UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO GIURISPRUDENZA
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
DIRITTO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI ED ESECUTIVE
CICLO XXV
TITOLO DELLA TESI
LA TUTELA DEI TERZI NELLE SOLUZIONI NEGOZIATE DELLA
CRISI D’IMPRESA
TUTOR
Chiar.mo Prof. Maurizio Sciuto
DOTTORANDO
Dott. Riccardo Fava
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Romolo Donzelli
ANNO 2013
I
INDICE
Introduzione
1
CAPITOLO I
GLI EFFETTI VERSO I TERZI NELLE SOLUZIONI NEGOZIALI
DELLA CRISI D’IMPRESA.
SEZIONE I - GLI EFFETTI VERSO TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO
1. Il principio di maggioranza e l’assoggettamento della minoranza assente o
dissenziente alla proposta di concordato: dall’eterotutela agli oneri informativi per i
creditori.
4
1.1 I limiti strutturali del procedimento deliberativo per un’esclusiva autotutela
dei creditori.
2.
15
Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione: l’atipicità della proposta
e i dubbi sulla determinabilità e liceità degli effetti
3.
21
Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologa: il pregiudizio alla garanzia
patrimoniale e il limite di una interpretazione formale dell’art. 67, comma. 3°, lett. e)
l. fall. Cenni e Rinvio.
28
SEZIONE II – GLI EFFETTI VERSO TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE
4.
La conclusione dell’accordo con la maggioranza dei crediti e il requisito
dell’idoneità a rimuovere l’insolvenza quale condizione di efficacia verso i terzi.
5.
Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione
dell’accordo di ristrutturazione: l’inapplicabilità dell’art. 184 l.fall.
6.
37
45
Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo
di ristrutturazione: il limite soggettivo e oggettivo all’esenzione dalla revocatoria.
49
CAPITOLO II
LA TUTELA DEI TERZI NEI GIUDIZI DI OMOLOGAZIONE.
SEZIONE I - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NEL CONCORDATO
PREVENTIVO
1.
Premessa e traiettoria dell’indagine.
57
II
2.
La struttura del giudizio del giudizio di omologazione: il rinvio al procedimento
in camera di consiglio.
59
2.1. I mezzi d’impugnazione del decreto: il reclamo alla Corte d’appello.
68
2.2. Le implicazioni sistematiche della cognizione sommaria: l’inidoneità
al giudicato formale del decreto.
3.
73
L’oggetto del giudizio di omologazione: l’assenza di un accertamento giurisdizionale
dei diritti soggettivi interessati dagli effetti del provvedimento di omologazione.
78
3.1. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla previgente disciplina delle opposizioni 81
3.2. Le conferme ricostruttive offerte dalla nuova disciplina delle opposizioni.
4.
89
La natura del giudizio di omologazione: le implicazioni sistematiche derivanti
dalla struttura e dall’oggetto. Il problema della tutela dei terzi.
5.
93
Il sindacato giurisdizionale tra «regolarità della procedura» e «convenienza
della proposta»: dicotomia e polarità.
102
5.1. I limiti posti alla libertà negoziale dell’imprenditore.
108
5.2. L’estensione degli effetti ultra partes: gli effetti favorevoli nell’interesse
dei terzi.
112
5.3. Il negozio sulla crisi d’impresa con effetti favorevoli ai terzi:
il vantaggio economico nella logica della c.d. privatizzazione della crisi
d’impresa.
6.
118
Il «rifiuto» degli effetti favorevoli da parte dei c.d. terzi-creditori: gli strumenti
di contestazione dell’«accertamento» giurisdizionale.
125
6.1. L’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso il decreto di omologazione:
il limite dell’accertamento prognostico e dell’inidoneità al giudicato formale. 126
SEZIONE II - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NELL’ACCORDO DI
RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
7.
La struttura del giudizio di omologazione: la ricostruzione della disciplina.
135
8.
7.1. Le opposizioni all’omologazione.
L’oggetto e la natura del giudizio di omologazione.
139
140
9.
Il sindacato giurisdizionale: l’«attuabilità» degli impegni assunti e l’«idoneità»
a garantire l’adempimento dei terzi creditori.
10. Gli strumenti di tutela dei terzi incisi dal provvedimento di omologa: il problema
della stabilità dell’accordo.
142
145
CAPITOLO III
LA TUTELA DEI TERZI NELLA FASE ESECUTIVA.
III
SEZIONE I - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI DIRETTI: LE AZIONI NEGOZIALI
1.
Premessa metodologica e traiettoria dell’indagine.
2.
L’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa: il problema del coordinamento
3.
delle nuove disposizioni positive e la necessità di una ricostruzione in chiave
sistematica della relativa disciplina.
2.1. Il ruolo degli organi della procedura: il coordinamento delle disposizioni.
2.2. Il potere di segnalazione del commissario giudiziale: la spia semantica per
una etero tutela dei creditori.
L’autotutela delle parti. I c.d. «vizi funzionali» del negozio sulla crisi d’impresa:
161
4.
l’inadempimento e l’azione di risoluzione.
3.1. I vizi genetici del negozio sulla crisi d’impresa: il dolo e l’azione
di annullamento.
Gli effetti sostanziali della risoluzione e dell’annullamento.
5.
Il procedimento e la richiesta di fallimento: gli effetti riflessi. Cenni e rinvio.
172
148
148
156
159
170
171
SEZIONE II - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI RIFLESSI: L’INDIVIDUAZIONE DEL RIMEDIO
6.
La deroga al principio (concorsuale) della ripartizione del ricavato nell’eguale
proporzione e nell’uguale condizione tra i creditori: gli effetti riflessi e la loro
giustificazione sistematica.
6.1. L’assenza di un controllo preventivo sugli atti esecutivi e il problema del
174
184
7.
vantaggio informativo durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziate:
il possibile «abuso» degli effetti riflessi.
Le conseguenze dell’«abuso»: il pregiudizio per i c.d. «terzi - creditori» della
8.
fase esecutiva.
194
La tutela dei c.d. «terzi - creditori» della fase esecutiva: la necessità di un preventivo
giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi.
L’oggetto del giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi:
197
9.
le sopravvenienze fattuali nell’ottica degli effetti riflessi.
9.1. L’incapacità del piano a risolvere la crisi: l’impossibilità di giungere
200
ad una risoluzione anticipata a tutela dell’interesse dei creditori.
10. La struttura del giudizio: l’ammissibilità del revoca del decreto di omologazione.
205
211
10.1. I motivi che potrebbero condurre alla revoca del decreto di
omologazione: il «difetto funzionale» del negozio.
214
10.2. La legittimazione ad agire del curatore fallimentare: la riaffermazione della
possibilità giuridica di agire con l’azione revocatoria e la limitata efficacia del
rimedio.
218
Bibliografia
222
IV
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà,
violenta il suo stesso talento e dà più valore ai
problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi
dell’incompetenza. L’ inconveniente delle persone e
delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie
di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la
vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non
c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di
ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi
brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e
tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece,
lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con
l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler
lottare per superarla.
Albert Einstein
5
Introduzione
Con il decreto legge 35 del 2005 convertito con modificazioni dalla legge
80 del 2005, ha preso avvio la tormentata stagione di riforme della legge
fallimentare. Nel corso del tempo, infatti, si sono succeduti diversi interventi
legislativi, segnatamente e nell’ordine, il d.lgs. 5 del 2006 recante la c.d.
riforma organica delle procedure concorsuali; il d. lgs. 169 del 2007, c.d.
«decreto-correttivo della riforma organica»; il d.l. 78 del 2010 convertito
con modificazioni nella legge 122 del 2010 che ha apportato modifiche in
prevalenza alla disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art.
182 – bis l. fall. e alla c.d. «nuova finanza»; infine, il recente intervento ad
opera del d.l. n. 83 del 2012 convertito con modificazioni nella legge 7
agosto 2012 n. 134 con cui è stata ulteriormente modificata la disciplina del
concordato preventivo.
Tali interventi hanno ridisegnato profondamente la fisionomia del
tradizionale sistema fallimentare - tradizionalmente connotato della c.d.
eterotutela degli interessi dei creditori - attribuendo allo stesso una spiccata
vocazione alla risoluzione negoziale della crisi d’impresa.
Si è inteso fondare la ricerca della migliore soddisfazione dei creditori non
più sulla logica del procedimento giurisdizional-pubblicistico, bensì sulla
logica dell’accordo di matrice contrattual-privatistica, conservando, però, la
tradizionale efficacia autoritativa erga omnes ricollegata provvedimento
conclusivo del procedimento, il quale sancisce ora anche la nascita del c.d.
«negozio sulla crisi d’impresa».
In questa sede verrà pertanto affrontato il problema della tutela dei creditori
non aderenti alla proposta di concordato preventivo o a quella di accordo di
ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall. (ove poi omologati).
1
Ciò verrà compiuto innanzitutto nella consapevolezza della dialettica degli
interessi in gioco e della portata degli effetti sui creditori delle predette
soluzioni negoziate della crisi d’impresa. E ciò sia nei profili comuni che in
quelli, più specifici, che si differenziano in relazione al concordato
preventivo (obbligatorietà della proposta per i creditori dissenzienti, con i
noti limiti all’invocabilità del giudizio di convenienza, c.d. best interest test)
o agli accordi di ristrutturazione (effetti “riflessi” sui cd “creditori-terzi”,
pur destinatari – ma solo in principio – di un pagamento integrale).
L’approccio complessivo alla problematica e alla conseguente ricerca di
soluzioni sarà affrontato con una particolare sensibilità dettata dall’esigenza
di prevenire l’abuso degli strumenti concordatari previsti dalla legge
fallimentare.
In questa prospettiva mediante l’uso di metodologie che si avvalgono
dell’integrazione sistematica, tendenti a valorizzare taluni profili della
disciplina concorsuale, ricorrendo anche ad istituti tratti dal diritto generale
dei contratti o del processo civile, si cercherà di superare le risultanze dei
dati puramente letterali della legge fallimentare.
Così, ad esempio, è la proposta di una ridefinizione dell’ampiezza del
sindacato giurisdizionale, volto ad eccertare, al di là dei più noti ed
indiscussi profili di ammissibilità della proposta e della sua successiva
omologabilità, anche quello (invero non testualmente previsto dalla legge)
di una sua intrinseca vantaggiosità per i creditori.
Un sindacato che – senza polarizzarsi sui livelli estremi del controllo di
mera regolarità o, sul versante opposto, del controllo di convenienza –
dovrebbe piuttosto incaricarsi di valutare anche una complessiva
vantaggiosità della ristrutturazione dei debiti proposta ai creditori: tale
almeno dovendo ritenersi la funzione intriseca degli istituti esaminati, anche
poi, in una prospettiva negozialistica, anche approssimandosi la proposta
2
approvata da una parte soltanto dei creditori a quella del contratto a favore
di terzi (o, quantomeno, “nell’interesse dei terzi”).
Similmente, ma con riferimento alla fase esecutiva del piano (concordatario
o ex art. 182 – bis l. fall.) omologato, si avrà invece cura di portare in
evidenza il problema nascente dal rischio di atti (pagamenti, impegni o
costituzione di garanzie) preferenziali da parte del debitore che possano
eventualmente godere, in un fallimento consecutivo, di un’ingiusta
esenzione dalla revocatoria fallimentare (art. 67, comma 2, lett. e) l. fall.).
Sempre nella ricerca di una tutela dei “creditori terzi” nell’ambito della fase
esecutiva del piano omologato, infine, si cercherà di avanzare una soluzione
interpretativa attingendo alla revoca dei provvedimenti di volontaria
giurisdizione, nel senso di considerare revocabile anche il provvedimento di
omologazione di concordato preventivo o di accordo ex art. 182 – bis l.fall.
qualora emergesse – sulla base di circostanze non solo sopravvenute ma
anche preesistenti e però note o apprezzate ex post – che il piano omologato
non potesse ritenersi, ab origine, ammissibile. E ciò, allora, con efficacia ex
tunc, precludendo gli effetti protettivi (soprattutto in punto di esenzione da
azione revocatoria fallimentare) altrimenti connessi al piano omologato
seppure annullato o risolto.
Lo scopo ultimo dell’indagine sarà comunque quello risaltare la costante
commistione fra i profili sostanziali e processuali del tradizionale diritto
fallimentare che, a seguito delle recenti riforme, possono riscontrarsi
nell’ambito delle nuove soluzioni negoziate della crisi d’impresa. Più
precisamente, come da tale commistione sia possibile ricavare un autonomo
e moderno «diritto della crisi d’impresa».
3
CAPITOLO I
GLI EFFETTI VERSO I TERZI NELLE SOLUZIONI NEGOZIALI
DELLA CRISI D’IMPRESA.
SOMMARIO: SEZIONE I. – GLI EFFETTI VERSO TERZI NEL CONCORDATO
PREVENTIVO - 1. Il principio di maggioranza e l’assoggettamento della
minoranza assente o dissenziente alla proposta di concordato:
dall’eterotutela agli oneri informativi per i creditori. – 1.1. I limiti
strutturali del procedimento deliberativo per un’esclusiva autotutela dei
creditori. - 2. Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione:
l’atipicità della proposta e i dubbi sulla determinatezza e liceità degli
effetti – 3. Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologa: il
pregiudizio alla garanzia patrimoniale e il limite all’esenzione dalla
revocatoria. – SEZIONE II. – GLI EFFETTI VERSO TERZI NELL’ACCORDO DI
RISTRUTTURAZIONE. – 4. La conclusione dell’accordo con la
maggioranza dei crediti e il requisito dell’idoneità a rimuovere
l’insolvenza quale condizione di efficacia verso i terzi. – 5. Gli effetti
diretti ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione: l’inapplicabilità dell’art. 184 l.fall. – 6. Gli effetti
riflessi ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione: il limite soggettivo e oggettivo all’esenzione dalla
revocatoria.
SEZIONE I
GLI EFFETTI VERSO I TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO
1.- L’imprenditore in «crisi», mediante ricorso al Tribunale del luogo in
cui ha sede l’attività commerciale, può sottoporre all’approvazione dei
propri creditori una «ristrutturazione dei debiti», al fine di giungere ad una
risoluzione negoziale della crisi. Tale proposta, conformemente al disposto
del nuovo art. 177 l. fall., dovrà raccogliere - almeno - il voto favorevole
della maggioranza dei crediti ammessi al voto, ovvero, nel caso in cui il
debitore si avvalga della facoltà di suddividere i creditori in classi, occorrerà
4
sia la maggioranza dei crediti ammessi al voto, sia delle classi stesse.
L’approvazione del concordato preventivo, anche a seguito delle recenti
riforme, resta quindi regolata dal principio maggioritario (1).
La disciplina originaria prescriveva tuttavia una doppia maggioranza. Per
l'approvazione del concordato, infatti, occorreva che la proposta ricevesse il
voto favorevole dei creditori votanti, i quali avrebbero dovuto rappresentare
i due terzi della totalità dei crediti ammessi al voto. Legittimati al voto erano
(e in sostanza restano ancora oggi) tutti i creditori chirografari per titolo o
causa anteriore al decreto di ammissione alla procedura indipendentemente
dall’esigibilità del credito.
L’applicazione del principio maggioritario nel concordato preventivo ha
da sempre esercitato un fascino tutto particolare fra gli studiosi del diritto
fallimentare (2). L’attenzione di questi si è concentrata sull’assoggettamento
dei creditori assenti o dissenzienti alla volontà della maggioranza (3).
Il fenomeno in questione è stato tradizionalmente ricondotto nelle ipotesi
in cui l’ordinamento civile consente che una dichiarazione di volontà inter
alios acta possa produrre effetti anche verso soggetti estranei e contrari ad
1
G. Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le
maggioranze richieste dalla nuova disciplina, in Fall. 2005, 1215, il quale fa notare che
l’eliminazione della maggioranza numerica costituisce un rafforzamento dei creditori più
forti; v. anche: M. Sandulli, Sub art. 177, in A. Nigro – M- Sandulli, La riforma della legge
fallimentare, Torino, 2006, 1061 ss.
2
R. Sacchi, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione
controllata, Milano, 1984, passim ; E. Frascaroli Santi, L’adunanza dei creditori e la
votazione nei procedimenti concorsuali (Aspetti sostanziali e processuali), Padova, 1989,
passim; F. D’Alessandro, Sui poteri della maggioranza del ceto creditorio e su alcuni loro
limiti, in Fall. 1990, 189.
3
In tema per tutti cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja
– Branca. Legge fallimentare, Bologna – Roma, 1976, a cura di F. Bricola – F. Galgano –
G. Santini, art. 160 – 186, 135; di recente, invece, in chiave fortemente critica v. A. Gentili,
Autonomia privata ed effetti ultra vires nell’accettazione del concordato, in Giur. comm.
2007, I, 349, spec. 357 ove l’A. afferma che la ratio della norma sull’estensione degli
effetti ai creditori di minoranza ‹‹appare piuttosto oscura››, dal momento che: ‹‹rischia di
apparire eccezionale ed irrazionale in due opposti sensi: per un verso come forzatura della
libertà ed autonomia dei creditori dissenzienti, e per l’opposto verso come inutile
rafforzativo del criterio maggioranza e dei suoi naturali effetti estensivi sulla minoranza››.
5
essa (4).
Più precisamente, il creditore assente o dissenziente alla proposta di
concordato è stato annoverato nella categoria dei c.d. «terzi» [rispetto alla
deliberazione] con posizione giuridica subordinata a quella delle parti [di
tale deliberazione] che dispongono per loro (5).
4
E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato Vassalli vol. XV, tomo 2,
Roma, 1953, 264 ss. spec. 269 – 271.
5
E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 261, e 265 e ss ove l’A. definisce il
“terzo” non come colui che è estraneo rispetto all’atto, ma agli interessi dedotti nel
rapporto, più precisamente: ‹‹Un negozio giuridico può, per sua destinazione oppure in via
riflessa e accidentale, avere rilevanza giuridica e produrre effetti anche in capo a persona
diversa dalle parti. [...] La problematica della posizione di terzo nella teoria del negozio può
attingere lumi e direttive, qui come a proposito della legittimazione, alla più elaborata
problematica della posizione dei terzi nella teoria del processo. È dato così di approfondire
la nozione di “terzo” sulla scorta di un criterio che alla realtà degli interessi in gioco, che
aderisce più strettamente del criterio formale, per cui si qualifica terzo a questa stregua
chiunque sia estraneo al negozio in discussione. È da qualificare terzo a questa stregua chi
sia estraneo non solo al negozio, ma anche al rapporto giuridico che da esso costituito,
modificato, estinto. Chi, pur non avendo cooperato a porre in essere la fattispecie del
negozio (neanche con preventiva autorizzazione o con conseguente adesione), è soggetto di
codesto rapporto giuridico, e pertanto destinato a risentire direttamente gli effetti del
negozio, non va qualificato terzo, ma parte. [...] Si possono, dunque, distinguere: a) le parti
del rapporto (anche se estranee al negozio); b) terzi partecipi dell’interesse, ma estranei al
negozio, la cui posizione giuridica è subordinata a quella della parte; c) terzi interessati, la
cui posizione giuridica è indipendente e incompatibile con gli effetti del negozio; d) terzi
normalmente indifferenti, la cui posizione giuridica è compatibile, ma che sono legittimati a
reagire quando risentono un illecito pregiudizio dagli effetti del negozio››; l’A. citato
riconduce nell’ipotesi a) la figura del contratto a favore di terzi ex art. 1411 c.c. dal
momento che in tale figura contrattuale, secondo questo A. «gli effetti che il negozio
produce pel terzo sono effetti essenziali e pertanto diretti, laddove in altre ipotesi il negozio
produce in confronto di terzi effetti solo indiretti, non riferibili alla destinazione del
negozio, e non necessariamente connessi alla normale previsione delle parti. Ciò significa
che là il terzo avvantaggiato diviene in un certo modo parte del rapporto d’obbligazione
costituito col negozio a suo favore»; l’ipotesi b), invece, si caratterizza perché si ha «Un
trattamento che è, per così dire, l’inverso di questo, [e che] si ha quando il soggetto del
rapporto è trattato come un terzo con posizione giuridica subordinata a quella della parte
che dispone per lui. Questo fenomeno di subordinazione della posizione giuridica di chi ancorché estraneo al negozio o alla delibera di assemblea - è tuttavia parte del rapporto, o
del complesso di rapporti in discussione, si verifica in una forma di notevole importanza nei
casi in cui la legge organizza una posizione di competenza collettiva (dei partecipanti) per
la tutela di una comunione d’interessi. In tali comunioni, la legge dispone che le
deliberazioni prese dalla maggioranza degli interessati sono impegnative per gli altri
interessati: questi, invero, pur essendo estranei alla deliberazione (assenti, o dissenzienti),
non sono estranei rispetto all’interesse di cui si tratta (terzi indifferenti), ritenendosi la
maggioranza fornita di legittimazione ad agire nell’interesse della totalità degli interessati»
e tale fenomeno si realizzerebbe anche nella collettività dei creditori del concordato
preventivo; la posizione è ripresa da A. M. Azzaro, Concordato preventivo, principio
6
I creditori di minoranza vengono infatti vincolati alla proposta del
debitore e subiscono gli effetti pregiudizievoli nella loro situazione giuridica
soggettiva, sia nel caso in cui non abbiano manifestato alcuna volontà, sia
che abbiano manifestato una volontà in senso contrario.
