assioma logico dell’implicazione. Secondo tale principio si ha che: ”Per tutti i valori di x,
essendo x la lingua, se contiene alcuni tratti A, contiene sempre qualche tratto B : ma non
necessariamente il contrario”(1975:3). Quindi sono i principi a carattere ‘implicazionale’ che
soddisfano tutti i tradizionali requisiti delle leggi universali, osservando come nella loro natura
risultano divisi in due diversi livelli, da un lato il livello induttivo-empirico, cioè derivanti dalla
pratica constatazione della loro presenza in tutte le lingue, dall’altro teorico-deduttivo, cioè
teoricamente derivanti dai primi. Ne è un valido esempio la constatazione empirica fatta da
Greenberg sulla categoria del singolare che risulta più frequente di quella del plurale, cioè
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dell’esistenza del plurale che implica quella del singolare, ed è questo un semplice esempio di
universale empirico da cui vengono dedotti altri tipi di universali. E’ noto che il plurale ha una
morfologia più complessa del singolare e, metodologicamente, si osserva nei soggetti afasici una
palese difficoltà ad acquisire il plurale rispetto alla facilità con cui acquisiscono il singolare. Inoltre,
dai vari studi sui soggetti afasici si manifesta la presenza di universali biologici e fisiologici che
implicano la possibilità di acquisizione linguistica dei termini più semplici e lineari da Greenberg
inglobati nel concetto di categoria ‘marcato’ e ‘non marcato’.
Da quanto accennato è chiaro che, con i concetti greenberghiani d’implicazione, di ‘marcato’ e
‘non marcato’ si torna alla tradizionale dialettica fra procedimento induttivo e deduttivo, ed in
particolare, si sottolinea lo stretto rapporto fra gli universali linguistici e la tipologia linguistica. Un
rapporto che sembra celare una situazione di complementarietà fra gli aspetti universali e quelli
particolari del linguaggio, tanto da poter ipotizzare che i secondi dipendano logicamente dai primi.
Iniziando dagli studi tipologici, la pietra miliare della ricerca greenberghiana risulta essere “la
tipologia dell’ordine fondamentale” che inizia con l’assunto logico della presenza nella competenza
linguistica di sei possibili ordini: quali, SVO (Soggetto, Verbo, Oggetto),SOV, VSO, VOS,OSV e
OVS. Di questi sei, comunque, solo tre si presentano normalmente come ordini dominanti, mentre
quelli che non si presentano mai, o che sono eccessivamente rari, sono: VOS, OSV e OVS. Questi
ultimi sono accomunati dal fatto che l’oggetto precede il soggetto, da cui si deduce il primo
universale greenberghiano, per il quale: “ Nelle frasi dichiarative con il soggetto nominale e
l’oggetto, l’ordine dominante è quasi sempre uno in cui il soggetto precede l’oggetto”.
E’ ovvio che questo primo universale implica la presenza di tre tipi comuni, quali: “VSO, SVO e
SOV ”, da cui deriva il sesto universale, per il quale “tutte le lingue con l’ordine dominante SOV e
OSV hanno SVO come ordine alternativo fondamentale”. In tal modo si osserva con Seiler che “i
rapporti implicazionali o comunque di correlazione fra il Basic Order Typology ( SVO, SOV,
VSO…) e le pre o posposizioni, la posizione del genitivo e dell’aggettivo nel sintagma nominale,
costituiscono la materia di molti universali greenberghiani”, aggiungerei non di molti, bensì, di tutti
i quarantacinque universali elencati da J. Greenberg nella sua opera “Universals of language” del
1963.
Inoltre, credo opportuno evidenziare che, in base al campione di trenta lingue utilizzate da
Greenberg nei suoi studi tipologici, sono emerse ben sei lingue con l’ordine fondamentale VSO
contro le tredici con SVO e le undici con SOV.
E’ chiaro che l’ordine degli elementi linguistici implica quello razionale, così come lo studio delle
lingue implica quello del cambiamento linguistico, fenomeno ad esso connaturato. Infatti, il
cambiamento linguistico assume nell’opera greenberghiana “Universals of Human Language” un
ruolo attivo per la comparazione dinamica fra l’aspetto sincronico e quello diacronico della lingua.
Si legge in quest’opera che: “La descrizione tipologica ha due sedi, vale a dire, sincronica e
diacronica. Perciò la tesi che la tipologia è identica alla descrizione sincronica è falsa” (1978:66). A
mio avviso, più che falsa è incompleta tanto che J. Greenberg, rispondendo ad alcuni importanti
interrogativi, come : “Qual’ è il ruolo della tipologia linguistica?” o “che cosa è l’universale
diacronico?”, giunge ad analizzare le generalizzazioni diacroniche nella spiegazione della struttura
linguistica.
Alla mania dicotomica di F. de Saussurre si sostituisce quella unificatrice di J. Greenberg;
quest’ultimo, utilizzando il metodo della comparazione dinamica, dichiara la presenza di “una
intima relazione fra i fattori sincronici e quelli diacronici del sistema linguistico” (1978:85).
Pertanto, Greenberg sottolinea sia la funzione della dimensione diacronica nel costruire ragionevoli
e non ‘arbitrarie’
tipologie sincroniche, che quella del cambiamento linguistico nella
determinazione di un ‘unico tipo’ di lingua.
In breve si ha l’impressione che, mentre il cambiamento è un processo di adattamento delle
condizioni linguistiche universali, la tipologia è un approccio empirico-deduttivo per definire e
classificare gli universali linguistici. Gli universali greenberghiani, pur essendo unidirezionali,
sottintendono una origine multidimensionale, poiché per Greenberg (1978) “indurre
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generalizzazioni dalla osservazione diretta delle lingue, significa introdurre nello studio del
linguaggio la dimensione storica , sociologica e culturale”. A questo punto si può sostenere con
Comrie che la concezione greenberghiana “ è aperta ad ogni possibile spiegazione degli universali,
pur prendendo in considerazione, in particolare, i fattori psicologici e funzionali (compresi quelli
pragmatici) della lingua” (1983:60).
Emerge che, come Greenberg ha riconosciuto la possibilità di spiegare gli universali linguistici
partendo da una ipotesi innatista, così Chomsky non ha mai sostenuto l’impossibilità di giungere
all’universale competenza linguistica tramite gli studi tipologici. Diventa necessario sottolineare
con Ramat che “ è indispensabile, come condizione preliminare per qualsiasi ragionevole
interpretazione linguistica di affermazione tipologica, fornire un esplicito disegno di teoria
grammaticale e semantica” (1984:14). L’unica teoria in grado di convalidare e completare il lavoro
greenberghiano è l’analisi chomskiana sugli universali linguistici. Apparentemente la ricerca sugli
universali e quella tipologica sembrano diametralmente opposte, in realtà esse procedono
parallelamente sia a livello teorico che metodologico. Infatti all’adeguatezza statistico-descrittiva
della tipologia greenberghiana, Chomsky sembra contrapporre quella teorico-descrittiva della sua
ricerca. Per Chomsky, il tentativo di raggiungere l’adeguatezza esplicativa si concretizza, come
afferma Graffi : “nel conferire agli universali la caratteristica di ipotesi che, essendo
tendenzialmente provvisorie, possono incorrere in esperimenti atti a convalidarle o a falsificarle”
(1979:7).
Seguendo la logica popperiana si può sostenere che, proprio la possibilità di falsificazione delle
ipotesi, conferisce alla ricerca chomskiana la sua validità teorico-descrittiva e, credo, la sua ormai
diffusa notorietà. La ricerca di N.Chomsky parte dall’assunto della presenza di un meccanismo
innato o ‘Language Acquisition Device’ (LAD) che permette a qualsiasi infante d’identificare
attraverso i messaggi dell’ambiente il tipo di lingua al quale deve adattarsi. Quindi, le diversità
linguistiche sono caratterizzate da fattori psico-sociali ed, in particolare, derivano dagli universali
linguistici radicati nel LAD. Chomsky distingue gli universali in ‘sostanziali’ e ‘formali’,
insistendo sul fatto che le strutture profonde universali riflettono l’insieme delle relazioni extralinguistiche. Pertanto, la semantica sarebbe l’aspetto profondamente universale delle lingue e come
tale un universale ‘sostanziale’.