L’efficacia in parola ha costituito il principale ostacolo ad ogni
riconduzione del concordato preventivo nell’alveo della categoria del
contratto (6). Tutte le teorie sulla natura contrattual-privatistica del
concordato preventivo, infatti, non sono mai stata in grado di spiegare
appieno il motivo per cui i creditori di maggioranza potessero
legittimamente disporre anche dei diritti patrimoniali della minoranza (7).
maggioritario e classi di creditori, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e
crisi d’impresa, Milano, 2012, 556.
6
V. Roppo, Contratto, in Dig. sez. civ. IV, Torino, 1989, 96.
7
Sulla natura contrattuale del concordato preventivo prima della legge del ’42 e in
particolare sul significato dell’intervento del giudice nella formazione dell’accordo tra
debitore e creditore v. la classica trattazione di A. Rocco, Il concordato nel fallimento e
prima del fallimento. Trattato teorico pratico. Torino, 1902, 36 ss; sulla difficoltà di
argomentare l’estensione del concordato anche ai creditori dissenzienti e assenti v. F.
Carnelutti, Sui poteri del tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo, in
Riv. dir. proc. 1924, I, 65 secondo cui: ‹‹il concordato è sostanzialmente un contratto
conchiuso tra il debitore e una determinata maggioranza dei creditori, con effetti obbligatori
anche per i creditori dissenzienti. In vista di questa sua efficacia anomala e pericolosa, la
legge vuole che codesti effetti non si dispieghino se alcuni requisiti non sono stati
controllati dal Tribunale››; v. anche T. Ascarelli, Sulla natura dell’attività del giudice
nell’omologazione del concordato, in Dir. proc. civ. 1928, I, 228 per il quale il giudice non
è: ‹‹chiamato a dichiarare della obbligatorietà nei confronti di detta minoranza, ma è
chiamato a riconoscere, ispirandosi ad un pubblico interesse, l’esistenza di determinate
condizioni perché questa obbligatorietà sia operativa così nei confronti della minoranza
come in quelli della maggioranza›; v. anche le considerazioni ed i paragoni con il
concordato fallimentare e le società di: A. Candian, Il processo di concordato preventivo,
Padova, 1937, secondo cui: ‹‹Aggiungevo che il voto dell’assemblea non può avere
l’efficacia di deliberare la chiusura per concordato del processo di fallimento, perché questo
vorrebbe dire che quel voto può disporre, contro la volontà della minoranza, del diritto di
azione esecutiva pertinente a ciascuno dei creditori, diritto di azione esecutiva il cui
esercizio ha potuto essere temporaneamente sospeso per virtù del provvedimento del
giudice (sentenza dichiarativa del fallimento o di apertura del concordato) ma che in base al
concordato sarebbe definitivamente limitato dal complesso delle clausole relative. Ora, una
simile espansione del principio maggioritario, per cui la maggioranza potrebbe espropriare i
componenti della minoranza del diritto d’azione, non è conforme al nostro diritto positivo:
valga il pensare che in tema di comunione il potere della maggioranza non va oltre il limite
segnato dall’art. 678 c.c. (amministrazione e migliore godimento della cosa comune); che in
tema di società commerciali è bensì vero che maggioranze qualificate possono prendere
deliberazioni contraddicenti le clausole dello statuto, cioè aventi, sotto l’aspetto della
7
Come noto, il diritto privato dei contratti si fonda su una rigorosa tutela
dell’autonomia individuale. È principio fondamentale dell’autonomia
privata che nessuno può essere pregiudicato da un contratto se non in forza
della propria volontà liberamente manifestata (art. 1372 c.c.).
Proprio la difficoltà di coniugare l’adozione del principio maggioritario
con il diritto dei contratti ha indotto taluni studiosi ad affermare la natura
processual-pubblicistica dell’istituto in questione. Si è, cioè, sostenuto che
la procedura di concordato preventivo, per esigenze superindividuali,
permetteva al c.d. «imprenditore meritevole» di regolare la propria crisi
derogando ai principi del diritto contrattuale (8). Secondo tale ricostruzione,
i creditori di minoranza (perché assenti o dissenzienti) venivao vincolati
alla proposta approvata dalla maggioranza in forza del provvedimento di
omologazione emesso dal giudice (9).
La teoria in parola inizia a svilupparsi soprattutto a seguito della
disciplina introdotta nella legge fallimentare del 1942 (10).
limitazione del diritto soggettivo, affinità di struttura con la sentenza di concordato, ma i
componenti della minoranza sono presidiati da quel meccanismo di compensazione che è il
diritto di recesso; e via dicendo.››.
8
Per la natura del concordato preventivo come processo giurisdizionale contenzioso
prima della legge del ’42 v. F. Bonelli, Fallimento, Milano, 1938, 434; G. Mussafia, Natura
del processo di concordato preventivo, in Riv. dir. proc. civ. 1938, I, 235; per la natura del
concordato preventivo come processo di esecuzione forzata v. invece: A. Candian, Il
concordato preventivo come processo di esecuzione forzata, in Riv. dir. comm. 1936, I, 39;
Id. Il processo di concordato preventivo, Padova, 1937, 21; M. Ghidini, Oggetto del
concordato preventivo, contenuto e natura del decreto di ammissione e della sentenza di
omologazione, in Riv. dir. proc. civ. 1940, I, 90 ss.
9
Anche di recente la tesi della natura pubblicistica del concordato preventivo è stata
ribadita, in particolare si è affermato che la sentenza di omologazione del concordato
produce l’espropriazione del diritto dei creditori a vantaggio della collettività in modo tale
da dirimere il conflitto di interessi tra il debitore concordatario inadempiente e la pretesa
dei creditori ad essere soddisfatti: G. Rago, Il concordato preventivo dalla domanda
all’omologazione, Padova, 1998, 3 ss; G.U. Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare,
Padova, 2001, 636 e spec. 719.
10
Dopo l’entrata in vigore della legge del ’42 gli orientamenti si sono, in realtà, ancor
più differenziati: per la teoria pubblicistica e sugli interessi tutelati nel corso della
procedura v. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, IV, 1974, 2210 ss; G.
Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974 743 ss; mentre per un ampio
riesame delle varie teorie processuali v. A. Bonsignori, Concordato fallimentare, in
Commentario Scialoja – Branca, Bologna – Roma 1977, 135; per i sostenitori della teoria
8
All’imprenditore meritevole ed insolvente era infatti accordata la
possibilità di concludere un accordo con la maggioranza qualificata dei
crediti e dei creditori, il quale, per effetto della sentenza di omologazione,
sarebbe stato vincolante anche per la minoranza dei creditori assenti,
dissenzienti e non a conoscenza del concordato (11).
L’estensione del vincolo poteva avvenire anche nell’ipotesi in cui nel
procedimento deliberativo fosse mancata un’effettiva collegialità dei
creditori (i.e. non tutti i creditori dell’imprenditore erano stati portati a
conoscenza del procedimento giurisdizionale) e fosse mancato un effettivo
interesse comune fra gli stessi (12).
Per “compensare” tale rischio il legislatore del ’42 aveva attribuito
all’autorità giudiziaria ampi poteri di sindacato sulla proposta del debitore.
Nella fase di ammissione, infatti, il Tribunale aveva il
compito di
verificare se la proposta presentasse le condizioni prescritte dalla previgente
disciplina dell’art. 160 l. fall., vale a dire, oltre che provenire da un
imprenditore in stato di insolvenza, che questi: 1) fosse stato iscritto nel
contrattualistica v. invece F. Ferrara, Il Fallimento, 3a ed. Milano, 1974, 144; G. De Semo,
Diritto fallimentare, Firenze, 1948, 533; S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, 4a ed.
Roma, 1957, 311; Id. Diritto fallimentare, Padova, 1974, 295; A. De Martini, Il patrimonio
del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956, 224 ss, spec. nota 278. Nella
giurisprudenza, all’indomani dell’entrata in vigore della nuova legge fallimentare, ha
continuato a prevalere la tesi della natura contrattualistica, cfr. Cass. 20 luglio 1954, n.
2593, in Giust. civ. 1954, 1798; Cass. 30 settembre 1954, n. 3173, in Giut. civ. 1954; App.
Roma, 9 marzo 1959, in Dir. fall. 1959, II, 208; Trib. Pescara, 21 maggio 1959, in Dir. fall.
II, 1034; tuttavia, poco tempo dopo ha invece avuto prevalenza la tesi pubblicistica, cfr.
Cass. 1°aprile 1960 n. 723, in Giut. civ. 1960, I, 1142; Cass. 26 ottobre 1961, n. 2405, in
Foro it. 1961, I, 1602; Cass. 10 giugno 1964, n. 1441, in Foro it. 1964, I, 1221; Cass. 2
luglio1965, n. 1373, in Dir. fall. 1965, II, 529; Cass. 8 gennaio 1980, n. 119, in Fall. 1980,
489; Cass. 19 gennaio 1984, n. 455, in Dir. fall. 1984, II, 448; Cass. 11 aprile 1991, n.
3822, in Fall. 1991, 1048.
11
In senso contrario a tale tesi si è però affermato che non poteva essere la sentenza di
omologazione a determinare l’effetto espropriativo del diritto dei creditori a vantaggio della
collettività, dal momento che in forza di essa sic et simpliciter non può operarsi alcuna
espropriazione del credito: la sentenza si limita infatti ad omologare un accordo, rende cioè
efficace il negozio compiuto tra debitore e creditori, e ciò perché non si può configurare
come “lite” il conflitto tra il debitore ed i creditori, non venendo in giuoco un contestazione
delle situazioni giuridiche soggettive vantate dai creditori, così: U. Azzolina, Il fallimento e
le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, 1579.
12
L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino, 2010, 43.
9
registro delle imprese da almeno un biennio o almeno dall’inizio
dell’impresa, se questa aveva avuto una minore durata, ed avesse tenuto una
regolare contabilità per la stessa durata; 2) nei cinque anni precedenti non
fosse stato dichiarato fallito o non fosse stato ammesso a una procedura di
concordato preventivo; 3) non fosse stato condannato per bancarotta o per
altro delitto contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica,
l’industria o il commercio; 4) potesse assicurare il pagamento integrale dei
creditori privilegiati ed il pagamento nella misura di almeno il quaranta per
cento i crediti chirografari tramite la concessione di garanzie reali o
personali, ovvero, mediante la cessione di tutti i beni esistenti nel suo
patrimonio.
Nel giudizio di omologazione, invece, il Tribunale aveva il dovere di
controllare la convenienza economica e la fattibilità del piano di concordato.
Il Tribunale, precisamente, doveva valutare la convenienza del concordato
preventivo per tutti i creditori, comparando quanto proposto dal debitore,
con quello che tutti i creditori avrebbero potuto conseguire qualora si fosse
perseguita la liquidazione fallimentare.
Se il Tribunale riteneva che la sopravvenienza attiva conseguibile non
avrebbe consentito il pagamento integrale dei creditori privilegiati e non
avesse permesso ai creditori chirografari di conseguire la percentuale
concordataria minima prescritta ex lege, avrebbe dovuto, in ogni caso,
negare l’omologazione del concordato (13).
L’incisivo intervento giurisdizionale si giustificava proprio in quanto: a)
la collettività dei creditori nella fase deliberativa aveva una struttura
‹‹aperta››, vale a dire, alcuni creditori avrebbero potuto essere rimasti
sconosciuti agli organi della procedura (commissario giudiziale e Tribunale)
e, come ovvio, non chiamati ad esprimere il loro voto; b) poteva mancare un
rapporto di strumentalità tra la collettività dei creditori votanti e l’oggetto
13
Tale profilo verrà approfondito nel Cap. 2 par. 5
10
della deliberazione; tale rapporto avrebbe potuto esistere solo se il debitore
avesse dovuto accordare sempre ed inderogabilmente un trattamento uguale
a tutti i creditori chirografari; ma già nel vigore della precedente disciplina
la disparità di trattamento tra i creditori chirografari poteva essere ammessa
(14); c) inoltre, il rapporto di strumentalità fra gli interessi dei creditori e
l’oggetto delle deliberazioni poteva mancare in forza dell’eterogeneità delle
caratteristiche giuridico-formali dei vari crediti e, soprattutto, per la
differente liquidità, esigibilità e misura degli interessi dei crediti (15).
Nella comunione involontaria originata a seguito dell’ammissione
dell’imprenditore al concordato preventivo, ogni creditore chirografario
aveva (ed ha tutt’ora) infatti interesse a realizzare egoisticamente il proprio
credito nella misura più elevata possibile e nel tempo più breve. Tale
interesse non si poneva affatto in rapporto di strumentalità con gli interessi
degli altri creditori chirografari, bensì in rapporto antagonista (16).
14
R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 287-288, secondo questo A.
«l’organizzazione su base maggioritaria dei creditori nel concordato non può essere
qualificata come autorganizzazione, ossia come organizzazione riducibile alle regole del
diritto dei contratti. La tutela degli interessi dei creditori in quanto tali nel concordato non
può, quindi, essere lasciata alla libera disponibilità dei titolari di questi interessi, e cioè dei
creditori. Mancano, infatti, le condizioni - struttura chiusa della collettività e necessaria
presenza di un rapporto di strumentalità fra gli interessi degli appartenenti alla collettività in
quanto tali rispetto alle materie in cui opera il principio maggioritario - che [...] devono
sussistere in una collettività a garanzia della minoranza, perché la tutela degli interessi degli
appartenenti alla collettività (in quanto tali) possa essere lasciata alla libera disponibilità
degli stessi. La tutela degli interessi dei creditori (come tali) nel concordato, perciò, è
sottratta alla libera disponibilità dei creditori stessi ed è affidata all’autorità giudiziaria, che
provvede ad essa essenzialmente nel giudizio di omologazione attraverso il controllo sul
concordato e, in particolare, sulla sua convenienza»; v. però F. D’Alessandro, Sui poteri
della maggioranza del ceto creditorio e su alcuni loro limiti, cit. 189, il quale è favorevole
alla rintracciabilità di una “comunione di interessi” legittimante l’applicabilità del principio
maggioritario in costanza della disciplina del concordato preventivo del 1942.
15
R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 300; sul problema della comunione degli
interessi nel concordato preventivo v. anche: L. A. Russo, Natura giuridica e finalità (Il
concordato preventivo – Seminario di studi), in Fall. 1992, 228; F. D’Alessandro, Sui
poteri della maggioranza del ceto creditorio e su alcuni loro limiti, cit. 189; di recente v.
M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei
concordati, in Fall. 2009, 437.
16
Cfr. A.M. Azzaro, Concordato preventivo principio maggioritario e classi dei
creditori,cit. 556 il quale osserva che il problema dell’applicazione del principio
maggioritario al concordato preventivo risiede proprio nel fatto che i creditori partecipanti
11
Per tali ragioni il legislatore aveva quindi scelto di sottrarre ai singoli
creditori la tutela dei loro interessi per affidarla collettivamente all’autorità
giudiziaria.
Le recenti riforme disegnano invece un sistema che sembrerebbe
muoversi in senso opposto rispetto al passato.
La Relazione al decreto correttivo n. 169 del 2007 parlando di
‹‹accentuata natura privatistica del concordato preventivo›› fornisce
chiaramente il segno e la misura di una intentio legis protesa a valorizzare il
carattere contrattuale del concordato preventivo (17).
L’istituto in parola dovrebbe consentire al debitore di concludere un
accordo destinato a prevalere su ogni forza contraria: minoranze dissenzienti
e controllo giurisdizionale (18).
alla massa – quale controparte del debitore non sono avvinti da una (effettiva) comunione
di interessi, che non giustifica quindi l’applicazione del principio maggioritario; così anche
sul versante processual-civilistico: M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli
interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fall. 2009, 437 e ss.
17
In chiave critica v. L. Abete, Il ruolo del giudice ed il principio maggioritario nel
novello concordato preventivo: brevi note, in Fall. 2008, 253 ss, secondo cui: ‹‹è
innegabile che la voluntas legislatoris rilevi nella misura in cui si è concretata nel testo
normativo››, sicché per questo A. le ‹‹contraddizioni sistematiche dell’opzione
“contrattualistica” sono inesorabilmente destinate a riaffiorare, si che l’opzione
“processual-pubblicistica” finisce per prospettarsi in guisa non già di una possibile variante
“ideologico-politica”, ma, piuttosto, alla stregua di una scelta ricostruttiva obbligata,
imprescindibile, onde assicurare la “tenuta sistematica” della regolamentazione del
concordato››; Id. Le vie negoziali per la soluzione della crisi dell’impresa, in Fall. 2007,
620 ss; Id. Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o privatistica?, in Fall. 2008, 991.
18
Cfr. A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del concordato preventivo, in Riv.
dir. proc. 2009, 647; sul rapporto tra la volontà del legislatore e la nuova disciplina v. D.
Galletti, Il nuovo concordato preventivo: contenuto del piano e sindacato del giudice, in
Dir. fall. 2006, 907 per il quale è difficile affermare che la volontà del legislatore, volta ad
aumentare il dilagante contrattualismo, si sia in realtà tradotta efficacemente in tal senso
nelle norme riformate; in questo senso v. infatti: L. Lanfranchi, Costituzione e procedure
concorsuali, cit. 142, per il quale la volontà del legislatore mirante alla c.d. privatizzazione
del trattamento giuridico dell’insolvenza può rimanere una mera intenzione ‹‹contrastabile
tramite una interpretazione costituzionalizzante in grado di mantenere questa volontà a
livello di tentativo non risoltosi in piena realtà normativa››; contra A. Jorio, Le soluzioni
concordate delle crisi d’impresa tra “privatizzazione” e tutela giudiziaria, in Fall. 2005,
1457 il quale ritiene viceversa che l’indubbia intenzione del legislatore si sia tradotta in una
fedele normativa sostanziale e processuale indiscutibile, giungendo ad affermare che ‹‹non
è consentito far leva su alcune ambiguità delle nuove disposizioni per cercare di
reintrodurre sul piano ermeneutico ciò che il legislatore ha mostrato invece di voler
escludere››.
12
Venuti meno i vincoli imposti ex lege sul contenuto della proposta e la
possibilità di sindacare la convenienza del concordato, il controllo
giurisdizionale non rappresenterebbe più un presidio a tutela degli interessi
della minoranza e non assolverebbe più al ruolo di garante degli interessi dei
creditori in quanto tali e collettivamente considerati.
Nella nuova disciplina la protezione dei creditori sarebbe stata invece
affidata alla loro stessa autotutela (19).
A tal precipuo fine il legislatore ha posto a carico del debitore particolari
oneri informativi. Il debitore unitamente al ricorso e alla documentazione
prescritta dall’art. 161, comma 2°, l. fall. deve depositare la relazione di un
professionista (art. 161, comma 3, l. fall.) con un giudizio sulla fattibilità
economica della proposta e sulle capacità di adempimento dell’imprenditore
concordatario (20).
Va subito rilevato che i predetti oneri informativi non possono ritenersi
funzionalmente idonei a compensare l’esautorazione subita dal Tribunale
(21).
Gli ampi poteri di sindacato del giudice erano funzionali alla protezione
dei creditori di minoranza e alla tutela degli interessi dei creditori
collettivamente considerati (22).
Le recenti riforme al sistema fallimentare impongono allora di
individuare la «misura del rapporto» tra l’operatività del principio
19
R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori, cit. 32; Id. Dai
soci di minoranza ai creditori di minoranza, cit. 1066.
20
Cfr. Trib. Torino, 17 novembre 2005, in Foro it. 2006, I, 911; in senso analogo Trib.
Milano, 9 febbraio 2007, Fall. 2007, 1220; Trib. Pescara, 21 ottobre 2005, in Foro it.
2006, I, 912, Trib. Monza, 17 ottobre 2005, in Dir. prat. soc. 2005, 67; T. Ancona, 13
ottobre 2005, in Fall. 2005, 1405.
21
L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino, 2010,152, il quale rileva
che: «gli obblighi e responsabilità del professionista autore della relazione dell’art. 160,
comma 2°, l. fall. [sono] predicabili teoricamente, ma di difficile e sparuta applicazione
pratica, comunque inidonea ad arginare le espropriazioni di diritti prodotte dagli abusi
[della] maggioranza»; così anche: S. Fortunato, La responsabilità del professionista nei
piani di sistemazione delle crisi d’impresa, in Fall. 2009, 889.
22
R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 325; N. Rocco di Torrepadula,
Concordato preventivo (voce) in Dig. sez. comm. Torino, 1988, III, 276.
13
maggioritario, la necessità di tutela dei creditori assenti e dissenzienti e la
permanenza di un controllo giurisdizionale sull’accordo concluso tra
l’imprenditore e i suoi creditori per regolare la crisi (23).
Occorre cioè verificare quali siano all’interno del nuovo sistema, proteso
a favorire la soluzione negoziata della crisi d’impresa, i presupposti che
possano giustificare il principio maggioritario e la regola dell’obbligatorietà
del concordato preventivo per tutti i creditori (24).
L’efficacia ultra partes del concordato preventivo è stata infatti
conservata anche nel nuovo assetto c.d. ‹‹privatistico›› (25) ed è necessario
verificare se la conservazione degli effetti verso i ‹‹terzi›› possa ancora
ritenersi compatibile con i principi sostanziali, processuali e, soprattutto,
23
Sulla necessità di cogliere il punto di equilibrio tra soluzione negoziata, autotutela dei
creditori, ed efficacia ultra partes del decreto di omologa v. I. Pagni, Il controllo del
tribunale e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 1091; Ead. Il
controllo sugli atti degli organi della procedura fallimentare (e le nuove regole della tutela
giurisdizionale), ivi, 2007, 140; M. Fabiani, Autonomia ed eteronomia nella risoluzione dei
conflitti nel nuovo diritto concorsuale, in Fall. 2008, 1098; v. anche: L. Stanghellini,
Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in
Fall. 2008, 380 ss, per il quale: ‹‹Occorre dunque affrontare il nuovo sistema fallimentare
partendo da un dato di fatto: la regola di maggioranza è basata sul presupposto, ormai non
più messo in discussione da nessuno, che la maggioranza, almeno per quanto riguarda le
decisioni sulla creazione di ricchezza (non sulla sua distribuzione, che richiede regole
inderogabili a presidio della minoranza), abbia i corretti incentivi ad operare nell’interesse
di tutto il gruppo››.
24
A. M. Azzaro, Concordato preventivo, principio maggioritario e classi dei creditori,
in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 555 il quale
chiaramente afferma che: ‹‹se l’art. 184 l. fall. era coerente alla visione pubblicistica di una
procedura concorsuale in cui – si diceva – era dalla sentenza di omologazione, avente
natura di giudicato, che derivava l’espropriazione del diritto dei creditori a vantaggio della
collettività, tale effetto deve nella nuova prospettiva trovare una spiegazione coerente con la
supposta natura negoziale dell’istituto››.
25
La problematica è stata sollevata da I. Pagni, L’accentuazione privatistica del
concordato preventivo e i riflessi sul giudizio di omologazione, in Foro it. 2006, I, 918;
sull’argomento v. anche A. Gentili, Autonomia assistita ed effetti ultra vires
nell’accettazione del concordato, in Giur. comm. I, 2007, 357 il quale riferendosi
all’assoggettamento della minoranza dissenziente e dei creditori estranei ritiene che: ‹‹La
ratio della peculiare disposizione sull’estensione dell’accettazione è e resta poco chiara
perché rischia di apparire eccezionale ed irrazionale in due opposti sensi: per un verso come
forzatura della libertà ed autonomia dei creditori dissenzienti, e per l’opposto verso come
inutile rafforzativo del criterio di maggioranza e dei suoi naturali effetti estensivi sulla
minoranza. È il momento di occuparsene››.
14
costituzionali che governano la crisi d’impresa (26).
1.1. – È opinione tanto diffusa, quanto controversa, che il nuovo
concordato preventivo consenta di giungere ad una soluzione negoziale
della crisi d’impresa, sebbene nell’istituto in questione operi il paradigma
deliberativo a maggioranza (27).
L’‹‹adunanza›› dei creditori e la ‹‹deliberazione›› rappresenterebbero,
rispettivamente, il momento temporale e l’aspetto procedimentale attraverso
cui la collettività dei creditori dovrebbe giungere alla formazione e alla
manifestazione del consenso sulla proposta di concordato (28).
Sennonché, il procedimento deliberativo continua ad essere caratterizzato
26
Cfr. F. D’Alessandro, La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma:
profili generali, in Giust. civ., 2006, II, 330 ss secondo cui infatti: ‹‹il diritto di garanzia dei
creditori sul patrimonio del debitore è assistito da tutela costituzionale, onde non può essere
espropriato, neppure indirettamente, né a vantaggio dell’interesse pubblico (alla piena
occupazione e simili), né, meno ancora, è ovvio, a vantaggio dell’interesse del debitore››; v.
anche L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit., 8 ss. il quale, riprendendo
l’A. appena citato, afferma chiaramente che: ‹‹in nessun modo il “principio di
maggioranza” può farsi valere in via negoziale, non solo contro i principi fondamentali
della nostra Costituzione, ma anche contro “la regola fondamentale di tutto il diritto
privato, cioè l’autonomia, la legittimazione di ciascuno a disporre dei propri interessi”››,
spec. 151, ove l’A. in riferimento all’intentio legislatoris chiaramente afferma che: ‹‹Non
potendosi, tra l’altro, accertare l’inversione delle regole interpretative poste dall’art. 12
delle preleggi al c.c., proposta da chi fa prevalere l’intenzione del legislatore sullo stesso
dato esegetico sostanzialmente chiaro e sui principi generali del sistema ordinario e
costituzionale››.
27
Sulla distinzione tra autonomia contrattuale e autonomia negoziale v. F. Criscuolo,
Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, in Trattato di diritto civile del consiglio
nazionale del notariato Vol. IV, 1, Napoli, 2008; v. però le osservazioni, che non paiono
affatto potersi dire superate, formulate sotto il vigore dell’abrogata disciplina da: E. F.
Santi, L’adunanza dei creditori e la votazione nei procedimenti concorsuali, cit., 45 per la
quale il concordato preventivo avrebbe una natura giuridica mista e non soltanto
processuale o sostanziale, ed afferma che: ‹‹l’accordo della maggioranza costituisce una
atto necessario del procedimento di deliberazione del concordato, senza il quale non si può
arrivare al giudizio di omologazione, ma non per questo il concordato può essere definito
semplicemente un contratto, poiché per quel che concerne le forme, i vizi della volontà e le
invalidità relative all’espressione del voto, si deve pur sempre ricorrere all’applicazione
delle norme del processo civile. Quindi, non si può rinvenire alcuna organizzazione o
volontà collegiale espressa in assemblea, ma solo una deliberazione come un atto
complesso a formazione successiva, che, senza esercitare alcuna forza vincolante sul potere
decisionale del tribunale in sede di omologazione, costituisce dall’altro canto un atto
necessario all’omologazione stessa, nel senso che fra i suoi effetti c’è l’insorgere del
potere-dovere del tribunale di pronunciare riguardo all’omologazione del concordato››.
28
F. Di Marzio, “Contratto” e “deliberazione” nella gestione della crisi d’impresa, in
F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2010, 94.
15
per la struttura c.d. ‹‹aperta›› della collettività dei creditori e per l’assenza di
un rapporto di strumentalità tra la collettività degli stessi e l’oggetto della
deliberazione.
Tali caratteristiche del procedimento deliberativo hanno tradizionalmente
costituito i limiti all’operatività dell’autotutela dei creditori nel concordato
preventivo.
Entrambe non possono che continuare a rappresentarne tutt’oggi un
ostacolo anche in virtù anche delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto, l’organizzazione dei creditori nel concordato preventivo
non è assimilabile a quella delle associazioni privatistiche, né a quella delle
società di capitali (29). In tali forme di organizzazione il diritto al voto trae
origine da un contratto (o uno statuto) nel quale sono predeterminati e
preventivamente conoscibili, rispetto all’oggetto della deliberazione, i
legittimati al voto ed il loro relativo peso.
La capacità di ogni legittimato al voto di influire sulla formazione della
maggioranza è, dunque, accettata e conoscibile almeno erga omnens partes
prima della formulazione dell’oggetto di ogni deliberazione, mentre ciò non
è possibile nell’ambito del concordato preventivo.
Nel concordato preventivo invece non è possibile avere contezza degli
aventi diritto al voto fino al momento in cui debitore non depositi il ricorso
per accedere alla procedura nel quale alleghi l’elenco nominativo dei suoi
29
Cfr. di R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 319 secondo cui:
‹‹l’organizzazione su base maggioritaria dei creditori nel concordato non può essere
qualificata come autorganizzazione, ossia come organizzazione riducibile alle regole del
diritto dei contratti. La tutela degli interessi dei creditori in quanto tali nel concordato non
può, quindi, essere lasciata alla libera disponibilità dei titolari di questi interessi, e cioè dei
creditori. Mancano, infatti, le condizioni – la struttura chiusa della collettività e necessaria
presenza di un rapporto di strumentalità fra gli interessi degli appartenenti alla collettività
in quanto tali rispetto alle materie in cui opera il principio maggioritario – che devono
sussistere in una collettività, a garanzia della minoranza, perché la tutela degli interessi
appartenenti alla collettività (in quanto tali) possa essere lasciata alla libera disponibilità
degli stessi››; l’A. in questione ha infatti ribadito questa posizione anche dopo le recenti
riforme, cfr. Id. Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato
dell’autorità giudiziaria. in Fall. 2009, 30.
16
creditori.
Di conseguenza, prima della fase di ammissione non è possibile
conoscere chi siano i legittimati al voto, né la loro capacità di influire sulla
formazione della maggioranza.
Quindi, continua a sussistere tutt’ora il rischio che vi siano creditori non
inclusi nell’elenco nominativo del debitore o che siano inclusi per un
ammontare minore rispetto a quanto effettivamente vantato sulla base del
rapporto obbligatorio sostanziale, oppure, che vi siano creditori inseriti in un
rango inferiore (30).
In secondo luogo, non sussiste l’omogeneità fra gli interessi dei creditori
votanti e pertanto continua sussistere il pericolo di un loro conflitto di
interessi, e ciò, soprattutto, perché in tutto l’arco della procedura non è
possibile accertare - con efficacia di giudicato –l’entità e la natura dei crediti
(31).
Il legislatore della riforma, infatti, ha modificato le maggioranze
necessarie per l’approvazione del concordato, ma non ha modificato la
disciplina prescritta in tema di accertamento dei crediti contestati (art. 176
l.fall.) (32).
30
Lo rileva infatti chiaramente G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 148 per il
quale: ‹‹In ogni caso, il principio di maggioranza, mutuato per il concordato preventivo
dalle associazioni privatistiche, non assumerebbe il contenuto di una volontà prevalente, né
potrebbe avere l’effetto di un atto impositivo per la generalità di tutti i partecipanti perché
non sarebbe la conseguenza di una decisione collegiale di tutti i creditori. In altri termini,
non si potrebbero mai colmare gli inconvenienti di una mancata partecipazione di tutti i
creditori, né quella concernente i creditori dissenzienti››; prima delle recenti riforme
rilevarono tale problematicità: Id. L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel
concordato preventivo, in Giust. civ. 1993, I, 2065; Id. Ipotesi di competenza
giurisdizionale ordinaria nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1995, I, 2333; e dopo le
riforme: G. B. Nardecchia, Esercizio del diritto di voto, poteri del g.d. e criteri di
formazione delle maggioranze nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 348.
31
R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato
dell’Autorità giudiziaria, in Fall. 2009, 30; Id. Dai soci di minoranza ai creditori di
minoranza, in Fall. 2009, 1063; v. anche: M. Fabiani, Diritto e processo a confronto nel
nuovo fallimento e lo spettro dei conflitti di classe, in Fall. 2008, 5 ss ove l’A. lamenta il
complessivo arretramento della tutela giurisdizionale dei creditori.
32
Sull’argomento v. A. Pavone la Rosa, La ‹‹verifica›› dei crediti nel concordato
preventivo: deficienze dell’attuale disciplina, in Dir. fall. 1974, 5; G. Lo Cascio, Il
17
Una prima forma di “accertamento” delle pretese dei creditori continua a
essere quella compiuta dal commissario giudiziale, che conserva il potere di
compiere indagini e operare rettifiche all’elenco dei creditori, le quali
potranno essere ricontrollate dal Tribunale nel giudizio di omologa (33). Ma
tanto le rettifiche, quanto i controlli del Tribunale, costituiscono in realtà un
mero
accertamento
‹‹amministrativo››
finalizzato
al
calcolo
delle
maggioranze (34) e non producono alcuna incidenza, né alcuna preclusione
su futuri giudizi aventi ad oggetto i medesimi crediti (35).
concordato preventivo, VII ed. Milano, 2008, 643, il quale ritiene che qualsiasi
controversia avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza e della natura delle
obbligazioni concorsuali deve svolgersi in sede ordinaria nella quale il creditore, in
contraddittorio con il debitore, può far valere le proprie difese; nella recente giurisprudenza
v. Cass. 14 febbraio 2002, n. 2104 in Fall. 2003, 25 con nota di C. Trentini, Modalità di
verifica dei crediti nel concordato preventivo; App. Genova, 14 aprile 2004 in Dir. fall.
2005, II, 486, con nota di A. Costa, Accertamento di un rango di un credito fra attività di
verifica nel concordato preventivo per cessione dei beni e legittimazione passiva del
liquidatore nel giudizio ordinario, il quale ritiene che il liquidatore sia litisconsorte
necessario nel giudizio in sede extra-concorsuale tra il creditore ed il debitore concordatario
volto all’accertamento delle obbligazioni concorsuali.
33
In chiave fortemente critica v. F. Santangeli, Auto ed etero tutela dei creditori nelle
soluzioni concordate della crisi d’impresa, in Dir. fall. 2009, I, 617, secondo cui è possibile
che: ‹‹il creditore sia chiamato a subire le scelte della maggioranza dei creditori, o
addirittura di un singolo creditore se in possesso della maggioranza dei crediti, anche se
non le condivida (e con le nuove regole, senza una percentuale minima di soddisfazione
assicurata), o rimanga convinto che avrebbe potuto ottenere maggiori soddisfazioni agendo
individualmente, o anche a seguito del fallimento del proprio debitore, e senza che esista un
organo avanti al quale egli possa far valere una simile doglianza››.
34
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, ed. VI, Roma, 1964, 430; Id. Diritto
fallimentare, Padova, 1974, 404; A. Bonsignori, L’art. 111, comma secondo, Cost. e
l’ammissione al voto nel concordato preventivo, in Dir. fall. 1972, II, 297; Id. Concordato
preventivo, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F.
Galgano, G. Santini, Bologna – Roma, 1974, 239; R. Provinciali, Trattato di diritto
fallimentare, Milano, 1974, 2289; A. Pavone la Rosa, La ‹‹verifica›› dei crediti nel
concordato preventivo: deficienze dell’attuale disciplina, in Dir. fall. 1974, 5; G. Lo
Cascio, L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato preventivo, in
Giust. civ. 1993, I, 2065; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel
concordato preventivo, in Giust. civ. 1995, I, 2333; G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di
diritto fallimentare, Padova, 1994, 1038; A. Ravazzoni, Commento sub artt. 176 e 178 l.
fall. in G. U. Tedeschi (a cura di) Commentario alla legge fallimentare, Torino, 1997; e più
di recente G. B. Nardecchia, Esercizio del diritto di voto, poteri del g.d. e criteri di
formazione delle maggioranze nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 348.
35
v. Cass. 22 maggio 1958, n.1727, in Dir. fall. 1958, II, 380; Cass. 12 luglio 1958, n.
2540, in Dir fall. 1958, II, 625; Cass. 11 novembre 1970, n. 2346, Dir. fall. 1971, II, 445;
Cass. 2 agosto 1975, n. 2961, in Mass. Giust. civ. 1975, 684; Cass. 12 marzo 1987, n. 2560,
in Dir. fall. 1987, II, 636, e in Fall. 1987, 812, e in Giust. civ. 1987, I, 1408; Cass. 17
18
La mancanza di contestazioni non ha alcun valore di accertamento del
credito e va considerata soltanto un mero indice della tendenziale
corrispondenza tra la massa passiva sostanziale e quella processuale (36).
Le eventuali contestazioni sono disciplinate dall’art. 176 l. fall., ai sensi
del quale il giudice conosce dell’entità e del rango crediti ‹‹ai soli fini del
voto e del calcolo delle maggioranze››. La contestazione non estende la
cognizione del g.d. sul rapporto sostanziale, il quale verrà accertato sempre
e soltanto incidenter tantum (37).
Il provvedimento con cui il creditore verrà ammesso al voto avrà solo
efficacia endoconcorsuale: sarà, cioè, rilevante unicamente per il
compimento delle operazioni di voto e non produrrà alcun effetto di
accertamento del diritto sostanziale vincolante per altri e successivi giudici.
Al creditore escluso dalla votazione viene concessa la possibilità di
contestare il provvedimento del giudice delegato in sede di opposizione
all’omologa. La legittimazione è attribuita solo ai creditori «esclusi», cioè a
coloro che – nella logica dell’abrogata disciplina - non hanno avuto la
possibilità di esprimere alcun voto sulla proposta e non hanno potuto
incidere sulla maggioranza (numerica). Ai creditori ammessi al voto per un
ammontare o rango inferiore rispetto a quello vantato, invece, non è
espressamente riconosciuta alcuna legittimazione all’opposizione.
A tal proposito occorre richiamare la precedente formulazione dell’art.
177 l.fall. sulle maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato.
Nella previgente disciplina il creditore ammesso al voto per un
ammontare o rango inferiore rispetto a quello da lui preteso avrebbe potuto
giugno 1995, n. 6859, in Fall. 1996, 50; Cass. 22 settembre 2000, n. 12545, in Mass. Giust.
civ. 2000, 1978; Cass. 14 febbraio 2002, n. 2104, in Fall. 2003, 25 e in Mass. Giust. civ.
2002, 241; Cass. 24 agosto 2004, n. 16729, in Giust. civ. 2005, I, 3060.
36
G. Lo Cascio, L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato
preventivo, cit. 2066; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel concordato
preventivo, 2333;
37
Cass. 25 novembre 1971, n. 3442, in Dir. fall. 1972, I, 297, con nota critica di A.
Bonsignori, L’art. 111, comma secondo, Cost. e l’ammissione al voto nel concordato
preventivo.