In seguito, Chomsky ha evidenziato un altro tipo di universali nel funzionamento del modello
trasformazionale comprendente le forme generali e comuni a tutte le lingue, cioè gli universali
‘formali’. In breve, “gli universali ‘sostanziali’ rappresentano ‘i blocchi di costruzione’
fondamentali del linguaggio, la materia di cui esso è costituito, mentre gli universali 'formali'
riguardano la forma e la struttura di una grammatica”(Aitchison,1980:99).
E’ noto che per Chomsky la facoltà del linguaggio è specie specifica, ed in particolare è innata.
L’innatismo chomskiano, inizialmente dedotto dal ‘Language Acquisition Device’ risulta nella
recenzione attuale (1981) derivato dall’azione combinata dei principi e dei parametri della
‘Grammatica Universale’ (GU). I principi risultano tendenzialmente presenti nella competenza
linguistica, i parametri variano da una lingua all’altra determinando le modalità di apprendimento
linguistico. Nelle recenti formulazioni chomskiane, gli elementi della relazione si concretizzano
nelle parole, in particolare, sul soggetto sia quando è presente che quando manca. In quest’ultimo
caso interviene il ‘Parametro del Soggetto Nullo’ che, etimologicamente significa ‘lasciar cadere il
pronome’, come per esempio avviene nella frase latina ‘amata est’, dove il soggetto pur mancando
fisicamente, è intuitivamente riconoscibile dalla forma del participio. Pertanto, la lingua compensa
la mancanza del soggetto con un altro elemento linguistico ricco di significato. Il significato e la
forma , ossia il sistema semantico e quello sintattico, pur restando nell’ottica chomskiana due
sistemi distinti, risultano interrelati tramite il ‘principio della proiezione’. Secondo tale principio “le
proprietà delle entrate lessicali si proiettano sulla sintassi della frase” dal momento che ogni uomo
conosce il significato delle parole tipiche del suo codice linguistico.
Dopo questo breve accenno ai principi e parametri della Grammatica Universale, è essenziale
sostenere con Cook (1990:61) che “la grammatica universale deve essere in grado di stabilire un
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ponte fra suono e significato”, cioè fra la forma fisica del parlato e la sua rappresentazione mentale.
Sembra che tale interrelazione si realizzi nella ‘struttura sintagmatica’; intendendo con tale termine
“un insieme atto a cogliere la relazione strutturale della frase tramite il concetto di consistere
di”(Cook,1990:146). Quindi, il sintagma ‘consiste di’ uno o più costituenti, ed in particolare,
contiene sempre ‘una testa’; cioè il sintagma è ‘endocentrico’.
Etimologicamente, ‘endocentrico’ significa che ha il centro in sé stesso, così, per esempio si ha che
il centro o la testa del sistema nominale(SN) ‘il fornaio’ è sempre ‘fornaio’, oppure nel sintagma
verbale (SV) ‘impasta la farina’ è sempre ‘impasta’. Come si legge nella Grammatica Universale di
Cook “la forma di struttura sintagmatica che viene adoperata si chiama Sintassi XBarra”(1990:155).
La Sintassi X-Barra consta di quattro tipi di sintagmi: Il sintagma verbale, il sintagma nominale, il
sintagma aggettivale e il sintagma preposizionale. La tipologia sintagmatica proposta da
N.Chomsky è metodologicamente un criterio classificatorio uguale a quello adottato da J.Greenberg
nella sua ricerca sugli universali implicazionali. La Sintassi X-Barra è un semplice insieme di
principi e parametri atti a descrivere la struttura sintagmatica della lingua. La parte centrale della
Sintassi X-Barra è che “una frase consiste di sintagmi con una struttura comune, esattamente come
le cellule con funzioni o locazioni differenti nel corpo possiedono la stessa struttura”(1990:187).
Il paragone di Cook fra la struttura sintagmatica e le cellule dell’organismo è, a mio avviso,
‘originale’ e ‘utile’ per comprendere la complessa teoria chomskiana. ‘Originale’, perché rispecchia
la concezione della lingua come organo mentale o come ‘epifenomeno’, visto che per Chomsky
(1989):“La nozione stessa di lingua è derivativa e relativamente poco importante. Si può anche
farne a meno con poca perdita,(…) i concetti fondamentali sono quelli di grammatica e di
conoscenza della grammatica”. ‘Utile’, perché conferisce ai sintagmi verbali delle particolari e vitali
funzioni linguistiche. Si pensi all’uso che Chomsky fa del ‘parametro testa’, per il quale le frasi
sono divise in sintagmi costituenti, ed ogni sintagma possiede un suo elemento fondamentale
definito ‘testa’. Regolarmente, ‘la testa’ può stare o all’inizio o alla fine del sintagma, da cui deriva
la semplice differenza fra le lingue in ‘testa iniziali’ come per esempio l’italiano, e in ‘testa finali’
come il giapponese.
Si raggiunge con ‘il parametro testa’ un criterio di variazione possibile fra le lingue, al quale si può
ideologicamente contrapporre il ‘principio della dipendenza dalla struttura’, che unifica le diversità
linguistiche secondo le relazioni strutturali interne alla frase. Un esempio di tale principio è la forma
interrogativa dei verbi inglesi, che dipende dal movimento dell’ausiliare ‘can o will’ in una
particolare posizione dell’enunciato, qual è l’inizio di frase. Da questo esempio si rileva
l’importanza del movimento sintattico nella dinamica della lingua; un sistema che Chomsky
considera “rappresentato nella mente-cervello di un individuo”(1988:36).
La grammatica universale è, secondo l’ottica chomskiana, insita nella mente del bambino come un
sistema di principi e di parametri. I principi prima accennati non risultano acquisiti dall’interazione
dell’infante con l’ambiente in cui vive, ma sono in lui innati, perché presenti sin dalla nascita in
modo ‘virtuale’ per dirla alla Leibniz.
Si legge nella Grammatica Universale di V.J. Cook che : “All’inizio la mente del bambino è aperta
verso ogni lingua umana; il processo ha termine con l’acquisizione di una lingua
particolare;…apprendere una lingua significa dare i valori appropriati della grammatica universale.
Per apprendere l’inglese o il giapponese, il bambino deve dare un valore al parametro del soggetto
nullo, al parametro testa e ad una manciata di altri parametri. Il bambino non acquisisce delle regole
ma dei valori per i parametri, i quali interagendo con reti di principi, creano una grammatica
generale” (1990:100-101).
Diventa affascinante chiedersi: Quali sono i fattori che intervengono durante l’acquisizione della
propria lingua, e in che modo la grammatica universale si fa grammatica particolare? Secondo
Noam Chomsky, la specificità della competenza linguistica si manifesta nella sua evoluzione da uno
stadio iniziale o ‘Zero’(So), in cui il neonato non conosce nessuna lingua, allo stadio finale o
‘Stabile’ (Ss) in cui l’adulto possiede la piena conoscenza linguistica. L’acquisizione linguistica si
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manifesta nel procedere “da uno stato geneticamente determinato ‘So’ attraverso una sequenza di
stati S1…S5, per giungere alla fine allo stato stabile, che a quel punto sembra possa cambiare solo
marginalmente”(1990:98).
Quindi, “il bambino che apprende l’inglese dovrà determinare con l’esperienza che ‘he’ è un
pronome, che il sistema pronominale ha una distinzione nominativo-accusativo, ecc…Il bambino
che apprende il francese dovrà determinare fra le altre cose che c’è sia una debole che una forte
serie pronominale. Chi apprende l’italiano e lo spagnolo dovrà determinare che c’è foneticamente
una variante nulla del pronome nominale” riferendosi in quest’ultimo caso al parametro del
soggetto nullo (Rizzi,1989:130).
E’ chiaro che malgrado le differenti grammatiche presenti nel mondo esiste una soggiacente
grammatica universale. L’universalità della competenza linguistica emerge tanto dal confronto
diretto fra i due approcci di studio sinora menzionati, che dalle attuali ricerche psicolinguistiche.