19
influire sulla formazione della maggioranza dei creditori (quella c.d.
numerica) in modo paritetico agli altri creditori ammessi, ma avrebbe potuto
influire sulla maggioranza dei crediti (quella c.d. quantitativa) solo
parzialmente rispetto alla pretesa vantata.
La lacunosità e contraddittorietà di tale sistema è stata sollevata in più
occasioni (38); ma alle obiezioni si è sempre replicato, in modo assiomatico,
che il legislatore ha preferito assicurare la speditezza e l’operatività della
procedura, sacrificando la certezza degli atti (39).
Nell’attuale disciplina tale sacrificio, in realtà, integra un’ulteriore
diminuzione del rapporto di strumentalità fra gli interessi dei creditori e la
deliberazione sulla proposta (40).
Il rapporto di strumentalità tra gli interessi dei creditori e l’oggetto della
deliberazione potrebbe non sussistere se il debitore decidesse di prevedere
trattamenti differenziati tra i creditori mediante la suddivisione degli stessi
in classi (41). La possibilità di creare classi di creditori e prevedere
38
R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2289.
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Milano, 1943, 299.
40
Cfr. L. Stanghellini, Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove
procedure concorsuali, in Fall. 2009, 1067 secondo cui sarebbe stato opportuno che il
legislatore avesse utilizzato per la votazione sul concordato le categorie del diritto
societario, nel quale la tutela della minoranza è, a differenza di quanto accade nel diritto
fallimentare, un problema conosciuto ed approfondito; v. anche: F. Santangeli, Auto ed
etero tutela dei creditori nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa (il piano di
risanamento, l’accordo di ristrutturazione, il concordato preventivo). Le tutele giudiziali
dei crediti nelle procedure ante crisi, cit. 608 il quale rileva che: ‹‹le nuove disposizioni
che si occupano delle procedure concordate sembrano volutamente comprimere i diritti dei
creditori all’accertamento ed alla soddisafazione dei loro crediti, elemento ormai quasi
accidentale ed accessorio delle dinamiche concorsuali, peraltro in un limbo normativo
quanto alle concrete possibilità di tutela del proprio credito, specialmente per i creditori
“deboli”, ovvero coloro che non hanno capacità di interlocuzione paritaria con chi tenti un
salvataggio››.
41
R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori, cit. 31; Id. Dai
soci di minoranza ai creditori di minoranza, cit. 1064; v. però le osservazioni di: G. Lo
Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 148, per il quale: ‹‹Il principio della
disomogeneità degli interessi dei creditori, che precluderebbe nel concordato la formazione
di una maggioranza, potrebbe essere superato soltanto inserendo i creditori, a discrezione
del debitore, in classi diverse nelle quali la loro collocazione dovrebbe avvenire in
dipendenza dell’omogeneità dell’interesse rivestito››, quindi per questo A., ‹‹l’imposizione
di decisioni assunte a maggioranza nell’ambito di un concordato preventivo privo di classi
39
20
trattamenti differenziati mostra chiaramente un trend legislativo volto alla
progressiva erosione del principio formale della par condicio creditorum
nelle procedure concorsuali, già ampiamente denunciato dalla dottrina negli
anni ’80 (42).
Il legislatore ha quindi fondato sul paradigma deliberativo l’autotutela dei
creditori, pur conservandone tutti i predetti limiti strutturali.
Ma vi è di più.
Da un verso, ha ridotto il margine del controllo giurisdizionale in tutto
l’arco della procedura; dall’altro verso, ha ampliato l’efficacia del
concordato omologato su qualsiasi credito anteriore al decreto di apertura
della procedura. Ci si riferisce all’effetto che il concordato preventivo può
produrre nel successivo fallimento dell’impresa concordataria sulla garanzia
patrimoniale del debitore, la quale viene modellata alla luce della previsione
dell’art. 67, comma III, lett. e) l. fall., anche per coloro che, in quanto
creditori successivi all’apertura della procedura, non hanno neppure avuto
titolo per votare all’adunanza e discutere la proposta del debitore, rispetto ai
quali neppure avrebbe senso parlare di autotutela e applicazione del
principio maggioritario.
Evidenziati gli aspetti problematici del nuovo sistema deliberativo è
giunto il momento di concentrate l’attenzione proprio su quell’‹‹efficacia
anomala e pericolosa›› (43) che continua ad essere attribuita al concordato
preventivo.
2. – Ai sensi dell’art. 184 l.fall. il concordato preventivo omologato dal
e, quindi, in presenza di interessi disomogenei, si tradurrebbe in una compressione
ingiustificata dei creditori e pertanto in una disciplina costituzionalmente illegittima››.
42
Cfr. V. Colesanti, Mito e realtà della ‹‹par condicio creditorum››, in Fall. 1984, 32;
P.G. Jaeger, ‹‹Par condicio creditorum››, in Giur. comm. 1984, I, 88 ss; G. Tarzia, Parità e
discriminazioni tra i creditori nelle procedure concorsuali, in Fall. 1984, I, 153 ss; R.
Sacchi, Gli obbligazionisti nel concordato di società, Milano, 1981, 14; più di recente: V.
Buonocore, Principio di uguaglianza e diritto commerciale, in Giur. comm. 2008, I, 570.
43
F. Carnelutti, Sui poteri del tribunale in sede di omologazione del concordato
preventivo, cit. 65.
21
Tribunale è obbligatorio indistintamente per tutti i creditori anteriori al
decreto di apertura.
Gli effetti del concordato preventivo si producono anche nei confronti di
coloro che hanno espresso voto contrario, che non hanno votato, che sono
stati esclusi dal voto, nonché verso coloro che non hanno partecipato al
procedimento, perché non sono stati inclusi negli elenchi depositati dal
debitore ex art. 161 e 171 l. fall. (44).
L’efficacia ultra partes del concordato omologato viene solitamente
giustificata sulla base del principio della par condicio creditorum (45).
L’estensione dell’efficacia vincolante del concordato preventivo è limitata
ai soli creditori dell’imprenditore e non è estesa agli eventuali fideiussori e
coobbligati, verso i quali non sussiste alcun onere di convocazione al
procedimento deliberativo.
Prima delle recenti riforme il provvedimento di omologazione assolveva
essenzialmente ad una duplice funzione: a) autorizzava gli effetti
esdebitativi nei confronti dei creditori consenzienti; b) rendeva vincolante la
proposta anche per i creditori dissenzienti e assenti alla deliberazione.
In virtù di quanto disposto dal precedente testo dell’art. 160 l.fall. il
debitore doveva garantire il soddisfacimento dei creditori chirografari
almeno nella percentuale minima del quaranta per cento, mentre per il
residuo sessanta per cento non era disposto nulla, per cui, argomentando a
contrario senso ex art. 184 l. fall. si deduceva che il debitore venisse
liberato per il residuo (46).
44
Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 777; S. Pacchi - L.
D’Orazio – A. Coppola, Il concordato preventivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme della
legge fallimentare, Torino, 2009, 1904; in giurisprudenza v. Cass. 15 aprile 1998, n. 3800,
in Fall. 1999, 77; Cass. 13 giugno 1990, n. 5772, in Fall. 1990, 1212; Cass. 3 maggio 1967,
n. 831, in Giust. civ. 1967, I, 1287.
45
La questione è stata trattata più che altro a livello giurisprudenziale v. ex plurimis
Cass. 2 aprile 1987, n. 3202, in Fall. 1987, 1051.
46
Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja - Branca –
Legge Fallimentare, a cura di F. Bricola – F. Galgano – G. Santini, Bologna, 1979, 484 ss;
G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974, 834; P. Pajardi, Codice del
22
Nel concordato per cessione dei beni, invece, dove la percentuale
attribuibile ai creditori non poteva costituire un dato certo, ma soltanto
previsionale e dipendente in concreto dal risultato della liquidazione, la
quantificazione
concorsuali
dell’effetto
veniva
estintivo/modificativo
rimandato
alla
fase
delle
esecutiva,
obbligazioni
cioè,
all’esito
dell’individuazione dell’esatta percentuale distribuita ai creditori (47).
Nel previgente sistema gli effetti ultra partes del concordato preventivo
erano quindi effetti tipici e predeterminati ex lege. Si trattava, tanto nell’uno
caso, quanto nell’altro, degli effetti remissori o dilatori previsti dall’art. 160
l.fall.
La riforma, invece, ha liberalizzato il contenuto della proposta
concordataria e, soprattutto, del piano posto a base della stessa.
Il piano e la proposta di concordato possono prevedere la ‹‹soddisfazione
dei creditori attraverso qualsiasi forma›› (art. 160 l. fall.), anche mediante
operazioni straordinarie, con possibilità di attribuire ai creditori azioni,
quote, obbligazioni, o altri strumenti finanziari anche di una nuova
costituenda società (48).
Nel piano si possono prevedere le modalità più varie per assicurare il
soddisfacimento dei creditori; nella proposta di concordato il debitore non
deve garantire una percentuale di soddisfacimento minima ai creditori
chirografari, né il pagamento integrale dei creditori privilegiati. Il
soddisfacimento dei creditori può avvenire attraverso ‹‹qualsiasi forma››
anche secondo modalità diverse da quelle espressamente indicate nel
secondo comma, la cui elencazione assume carattere meramente
esemplificativo e non tassativo (49). Le parti possono quindi scegliere di
fallimento, Milano, 2001, 1003.
47
v. ex plurimis : Cass. 24 giugno 1995, n. 7169, in Fall. 1995, 1220.
48
Per tutti v. L. Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare,
Torino, 2006, 51 ss.
49
Per tutti v. G. Santoni, Contenuto del piano di concordato preventivo e modalità di
soddisfacimento dei creditori, in Aa.Vv. Le soluzioni concordate della crisi d’impresa,
23
risolvere la crisi sia con modalità satisfattive in senso lato (pagamento in
denaro, datio in solutum, accollo dei beni da parte di un terzo, etc.), sia con
modalità non satisfattive, quali le operazioni societarie di fusione, scissione
e trasformazione (50).
Ora, per via della liberalizzazione del piano e della proposta sussiste il
rischio che gli effetti del provvedimento di omologa e, di conseguenza, gli
effetti ultra partes (compresi quelli verso i coobligati, fideiussori e obbligati
in via di regresso) possano scontare tanto un deficit di determinatezza,
quanto dubbi sulla liceità e meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito
(51).
Il deficit di determinabilità degli effetti potrebbe verificarsi qualora il
piano di concordato preveda il conferimento ai creditori - o a una classe di
creditori - di titoli azionari od obbligazionari. In tale ipotesi potrebbe essere
difficoltoso determinare la percentuale del credito soddisfatta mediante il
concordato ed, ex adverso, definire la residua responsabilità del coobligato.
Questi potrebbe vedersi costretto ad adempiere l’intero ammontare del
credito, per poi dover agire contro il debitore ed ottenere il pagamento della
percentuale concordataria o il residuo rispetto a quanto previsto nella
proposta (52).
Potrebbe sussistere il rischio che l’imprenditore e i suoi creditori
vogliano conseguire effetti non leciti o, ad ogni modo, non meritevoli di
tutela. Senza volersi addentrare in approfondimenti, impossibili in questa
sede, non ci si può esimere dal rilevare che ogni qualvolta l’ordinamento
riconosce ai privati maggiori spazi di libertà negoziale, ne ha sempre
consentito un controllo giurisdizionale sulla conformità degli effetti voluti
Torino, 2007, 54 ss.
50
M. Sandulli, sub art. 160, 161, 162, in A. Nigro – M. Sandulli (a cura di) La riforma
della legge fallimentare, Torino, 2006, II, 984 ss.
51
Cfr. E. Frascaroli Santi, Gli effetti del concordato preventivo per i creditori (art. 184
l. fall.), cit. 1044.
52
Cfr. S. Pacchi, Sub art. 184 l. fall. in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto
fallimentare, Bologna, 2006, 2592
24
dalle parti, tanto rispetto all’ordinamento (secondo le forme del giudizio di
liceità e più ampiamente di validità), quanto rispetto agli interessi dei terzi
(53).
L’esercizio della libertà negoziale può essere sottoposta a un giudizio di
conformità, vuoi sul piano astratto (nel quale l’atto può risultare lecito o
illecito, valido o invalido) vuoi sul piano concreto, al fine di appurare che
l’uso astrattamente lecito e legittimo della libertà non si traduca in concreto
in forme negoziali abusive e immeritevoli di tutela perché in danno ai terzi.
Il principio cardine dell’autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) riconosce ai
privati: a) il potere di determinare il contenuto del contratto; b) il potere di
concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina
particolare.
Come noto, l’autonomia delle parti deve svolgersi ‹‹nei limiti imposti
dalla legge›› (54) e il contenuto del contratto dev’essere diretto ‹‹a realizzare
interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico›› (55).
53
E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 101: «L’autonomia privata, in
quanto è chiamata a operare sul piano sociale, incontra innanzitutto limiti e obbedisce ad
esigenze che discendono dalla sua stessa logica: limiti ed esigenze, antecedenti in questo
senso allo stesso riconoscimento giuridico. In virtù poi, di tale riconoscimento, essa
incontra altri limiti e obbedisce ad ulteriori esigenze da esso derivanti, in quanto è chiamata
a operare sul piano del diritto e secondo la logica di questo. Il riconoscimento giuridico
conferma, assume ed, occorrendo, modifica limiti ed esigenze naturali dell’autonomia
privata».
54
E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 102 che chiaramente afferma che:
«I limiti consistono soprattutto nella indisponibilità dei requisiti e degli effetti del negozio
[...]. Così gli elementi essenziali, come i presupposti (di validità) propriamente detti, e del
pari il trattamento del negozio validamente compiuto si sottraggono alla disposizione
privata, riservati come sono alla competenza normativa della legge. Il tentativo di superare i
limiti dati dalla loro indisponibilità assume spesso la forma di clausola di rinunzia con cui
la parte si obbliga a non far valere la conseguente invalidità del negozio: clausola da
considerare priva di efficacia vincolante».
55
Sulla meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito con la conclusione dell’accordo
v. di recente: Cass. sez. un. 13 settembre 2005, 18128, in Notariato, 2006, 13 con nota di
M. Tatarano, C’era una volta l’intangibilità del contratto; anche in Danno e resp. 2006,
424, con nota di A. Riccio, Il generale intervento correttivo del giudice sugli atti di
autonomia privata; v. anche: U. Perfetti, Riducibilità d’ufficio della clausola penale ed
interesse oggettivo dell’ordinamento: un rapporto da chiarire, in Nuov. giur. civ. comm.
2006, 187; in tema già: A. Riccio, Il controllo giudiziale della libertà contrattuale: l’equità
correttiva, in Contr. e impr. 1999, 939; Id. È dunque venuta meno l’intangibilità del
25
L’osservanza dei limiti imposti dalla legge è demandata al giudice, il
quale non può riconoscere il diritto fatto valere quando esso si fondi su un
contratto il cui contenuto non è conforme alla legge, ovvero, persegue
interessi che non appaino meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico. Il controllo ufficioso del giudice sulla meritevolezza dell’accordo
delle parti in sé, è sempre pregiudiziale a ogni altra e diversa richiesta
proveniente dalle stesse (56).
Ora, la nuova disciplina del concordato preventivo ha ampliato
l’autonomia delle parti in un campo normalmente riservato alla disciplina
positiva.
L’imprenditore in crisi e i creditori hanno la possibilità concludere un
negozio volto a regolare la crisi d’impresa derogando, sia alla disciplina
positiva in materia di esecuzione individuale, sia alla regola della par
condicio creditorum.
La proposta di concordato preventivo può prevedere il pagamento non
integrale del creditore assistito da causa di prelazione speciale e generale,
come pure la suddivisione dei creditori in classi, con possibilità di
trattamenti differenziati tra i creditori appartenenti a classi diverse, in palese
violazione proprio del principio della parità di trattamento (57).
L’obbligatorietà erga omnes del concordato verso tutti i creditori anteriori
rischia di apparire sempre meno giustificabile sulla base del principio della
contratto: il caso della penale manifestamente eccessiva, ivi, 2000, 95; più in generale v.
M. Costanza, Meitevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. e impr.
1987, 432; F. Galgano, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, in Contr. e impr.
europa, 2005, 509.
56
Cass. sez. un. 04 settembre 2012, n. 14828, in Dir. Giust. 2012, 765.
57
Sembrerebbe ammetterlo anche: M. Sciuto, La classificazione dei creditori nel
concordato preventivo, in Giur. comm., I, 2007, 586, per il quale: ‹‹La possibilità che un
piano concordatario venga sottoposto all’approvazione di creditori ripartiti per classi
destinatarie di un trattamento differenziato, apre inevitabilmente una complessa fase di
negoziazioni: non solo fra creditori e debitore, ma anche fra le stesse classi di creditori (e
nei casi di formazione “anomala” delle singole classi, al limite, anche fra creditori della
stessa classe), i quali vedono così – anche se di pari grado – ulteriormente frammentato il
loro fronte comune, ciascuna classe rincorrendo la soluzione concordataria più favorevole
al proprio interesse particolare››.
26
par condicio (58).
L’efficacia ultra partes del concordato preventivo costituisce un ostacolo
- difficilmente trascurabile - per chiunque voglia sostenere l’effettiva
evoluzione in senso privatistico dall’istituto in questione. E anche dopo le
recenti riforme è stato ribadito che l’autonomia privata mal si concilia con
regole che impongono la soggezione dei creditori dissenzienti o assenti alla
volontà della maggioranza (59).
Alla luce di quanto precede, al Tribunale non può essere inibita la
possibilità di controllare il modo in cui le parti hanno fatto uso
dell’autonomia loro concessa, e ciò affinché il concordato preventivo
continui a perseguire gli scopi imposti dalle legge a tutela di tutti gli
interessi coinvolti (60).
58
Cfr. M. Ferro, Il concordato preventivo, l’omologazione e le fasi successive, in A.
Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque
anni dalla riforma, Bologna, 2010, 1093.
59
Ritiene, infatti, che si sia in presenza di una sorta di ‹‹autonomia assistita››: A.
Gentili, Autonomia privata ed effetti ultra vires nell’accettazione del concordato, cit. 357;
in argomento v. L. Stanghellini, Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle
nuove procedure concorsuali, cit. 378; M. Ferro, Il concordato preventivo, l’omologazione
e le fasi successive, cit. 1098; v. anche: I. Pagni, L’accentuazione privatistica del
concordato preventivo e i riflessi sul giudizio di omologazione, cit. 919, che sollecita una
riflessione sul significato della stessa conservazione dell’art. 184 l. fall. ‹‹una volta che il
concordato preventivo è stato riportato, più marcatamente che in passato, ad una
concezione di stampo privatistico››; contra S. Scarafoni, La riforma del concordato
preventivo, in Dir. fall. 2005, I, 839, secondo cui in forza della generale obbligatorietà del
concordato, approvato dalla maggioranza ed omologato dal Tribunale, la tesi contrattuale
dell’istituto in parola non è sostenibile e resta evidente il suo carattere di procedura
concorsuale pubblica, ove il diritto dei creditori di alcuni creditori può essere sacrificato in
vista degli interessi che il legislatore ritiene preminenti››; in questo senso, in chiave più
dubitativa, v. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 150, secondo cui: ‹‹Questi
interrogativi, nei quali si perpetua in questi primi anni di applicazione della novella
legislativa fallimentare il dibattito di opinioni, hanno innescato notevoli dubbi sulla
prevalenza dell’opzione negoziale del concordato rispetto a quella processual-pubblicistica,
rimettendo in discussione gli stessi intendimenti della riforma››; Id. Le nuove procedure di
crisi: natura negoziale o pubblicistica, in Fall. 2008, 991; Id. Concordati, classi di
creditori ed incertezze interpretative, in Fall. 2009, 1129.
60
In questi esatti termini: A. M. Azzaro, Concordato preventivo e autonomia privata, in
Fall. 2007, 1270; v. anche: G. Minutoli, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra
giustizia contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezza), in Fall. 2008, 1047, spec.
1048; in questo senso sembrerebbe orientata anche: I. Pagni, Il controllo del tribunale e la
tutela dei creditori nel concordato preventivo, in cit., 1093, secondo cui: ‹‹È il caso di
anticipare fin d’ora che, a mio parere, le condizioni di legittimità della soluzione concordata
27
Sulle forme, sulle modalità e sui limiti del controllo giurisdizionale ci si
soffermerà nel proseguo dell’indagine.
3. – Il provvedimento di omologazione costituisce poi la condicio iuris
per la produzione di un particolare effetto verso tutti i creditori.
Ci si riferisce - come facilmente intuibile – all’esonero dall’azione
revocatoria per gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse in esecuzione del
piano di concordato previsto dell’art. 67, comma III, lett. e) l.fall. (61).
tra le parti sulle quali il tribunale può, e deve, indipendentemente dalle opposizione, portare
il proprio esame sono essenzialmente l’assenza di un abuso della maggioranza sulla
minoranza, il rispetto della par condicio sostanziale (il riconoscimento, cioè, di un’identità
di trattamento ai creditori che rispondano a posizione giuridica e interessi economici
davvero omogenei, ad evitare il formarsi di maggioranze squilibrate), e la validità
dell’accordo secondo parametri analoghi, anche se non identici, a quelli della nullità e
dell’annullabilità di cui al codice civile››; nello steso senso: A. Tedoldi, Appunti in tema di
omologazione del concordato preventivo, cit. 649; v. anche: C. Esposito, Il piano del
concordato preventivo tra autonomia privata e limiti legali, in S. Ambrosini (a cura di) Le
nuove procedure concorsuali, Bologna-Roma, 2008, 543, per il quale il concetto di
autonomia nel concordato preventivo – per non trasformarsi in anarchia – necessita sia della
fissazione di limiti ed entro cui può esercitarsi, in modo tale che l’istituto in parola possa
comunque continuare ad assolvere alle funzioni che gli sono attribuite dalla legge, sia di un
di controllo sull’esercizio della stessa; v. inoltre: Id. Omologazione del concordato
fallimentare: verifica della regolarità, in Fall. 2009, 863, spec. 866, ove con riferimento
alla proposta avanzata nel concordato fallimentare l’A. afferma: ‹‹l’avvicinamento del
concordato ad ipotesi negoziali consente di inferire alla fattispecie concorsuale – con i
dovuti adattamenti – i limiti all’esercizio dell’autonomia privata fissati nel quarto libro del
codice civile e nelle altre ipotesi regolamentari che si occupano della patologia negoziale
[…] Ecco allora che – nell’interrogarsi entro quali ambiti debba essere espressa
l’autonomia delle parti in seno al concordato fallimentare e con essa il controllo esercitabile
dall’autorità giudiziaria – potrà farsi riferimento proprio a tali regole, sì da utilizzare le
stesse onde indagare come debba presentarsi , in concreto, al proposta affinché sia legittima
e quindi meritevole di tutela secondo le norme del nostro ordinamento, con inevitabili
ricadute sul giudizio di omologazione, visto che una proposta irriverente ai limiti legali non
è regolare››.
61
La disposizione supera finalmente la nota disputa in tema di consecuzione tra
procedure, che ha visto contrapposti, da un lato, coloro che ritenevano che la serie
procedimentale costituita dalla procedura minore e dal successivo fallimento doveva essere
considerata come un’unica procedura senza soluzione di continuità iniziata dal momento
dell’apertura della procedura miniore, per cui i crediti sorti durante la procedura minore in
capo ai terzi dovevano essere considerati prededucibili nel successivo fallimento e gli atti
posti in essere durante la procedura minore non erano soggetti a revocatoria, potendo la
revocatoria avere ad oggetto soltanto gli atti antecedenti alla stessa procedura minore, in
questo senso v. S. Pacchi, Concordato preventivo e prededuzione, in Giur. comm. 1980, I,
28
Tale effetto dovrebbe incentivare l’imprenditore e i suoi creditori a
ricorrere alla procedura concordataria per la risolvere consensualmente la
crisi dell'impresa.
Come noto, prima delle recenti riforme, la soluzione negoziale della crisi
d’impresa esponeva i creditori e l’imprenditore insolvente ad elevati rischi.
Un negozio concluso con l’imprenditore commerciale insolvente può essere
fonte di responsabilità patrimoniale o aquiliana nel caso in cui leda le
ragioni dei terzi-creditori (62) .
Fino a oggi, le regole che presiedevano la gestione dell’insolvenza nella
disciplina civilistica delle obbligazioni hanno sempre dimostrato uno
sfavore dell’ordinamento per l’attività negoziale nell’ambito della crisi
d’impresa .
Così, ad esempio, se l’imprenditore ha dissimulato alla controparte
negoziale lo stato di insolvenza, quest’ultima può agire in giudizio per
ottenere la declaratoria di nullità del contratto concluso, perché contrario a
norma imperativa ai sensi del combinato disposto degli artt. 218 l.fall. e
1418, comma 1, c.c. ; se, invece, la controparte dell’imprenditore era
consapevole dell’insolvenza e tramite il contratto le parti hanno voluto
pregiudicare le ragioni dei terzi creditori, questi possono agire in giudizio
575; P. F. Censoni, Gli effetti del concordato preventivo sui rapporti giuridici preesistenti,
Milano, 1988, 68 ss; V. Giorgi, Consecuzione di procedure concorsuali e prededucibilità
dei crediti, Milano, 1996, passim; dall’altro lato, l’impostazione opposta alla consecuzione
riteneva che vi fosse una netta cesura tra la procedura minore ed il successivo fallimento: di
conseguenza, i crediti sorti durante la procedura minore non erano considerati prededucibili
e gli atti posti in essere durante la procedura minore erano revocabili, in questo senso v. F.
Verde, Trattamento, nel fallimento conseguente ad amministrazione controllata, dei debiti
contratti ai fini dell’esercizio dell’impresa, in Riv. dir. comm. 1978, I, 79 ss.
62
E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 104: «É parimenti possibile di
fatto che un negozio venga concluso dalle parti in pregiudizio di legittime aspettative o
interessi di terzi: sia che il pregiudizio risponda al consapevole intento delle parti - come
accade, quando venga concluso un negozio in frode de’ creditori (art. 2901 c.c.), o si
concluda un consorzio fra produttori a danno dei consumatori -, sia che il pregiudizio del
terzo costituisca solo un risultato, del quale la parte può non essere consapevole: il che è
possibile nella rinunzia all’eredità prevista dall’art. 524, o nella rinunzia all’ipoteca in
pregiudizio di altro creditore nell’espropriazione forzata (secondo l’ipotesi dell’art. 2899), o
nella che una un’impresa cooperativa faccia di proprie azioni senza prelevarne il prezzo
dagli utili residui a mente dell’art. 2357».
29
con l’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.) al fine di ottenere la
dichiarazione di inefficacia nei loro confronti dell’atto dispositivo compiuto
dal debitore; se poi una delle parti contrattuali è un imprenditore
commerciale insolvente, contro gli atti dispositivi compiuti prima della
dichiarazione di fallimento possono trovare applicazione le speciali azioni
revocatorie previste dalle legge fallimentare (art. 64 l.fall. ss).
La nuova esenzione dall’azione revocatoria prevista dall’art. 67, comma
III, lett. e) esprime, invece, l’attuale favor dell’ordinamento per la
definizione negoziale della crisi d’impresa (63).
La previsione di non revocabilità degli ‹‹atti esecutivi›› del concordato
preventivo produce una riduzione della garanzia patrimoniale del debitore
63
Cfr. C. D’Ambrosio, sub art. 67, comma 3°, lett. d), e), g), in A. Jorio – M. Fabiani (a
cura di), Il nuovo diritto fallimentare, II, Bologna, 2007, 985 secondo cui: ‹‹Non vi è alcun
dubbio che la disciplina delle esenzioni di cui all’art. 67, comma III, l. fall. che appare
difficile ricondurre ad una logica unitaria, rappresenta uno degli aspetti di maggiore novità
della riforma: in particolare, le fattispecie di cui alle lett. d), e), g) sono espressione
dell’intento del legislatore di favorire, anche attraverso esenzioni dalla revocatoria, modelli
di soluzione della crisi di impresa alternativi al fallimento e caratterizzati da profili
negoziali››; in questo senso v. anche: Gior. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove)
dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fall. 2005, 842; G. Schiano
di Pepe, La nuova revocatoria fallimentare, in Dir. fall. I, 2005, 798; S. Vincre, Le nuove
norme sulla revocatoria fallimentare, in C. Punzi – E. F. Ricci (a cura di), Le nuove norme
processuali e fallimentari, Padova, 2005, 180; più in generale sull’azione revocatoria nel
nuovo sistema fallimentare v. i commenti di: G. Minutoli, In difesa dell’istituto revocatorio
(brevi riflessioni sulle nuove revocatorie fallimentari ex d.l. 14 marzo 2005, n. 35), in Dir.
fall. 2005, I, 809; Gior. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria
fallimentare nella recente riforma, 842; B. Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla
revocatoria fallimentare, in Giur. comm. 2006, I, 207, il quale osserva che, mentre le
vecchie esenzioni configurano delle eccezioni al principio della par condicio creditorum,
giustificate in ragione del credito esentato, le esenzioni di recente introduzione, invece,
mirano a preservare il valore aziendale dell’impresa insolvente al fine di incentivare la
soluzione concordataria della crisi per il risanamento dell’impresa; sul significato
dell’azione revocatoria dopo le riforme v. L. Stanghellini, La nuova revocatoria
fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in Riv. dir. comm. 2009, 95
secondo cui l’azione revocatoria nell’attuale sistema è comunque ‹‹un deterrente ancora
potente, ma non più irragionevole, che per lo più si dirige contro comportamenti non
virtuosi che non mirino a conservare l’attivo in vista di una migliore soddisfazione dei
creditori: atti di aggravamento (effettivo o potenziale) del dissesto e atti lesivi della par
condicio››; v. però i rilievi critici sollevati da G. Tarzia, La tutela dei creditori concorsuali
dopo la riforma: ridotta o diversa, in Fall. 2007, 309 ss. che collega l’art. 67, comma III, l.
fall., con la privatizzazione dell’insolvenza e con la scelta di conservare l’impresa e i suoi
valori immateriali, perché ciò tutelerebbe meglio i creditori, pur ammettendo che ciò
produca una palese violazione dell’art. 2741 c.c. alla luce di principi costituzionali.
30
che, altrimenti, avrebbe potuto diventare oggetto di esecuzione concorsuale.
Tale effetto è pregiudizievole soprattutto per i creditori successivi
all’apertura della procedura, i quali non hanno potuto partecipare
all’adunanza ed esprimere il loro voto sulla proposta.
I diritti patrimoniali dell’imprenditore costituiscono la garanzia del diritto
del creditore (ex art. 2741 c.c.).
Tra il diritto di garanzia del creditore e i diritti patrimoniali
dell’imprenditore sussiste, come altresì noto, un rapporto di pregiudizialità –
dipendenza di tipo permanente, per cui la situazione dipendente è
condizionata dalla situazione giuridica pregiudiziale (i diritti patrimoniali
del debitore) (64).
Qualunque atto dispositivo (di diritto sostanziale: negozio; di diritto
processuale: sentenza) che incide sulla situazione pregiudiziale (i diritti
patrimoniali del debitore) ha inevitabilmente delle ricadute sulla situazione
dipendente (il diritto di garanzia del creditore) (65).
64
La teoria sull’esistenza nell’ordinamento civile di rapporti di pregiudizialitàdipendenza di tipo permanente tra diritti è stata efficacemente avanzata da F.P. Luiso, Il
principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi, Milano, 1981, 89 ss.
per il quale nel caso dei ‹‹terzi›› con titolo anteriore all’instaurazione del processo,
l’efficacia ultra partes del provvedimento giurisdizionale, diversamente dalle ipotesi in cui
il diritto o l’obbligo sia acquistato durante o dopo il processo, non discende da una norma
(processuale) come gli artt. 111 c.p.c. e 2909 c.c., bensì dal modo d’essere della situazione
sostanziale che fa capo al terzo, dal momento che l’ordinamento la costruisce come
sensibile a tutti i mutamenti, con qualsiasi mezzo provocati, del diritto o dell’obbligo altrui,
ad essa pregiudiziale. Quindi, gli effetti ultra partes nei confronti dei terzi con titolo
anteriore alla litispendenza derivano dal provvedimento, in quanto il terzo è avvantaggiato
o pregiudicato solo in forza del diritto sostanziale: il terzo è cioè titolare di una situazione
giuridica soggettiva dipendente da quella altrui, per cui sulla stessa si riflettono gli effetti di
tutti gli atti o fatti che incidono sulla situazione pregiudiziale. Di conseguenza, come il
terzo sarebbe esposto all’atto di disposizione di diritto sostanziale che abbia ad oggetto la
situazione sostanziale (ad esempio, il sub-conduttore che subisce la risoluzione del proprio
contratto in forza della mancata rinnovazione del contratto di locazione operata dal
condutture, ovvero il creditore che si vede diminuire la propria garanzia patrimoniale per
effetto dell’atto di alienazione di un bene immobile di proprietà del proprio debitore), lo
stesso è esposto agli effetti ‹‹riflessi›› della sentenza che decida di quella stessa situazione.
La sentenza quindi produce in capo al terzo, con titolo anteriore alla litispendenza, gli stessi
effetti degli atti posti in essere dal titolare della situazione pregiudiziale.
65
Cfr. E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 91, il quale a
proposito dei terzi che possono essere pregiudicati “di fatto” dalla sentenza, afferma
31
In altri termini, tutti gli atti dispositivi che hanno a oggetto i diritti
patrimoniali del debitore producono, di riflesso, effetti anche sul diritto alla
garanzia patrimoniale dei creditori ex art. 2741 c.c. (66).
I creditori, rispetto agli atti dispositivi del patrimonio compiuti dal
debitore, sono soggetti terzi, in quanto titolari di una situazione giuridica
soggettiva (il diritto di garanzia) permanentemente dipendente dall’oggetto
del negozio o del provvedimento giurisdizionale che opera il trasferimento
del diritto patrimoniale.
Il titolare di una situazione giuridica permanentemente dipendente non è
tuttavia lasciato senza protezione. L’ordinamento prevede specifici rimedi
contro gli atti dispositivi posti in essere al solo scopo di pregiudicarli: contro
gli atti di diritto sostanziale è data l’azione revocatoria dell’art. 2901 c.c.;
contro le sentenze è data l’opposizione di terzo revocatoria ex art. 404,
chiaramente che in tale categoria devono essere collocati : ‹‹il creditore (chirografario), il
quale risente le conseguenze ( “di fatto”) della sentenza che disconosce al debitore la
proprietà di determinati beni o la spettanza di dati crediti, o riconosce ad altre persone,
verso il debitore, dei diritti di credito; il creditore, il quale invece, s’intende, s’avvantaggia
della sentenza che riconosca al debitore la proprietà di beni o la spettanza di crediti, o
disconosca ad altre persone dei diritti verso il debitore. Qui - si dice – il pregiudizio è
meramente di fatto, non giuridico: il creditore non è menomato nei suoi diritti. Il credito
non gli vien tolto: ne vien solo diminuita la garanzia: o pel fatto che diminuisce il
patrimonio del debitore, o per la circostanza che questo deve servire al soddisfacimento di
maggior numero di diritti creditorii. Carattere precipuo del diritto soggettivo, entità astratta,
è – s’aggiunge – appunto questa: che la sua essenza rimane inalterata, quantunque ne possa
mutare, e anche notevolmente, il valore economico››.
66
La teoria dell’efficacia riflessa fu elaborata per la prima volta nella dottrina d’oltralpe,
con esclusivo riferimento al diritto sostanziale da: R. Jhering, Die Reflexwirkungen oder die
Ruckwirkung rechtlicher Thatsachen auf dritte Personem, in Jahrbucher fur die Dogmatik
des heutigen romischen und deutschen Privaterchts 1871, (Band X), 245-275, ed in Geist
des romischen Rechts auf den verschiedenen Stufen senier Entwicklung, Iena, 1882, vol.
II, 79-177. L’A. sviluppò la teoria in esame partendo dall’analisi del mondo biologico, ove
egli osservò che la riflessione non è altro che una reazione immediata che presenta i
caratteri della involontarietà. Passando dal mondo biologico al mondo giuridico, Jhering
ritenne che anche in quest’ultimo gli effetti di un atto possano essere distinti a seconda che
siano affetti prestabiliti e voluti (c.d. diretti), ovvero, effetti non voluti, ma che si
verificano, per nessi di dipendenza esistenti tra i molteplici rapporti giuridici, su soggetti
diversi da quelli direttamente interessati. Questa seconda tipologia di effetti costituisce
l’efficacia riflessa, caratterizzata dalla involontarietà e dall’automatismo. Il concetto di
efficacia riflessa enucleato da Jhering è stato poi ripreso E. Betti, Teoria generale del
negozio giuridico, cit. 264; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile,
Napoli,1964, 238.
32
comma II, c.p.c.
Ora, il patrimonio dell’imprenditore concordatario costituisce l’oggetto
degli ‹‹atti esecutivi›› autorizzati dal provvedimento di omologa.
Gli atti compiuti in esecuzione del concordato preventivo, secondo
quanto previsto dall’art. 67, comma III, lett. e) l. fall., non sono soggetti
all’azione revocatoria fallimentare se la soluzione negoziale si converte
nella procedura fallimentare.
L’esonero dall’azione revocatoria fallimentare sancisce un giudizio
astratto sulla meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti con tali atti
(67).
Il concordato preventivo consente, ad esempio, di garantire: a) la
prosecuzione dell’attività d’impresa; b) di consentire la sopravvivenza di un
determinato numero di posti di lavoro; c) la tutela dell’avviamento
dell’impresa in crisi; d) di realizzare perdite minori (sebbene certe) per i
creditori; e) di sottrarre gli amministratori e il proprietario dell’impresa dal
rischio penale.
Tali interessi appaiono sicuramente meritevoli di tutela in quanto
compatibili con l’ordinamento civile.
Ma occorre verificare se gli atti esecutivi perseguano effettivamente tali
interessi, soprattutto se siano stati posti in essere in conformità agli scopi
dell’istituto concordatario.
67
Cfr. L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei
diritti dei creditori, in Riv. dir. comm. 2009, I, 93 ss per il quale l’esonero dall’azione
revocatoria è espressione della meritevolezza della contrattazione, purché basata su
ragionevoli e fattibili strategie di superamento della crisi; v. anche: F. Di Marzio, Crisi
d’impresa e contratto. Note sulla tutela dell’acquirente dell’immobile da costruire, in Dir.
fall. 2006, I, 54 per il quale l’esenzione dall’azione revocatoria andrebbe limitata ‹‹non
semplicemente agli atti esecutivi di un piano che risulti ragionevole nella predisposizione,
ma – più limitatamente – agli atti anche negoziali esecutivi di un piano che risulti ancora
ragionevole al momento in cui l’atto esecutivo è posto in essere››, tant’è che in caso
contrario secondo questo A. ‹‹tale atto, in quanto realizzato nel contesto di un programma
che già si rivela destinato all’insuccesso (benché all’inizio apparisse e fosse certificato
come ragionevole), sarebbe immeritevole di tutela (nello specifico senso dell’art. 1322 c.c.)
e dunque di esenzione››.
33
La libertà concessa all’imprenditore deve conciliarsi con la struttura (c.d.
concorsuale) e la funzione del concordato preventivo (i.e. soddisfare i
creditori nel rispetto della ‹‹tendenziale›› parità di trattamento tra i creditori
dell’imprenditore commerciale) (68).
Perciò, mentre il negozio concluso tra un imprenditore commerciale e
alcuni suoi creditori è meritevole di tutela purché non pregiudichi i diritti
dei c.d. «terzi-creditori», viceversa, il negozio concluso nelle forme della
procedura di concordato preventivo, oltre a non arrecare un pregiudizio ai
c.d. «terzi-creditori», deve anche, per quanto concretamente possibile,
arrecare loro dei vantaggi (69).