Iniziando dal mio tentativo di unificare la storica opposizione fra l’innatismo e l’empirismo per
ricercare gli aspetti universali e particolari del linguaggio si nota che alla tipologia di J.Greenberg si
contrappone quella sintagmatica di N.Chomsky; la fondamentale differenza teorica fra Greenberg e
Chomsky è il fine della ricerca.
Un fine che per Greenberg è quello di quantificare le differenze per definire gli universali, per
Chomsky è quello di qualificare la sua teoria sull’universalità della competenza linguistica. Da
quanto detto è evidente che i due principali indirizzi di ricerca sugli universali linguistici adottano
criteri d’analisi contrastanti, quali:l’uso di un campione rappresentativo di lingue da parte di J.
Greenberg e quello di una sola lingua, precisamente l’inglese, da parte di N. Chomsky.
Apparentemente, sembra più corretto l’approccio greenberghiano, perché conforme ad un obiettivo
paradigma di ricerca, per il quale le ipotesi iniziali devono essere empiricamente dimostrate. In
realtà, si riscontra un limite nella teoria greenberghiana, quale è l’aver trascurato la facilità con cui i
bambini imparano a parlare. Ma, la trascuratezza greenberghiana diventa, con Chomsky, la fonte
dell’equazione fra gli universali linguistici e le idee innate, da cui si determina l’importanza
conferita ai principi innati nell’acquisizione linguistica.
E’ fondamentale notare che per Chomsky “un’ipotesi innatista è un’ipotesi confutabile” per cui il
tentativo di usare alcuni controesempi empirici per verificarla sarebbe un grave errore
metodologico. Altrettanto avverrebbe se si applicasse il principio dell’implicazione ad una sola
lingua, in quanto non si potrebbero ipoteticamente giustificare la condizione “se P allora Q”, tipica
degli universali implicazionali. Sinora, il tentativo di unificare i due differenti approcci di ricerca
sugli universali linguistici sembra ideologicamente impossibile. Eppure, confrontando i parametri
della grammatica universale con la tipologia dell’ordine fondamentale, si deduce che, in entrambe,
l’elemento linguistico determinante regge o precede quello determinato. Pertanto si può paragonare
l’ordine logico “Soggetto-Verbo-Oggetto” di J. Greenberg alle lingue “Testa Iniziali e Testa finali”
di N. Chomsky ; conferendo a tale universale linguistico scientificità, perché dedotto sia
empiricamente che ipoteticamente.
In generale, si può affermare con Comrie (1983:42) : “ tra le formulazioni astratte e le concrete
esiste un continuum” che, per me, può iniziare con l’ipotesi chomskiana e terminare con quella
greenberghiana, o viceversa. Un “continuum” che, parafrasando Comrie “esiste fra gli universali
chomskiani e quelli greenberghiani”. Iniziando da N.Chomsky è evidente che i suoi universali
linguistici determinano implicitamente gli aspetti necessari, possibili e impossibili della variazione
linguistica. Ugualmente, gli aspetti implicazionali di J. Greenberg si integrano in una tipologia
linguistica conforme all’universalità della competenza linguistica. Così, mentre la grammatica
universale consiste di principi e di parametri insiti nella mente umana, la tipologia linguistica
consiste nell’analizzare i principi che organizzano il materiale linguistico.
Chiaramente, si può sostenere che più di antagonismo, vi è complementarietà fra l’universale e il
particolare del linguaggio, così come complementari, all’argomento della presente rassegna critica,
sono: sia il tentativo di ricercare la perfezione o l’universalità nella competenza comunicativa che in
quella culturale.
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Sembra, infatti, possibile porre un nesso fra l’opera di U. Eco ‘La Ricerca della Lingua Perfetta’ e
quella di J. Bruner ‘La Ricerca del Significato’ nella tematica sugli aspetti universali e particolari
del linguaggio.
Iniziando dall’opera di U. Eco, il cui titolo mi sembra racchiudere l’umano tentativo di ricercare la
perfezione o l’universalità nell’arte di comunicare; emerge la ‘storicità’ dell’ordine SoggettoVerbo-Oggetto, sia come particolare linguistico che come tendenza ad imporre l’egemonia della
propria lingua sulle altre. Si legge, da esempio, che “il conte Antoine de Rivarol col suo discorso
‘De l’universalité de la langue francaise’(1784)…sostiene che la razionalità della lingua francese è
dovuta al fatto che in essa soltanto si realizza l’ordine sintattico diretto: dapprima il soggetto, poi il
verbo e, quindi l’oggetto”(Eco,1994:322-323) ma, anche “nella lingua di Dalgarno conta solo
l’ordine delle parole: il soggetto deve precedere il verbo ed essere seguito dall’oggetto”(1994: 253).
Si ha l’impressione che, nonostante i diversi punti di vista, entrambi giustificano la sequenzialità
dell’ordine ‘SVO’ come specchio della razionalità. A mio avviso, la ‘storicità’ dell’ordine sintattico
SVO sembra diventare sinonimo di ‘linearità’ nella prospettiva bruneriana, dove diventa riflesso
della narrazione. Infatti, J. Bruner oltre a sottolineare la potenza e l’incisività dello stile narrativo
nella competenza linguistica, evidenzia l’aspetto socio-culturale che ‘la spinta narrativa’ assume nel
diventare forma linguistica, personificandosi nelle parole.
E’ interessante constatare che per Bruner (1993:81-82) “ciò che determina l’ordine di priorità in cui
le forme grammaticali vengono assimilate dal bambino in tenera età è proprio ‘la spinta’ a
costruire una narrazione”, ed in particolare, che la facoltà narrativa richiede “un mezzo per mettere
in rilievo l’azione umana o ‘l’agentività’, un’azione diretta verso fini che si trovano sotto il
controllo di coloro che agiscono. (…) Essa richiede qualcosa di simile alla prospettiva del narratore:
essa non può, nel gergo della narratologia, essere priva di voce ”, così come non può costruirsi il
linguaggio senza il dispositivo SVO. ‘Storicità’ e ‘linearità’ sottolineano l’universalità dell’ordine
grammaticale, che, nell’atto linguistico, diventa lo strumento sia dell’azione cognitivo-verbale che
della trasmissione socio-culturale. Il ‘dispositivo SVO’, per usare la terminologia bruneriana,
nonostante la gerarchia degli elementi, come ampiamente dimostrato dagli studi greenberghiani,
rafforza la sua potenza in quanto ‘conditio sine qua non’ la razionalità e la narratività si incarnano
nelle parole.
Da quest’ultima relazione appare chiaro che la considerazione saussuriana del linguaggio
‘riconducibile a cinque o sei opposizioni’ si trasforma in quella di ‘lingua in sé e per sé’. Ma, “la
lingua è creata esclusivamente in vista di un discorso,… il discorso consiste (seppure in modo
rudimentale e attraverso percorsi che ignoriamo) nell’affermare il legame tra due concetti che si
presentano rivestiti della forma linguistica, mentre la lingua preliminarmente non fa che realizzare
concetti isolati che attendono d’essere messi in rapporto tra loro, perché si abbia Significazione di
Pensiero” (Saussurre,1994:34). L’aspetto dialogico del linguaggio è sottolineato sia nella ‘Ricerca
della lingua perfetta’ dove si legge che: “Si parla per estrinsecare i pensieri della nostra mente,
quindi il parlare è fatto dialogico”(Eco,1994:47), sia nella ‘Ricerca del significato’, dove Bruner
dichiara che: “La cultura e la ricerca del significato all’interno della cultura sono le vere cause
dell’agire dell’uomo”(Bruner,1993:35).
L’uomo che, nell’interazione linguistico-sociale ha la possibilità di utilizzare gli universali
prosodici, cioè quelle tendenze comuni alla competenza linguistica che riguardano l’accentuazione
e la quantità sillabica delle parole, conferendo così maggiore credibilità agli eventi raccontati. E’
ovvio che nel sistema linguistico vi sono delle condizioni bio-fisio-neuro-psicologiche
universalmente presenti nel genere umano, cioè delle condizioni senza le quali la lingua non
potrebbe esistere e tramandarsi e, l’uomo non avrebbe il dono di raccontarsi. Così, nasce la
necessità di estendere la ricerca degli universali linguistici a quelli psicolinguistici, come indagine
sulle condizioni mentali che rendono funzionale la lingua.