In altri e più precisi termini, il negozio concluso nelle forme della
procedura di concordato preventivo, oltre a non ledere gli interessi dei c.d.
«terzi-creditori», deve anche consentire l’adempimento delle obbligazioni di
tutti creditori, in particolar modo di quelli che non hanno prestato il
consenso alla soluzione negoziata.
Nel concordato preventivo si ritrovano a convivere due finalità:
a) la necessità di assicurare la protezione degli atti esecutivi, per indurre
le parti alla ricerca di un risoluzione negoziale della crisi d’impresa;
b) l’obbligo di reprimere gli atti esecutivi posti in essere in violazione
degli scopi del concordato preventivo (70).
68
In questo senso chiaramente: A. M. Azzaro, Concordato preventivo e autonomia
privata, cit. 1270; C. Esposito, Il piano di concordato preventivo tra autonomia privata e
limiti legali, cit. 543; G. Minutoli, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia
contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezza), cit. 1052 ss; G. B. Nardecchia, Crisi
d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, 2007, 302.
69
In generale sul tema della ‹‹immeritevolezza›› del contratto come condizione che
rende l’accordo passibile di azione revocatoria esperibile da parte del terzo v. F. Di Marzio,
Il contratto immeritevole nell’epoca del postmoderno, in Id. (a cura di) Illiceità,
immeritevolezza, nullità. Aspetti problematici dell’invalidità contrattuale, Napoli, 2004,
121 ss.
70
Sui rapporti tra autonomia contrattuale, crisi d’impresa ed individuazione di
specifiche forme di tutela sia per la stabilità del negozio che del diritto dei terzi creditori v.
F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una
ricostruzione sistematica delle tutele, in Riv. soc. 2008, 131 ss. spec. 137 ove l’A. afferma
che: ‹‹È evidente, infatti, che ci si trova al cospetto di uno scenario normativo in cui non
34
Di primo acchito sembrerebbero due finalità in antitesi.
L’antitesi, a ben vedere, è solo apparente ed è facilmente superabile.
Il negozio concluso nelle forme della procedura di concordato preventivo
deve assicurare, innanzitutto, un preciso risultato, pensabile anche in termini
di causa stessa del negozio: la soddisfazione di tutti i creditori, anche se
rimasti minoranza in sede di deliberazione, nella misura, concretamente
possibile, più alta (71).
Partendo da questa premessa, allora, gli atti esecutivi potranno ritenersi
meritevoli di protezione a condizione che nel momento in cui sono stati
compiuti:
a) erano conformi al piano posto a base della proposta concordataria;
b) dipendevano da un piano concretamente idoneo a realizzare il
superamento della crisi d’impresa, tramite la via della liquidazione
o della prosecuzione dell’attività aziendale;
c) consentivano a tutti i creditori di conseguire, in conformità al
piano, la soddisfazione dei loro crediti.
La meritevolezza di tutela dell’atto esecutivo e, quindi, la sua non
revocabilità, dipenderà dalle concrete modalità di esecuzione del piano e
della proposta di concordato (72).
soltanto il rapporto fra libertà contrattuale e crisi d’impresa è destinato ad acquisire un
ruolo sempre più rilevante, avendo lo stesso legislatore disciplinato in maniera articolata gli
accordi, senza eludere in alcun modo la creatività delle parti nel dar vita a combinazioni
negoziali diverse, purché sia chiara l’esigenza di bilanciare la libertà delle parti contraenti
(e il loro interesse alla stabilità dei vincoli) con il controllo e la funzione di garanzia degli
interessi dei creditori e dei terzi in genere››.
71
Cfr. G. De Nova, Le convenzioni attuative del piano di ristrutturazione, in D.
Masciandaro – F. Riolo (a cura di) Crisi d’impresa e risanamento. Ruolo delle banche e
prospettive di riforma, Roma, 1997, 230; v. anche: F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa
e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, in Riv.
soc. 2008, 139, secondo cui l’individuazione della causa nelle soluzioni negoziali della crisi
d’impresa rappresenterebbe ‹‹la questione teorica più rilevante›› in materia, in ogni caso la
causa del negozio sulla crisi d’impresa per tale A. andrebbe individuata, appunto, nella
gestione della crisi ossia nell’interesse concreto a perseguirne il superamento.
72
P. Marano, Le ristrutturazioni dei debiti e la continuazione dell’impresa, in Fall.
2006, 101, il quale rileva che: ‹‹È sbagliato ritenere, però, che l’esenzione dalla revocatoria
35
Detto altrimenti, nel procedere concretamente alla distribuzione delle
risorse economiche, il negozio sulla crisi d’impresa non deve ledere gli
interessi dei c.d. «terzi-creditori» e deve arrecare, per quanto concretamente
possibile, vantaggi economici a tutti i componenti del ceto creditorio (73).
Sul profilo in questione si ritornerà più approfonditamente nel proseguo
dell’indagine, in particolare, quando si affronteranno l’oggetto e l’ampiezza
del sindacato giurisdizionale del giudizio di omologazione e i rimedi
esperibili a tutela dei c.d. «terzi-creditori» nella fase esecutiva.
Per il momento è sufficiente osservare che il negozio in esame,
nell’ipotesi di conversione della soluzione negoziata nel procedimento
fallimentare, avrà modo di mostrare la sua peculiarità normativa rispetto al
negozio concluso fuori della procedura di concordato: gli atti, i pagamenti e
le garanzie poste in essere durante la fase esecutiva saranno sottratti
all’azione revocatoria.
fallimentare sia una sorta di premio per ogni soluzione che permetta ai creditori di essere
soddisfatti. Può verificarsi che il risultato auspicato non sia raggiunto››.
73
Cfr. le considerazioni svolte da V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti
‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti), in Riv. dir. priv. 2007, 293 ss, sulla
problematica della diversa “giustizia” di distribuzione delle risorse prodotte tra i diversi
modelli della gestione negoziale della crisi d’impresa, vale a dire, tra il modello degli
accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182 – bis l. fall. ed il modello del concordato
preventivo ex art. 160 ss. Nell’accordo di ristrutturazione infatti la ripartizione delle risorse
tra i creditori deve ritenersi sicuramente “giusta” sia con riferimento ai creditori aderenti,
sia con riferimento ai creditori estranei: quanto ai primi la “giustizia” è rinvenibile nella
“contrattualità” del trattamento loro stessi scelto, quanto ai secondo invece la “giustizia” sta
nel fatto che per essi è normativamente garantita la prospettiva di poter ricevere il massimo
di cioè che legittimamente possono pretendere. Nel concordato preventivo invece la
“giustizia” della distribuzione per i creditori aderenti è, ovviamente, presidiata dalla
garanzia formale/procedurale dal voto espresso nella deliberazione favorevole; mentre la
questione delle “giusta” distribuzione non può rinvenirsi per i creditori che non hanno
votato a favore della proposta di concordato, i quali – non risultando qui coperti dalla
garanzia della soddisfazione integrale del loro credito – rischiano il più delle volte di subire
un sacrificio in misura più o meno penalizzante, senza avere manifestato la volontà di
accettare questo esito, anzi, avendo magari manifestato una volontà contraria. Per questo A.
la problematica della questione relativa ad una “giusta” distribuzione del surplus creato
dalla gestione concordataria della crisi è enfatizzato dalla possibilità che la proposta di
concordato preveda la ‹‹suddivisione dei creditori in classi›› e, correlativamente,
‹‹trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse››, dato che la
suddivisione dei creditori, a seconda di come sia applicato, può essere sia un fattore volto a
perseguire la “giustizia”, ma anche un veicolo di “ingiustizia” della soluzione
concordataria.
36
Si è già detto che tale effetto sembrerebbe, a una lettura meramente
formale della disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall.,
tendenzialmente incondizionato.
Ma se il negozio durante la fase esecutiva, eventualmente a fronte di
nuove sopravvenienze, risultasse inidoneo a risolvere la crisi, ovvero, dopo
la dichiarazione di fallimento, con il senno di poi, si scoprisse che non
avrebbe meritato ab origine l’omologazione, gli atti esecutivi posti in essere
al solo fine di beneficiare dell’esonero dall’azione revocatoria, in palese
“abuso” dell’istituto in esame, potrebbero ritenersi meritevoli di tutela ed
esonerati dall’azione revocatoria fallimentare?
Emergono dunque chiaramente i limiti di un’interpretazione meramente
letterale dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. senza che sia accordata alcuna
considerazione alla cornice sistematica entro cui si inserisce tale
disposizione.
Trascurando il punto di vista sistematico, infatti, gli atti dispositivi del
patrimonio del debitore, anche se compiuti non in esecuzione del piano,
ovvero, in esecuzione di un piano ormai inidoneo a risolvere la crisi,
dovrebbero ritenersi sottratti all’azione revocatoria fallimentare.
Sui presupposti, sulle forme e sui limiti di tale interpretazione, che qui si
accenna, si tornerà più approfonditamente nel proseguo dell’indagine.
SEZIONE II
GLI EFFETTI VERSO TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE
4. – Con il decreto legge 14 marzo 2005 n. 35 convertito con modificazioni
dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 è stata introdotta all’art. 182 – bis l.fall. la
disciplina degli ‹‹Accordi di ristrutturazione dei debiti›› (74).
74
Senza alcuna pretesa di esaustività, sull’argomento v. G. Fauceglia, Prime
osservazioni sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. fall. 2005, I, 842; G. Presti,
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa tit. cred. 2006, 16; Id. Rigore è
37
L’istituto in questione rappresenta una significativa novità del nuovo
diritto delle procedure concorsuali, in quanto consente di regolare la crisi
d’impresa (quasi) esclusivamente tramite l’autonomia negoziale dei singoli
soggetti coinvolti (75).
Il nuovo istituto rappresenta l’epilogo di un recente e vivace dibattito che
si è svolto attorno agli strumenti alternativi al fallimento e alle procedure
concorsuali minori per la gestione della crisi d’impresa (76).
Come noto, la legge fallimentare del ’42 non accordava alcuna
considerazione ai concordati stragiudiziali nell’ambito della disciplina del
concorso. Per prevenire l’insolvenza e evitare il fallimento l’imprenditore
doveva ricorrere, rispettivamente, all’amministrazione controllata e al
concordato preventivo. Tali istituti costituivano i mezzi tipici ed esclusivi
per risolvere la crisi d’impresa.
La giurisprudenza di merito riteneva che ogni accordo finalizzato ad
evitare l’apertura di una procedura concorsuale fosse affetto da nullità. I
quando l’arbitro fischia? in Fall. 2009, 25; M. Arato, Gli accordi di salvataggio o di
liquidazione dell’impresa in crisi, in Fall. 2008, 1237; V. Proto, Gli accordi di
ristrutturazione dei debiti, in Fall. 2006, 129; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei
contratti “di salvataggio” (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa, in Riv. dir. priv.
2007, 277 ss.; E. Gabrielli, Accordi di ristrutturazione e tipicità dell’operazione economica,
in Riv. dir. comm. 2009, 1071 ss; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di
ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, I, 337; A. Di Majo, Gli accordi di
ristrutturazione dei debiti ex art. 182 – bis l. fall. in Corr. giur. 2010, 245 ss; A.
Paluchowcki, L’accordo di ristrutturazione ed il controllo del tribunale nel giudizio di
omologazione, in Fall. 2011, 98 ss; F. Rolfi, Gli accordi di ristrutturazione: profili
processuali e ricadute sostanziali, in Fall. 2011, 106.
75
Cfr. V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” (o di
ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 278, secondo cui per effetto della nuova
disposizione dell’art. 182 – bis l. fall. sarebbe ormai caduto il ‹‹dogma›› dell’indisponibilità
della gestione dell’insolvenza.
76
A. Petrucci, voce Concordato stragiudiziale, in Enc. Dir. VII, Milano, 1961, 521 ss;
E. Frascaroli Santi, Il concordato stragiudiziale, Padova, 1984, passim; Ea. Effetti della
composizione stragiudiziale dell’insolvenza, Padova, 1995, passim; Crisi dell’impresa e
soluzioni stragiudiziali, in F. Galgano (diretto da) Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec. XXVII,
Padova, 2005, 3; G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. soc.
1996, 321; F. Bonelli, Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi delle
imprese, in Giur. comm. 1997, I, 488 ss; P. Schlesinger, Convenzioni bancarie di
salvataggio, in Fall. 1997 893; S. Bonfatti – G. Falcone (a cura di), Le procedure
stragiudiziali per la composizione delle crisi d’impresa. I ‹‹protagonisti››, Milano, 1999.
38
concordati stragiudiziali venivano dichiarati invalidi per frode alla legge ex
art. 1344 c.c. in quanto considerati: a) strumenti volti ad eludere
l’applicazione della disciplina delle procedure concorsuali; b) per violazione
di norma imperativa ex art. 1418 c.c. a fronte dell’obbligo dell’imprenditore
insolvente, ricavabile dall’art. 217, n. 4), l. fall. di richiedere il proprio
fallimento (77).
Erano quindi ritenute legittime le convenzioni sulla crisi d’impresa a
condizione che: a) fossero stipulate dall’imprenditore non insolvente e
finalizzate
alla
chiusura
dell’attività
(78);
b)
fossero
concluse
dall’imprenditore insolvente ma con l’adesione di tutti i creditori (79).
La giurisprudenza di legittimità, al contrario, in alcune pronunce aveva
affermato che il concordato stragiudiziale (o c.d. amichevole) poteva
ritenersi ammissibile qualora avesse perseguito la medesima finalità del
concordato preventivo, i.e. la rimozione dell’insolvenza. Il concordato
stragiudiziale poteva consistere anche in una pluralità di singoli accordi,
purché, nel loro complesso, fossero stati finalizzati e capaci di evitare il
fallimento. Così, nell'ipotesi della sopravvenuta dichiarazione di fallimento
77
Cfr. ex plurimis Trib. Ferrara, 28 giugno 1980, in Giur. comm. 1981, II, 306, nella cui
massima si legge che: ‹‹nell’ordinamento vigente – stante l’obbligo dell’imprenditore
insolvente di richiedere il proprio fallimento e di non avventurarsi in un concordato
stragiudiziale che costituisce di per sé colpa grave – non residua spazio alcuno per il
concordato stragiudiziale dell’imprenditore che versi in stato di insolvenza, dovendosi
riconoscere come lecito e consentito solo il concordato stragiudiziale proposto
dall’imprenditore non insolvente››; per la tesi della inammissibilità del concordato
stragiudiziale in quanto contrastante con i fini pubblicistici che si realizzano con il
concordato preventivo v. invece: App. Roma 1° luglio 1985, in Fall. 1986, 971.
78
Cfr. Trib. Ferrara, 28 giugno 1980, in Giur. comm. 1981, 306, con nota di Menghi, Il
concordato stragiudiziale: variazioni minime ad una voce per una grande fuga sul tema;
nello stesso senso, v. anche: Trib. Torino, 7 aprile 1988, Giur. it. 1988, I, 2, 633.
79
Cfr. Trib. Parma, 4 marzo 1981, un Dir. fall. 1982, II, 741; v. tuttavia R. Provinciali,
voce Concordato stragiudiziale, in Nuov. Dig. It. Torino, 1959, III, 987, il quale
giustamente fa notare che l’adesione di tutti i creditori ‹‹se da un lato soddisfa le esigenze
teoriche, non ha possibilità di applicazione pratica, dato che non esiste alcun procedimento
per accertare quali e quanti siano i creditori. Nello stato attuale del nostro diritto, il
concordato stragiudiziale, se non è originariamente invalido per la naturale fragilità delle
sue basi, per certo si conclude sulla sola speranza che i creditori aderenti siano
effettivamente tutti quelli esistenti, onde la stabilità dell’accordo è legata esclusivamente a
questa aspettativa››.
39
fosse emerso che gli accordi non possedevano né la finalità, né la capacità di
evitare il fallimento, questi avrebbero dovuto essere dichiarati nulli. In tal
caso i creditori parti dell’accordo avrebbero riacquistato il diritto a
conseguire l’intera prestazione dedotta nel rapporto obbligatorio in
conformità al titolo originario vantato (80).
L’orientamento di legittimità in questione operava dunque una
distinzione tra il giudizio sull’astratta validità dell’accordo stragiudiziale
(stipulato dall’imprenditore insolvente con alcuni soltanto dei creditori),
rispetto a quello sulla concreta idoneità a rimuovere lo stato di insolvenza.
L’accordo sulla crisi d’impresa concluso tra l’imprenditore insolvente e
alcuni dei suoi creditori non poteva ritenersi sic et simpliciter invalido solo
perché non vi avevano aderito tutti i creditori. Era invece compito del
giudice fallimentare accertare se il negozio sulla crisi d’impresa, concluso
solo con alcuni creditori, fosse ex ante in idoneo a rimuovere lo stato di
insolvenza, nel senso che in concreto al momento della sua conclusione era
capace di rimuovere lo stato di insolvenza (81).
L’indagine sulla validità del concordato stragiudiziale si spostava dal
piano generale ed astratto a quello particolare e concreto. La validità del
concordato stragiudiziale era subordinata al riscontro di una ben precisa
causa: la finalità e la capacità di evitare il fallimento (82).
80
Cfr. Cass. 16 marzo 1979, n. 1562, in Giur. It. 1980, I, 1088, la cui massima recita
che: ‹Il concordato stragiudiziale è caratterizzato da un fascio di contratti remissori,
accompagnati dalla rinunzia a chiedere la dichiarazione del fallimento del debitore. Ciascun
contratto, mentre è collegato all'altro nella finalità - quella di evitare il fallimento - è
immune dal vizio che eventualmente infici l’altro. Ciò comporta l'irrilevanza della mancata
adesione di alcuni creditori all’iniziativa concordataria››; in questo senso v. anche Cass. 26
febbraio 1990, n. 1439, in Giur. it. 1990, I, 713, anche in Fall. 1990, 495; Cass. 26 giugno
1992, n. 8012, in Fall. 1992, 1026; contra Cass. 28 ottobre 1992, n 11722, in Fall. 1993,
352; Cass. 19 novembre 1992, n. 12383, ivi, 1993, 310.
81
Cfr. Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, cit.
82
In questo senso già R. Provinciali, voce Concordato stragiudiziale, cit. 987, che
chiaramente affermava : ‹‹Il concordato stragiudiziale è un rimedio di natura contrattuale
contro l’insolvenza dell’imprenditore commerciale, tendendo alla sistemazione del dissesto
senza impiego di procedimenti concorsuali, che hanno lo stesso scopo, ma con i quali,
datane la natura, è in posizione di antitesi. Intento tipico del concordato stragiudiziale è
40
Sulla scia dell’orientamento in parola si andò sviluppando la prassi di
stipulare con il ceto creditorio, in particolare quello bancario, sopratutto in
presenza di insolvenze di un notevole dimensione, convenzioni finalizzate al
superamento della crisi d’impresa (83).
Le convenzioni bancarie stragiudiziali si manifestarono, però, inadeguate
a risolvere le crisi d’impresa, sia per la carenza di una specifica disciplina
sul contenuto e sugli effetti degli accordi, sia per i rischi a cui si potevano
esporre le parti del negozio per via delle disposizioni dettate in tema di
azione revocatoria e di bancarotta (84).
La disposizione dell’art. 182 – bis l.fall. sugli ‹‹Accordi di
ristrutturazione dei debiti›› consente invece di superare ogni dubbio
sull’astratta validità degli accordi stragiudiziali conclusi soltanto con alcuni
creditori (85).
La disciplina introdotta dal legislatore risente comunque dell’esperienza
maturata in tema di convenzioni bancarie di risanamento (86).
Per l’ammissibilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti viene,
d’evitare la dichiarazione di fallimento (o, in genere, l’apertura dei procedimenti
concorsuali); tale intento costituisce la causa del contratto (art. 1325, n. 2, c.c.) e non va
confuso con il motivo, che ne costituisce soltanto la finalità soggettiva, contingente e
materiale››.