Conoscere la lingua significa conoscere la base cognitiva che rende capace l’individuo di codificare
e decodificare i messaggi verbali. A tal proposito è interessante notare con Slobin, la presenza di tre
tipi di prerequisiti cognitivi che, si sviluppano durante l’infanzia e, che sono essenzialmente ‘a
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posto’ (Braine,1970) prima dello sviluppo linguistico, altri che sono strumenti per la conoscenza
della struttura linguistica ed hanno una costante frequenza sulla capacità umana di acquisizione del
linguaggio. Infine, vi è un terzo tipo di variabile cognitiva che riguarda la capacità di evocare e
riconoscere la realtà esterna per poterla riprodurre verbalmente.
E’ chiaro che ‘nell’apprendimento linguistico esiste un vincolo cognitivo con il significato più che
con la forma degli enunciati verbali’.
Un vincolo cognitivo che, come sostiene Brown (1973), rende il bambino capace di ‘una
interpretazione ricca’ della realtà esterna o, con Block e Kessel (1980), che ‘alla base sia della
complessità semantica sia di quella sintattica' vi è quella cognitiva o ‘culturale’ per intenderla alla
Bruner.
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Parte seconda
L’APPROCCIO PSICOLINGUISTICO AL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI.
Da quanto detto sinora, reputo essenziale accennare alla vasta bibliografia psicolinguistica per
evidenziare la necessità di scomporre lo studio del linguaggio in due importanti tematiche: “Come
riconoscere l’universale nello sviluppo linguistico e, come riconoscerne il variabile”(Bates e
MacWhinney,1987:157). Il ‘come’ sembra concretizzarsi nel metodo crosslinguistico di D.Slobin
che, dall’analisi di come le lingue si diversificano l’una dall’altra, giunge a sostenere che “le
diversità sorprendenti tra le lingue non consistono tanto in ciò che possono esprimere, ma in ciò che
esprimono abitualmente e che si ritiene esprimano. Probabilmente le dimensioni di base, lungo le
quali le categorie espresse linguisticamente variano, sono universali della cognizione
umana”(Slobin,1984:207).
Dagli studi slobiniani si nota che non esiste una relazione fra il cognitivo e il verbale o, come
sostiene Slobin, che “il linguaggio non abbraccia tutta la sfera cognitiva”(1984:179). Durante gli
anni ottanta del nostro secolo Dan Slobin, a differenza di Joseph Greenberg, esplora gli aspetti
universali e particolari del linguaggio sia linguisticamente che psicologicamente, ed in particolare,
non trascura la regolarità e l’universalità del corso di acquisizione linguistica.
Il linguaggio, psicolinguisticamente inteso come comportamento osservabile, diventa lo strumento
attraverso il quale è possibile giungere alla conoscenza degli universali linguistici.
Ne è un valido esempio la ricerca slobiniana sull’acquisizione del russo, tratta dai dati diaristici di
Gvozdev. Slobin nota che l’ordine in cui il bambino presenta le sue prime parole è SOV, quindi
diverso dall’ordine dominante il russo, che è SVO.
Tuttavia, l’ordine SOV permane per un preciso periodo iniziale dell’apprendimento linguistico, per
poi essere sostituito da quello SVO. Da queste ed altre incongruenze iniziali, si evidenzia la
creatività infantile nel costruire una lingua in base a capacità cognitivo-verbali, chiaramente innate e
tendenzialmente manifeste in un apprendimento linguistico autonomo.
L’autonomia dei primi enunciati verbali sottolinea la propensione del bambino a porre ordine e
regolarità ai suoi enunciati che, per Slobin , “non sono pure sequenze di parole, ma delle gerarchie
di unità organizzate secondo principi grammaticali”(1984:88).
Quei principi che sembrano interiormente suggerire ai bambini di tutto il mondo di porre attenzione
all’ordine fondamentale delle parole conferendo così ciò che psicolinguisticamente è definito “un
senso di grammaticalità” universalmente presente nella competenza comunicativa e
quotidianamente manifesto in “una grammatica che serve per comunicare”(Titone,1992:8).
A tal proposito è interessante chiedersi : Quali sono i principi universalmente presenti nell’umana
facoltà di comunicare ed in particolare, quali meccanismi intervengono durante l’acquisizione della
propria lingua?
Una possibile risposta a tale interrogativo si ottiene dall’opera ‘Mechanisms of Language
Acquisition’ di B. MacWhinney che, come Slobin, ha dato un valido contributo alla ricerca sugli
aspetti universali e particolari del linguaggio. MacWhinney tenta di ricercare i meccanismi
responsabili dell’acquisizione linguistica generale, quei meccanismi che sembrano celarsi sotto la
performance verbale, tramite il cosiddetto ‘Competition Model’, cui ci riferiremo qui sotto la
denominazione di ‘Modello Competitivo’.
Il Modello Competitivo prevede che gli elementi lessicali variano nel loro grado di attivazione ed in
particolare che, durante la elaborazione degli enunciati , le voci lessicali risultano essere in
competizione. Naturalmente, perché una voce lessicale sia dominante nel contesto linguistico deve
essere sufficientemente forte e deve saper dominare per un lungo periodo, cioè deve possedere
un’attivazione maggiore rispetto a quella delle altre. In pratica, quando un attacco è fortemente
attivato ed è connesso ad un ruolo, allora anche il ruolo risulta attivato. Ne è un valido esempio la
posizione del nome nella frase inglese che, se è posto all’inizio di frase sarà sicuramente un
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soggetto dato che, per il modello competitivo, la connessione della posizione preverbale al ruolo di
soggetto risulta molto forte. Fra i tanti modi in cui si articola il modello competitivo vi è quello
dell’attivazione precedente, per il quale ‘se una voce risulta attivata da altre voci lessicali o dal
corrente contesto’, essa possiederà maggiore attivazione. Un altro modo è quello della
‘dominazione’, che risulta focalizzarsi sulla presenza di un ‘processore competitivo’ atto a scegliere
un singolo candidato per ogni competizione.
Come si legge nell’opera citata, questo modello usa una strategia del tipo “vincitore piglia tutto,
che rende il ricco sempre più ricco e il povero sempre più povero, per cui le buone supposizioni
vengono eliminate attraverso una reazione eccitatoria o inibitoria”(MacWhinney,1987:273).
Diventa naturale chiedersi: In che modo i meccanismi della competizione intervengono nel corso
dell’acquisizione linguistica? Anzitutto, si nota che, come per Slobin così per MacWhinney, “il fine
dell’acquisizione linguistica è l’astrazione del significato nella comprensione e la comunicazione
del significato nella produzione” (ibidem). Dalla ricerca di MacWhinney emerge che nella
comprensione la competizione inizia con l’audizione o, più precisamente, quando una voce lessicale
inizia a vincere durante la competizione, di conseguenza la sua forza lessicale aumenta.
Il lessico diventa così, nel modello competitivo, il maggior controllore della segmentazione del
flusso delle parole poiché nel momento in cui gli attacchi si uniscono in modo sufficiente per
sostenere una data voce, quella voce seziona effettivamente una parte del flusso del discorso,
evidenziandone così quelle conosciute e più frequenti.
E’ interessante notare che, sia a livello ricettivo che espressivo, la competizione inizia con
l’attivazione del predicato, come per esempio in ‘chase’, la cui attivazione implica per
MacWhinney “un’apertura sia per il soggetto che per l’oggetto” (1987:276).
E’ ovvio che quando si presenta tale apertura inizia la competizione fra i nominali in base al ruolo
che dovranno assumere. Inoltre, durante la competizione i nominali usufruiscono di vari
suggerimenti in base all’ordine delle parole, alla concordanza e al marcatore del caso.
A questo punto, è logico domandarsi: In che modo il modello competitivo spiega le particolarità e
le diversità linguistiche? Credo giusto rispondere a tale interrogativo utilizzando un valido esempio
di MacWhinney, quale è l’analisi di una stessa frase in due diverse lingue: l’inglese e lo spagnolo.