83
Cfr. G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. soc. 1996, 321
ss; N. Irti, Dal salvataggio statale all’intervento bancario, in Riv. soc. 1996, 1081 ss; F.
Bonelli, Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi d’impresa, cit. 488; P.
Schlesinger, Convenzioni bancarie di salvataggio, in Fall. 1997, 893.
84
Cfr. A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei
complessi produttivi, in Giur. comm. 1994, I, 492 ss; A. Bonsignori, Il fallimento sempre
più inattuale, in Dir. fall. 1996, I, 697.
85
Cfr. E. Gabrielli, Autonomia privata e accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv.
esec. forz. 2006, 433 ss secondo cui, sebbene la figura dell’accordo omologato appaia volta
alla valorizzazione dell’autonomia privata, appare tuttavia necessario ‹‹precisarne sia i
limiti che il contenuto al fine di collocarla in un corretto quadro sistematico e di evitare che,
per un verso, rimanga una enunciazione di principio priva di un concreto valore costruttivo;
per un altro che divenga una sorta di schermo protettivo dietro il quale giustificare quelle
costruzioni di c.d. ‹‹ingegnaria concorsuale›› che in realtà nascondono vere e proprie
operazioni illecite o comunque poste in essere in frode ai creditori o ad alcune delle loro
possibili classi››.
86
Cfr. S. Ambrosini, sub art. 182-bis l. fall., in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto
fallimentare, Bologna, 2007, II, 2537.
41
infatti, richiesta la sussistenza degli stessi requisiti richiesti dalla
giurisprudenza di legittimità per la validità del c.d. concordato
stragiudiziale.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti è ammissibile a condizione che:
a) gli impegni assunti dalle parti appaiano, al momento della stipula del
negozio, ‹‹attuabili›› nell’immediato futuro;
b) che l’accordo, nel suo complesso, sia ‹‹idoneo›› ad assicurare il
regolare pagamento dei creditori estranei.
Tali condizioni, più precisamente, devono tradursi nello scopo pratico
perseguito dall’imprenditore e dai creditori aderenti della soluzione
negoziale della crisi d’impresa (87).
L’accordo di ristrutturazione dei debiti, risultante dall’insieme dei singoli
accordi, in altri e più concreti termini, deve avere una ben precisa causa:
risolvere lo stato di crisi e generare risorse economiche da distribuire ai
creditori (88).
87
Con riferimento al significato da attribuire ai requisiti della “attuabilità” e della
“idoneità” cfr. G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 32 ss secondo cui:
‹‹il requisito dell’attuabilità non indica un fine ma uno scenario di concreta realizzabilità
delle previsioni contenute nell’accordo››, mentre il regolare pagamento dei creditori
estranei si atteggia ad essere ‹‹una precisa finalità dell’accordo››; in questo senso v. anche:
F. Di Marzio, Profili sostanziali della fattispecie ‹‹accordi di ristrutturazione dei debiti››,
in Id. (a cura di) La crisi d’impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare,
Padova, 2010, 307.
88
Cfr. E. Gabrielli, Accordi di ristrutturazione del debito e tipicità dell’operazione
economica, in F. Di Marzio – F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi
d’impresa, Milano, 270, per il quale chiaramente: ‹‹La causa del contratto, intesa come
funzione concreta, va quindi rinvenuta nella rimozione della situazione di crisi dell’impresa
e nel pagamento regolare dei creditori aderenti››; in questo senso anche M. Sciuto, Effetti
legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, I, 343,
per il quale: ‹‹Il contenuto dell’accordo, inteso come l’insieme degli impegni assunti dalle
parti per ristrutturare il debito, è infatti tendenzialmente libero. Solo occorre che esso si
presti ad assicurare – non solo in termini di formale impegno, ma anche di concreta
fattibilità – un certo risultato, pensabile allora in termini di causa : una ristrutturazione dei
debiti tale da garantire il regolare pagamento dei creditori estranei e quindi scongiurare, in
definitiva, l’insolvenza dell’imprenditore››; in questo senso anche: V. Roppo, Profili
strutturali e funzionali dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti
d’impresa), cit. 291, il quale, però, effettua l’indagine sulla causa in un duplice approccio,
vale a dire, sia nei termini più convenzionali che lo portano ad identificarla nel superamento
della crisi d’impresa e nel regolare pagamento dei creditori estranei, sia nel senso meno
42
Negli accordi di ristrutturazione le parti possono ricorre a diverse
tipologie contrattuali (ad esempio, remissioni del debito, patti di dilazione
del debito, nuova apertura di credito etc.) le quali, nel loro complesso,
devono essere funzionalmente indirizzate a rimuovere lo stato di crisi
dell’impresa.
Nel perseguire questa finalità il debitore deve assicurare ai creditori
estranei - i c.d. terzi – l’integrale pagamento. La tutela del credito dei terzi è
assunta dalla legge, a ben vedere, a presupposto logico dell’istituto in esame
(89).
La tutela dei terzi, più precisamente, è elevata a condizione di
meritevolezza di tutela di un ‹‹contratto sulla crisi d’impresa›› (90).
Se, in generale, un contratto deve ritenersi meritevole di tutela purché
non arrechi pregiudizio ai terzi, il ‹‹contratto sulla crisi d’impresa››,
viceversa, oltre a non arrecare pregiudizio ai c.d. terzi-creditori, deve
arrecare loro dei vantaggi economici.
Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti i vantaggi economici devono
consistere nell’integrale pagamento dei crediti vantati dai non aderenti (91).
convenzionale di produzione e distribuzione di risorse, destinate alla soddisfazione dei
creditori, superiore a quella che si creerebbe con la classica liquidazione dell’attivo in sede
concorsuale.
89
V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di
ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 387, secondo cui ‹‹superamento della crisi o
eliminazione dell’insolvenza identificano la funzione economico-sociale ultima degli
accordi di ristrutturazione dei debiti di impresa. E il loro modo di manifestarsi –
comprovando che quella funzione è effettivamente attuata – il “regolare pagamento dei
creditori” all’accordo, di cui parla l’art. 182- bis, comma 1, l. fall. ultimo inciso.
L’ordinamento considera gli accordi di ristrutturazione “meritevoli di tutela”, in quanto
garantiscano che tutti i creditori che non ne sono parte vengano regolarmente pagati. Per tal
via, il pagamento dei creditori “estranei” – che sembrerebbe a prima vista un elemento del
tutto estrinseco all’accordo, in quanto riferito a soggetti che per definizione non vi
partecipano – si rivela in realtà un dato intrinsecamente essenziale e fondante dell’accordo
stesso, diciamo pure un elemento significativo della sua causa (nell’accezione “oggettiva” e
tipizzante di funzione economico-sociale)››.
90
La categoria è proposta da: G. Vettori, Il contratto sulla crisi d’impresa, in F. Di
Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 233 ss.
91
Tale finalità consentirebbe di qualificare l’accordo di ristrutturazione dei debiti come
contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.) per : V. Roppo, Profili funzionali e strutturali dei
contratti di ‹‹salvataggio›› cit. 371; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di
43
L’obbligo di garantire il regolare pagamento dei c.d «terzi-creditori»
dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, altro non è che una specificazione
della finalità del diritto della crisi d’impresa: la tutela del diritto di credito.
Il diritto della crisi d’impresa si caratterizza per la previsione di specifici
presidi legali appositamente predisposti nell’interesse dei c.d. «terzicreditori» rispetto alle scelte negoziali compiute dal debitore. Gli strumenti
in parola consistono in rimedi di natura conservativa (azioni di inefficacia o
revocatorie previste nella legge fallimentare) o in rimedi di natura
risarcitoria (azione di risarcimento danni per c.d. ‹‹abusiva›› concessione di
credito).
Ne segue quindi che un ‹‹negozio sulla crisi d’impresa›› non deve mai
produrre né effetti diretti, né effetti riflessi pregiudizievoli per i terzi.
Ciò è evidente ponendo l’attenzione sulle diverse finalità sottese agli
strumenti negoziali di soluzione della crisi, nei quali è possibile ravvisare
una duplicità di scopi.
Da una verso, tali strumenti servono per veicolare il «mezzo», vale a dire
le modalità con cui l’imprenditore e i suoi creditori possono regolare la crisi
d’impresa. Tali modalità possono consistere nella liquidazione del
patrimonio dell’impresa o nella ristrutturazione aziendale con prosecuzione
dell’attività.
Dall’altro verso, tutti gli strumenti di risoluzione negoziale delle crisi, a
prescindere dal mezzo prescelto, in virtù della loro collocazione sistematica
endo-fallimentare, devono perseguire il soddisfacimento di tutti creditori
ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, I, 349; contra F. Ferro – Luzi, Prolegomeni
in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del
paradosso del terzo creditore ‹‹estraneo…ma non troppo››, in Riv. dir. comm. 2008, I, 830,
secondo cui, dal momento che il debitore non assumerebbe una posizione contrattuale
assimilabile a quella del promittente descritta dall’art. 1411 c.c., sarebbe più appropriato
ritenere che la fattispecie negoziale in questione si traduca in realtà un contratto con
‹‹effetti favorevoli›› per i terzi. Meglio ancora, tuttavia, sarebbe più opportuno discorrere
(forse tecnicamente) di un contratto con effetti protettivi del diritto di credito dei terzi. La
disposizione infatti richiede soltanto che l’accordo non pregiudichi i terzi, ma anzi mediante
l’attuazione dell’accordo il terzo realizzi la soddisfazione del proprio credito.
44
coinvolti dalla crisi.
Seguendo tale impostazione, allora, un negozio sulla crisi d’impresa che
produca effetti diretti o effetti riflessi pregiudizievoli per alcuni creditori, in
particolare per quelli che non hanno prestato il consenso alla soluzione
negoziata proposta (rectius i terzi) integrerebbe un abuso dello strumento
giuridico a messo a disposizione dei soggetti coinvolti dalla crisi.
Alla luce di quanto precede un negozio sulla crisi d’impresa con effetti
pregiudizievoli per i terzi, seppur lecito e vincolante tra le parti, non può
ritenersi meritevole di tutela (92).
Di qui l’opportunità di passare ad esaminare la posizione giuridica dei
c.d. «terzi-creditori» rispetto all’accordo di ristrutturazione.
Tale indagine verrà svolta su due distinti e successivi livelli di
approfondimento: a) in un primo momento di sintesi volto ad individuare gli
effetti diretti e riflessi che possono prodursi in capo a c.d. terzi-creditori; b)
in un secondo momento di analisi degli strumenti di tutela spendibili dai c.d.
«terzi-creditori» per tutelare i loro interessi, che verrà invece affrontato nel
proseguo del lavoro.
5.- Gli effetti diretti nei confronti dei terzi è stato il profilo su cui si sono
maggiormente
confrontati
i
primi
commentatori
dell’accordo
di
ristrutturazione dei debiti.
La definizione dell’aspetto in questione rappresenta l’antecedente logico
– giuridico da cui occorre necessariamente muovere al fine di poter prendere
posizione sulla natura e sulla struttura del procedimento descritto dall’art.
182 – bis l. fall.
92
In altri termini, il contratto sulla ‹‹crisi d’impresa›› in danno dei terzi sebbene non sia
illecito in quanto non è in contrasto né con l’ordine pubblico, né con una norma imperativa,
tuttavia, determinando una lesione del credito dei terzi si ritiene immeritevole di tutela
rispetto ad essi; in questo senso F. Di Marzio, Appunti sul contratto immeritevole, in Riv.
dir. priv. 2005, I, 305, per il quale la clausole generale di meritevolezza di cui all’art. 1322,
comma 2° c.c., può rappresentare un presidio a tutela degli interessi dei terzi pregiudicati
dal contratto.
45
Secondo alcuni tra i primi commentatori, gli accordi di ristrutturazione
dei debiti sono vincolanti anche per i terzi, nel senso che anche a questi si
devono estendere le modalità di adempimento delle obbligazioni stabilite
per i creditori aderenti. Per cui, il ‹‹pagamento›› dei creditori estranei deve
avvenire secondo le modalità definite dalle parti aderenti all’accordo di
ristrutturazione e non, invece, secondo quanto stato stabilito tra il debitore
ed i terzi nel ‹‹titolo›› originario che ha dato origine al rapporto obbligatorio
(93).
Tale tesi si fondava su una vera e propria presupposizione: l’art. 182 - bis
l. fall. disciplinerebbe un vero e proprio procedimento concorsuale, per cui,
rispetto ai terzi avrebbero dovuto operare le stesse regole di efficacia del
decreto di omologazione previste per il concordato preventivo (94).
In senso contrario alla tesi appena richiamata, si è tuttavia posto in risalto
che l’accordo di ristrutturazione dei debiti non ha la natura, né la struttura di
procedimento concorsuale, in quanto è un atto di autonomia negoziale. Per
tale ragione non possono applicarsi in via analogica le disposizioni che
regolano l’efficacia verso terzi del concordato preventivo (art. 184 l. fall.)
(95).
93
In questo senso: G. Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182 – bis l. fall. in
Dir. fall. 2005, I, 870; M. R. Grossi, La riforma della legge fallimentare. Commenti e
formule della nuova revocatoria fallimentare e del nuovo concordato preventivo, Milano,
2005, 337; G. Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art.182 – bis l. fall. :
un’occasione da non perdere, in Dir. fall. 2006, II, 682; F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in
tema di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del
paradosso del terzo creditore “estraneo…ma non troppo”, cit., 825; in giurisprudenza v. la
isolata pronuncia del Trib. Milano, decr. 21 dicembre 2005, in Fall. 2006, 670, con critica
di M. Fabiani, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182
– bis l. fall., il tribunale milanese aveva omologato un accordo di ristrutturazione in cui si
prevedeva che ai creditori estranei all’accordo venisse offerta la stessa percentuale
negoziata con gli aderenti.
94
In questo senso: M. Ferro, Art. 182 – bis, la nuova ristrutturazione dei debiti, in Il
nuovo diritto delle società, 2005, 56; G. Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182
– bis l. fall. cit. 871; G. Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art.182 – bis l.
fall. : un’occasione da non perdere, cit. 674.
95
Così chiaramente: G. Canale, Le nuove norme sul concordato preventivo e sugli
accordi di ristrutturazione, in Riv. dir. proc. 2005, 918; G. Presti, Gli accordi di
ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa e tit. cred. 2006, 27 e ss; L. Stanghellini,
46
Ora, non può essere sottaciuto che il concordato preventivo e l’accordo di
ristrutturazione dei debiti presentano caratteristiche affini. Entrambi sono
strumenti negoziali per mezzo dei quali si può giungere a una soluzione
della crisi d’impresa.
In ciascuno sono presenti la ristrutturazione del debito, la necessità del
consenso
delle
parti,
la
relazione
dell’esperto
e
l’omologazione
giurisdizionale.
Ad una lettura più attenta emerge, però, che questi due istituti presentano
notevoli differenze strutturali.
Nell’accordo di ristrutturazione, innanzitutto, non opera la regola della
maggioranza. La circostanza che l’accordo debba essere concluso con
almeno tanti creditori rappresentanti il sessanta percento dell’esposizione
debitoria, integra soltanto una mera condizione per l’omologazione (96).
Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in
Fall. 2006, 379; Id. Le crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza,
Bologna, 2007, 335, il quale, nel tracciare una distinzione tra soluzioni stragiudiziali e
procedure di insolvenza, osserva che: ‹‹la definizione di soluzione stragiudiziale deve
essere incentrata sul suo carattere non vincolante per chi non vi aderisca, anche quando il
giudice vi intervenga come “facilitatore” o “stabilizzatore”, mentre non può in alcun modo
essere definita “stragiudiziale” una soluzione che, ancorché negoziata con flessibilità dalle
parti, si proponga di essere efficace per tutti››; M. Fabiani, Il regolare pagamento dei
creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 – bis, in Foro it. 2006, I, 2564; M. Arato,
Gli accordi di salvataggio o di liquidazione dell’impresa in crisi, in Fall. 2008, 1237; G. B.
Nardecchia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed il procedimento per la
dichiarazione di fallimento, nota a Trib. Udine, 22 giugno 2007, in Fall. 2008, 703; R.
Proietti, I nuovi accordi di ristrutturazione dei debiti, nota a Trib. Milano, 11 gennaio 2007,
in Dir. fall, II, 2008, 136 ss; in giurisprudenza v. Trib. Brescia, decr. 22 febbraio 2006, in
Dir. prat. comm. 2006, 1001, in cui viene chiaramente specificato come per regolare
pagamento dei creditori estranei debba intendersi “l’esatto pagamento” effettuato alla
scadenza e non il pagamento compiuto sulla base di regole concordate tra il debitore e i
creditori aderenti all’accordo; v. però le corrette osservazioni di V. Roppo Profili strutturali
e funzionali dei contratti di ‹‹salvataggio››, cit. 379 secondo cui si può ritenere come
‹‹regolare pagamento›› anche un pagamento tardivo rispetto al titolo, perché sia compiuto
non appena l’accordo abbia acquistato efficacia e perché il ritardo sia adeguatamente
compensato con la corresponsione degli interessi.
96
Cfr. C. Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella
crisi d’impresa e ruolo del giudice, in Fall. 2007, 193, il quale opera una efficace
comparazione tra l’accordo di ristrutturazione ed il concordato preventivo, facendo notare
che: ‹‹La diversa decorrenza dell’efficacia dell’accordo e dell’efficacia del concordato è
significativa, ma come conferma di una sostanziale differenza: - l’accordo di
ristrutturazione è in tutto e per tutto un contratto (a seconda dei casi un contratto
47
In secondo luogo, il concordato preventivo è concluso nell'ambito di un
vero e proprio procedimento giurisdizionale, l’accordo di ristrutturazione
invece è un negozio retto esclusivamente dalle regole dell’autonomia
privata, che solo una volta perfezionato viene sottoposto ad una fase di
verifica giurisdizionale (il giudizio di omologazione) (97).
Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 - bis l. fall. non
opera la regola della par condicio creditorum.
Sulla scorta di tali considerazioni appariva, forse, preferibile interpretare
plurilaterale o un complesso di contratti bilaterali) che si perfeziona secondo i criteri
civilistici con le modalità previste dall’art. 1326 c.c., sostanzialmente riconducibili alla
conoscenza dell’accettazione (in questo caso è l’accettazione dei creditori) da parte di chi
ha fatto la proposta (in questo caso, il debitore); l’omologa non incide sul perfezionarsi del
contratto, ma sul prodursi di un effetto ulteriore, che non incide sulle prestazioni dovute dai
contraenti (salvo particolari pattuizioni che condizionino l’accordo all’omologa), ma, in
senso lato, incide su terzi estranei determinando la perdita del vantaggio della revocatoria
fallimentare in caso di fallimento per tutti gli atti e pagamenti compiuti dopo la
pubblicazione e in esecuzione dell’accordo; - il concordato preventivo non è un contratto,
ma una procedura (concorsuale), ancorché caratterizzata da un ampio prevalere
dell’autonomia privata, e si perfeziona non per l’incontro dei consensi, ma con l’omologa
del tribunale il quale verifica non già l’esistenza di un consenso, ma il raggiungimento di
una maggioranza; in questa procedura [però] sono coinvolti tutti i creditori, i quali sono
chiamati ad esprimere un voto; nell’accordo può essere coinvolto anche un solo creditore
(se il suo credito rappresenti almeno il 60 % dell’ammontare totale dei crediti)››; in questo
senso anche: G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 21 ss; G. Minutoli,
L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito (o
meritevolezza), cit. 1054; M. Manente, Non omologabilità degli accordi ex art. 182 – bis l.
fall. e procedimento per la dichiarazione di fallimento del debitore, in Dir. fall. II, 2008,
305.