In inglese, il raggruppamento è ‘a young soldier’ senza che vi sia alcuna competizione fra le voci
visto che ‘a’ non può legarsi a niente sino a quando non si costruisce il gruppo 'young soldier'. Ma,
nella lingua spagnola, la medesima frase non risulta possibile senza quella procedura atta a portare
‘un elemento che segue il gruppo e ad unirlo più vicino al capo che ai competitori’. In pratica, nella
lingua spagnola, visto che l’aggettivo segue il nome e l’articolo lo precede, si avrà ‘un soldado
joven’.
Nonostante questi diversi raggruppamenti, cioè questi diversi processi che uniscono due voci in un
gruppo, emerge che il ruolo da essi assunto, durante l’elaborazione della frase, dipenderà dalla
presenza del predicato verbale che, in qualsiasi sistema linguistico, ha il compito di attivare le voci
lessicali in base al ruolo che esse dovranno assumere, sia grammaticalmente che semanticamente.
Ancora, il modello competitivo analizza gli errori di sovrageneralizzazione, prima menzionati,
giustificandoli in termini di materiale non assegnato.
In breve, si può dichiarare che: “Se una serie di suggerimenti di audizione non vanno riconosciuti,
il processo segnala che c’è un errore. I bambini sono abituati a tali errori e spesso li trattano come
un modo per apprendere nuove parole”(MacWhinney,1987:283).
La semplicità con cui MacWhinney giustifica gli errori delle prime fasi di acquisizione linguistica
deriva dall’assunto che il bambino è capace di ‘codificare’ l’imput in termini di suggerimenti
semantici e di ruoli grammaticali utilizzati dalla voce lessicale. Tale capacità infantile si sviluppa e
si manifesta nella linearità e regolarità del corso di acquisizione linguistica.
A tal proposito è interessante notare che il modello competitivo sostituisce il termine di
‘acquisizione linguistica’ con quello di ‘acquisizione funzionale’ per meglio sottolineare la ricerca
di come il bambino sviluppa una funzione da esprimere prima di comunicarla nella forma
linguistica appropriata.
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Ne consegue che, per il modello competitivo, l’acquisizione linguistica è inizialmente condotta
dall’interesse del bambino di usare la lingua in funzione di ciò che intende comunicare. Infatti, a
questo significativo stadio iniziale di acquisizione del linguaggio segue quello caratterizzato dalla
capacità infantile di “rappresentare la funzione verso la forma” come ha testualmente dichiarato
MacWhinney(1987:287).
In pratica, questo secondo stadio o ‘fase di acquisizione delle forme’ come è definito nel modello
competitivo, è determinato sia dalla tendenza ad acquisire nuove voci lessicali che dal tentativo di
associare il suono al significato. Naturalmente, è in seguito al bisogno di comunicare e di usare le
parole in modo appropriato che interviene il processo di competizione, durante il quale le voci
lessicali più forti sintatticamente e semanticamente si stabilizzano regolarmente nella competenza
comunicativa del bambino. E’ utile evidenziare che, in relazione all’ipercorrettismo sottolineato
dalla ricerca di Dan Slobin, B. MacWhinney parla del periodo di ‘apprendimento del conflitto’ in
cui le forme sbagliate vengono eliminate. Quindi, anche in questo caso, vale la teoria del più forte, o
per meglio dire, del più corretto sia grammaticalmente che semanticamente. Da quanto detto sinora
giudico estremamente ‘interessante’ la concezione del corso di sviluppo linguistico presentato dal
modello competitivo. ‘Interessante’ perché, secondo questa prospettiva di studio, il bambino prima
di acquisire il linguaggio possiede già ciò che intende comunicare. E’ possibile sostenere con
MacWhinney che: “Il bambino sembra supporre che il linguaggio è costruito in modo da fornire le
forme per le idee che ha nella sua testa” o, per dirla alla Austin, sa “come fare delle cose con le
parole”(Bruner,1993:76).
Clark sembra condividere la concezione di MacWhinney formulando il ‘Principio della
Convenzionalità’, per il quale “il bambino è consapevole che, per alcuni significati, vi è una parola
convenzionale o un meccanismo di formazione della parola, che dovrebbe essere usato nella
collettività del linguaggio”(1987:288).
In realtà, sia il modello competitivo di MacWhinney che ‘il principio della convenzionalità’ di
Clark sottendono il grande insegnamento saussurriano, ed in particolare, la constatazione di
Saussurre(1994:33) che :”La parola è l’atto per mezzo del quale l’individuo realizza la facoltà del
linguaggio grazie a quella convenzione che è la lingua” e continua sostenendo che “l’atto linguistico
è infatti più un’attività che un’azione”(1994:37).
“Un’attività”, che da un lato sottolinea l’importanza data da MacWhinney alle voci lessicali,
dall’altro serve a Saussurre per evidenziare la necessità di “prendere il suono alla lettera”, cioè di
cogliere nella competizione delle voci lessicali ‘la voce narrante’, che è lo scheletro di ogni lingua.
Etimologicamente, lessico deriva dal greco Léksis, cioè dizione, parola, è ‘paradossalmente’
Cardona (1988:187) sostiene:” Come fosse un libro che raccoglie le parole”; ‘paradossalmente’
perché in base agli studi bruneriani, sembra si possa immaginare la lingua come un libro che
raccoglie i differenti linguaggi.
Convinta che è la diversità a creare l’unità e non necessariamente il contrario, reputo opportuno
sottolineare l’universale tendenza linguistico-culturale di ‘ raccontarsi ’ mediante il linguaggio. In
base alla già citata opera di Bruner, sembra si possa formulare un altro interessante interrogativo
nella ricerca sugli aspetti universali e particolari del linguaggio, quale è :Che mi racconti? Il
narrativo come universale linguistico.
Secondo lo psicologo americano, “tra il senso e il riferimento esterno del racconto sussiste una
relazione anomala. L’estraneità del racconto rispetto alla realtà extralinguistica sottolinea il fatto
che esso possiede una struttura interna al discorso. Questa particolare sequenzialità è indispensabile
perché un racconto sia significativo e, perché la mente si organizzi in modo da coglierne il
significato”(Bruner,1993:55).
La competenza linguistica sembra assumere le vesti di un libro verbale, in cui è possibile ascoltare e
tramandare la storia individuale e sociale dell’essere umano. Ed è proprio al tentativo di ricerca
‘culturale’ di Bruner che si contrappone quello ‘scientifico’ del Connessionismo nello studio degli
aspetti universali e particolari del linguaggio.
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II.1.IL CONNESSIONISMO.
Il Connessionismo è da molti considerato un ‘cambiamento rivoluzionario’ nell’area cognitivista
degli ultimi trent’anni, dal momento che, rispetto alla linguistica chomskiana, cerca di simulare
invece di speculare sulla natura umana. Il paradigma connessionista a differenza di altri paradigmi
cognitivisti, ha come modello della mente il cervello e non il calcolatore.
IL Connessionismo può essere considerato con Lagdon (1987) “un capitolo di quella che oggi si
chiama vita artificiale”, un capitolo di quella che, attualmente, può essere considerata una
manipolazione cognitiva.
Una manipolazione che il Connessionismo riesce a realizzare superando il dualismo mente-corpo,
tipico delle altre correnti cognitiviste, riducendo la mente a cervello.
E’ ovvio che ridurre a termini tecnici ciò che in passato ha assunto nel ‘dualismo gnoseologico’ di
Cartesio una profondità concettuale ed umana è, per me, un paradosso.
Un paradosso che sembra originarsi nella famosa teoria chomskiana e concludersi nel paradigma di
ricerca connessionista. Infatti, come Chomsky ha ridotto la lingua ad un organo mentale a livello
teorico, così il Connessionismo riduce la mente ad un organo cerebrale a livello metodologico.
Logicamente si è tentati di usare il sillogismo aristotelico affermando che: Se la lingua è un organo
mentale, se l’organo mentale è un organo cerebrale, allora la lingua è un organo cerebrale. Ed è
grazie al sillogismo aristotelico che, a mio avviso, emerge il grande merito del Connessionismo
quale è quello di aver indirettamente simulato la teoria chomskiana. Indirettamente, perché
Rumelhart e McClelland (1991) sono riusciti a simulare l’acquisizione del passato dei verbi inglesi
senza mai usare né il concetto di regola, né quello di rappresentazione in quanto non funzionali ad
una ricerca quantitativa, ad una ricerca che è consapevole di manipolare i fenomeni linguistici.
La ricerca può essere sintetizzata sostenendo che la rete neurale, costituita da un certo numero di
unità fra loro collegate da connessioni atte a trasmettere attivazione o inibizione da un’unità
all’altra, dopo essere stata esposta alla coppia presente-passato di uno stesso verbo inglese, offre
delle prestazioni approssimativamente uguali a quelle dei primi enunciati infantili.
In particolare, Rumelhart e McClelland, sin dall’introduzione dell’opera ‘PDP. Microstruttura dei
Processi Cognitivi’, evidenziano che:
“E’ necessario tenere distinto il fatto che il comportamento di un certo sistema può essere descritto
mediante regole, dal fatto che il sistema effettivamente abbia delle regole e il suo comportamento
sia il risultato delle applicazioni di queste regole”(1991:24).
Quindi, il Connessionismo, a differenza della linguistica chomskiana, manifesta la regolarità dei
fatti linguistici e non pretende di riprodurre le regole della competenza linguistica.
Inoltre, per il Connessionismo il concetto di elaborazione in parallelo è inteso in senso meramente
quantitativo, visto che riduce la mente a cervello. Ma, in che modo la mente è ridotta a cervello?
Secondo i connessionisti, come l’organo cerebrale consiste di neuroni collegati fra loro da sinapsi
attraverso cui si trasmettono gli stimoli eccitatori o inibitori per l’elaborazione dei messaggi, così il
sistema connessionista consiste di una serie di unità, “cioè di semplici elementi di elaborazione atti
a trasmettere i segnali eccitatori o inibitori alle altre unità” (Rumelhart e McClelland,1991:39), in
particolare è dalla relazione fra queste unità che, per il modello connessionista, risulta elaborata
l’informazione.
In breve, come giustamente dichiara Parisi: “L’essenziale dei modelli connessionisti è che essi
sono esempi di sistemi dinamici complessi o non lineari, cioè sistemi che fanno emergere le loro
proprietà del comportamento collettivo di un grande numero di unità piuttosto semplici, che hanno
caratteristiche unicamente di tipo fisico (quantitativo) e che interagiscono in parallelo ciascuno con
un grande numero di altre unità in base a principi di interazione che sono a loro volta di natura
puramente fisica(quantitativa). E’ questo in sostanza il significato della formula ‘elaborazione
distribuita in parallelo’(PDP), che caratterizza l’approccio del gruppo guidato da Rumelhart e
McClelland”(1991:12).
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Si nota che, per il suddetto modello, i sistemi sono considerati ‘plastici’ poiché sembrano
modificarsi con l’esperienza, ed in particolare, in base a quanto sostenuto da Parisi “essi nascono
senza conoscenza … e apprendono spontaneamente con l’esperienza trovando progressivamente
quei pesi (…) sulle
connessioni che permettono alla rete di avere le prestazioni
desiderate”(1989:16).
E’ possibile sostenere un altro confronto fra il Connessionismo e la linguistica chomskiana sul
concetto di ‘plasticità’ del sistema. Infatti, alla considerazione connessionista della plasticità del
sistema mentale si può contrapporre quella chomskiana del sistema linguistico. Apprendere una
lingua significa dare i valori appropriati ai parametri della grammatica universale. L’unica grande
differenza è data dalla dichiarata consapevolezza del Connessionismo di quantificare il sistema
mentale rispetto alla inconsapevolezza chomskiana di quantificare il sistema linguistico.
Naturalmente, data la complessità dell’opera, giudicata dagli stessi autori, “difficile ma importante”,
credo giusto accennare ai vantaggi del PDP tramite la sua particolare applicazione allo studio della
percezione del parlato. Secondo l’ottica connessionista, la percezione del parlato risulta determinata
dalla capacità dell’ascoltatore di percepire gli indici da lui usati nell’identificare alcuni fonemi o,
come sostengono McClelland e Elman, nel percepire “quei fonemi che cadono in contesti
differenti”(1991:337).
Infatti, uno dei fattori fondamentali per la percezione del linguaggio è il contesto che precede o
segue qualsiasi fonema costituente gli enunciati verbali, un contesto che, a mio avviso, ha indotto
McClelland ad intitolare la sua conferenza ‘Dimmi con chi vai e ti dirò che fonema sei’(1991:337).
Peccato che dopo dieci anni dalla conferenza, il paradigma del PDP risulta solo capace di dire che
‘fonema potrebbe essere riprodotto’, ed in particolare, risulta incapace di simulare un atto
linguistico o ‘speech act’ per dirla alla Austin.
Per J.L.Austin, l’atto linguistico è “un’unità discreta del discorso delimitata non da fatti linguistici
superficiali ma, da una unità di volontà espressiva”, quindi, da un’unità profonda che si manifesta
nell’uso convenzionale del linguaggio. Immaginare che in futuro il paradigma di ricerca
connessionista riuscirà a simulare non ‘fatti linguistici’ ma ‘atti linguistici’ su calcolatori elettronici
è, per me, già di per sé espressione di una grande evoluzione concettuale prima e metodologica poi,
nel campo della scienza cognitiva.
Concludo questo breve accenno al Connessionismo, convinta che simulare la percezione del flusso
delle parole in cui quotidianamente l’uomo è immerso, non equivale a conoscere ciò che l’uomo è
capace di dire o di ascoltare. E’ interessante sottolineare l’incisiva presenza della ricerca condotta
da Rumelhart e McClelland in una opera di chiara impostazione neochomskiana quale è la recente
edizione di “The Articulate Mammal: An Introduction to Psycholinguistic” della Aitchison.
‘Incisiva’, perché l’autrice sembra concorde con McClelland e Elman nel sostenere che: “I
computers sono stati la metafora per i processi del linguaggio umano nei trascorsi dieci anni, ma,
ancora c’è un difetto fondamentale nella supposizione che la percezione del linguaggio sia portata
in un processo che guarda a tutto come ad un computer digitale” (Elman e McClelland,1984), cioè
un difetto determinato dall’insufficienza epistemologica del computer rispetto alla complessità del
sistema che deve analizzare. Pertanto, l’autrice considera “più forti e più adeguati i modelli di
processo distribuito in parallelo, perché essi sono stati creati per sostituire al computer-metafora, il
cervello-metafora, come modello della mente” (1989:269).
Così, la Aitchison presenta i modelli PDP affermando che per essi il sistema è costituito da semplici
unità che sono distribuite in varie prestazioni. La forza e l’interesse del sistema è la
interconnessione che permette ai segnali eccitatori o inibitori di raggiungere tutte le unità, in modo
tale che l’informazione venga elaborata in parallelo.
In breve, la Aitchison sembra apprezzare ‘il gusto fisiologico’ dei modelli PDP nonostante dichiari
che la loro applicazione all’apprendimento del linguaggio è più controverso.
E’ chiaro che la Aitchison non sottovaluta né i recenti cambiamenti rivoluzionari nello studio delle
attività umane, né la loro possibile influenza nello studio del linguaggio, tanto da paragonare la
psicolinguistica ad “un grande fiume alimentato da altri torrenti”(1989:271).
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Fra i tanti torrenti vi è il Connessionismo che, nella tematica sugli aspetti universali e particolari
del linguaggio, si è rivelato utile per evidenziare ‘la confusa’ impostazione filosofico-scientifica
della teoria chomskiana sulla competenza linguistica.
II.2 IL RECENTE CONTRIBUTO DELLA AITCHISON SUGLI UNIVERSALI LINGUISTICI.
Se si pensa che Chomsky ha espressamente rivalutato Leibniz riducendo poi la lingua ad un organo
mentale allora chiunque ha motivo di sentirsi profondamente confuso.
Una confusione che ha indotto la Aitchison a domandarsi se “Chomsky ha ragione…o se è un
teorico da poltrona che cerca di risolvere i problemi ondeggiando una bacchetta magica classificata
innatezza?”(1989:108). Ebbene, nonostante una seconda edizione di ‘Articulate Mammal’, non
sembra possibile avere una risposta soddisfacente a tale interrogativo. Ma, vediamo in che modo la
Aitchison affronta la tematica degli universali linguistici. Anzitutto, ella presenta un confronto fra
due approcci, originalmente chiamati ‘Cuthbert il contenuto’ e ‘Peggy la processualità’, per poter
spiegare come il bambino acquisisce la propria lingua. L’approccio contenutistico, o ‘Cuthbert’ si
basa sulla presenza di universali prettamente linguistici, mentre quello processuale implica…una
serie di universali che si sovrappone alla capacità di ragionamento e alle altre capacità
cognitive”(1980:135\136).
In pratica, Cutbhert implica che i bambini sono sin dall’inizio provvisti dell’informazione
necessaria per acquisire autonomamente la propria lingua.
Peggy, invece, suppone che il bambino possiede delle ‘strategie’ che inconsciamente applica
durante il corso di acquisizione linguistica. A tal proposito è interessante notare che l’autrice rifiuta
l’approccio contenutistico centrando le sue preferenze su quello processuale. Tale rifiuto deriva da
un suo ‘critico’ giudizio sulla recente formulazione chomskiana della Grammatica Universale.
‘Critico’ perché la Aitchison sostiene che Chomsky ha proposto la grammatica universale come se
“fosse un pannello di comando con i suoi interruttori in posizione neutra”, un pannello insito nella
mente del bambino sin dalla nascita, tanto che la rapidità e l’autonomia dell’acquisizione linguistica
sembrano dipendere dalla facilità di pigiare un interruttore e il sistema linguistico funziona.
La Aitchison dichiara che “o Chomsky sbaglia o che questo particolare interruttore è male
identificato”, ed in particolare, sottolinea che “l’acquisizione del linguaggio è proprio un processo
molto confuso da essere spiegato con un colpo di interruttore”(1989:143).
Per la ricercatrice, Chomsky sbaglia nel suggerire che i bambini sono nati con una conoscenza
linguistica dettagliata che è provocata da una seppur minima esposizione al linguaggio”(1989:163).
In base a quanto accennato, lei sostituisce a ‘Cuthbert il contenuto’ ‘Peggy la processualità’,
poiché quest’ultima affronta il linguaggio come enigma da risolvere tramite i suoi universali, che
devono necessariamente essere correlati con altri aspetti dell’intelligenza.
Sembra che la Aitchison accetti la presenza di ‘strategie operative’ che indirizzano il
comportamento verbale tentando di analizzare tre fattori non linguistici e precisamente: i bisogni
infantili, il loro generale sviluppo mentale e il discorso parentale, per scoprire “cosa motiva il
bambino ad acquisire precocemente la sua lingua madre”. In base ai primi due fattori non linguistici
non risulta possibile spiegare né il motivo per cui nei bambini vi è una sorta di sapere e una facilità
ad imparare nuovi vocaboli, né che lo sviluppo cognitivo precede quello verbale. Infine, l’autrice
analizza il fattore parentale circa la frequenza delle parole brevi o l’intonazione e lo stile con cui i
genitori comunicano con il loro bambino. Ed è, a mio avviso, estremamente interessante notare che:
“Pochi studi hanno dichiarato che, lungi dal fatto che i bambini possiedono un innato meccanismo
per l’apprendimento del linguaggio, le mamme possiedono un innato meccanismo per insegnare la
lingua”(Aitchison,1989:150).
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Ancora, l’autrice è concorde con i sostenitori del ‘fine-tuning’(ipotesi del giusto accordo), ossia che
i “genitori in modo subconscio adottano il loro output (produzione) ai bisogni del loro bambino”,
anche se tutto questo non basta a spiegare la capacità infantile di scegliere i vocaboli da pronunciare
o di codificare quanto è consono alle loro imminenti necessità. In breve, si nota che le acquisizioni
linguistiche non possono essere spiegate unicamente da fattori non linguistici se non in funzione di
‘Peggy la processualità’.
Ma, la possibilità non è la certezza che ciò avvenga, tanto da poter dedurre che i principi operativi,
universalmente presenti nella mente umana, interagiscano con i particolari linguaggi facilitando così
il corso dell’acquisizione linguistica. La Aitchison sostiene che l’idea slobiniana rischia di essere
vaga e fa l’esempio di una grammatica avente un rigido ordine di parole come avviene in inglese.
Ebbene, se si accetta l’ipotesi slobiniana, allora si può sostenere con la ricercatrice che: “Tutti i vari
principi operanti sono in competizione l’uno con l’altro e la struttura linguistica determina quelli
che vinceranno sugli altri”. A mio avviso, l’ipotesi slobiniana ha un raggio di attendibilità maggiore
rispetto all’ipotesi chomskiana, sia perché non pretende che vi sia nella mente umana una
conoscenza della lingua senza la quale il bambino non potrebbe usare le parole in funzione di ciò
che intende comunicare, sia perché sono concorde con Slobin nel sostenere che: “non ci sono dubbi
sul fatto che il processo di acquisizione linguistica richiede una mente infantile abbondantemente
strutturata e attiva”(1973:208).
La struttura di cui parla Slobin non è ovviamente la ‘struttura profonda’ chomskianamente intesa.
Ed è interessante notare che, nonostante la Aitchison parta dall’ottica chomskiana giunge a
dichiarare che: “Il bambino sembra porre attenzione sugli aspetti della struttura superficiale non
cercando strutture profonde” ed ancora, che “non è necessario desumere strutture profonde per poter
parlare”(1989:139).
La Aitchison, a differenza di Chomsky, pur dando priorità alla complessità linguistica non trascura
quella cognitiva, ed in particolare, si manifesta incline ad un critico lavoro interdisciplinare per
scoprire gli aspetti particolari e universali del linguaggio. L’intenzione della ricercatrice sulla
necessità di un lavoro interdisciplinare si manifesta non solo nell’introduzione della sua recente
opera in cui paragona la psicolinguistica alla ‘mitica idra’, ma anche nelle conclusioni, quando
sostiene che “la cooperazione fra le discipline è forse la chiave del progresso futuro nella
psicolinguistica”(1989:267).
A mio avviso, non ‘forse’ ma ‘sicuramente’ l’approccio interdisciplinare è fondamentale in tale
ambito di studi, così come è estremamente utile riferirsi a modelli esplicativi di ricerca per scoprire
la profondità dell’atto linguistico. Si pensi al Modello Olodinamico, formulato da R.Titone,
modello che postula tre livelli operativi insiti nella personalità del comunicante: il livello Tattico
dei processi senso-motori di codificazione e decodificazione, il livello Strategico dei processi
cognitivi di programmazione e controllo della parola, il livello Ego-Dinamico dell’auto-coscienza
del parlante, delle sue dinamiche consce e inconsce di carattere motivazionale e affettivo e della sua
consapevolezza metalinguistica (Pinto - Danesi,1993).
Sono certa che è possibile immaginare la psicolinguistica come “un grande fiume che sta
acquistando crescente velocità quando altri torrenti lo alimentano”(Aitchison,1989:271).
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COMMENTI CONCLUSIVI
Parafrasando la Aitchison, sono convinta che, come la ‘psicolinguistica è un grande fiume
alimentato da altri torrenti’ così ‘l’universale competenza linguistica è un grande oceano alimentato
da tanti diversi fiumi di parole’. Fiumi di parole che abbondano di significati diversi, che hanno
origini diverse e percorsi diversi per poi confluire nel medesimo oceano, quale è l’universale
competenza linguistica.
E’ interessante constatare che il tema degli aspetti universali e particolari del linguaggio ha attratto
l’attenzione non solo di linguisti, ma anche di filosofi, psicologi, etnologi, sociologi e di tutti coloro
che si interessano delle facoltà umane.
Naturalmente, data la vastità dell’argomento e l’incisività delle ricerche sinora accennate, credo
giusto concludere il presente saggio sugli aspetti universali e particolari del linguaggio con un
accenno alla filosofia. La scelta della filosofia è motivata da una lacuna riscontrata nelle recenti
ricerche chomskiane e nel Connessionismo, quale è il pretendere di studiare la lingua in termini di
‘fatti linguistici’ anziché di ‘atti linguistici’. L’atto linguistico, austinianamente inteso, offre
un’immagine dell’uomo che compie atti di volontà durante la comunicazione. Un’immagine che
diventa realtà, tramite la quotidiana constatazione che l’uomo usa le parole in base a ciò che intende
comunicare. Se si osserva un bambino prima ed un uomo dopo, si evidenzia questa caratteristica
universale del linguaggio umano: la sua valenza umana. Una valenza che ho notato mancare durante
la trattazione degli aspetti universali e particolari del linguaggio da parte della ‘cosiddetta’
rivoluzione chomskiana sino alla rivoluzione connessionista . ‘Cosiddetta’, perché ho constatato
che, fino a quando Chomsky ha definito il linguaggio un ‘epifenomeno’ e non un ‘fenomeno’ degli
universali linguistici, ha eliminato le fondamenta della competenza linguistica, ossia la possibilità di
diventare , tramite le parole, competenza comunicativa.
La competenza comunicativa è, giustamente considerata da Hymes(1972), “la capacità del parlante
di avvalersi appropriatamente della sua competenza linguistica verbale e non verbale, tenendo conto
non solo della correttezza grammaticale ma, anche, del contesto in cui si verifica”. Infatti, è
dall’analisi del contesto, che Greenberg prima e Slobin dopo, così come, è dall’analisi del contesto
raffigurato nella torre di Babele con Eco e immaginato culturalmente con Bruner, che sono emerse
le attitudini universali insite nelle diversità linguistiche.
A mio avviso è solo dal confronto fra le diverse grammatiche, fra le diverse culture che è possibile
scoprire la profondità degli universali linguistici. Gli universali che, sicuramente, motivati dalla
‘spinta narrativa’, per dirla alla Bruner si manifestano in una ‘confusio linguarum’ intesa come
‘multae et variae linguae’, tanto da poter simbolizzare nella mitica Torre di Babele quello che, per
me, è il principio della diversità che crea l’unità, e non necessariamente il contrario. Ed è proprio
dalla rivalutazione della Torre di Babele che è possibile rivalutare l’attualità della mentalità
dantesca nel sostenere che: “Mentre la facoltà del linguaggio è permanente e immutabile per tutti i
membri della specie, storicamente mutevoli sono le lingue naturali capaci di crescere
indipendentemente dalla volontà dei singoli parlanti”(Eco,1994:45).
La lingua è la storia dell’uomo, è la storia del popolo; una storia, per me, basata su una continua
lotta per la sopravvivenza, su una continua opposizione fra vincitori e vinti. La genesi linguistica,
emersa nel corso della trattazione degli aspetti universali e particolari del linguaggio, sembra
chiaramente rispecchiare la genesi della specie umana.
In particolare, dalle ricerche tipologiche sul cambiamento linguistico e da quelle etnolinguistiche, è
chiaramente evidente che le lingue, attualmente presenti, sono quelle che hanno affrontato dei
‘cambiamenti radicali’ durante la loro genesi per poter sopravvivere.
‘Quei cambiamenti radicali’ che, dalle ricerche di psicolinguistica infantile, sono risultati
fondamentali per il processo di acquisizione linguistica; da quanto detto sinora deriva la mia
particolare attenzione al Modello Competitivo in termini di un particolare approccio della teoria
darwiniana nello studio della lingua.
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Particolare, perché la competizione che MacWhinney pone fra le parole durante il processo di
codifica e decodifica dei messaggi verbali rispecchia la competizione che Darwin poneva fra le
diverse lingue nella sua opera intitolata ‘L’origine dell’uomo’.
In quest’opera si legge che: “Le lingue e i dialetti dominanti si sparsero largamente e furono causa
della graduata estensione di altre lingue…La stessa lingua non ha due patrie. Linguaggi distinti
possono incrociarsi e confondersi insieme. Noi osserviamo che ogni lingua varia sempre e, nuovi
vocaboli si formano continuamente; ma, siccome vi è un limite alla potenza della memoria, certi
vocaboli isolati come certi linguaggi interi vanno gradatamente estinguendosi. Come osserva Max
Muller: “Ferve una continua lotta per la vita fra i vocaboli di tutte le lingue. Le forme migliori, più
brevi, più facili, acquistano sempre maggiore credito. Il sopravvivere o il conservarsi di certi
vocaboli fortunati nella lotta per l’esistenza è scelta naturale”(1925:40).
Sono convinta che come ‘la continua lotta fra i vocaboli’ di cui parlava C.Darwin nel secolo scorso
sia stata adeguatamente descritta da MacWhinney, così la presenza dei diversi linguaggi potrebbe
essere intesa come ‘una scelta naturale’ della universale competenza linguistica. Ancora, la
considerazione darwiniana che ‘la stessa lingua non ha due patrie. Linguaggi distinti possono
incrociarsi e confondersi insieme’ può essere paragonata alla considerazione saussurriana che
l’universale e il particolare linguistico altro non sono che ‘due facce della stessa medaglia’, la cui
aurea circonferenza, che delimita gli aspetti universali e particolari del linguaggio, sembra essere la
‘facoltà metalinguistica’, capace di manifestarsi sia nel comunicare sulla comunicazione che nel
comunicare senza parole.Si potrebbe immaginare tale facoltà metalinguistica come il soffio che
alita la genialità della competenza comunicativa nella pluralità delle lingue in cui prende forma o
‘habitudo’, per usare la terminologia leibniziana. Comunque, nonostante l’ampia bibliografia sul
tema trattato, ho constatato che il limite fra l’aspetto universale e quello particolare è labile. ‘Labile’
perché è, a mio avviso, difficile se non impossibile raggiungere l’universale senza esplorare il
particolare e, viceversa.
Da ciò deriva il mio apprezzamento per la teoria saussuriana, ed in particolare a quando Saussurre
affermava che “il linguaggio è riducibile a cinque o sei opposizioni o paia di cose”. Infatti,
parafrasando Saussurre, sono certa di poter affermare che “lo studio degli aspetti universali e
particolari è riducibile a cinque o sei opposizioni”. Si pensi all’opposizione fra la teoria chomskiana
e quella greenberghiana, fra la teoria psicolinguistica e quella cognitivista che, a mio avviso,
derivano dalla filosofica opposizione fra l’innatismo e l’empirismo.
Una opposizione che, filosoficamente , ha diviso il sistema umano in ‘essere’ e ‘avere’ e che,
psicolinguisticamente, ha diviso il sistema linguistico in
‘langue’ e ‘parole’, per dirla alla
Saussurre. In conclusione, sembra si possa dire che, come in matematica gli opposti si attraggono,
così in psicolinguistica, le opposte teorie sono attratte dall’affascinante ricerca degli aspetti
universali e particolari del linguaggio.
Affascinante perché, conoscere ciò che unifica e diversifica le varie lingue presenti nel mondo,
implica la conoscenza di quello che, per me, è l’arte del parlare.
Un’arte, che l’uomo è geneticamente predisposto ad acquisire, un’arte senza la quale non potrebbe
vivere ma che, se usata male, potrebbe anche farlo sopravvivere.
Sopravvivere se si pensa all’opera di Claude Hagegé ‘The Language Builder’ in cui “gli umani
sono definiti costruttori di lingue…che lasciano dappertutto la loro firma, anche se in molti casi lo
fanno inconsciamente”(1993:IX-X).
Un altro aspetto universale dell’arte del parlare è, per chi scrive, fermare firmandosi, il proprio
comportamento linguistico, il proprio DNA della personalità.
Da quanto detto, reputo necessario che l’uomo apprenda la forma migliore per tentare di essere e,
al contempo, ricerchi il modo forse perfetto di comunicare: “Il silenzio”. Il silenzio che, in alcuni
casi, vale più di mille parole, ed è sicuramente l’aspetto universale del linguaggio presente in tutti
gli esseri viventi.
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