97
Anche dopo il recente intervento ad opera del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 convertito
nella successiva l. 30 luglio 2010 n. 122 mediante il quale: a) all’art. 182 – bis l. fall. sono
stati aggiunti quattro nuovi commi (dal 6° al 9°) in cui viene disciplinata la procedura per
conseguire, durante le trattative, il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o
esecutive; b) si è introdotto l’art. 182 – quater l. fall. il quale prevede, al comma 1°, la
prededucibilità dei crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati da banche
e intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli artt. 106 e 107, d. lgs. 1°settembre
1993, n. 385, in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione
omologato dal Tribunale, ed al comma 2°, l’estensione del beneficio della prededuzione ai
crediti derivanti da finanziamenti effettuati (dai medesimi soggetti) in funzione della
presentazione della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti,
qualora i finanziamenti siano previsti dall’accordo di ristrutturazione e purché quest’ultimo
venga poi omologato; l’istituto in questione non può tuttavia ritenersi un procedimento
concorsuale mancando le due caratteristiche tipiche per ammettere tale qualificazione: non
è infatti previsto né il (tendenziale) coinvolgimento di tutti i creditori del debitore (la c.d.
concorsualità), né che l’intero patrimonio del debitore debba essere destinato al
soddisfacimento dei creditori (la c.d. universalità).
48
la formula impiegata originariamente dal legislatore ‹‹regolare pagamento
dei creditori non aderenti›› come un chiaro limite all’estensione del
contenuto degli accordi verso terzi (98).
Tale interpretazione può dirsi ormai confermata, in quanto il primo
comma dell’art. 182 – bis l. fall. è stato modificato dall’art. 33, comma 1,
lett. e) n. 1) del 22 giugno 2012, n. 83 ed è stato espressamente previsto che
l’accordo di ristrutturazione deve: ‹‹assicurare l’integrale pagamento dei
creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini: a) entro centoventi giorni
dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro
centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla
data dell’omologazione››.
Si è, cioè, previsto, da un verso, l’obbligo di garantire l’integrale
pagamento dei terzi creditori e, dall'altro verso, la possibilità di beneficiare
di una moratoria legale di centoventi giorni.
Va tuttavia osservato che ciò integra, a ben vedere, un evidente effetto
diretto del provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione,
che induce forse a propendere sempre di più verso la natura concorsuale
dell’istituto, piuttosto di quella negoziale.
6. – Oltre al rilievo che precede, occorre notare come il principio della
relatività degli effetti del contratto (art. 1372 c.c.) presenti in questo negozio
una eccezionale deroga.
In virtù del decreto di omologazione, infatti, l’accordo di ristrutturazione
produrrà effetti riflessi sulla garanzia patrimoniale offerta dall’imprenditore,
98
In questo senso: L. Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge
fallimentare, Torino, 2005, 125; C. Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei
soggetti coinvolti nella crisi d’impresa e ruolo del giudice, cit. 192, spec. nota 14; M.
Arato, Fallimento: le nuove norme introdotte con l. 80/2005, in Dir. fall. I, 173; E.
Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 – bis) e gli effetti per
coobbligati e fideiussori del debitore, in Dir. fall. 2005, I, 857; M. Fabiani, Il regolare
pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 – bis l. fall. in Foro it.
2006, I, 2564.
49
ciò in dipendenza della irrevocabilità degli atti esecutivi prevista dall’art.
67, comma 3°, lett. e) l. fall.
L’ambito soggettivo dell’esonero dall’azione revocatoria non risulta,
tuttavia, ancora ben definito.
La disposizione dell’art. 67, comma 3, lett. e) parlando di atti, pagamenti
e garanzie posti in essere ‹‹in esecuzione›› dell’accordo omologato è stata
oggetto di una duplice lettura da parte dei primi commentatori della riforma.
Secondo taluni a tale espressione dev’essere attribuito il significato più
ampio possibile, nel senso che anche il pagamento dei creditori estranei –
vuoi che sia stato espressamente previsto nell’accordo, vuoi che sia soltanto
l’effetto dell’attuazione dell’accordo – deve ritenersi immune dall’azione
revocatoria (99).
Diversamente opinando si finirebbe per penalizzare proprio quei creditori
che la norma vorrebbe tutelare (100).
Secondo altri, invece, i creditori estranei non sarebbero sottratti al rischio
revocatorio, in quanto non subiscono alcuna ristrutturazione dei debiti e
restano liberi di agire per l’immediata realizzazione del loro credito (101).
Il beneficio dell’esonero dall’azione revocatoria previsto dall’art. 67,
comma 3, lett. e) l.fall. sarebbe limitato ai soli creditori aderenti all’accordo.
99
In questo senso: G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 38; S. Bonfatti
– P. F. Censoni, La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare del
concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, 282; G. Falcone,
“La gestione privatistica dell’insolvenza” tra accordi di ristrutturazione e piani di
risanamento, in G. Falcone – S. Bonfatti, (a cura di) Le nuove procedure concorsuali per la
prevenzione e la sistemazione della crisi d’impresa, Milano, 2006, 281; E. Frascaroli Santi,
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Un nuovo procedimento concorsuale, Padova,
2009, 172;V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di ‹‹salvataggio››, cit. 386
per il quale il ‹‹regolare pagamento dei creditori estranei›› non può che avvenire ‹‹in
esecuzione›› dell’accordo medesimo; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit. 366.
100
Cfr. E. Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della cresi d’impresa.
Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, in Banca
borsa tit. cred. 2010, 295.
101
In questo senso: E. Gabrielli, Autonomia privata e accordi di ristrutturazione dei
debiti, cit. 446; V. Proto Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti
nella crisi d’impresa e ruolo del giudice, cit. 193.
50
Si tratterebbe di effetto “premiale” per coloro che hanno accettato una
ristrutturazione dei loro crediti.
La via interpretativa da ultimo richiamata appare preferibile per le
seguenti ragioni.
Innanzitutto, estendere l’area soggettiva dell’esenzione dall’azione
revocatoria incoraggerebbe i creditori a non aderire a un accordo di
ristrutturazione, piuttosto che aderirvi. In altri termini, se i creditori estranei
potessero beneficiare dell’esonero dall’azione revocatoria fallimentare
risulterebbe sempre più conveniente non aderire ad un accordo di
ristrutturazione rispetto che aderirvi, in quanto: a) come creditore estraneo si
conserverebbe il diritto ad essere pagati per l’intero ammontare del credito
secondo quanto stabilito nel titolo originario; b) quanto conseguito
dall’esecuzione dell’accordo, al pari del creditore aderente all’accordo che
ha accettato una ristrutturazione del proprio credito, sarebbe sottratto
dall’azione revocatoria fallimentare (102).
Appare quindi preferibile limitare il beneficio dell’esonero dall’azione
revocatoria previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. ai soli creditori
aderenti, in quanto costoro accettano di subire una ristrutturazione del loro
credito e, quindi, di liberare risorse economiche in favore di tutti i creditori
(anche estranei) (103) e che potrebbero anche vedersi costretti ad insinuarsi
al passivo solo per il credito convenzionalmente ristrutturato ed accettato
(104).
102
V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di ‹‹salvataggio››, cit. 387
Per quanto attiene al significato da attribuire all’espressione “ristrutturazione” si
rinvia G. Fauceglia, Prime osservazioni sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir.
fall. 2005, I, 842, per il quale la formula è di derivazione essenzialmente aziendalistica nel
senso della rinegoziazione da parte dei debitori delle proprie esposizioni, al fine di operarne
una novazione o un modificazione idonea a prevenire o a rimuovere lo stato di decozione,
per attuare un piano di risanamento dell’impresa, sul presupposto che vi sia una ragionevole
reversibilità della crisi.
104
Le clausole volte a condizionare risolutivamente l’efficacia dell’accordo in caso di
successivo fallimento dovrebbero ritenersi inammissibili, ciò non tanto, o meglio, non solo,
in applicazione dell’art. 72 l. fall. che, nel riferirsi agli effetti del fallimento sui rapporti
giuridici preesistenti, stabilisce che ‹‹sono inefficaci le clausole negoziali che fanno
103
51
Ai creditori non aderenti viene garantito ex lege l’integrale pagamento
delle loro obbligazioni, per cui, estendere a costoro il beneficio della non
revocabilità, oltre a mettere seriamente in dubbio l’operatività dell’istituto,
realizzerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra i creditori stessi.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrebbe consentire solo ai
creditori aderenti, in un contesto negoziale in cui lo stato di crisi
dell’impresa è ben noto a tutte parti, di acquisire posizioni di vantaggio da
poter spendere nel successivo fallimento a pregiudizio dei creditori estranei.
L’esonero dall’azione revocatoria non è tuttavia un effetto ope legis,
bensì ope iudicis in quanto è subordinato all’emissione del provvedimento
di omologazione dell’accordo di ristrutturazione (105).
In quella sede il Tribunale deve riscontrare - ovviamente con valutazione
prognostica - che gli impegni assunti dalle parti nell’accordo siano: a)
concretamente attuabili; b) idonei a prevenire o rimuovere lo stato di
insolvenza (106).
Alla luce di tali osservazioni risulta, allora, comprensibile il ruolo del
sindacato giurisdizionale sull’accordo.
dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento››, quanto per l’impossibilità di dedurre
in condizione un fatto, la dichiarazione di fallimento, che in tal caso non può essere
considerato programmaticamente incerto perché è proprio al verificarsi del fatto fallimento
che è ancorato l’effetto (l’esenzione dalla revocatoria) programmato nel contratto, v. in
questi precisi termini: E. Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi
d’impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore,
in Banca borsa tit. cred. 2010, 295; nello stesso senso v. anche: G. Fauceglia, Gli accordi
di ristrutturazione dei debiti nella legge 80/2005, in Fall. 2005, 1450; contra M. Sciuto,
Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 361 per il quale,
con la dichiarazione di fallimento si avrebbe la caducazione degli effetti negoziali
dell’accordo omologato essendosi conclamata la preclusione della finalità alla quale
l’accordo era preordinato, vale a dire, la caducazione degli effetti negoziali deriverebbe
dall’emersione del “difetto funzionale” dell’atto negoziale, cioè della causa dell’accordo di
ristrutturazione nel senso di effettiva possibilità di recupero dell’impresa coinvolta; lo
stesso A. ritiene, però, preferibile ammettere la caducazione degli effetti negoziali con
efficacia solo ex nunc al fine di evitare un problema della giustificazione causale della
soluti retentio di quanto ricevuto.
105
Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti,
cit. 367
106
G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 27.
52
In assenza di ogni un controllo i creditori aderenti potrebbero, ad
esempio, precostituirsi posizioni preferenziali a danno dei terzi, senza essere
animanti da un effettivo interesse concreto a risolvere la crisi.
Il controllo giurisdizionale viene però limitato alla fase genetica
dell’accordo ed è circoscritto al riscontro dei requisiti di attuabilità degli
impegni dell’accordo e d’idoneità ad adempiere le obbligazioni dei terzi
creditori.
La disposizione dell’art. 182 - bis l. fall. omette di disciplinare le sorti
dell’accordo di ristrutturazione dopo l’omologazione.
Rispetto ai concordati integralmente giudiziali (preventivo e fallimentare)
non è previsto alcun rimedio per l’ipotesi di mancata esecuzione
dell’accordo, né è prevista la presenza obbligatoria di soggetti deputati al
controllo della fase esecutiva (107).
La fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione non può, però, essere
trascurata, alla luce delle rilevanti esternalità negative, che ai sensi dell’art.
67, comma 3°, l. fall. si possono ripercuotere in capo ai creditori in caso di
fallimento (108).
Così, ad esempio, durante la fase esecutiva il piano posto a base
dell’accordo di ristrutturazione potrebbe diventare non più attuabile, ovvero,
potrebbe diventare inidoneo a garantire il regolare pagamento dei creditori
estranei.
Dopo la dichiarazione di fallimento potrebbe emergere - con il senno di
107
Lo rilevano: M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei
debiti, cit. 360; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 38; E. Capobianco,
Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi d’impresa. Profili funzionali e
strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, cit. 322 il quale stigmatizza tale
lacuna: ‹‹Ed in effetti “al trionfo” dell’autonomia privata che si celebra col riconoscimento
legislativo degli accordi non fa da contraltare la previsione di rimedi peculiari alla possibile
loro inattuazione››.
108
G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 38; v. l’efficace rilievo di: F.
Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti
dell’imprenditore in stato di crisi: del paradosso del terzo creditore “estraneo…ma non
troppo”, cit. 828, per il quale la disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e), l. fall. ‹‹ha una
sua evidente ragionevolezza ma si presta a non pochi abusi››.
53
poi - che l’accordo di ristrutturazione era stato stipulato al solo fine di
frodare le ragioni dei creditori estranei (109).
Di fronte a tali evenienze, gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in
essere in dipendenza dell’accordo potrebbero ancora ritenersi esenti da
revoca ? (110).
Anche rispetto all’accordo di ristrutturazione si pone un problema di
meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti in concreto con gli atti
esecutivi.
La problematica attiene più che altro all’ipotesi del ‹‹difetto funzionale››
dell’accordo, nel senso di impossibilità di recupero dell’impresa tramite il
programma di ristrutturazione (111).
I tradizionali rimedi contrattuali, eventualmente esperibili contro gli
accordi di ristrutturazione dei debiti affetti vizi strutturali o funzionali, non
appaiono in grado di risolvere tale problema.
109
Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti,
cit. 365, per il quale potrebbe sussistere la frode se: ‹‹l’accordo sia stato stipulato,
verosimilmente per fini di trattamento preferenziale, già sapendo della sua inidoneità a
garantire il pagamento dei creditori estranei; ovvero a condizioni estremamente vantaggiose
per alcuni degli stessi creditori partecipanti, ai quali l’imprenditore proponente, per la sua
sola iniziativa o d’accordo con altri creditori, abbia occultato le sue reali condizioni
economiche››.
110
L’interrogativo è posto da: G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit.
39; v. invece, con specifico riferimento all’emersione dei vizi genetici del negozio,
l’interrogativo posto da: M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit. 367 per il quale: ‹‹Ci si potrebbe chiedere però se l’effetto
previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. possa essere sopravanzato ed impedito dalla
dimostrata natura fraudolenta dell’accordo – ed allora dalla sua dichiarata nullità per frode
alla legge, ovvero dal suo annullamento per dolo – in ossequio al principio generale
secondo il quale fraus ominia corrumpit››; a tale interrogativo, però, pare rispondere in
senso negativo: F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di accordi di ristrutturazione dei
debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del paradosso del terzo creditore “estraneo…ma
non troppo”, cit. 829, il quale tuttavia a p. 832, riferendosi alla mancanza ab origine dei
presupposti per l’omologabilità dell’accordo afferma in merito alla disposizione dell’art.
67, comma 3°, lett. e) che : ‹‹La ratio della norma richiamata è, infatti a mio parere, da
individuarsi nella tutela di un accordo di ristrutturazione valido ed efficace rivelatosi poi
inidoneo al raggiungimento dello scopo economico e non alla tutela di un qualsivoglia
“simulacro” di accordo, quale sarebbe quello invalido sin dall’inizio per carenza dei
requisiti ma svelatosi come tale solo successivamente››.
111
Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti,
cit. 360, spec. 362 nota (68).
54
In conseguenza dell’apertura del fallimento (o in ogni modo della
risoluzione o invalidazione dell’accordo) gli atti esecutivi resterebbero
comunque non revocabili ex art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. anche se
compiuti in assenza della giustificazione causale tipica degli accordi di
ristrutturazione (112).
È dunque evidente - anche in riferimento agli accordi di ristrutturazione il limite di un’interpretazione meramente letterale dell’art. 67, comma 3°,
lett. e) l. fall. senza alcuna considerazione della collocazione sistematica
della disposizione in questione nell’ambito del sistema fallimentare, come
già espresso in riferimento agli atti esecutivi del concordato preventivo
(113).
112
Ritiene che la causa degli accordi sia tipica: V. Roppo, Profili strutturali e funzionali
dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 304.
113
F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una
ricostruzione sistematica delle tutele, cit. 131 ss.
55
CAPITOLO II
LA TUTELA DEI TERZI NEI GIUDIZI DI OMOLOGAZIONE.
SOMMARIO: SEZIONE I. - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI
NEL CONCORDATO PREVENTIVO - 1. Premessa e traiettoria dell’indagine. 2. La struttura del giudizio del giudizio di omologazione: il rinvio al
procedimento in camera di consiglio. - 2.1. I mezzi d’impugnazione del
decreto: il reclamo alla Corte d’appello. - 2.2 Le implicazioni
sistematiche della cognizione sommaria: l’inidoneità al giudicato formale
del decreto. - 3. L’oggetto del giudizio di omologazione: l’assenza di
ogni accertamento giurisdizionale dei diritti soggettivi nell’arco della
procedura. - 3.1. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla previgente
disciplina delle opposizioni. - 3.2. Le conferme ricostruttive offerte dalla
nuova disciplina delle opposizioni. - 3.3. Le conclusioni ricostruttive: il
negozio sulla crisi d’impresa quale oggetto del sindacato giurisdizionale.
4. La natura del giudizio di omologazione: le implicazioni sistematiche
derivanti dalla struttura e dall’oggetto. Il problema della tutela dei terzi. 5. Il sindacato giurisdizionale tra regolarità della procedura e
convenienza della proposta: dicotomia e polarità. - 5.1. I limiti alla libertà
negoziale dell’imprenditore. - 5.2. L’estensione degli effetti ultra partes:
gli effetti favorevoli agli interessi dei terzi. - 5.3. Il negozio sulla crisi
d’impresa con effetti favorevoli ai terzi: il vantaggio economico nella
logica della c.d. privatizzazione della crisi d’impresa. - 6. Il «rifiuto»
degli effetti favorevoli da parte dei c.d. «terzi-creditori»: gli strumenti di
contestazione dell’«accertamento» giurisdizionale. 6.1 - L’opposizione di
terzo ex art. 404 c.p.c. avverso il decreto di omologazione: il limite
dell’accertamento prognostico e dell’inidoneità al giudicato formale. SEZIONE II - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI
NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI - 7. La struttura del
giudizio di omologazione: la ricostruzione della disciplina. - 7.1. Le
opposizioni all’omologazione. - 8. L’oggetto e la natura del giudizio di
omologazione.- 9. Il sindacato giurisdizionale: l’«attuabilità» degli
impegni assunti e l’«idoneità» a garantire l’adempimento dei terzi
creditori.- 10. Gli strumenti di tutela dei terzi incisi dal provvedimento di
omologa: il problema della stabilità dell’accordo.
SEZIONE I
IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NEL CONCORDATO
PREVENTIVO
56
1.- La produzione degli gli effetti diretti e riflessi del concordato
preventivo nei confronti dei c.d. «terzi-creditori» è subordinata alla
concessione del provvedimento di omologazione (114).
Quando l’ordinamento subordina l’efficacia di un atto negoziale ad un
provvedimento
giurisdizionale
di
omologazione,
viene
solitamente
demandato all’autorità giudiziaria un controllo, più o meno ampio, in
ragione della natura non meramente individuale degli interessi coinvolti
(115).
Ora, il nuovo sistema di regolamentazione negoziale della crisi consente
all’imprenditore di giungere alla conclusione di un accordo con i propri
debitori per regolare la crisi. Ma l’incontro delle volontà del debitore e dei
creditori non è sufficiente affinché tali accordi siano efficaci. Infatti, tanto
l’efficacia della soluzione negoziata della crisi d’impresa, quanto la
conclusione del rispettivo procedimento, sono subordinati alla concessione
del provvedimento giurisdizionale di omologazione.
Il provvedimento di omologazione sancisce la vincolatività del negozio
sulla crisi d’impresa, concluso nelle forme della procedura di concordato
preventivo, anche per i creditori che non hanno prestato il consenso alla
soluzione negoziata e per i creditori che non sono stati portati a conoscenza
dall’apertura del concordato.
Il decreto di omologazione, inoltre, costituisce un presupposto in forza
del quale, ai sensi dell'art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall., gli «atti esecutivi»
del concordato omologato non potranno essere assoggettati all’azione
114
La distinzione effetti diretti ed effetti riflessi del provvedimento viene
tradizionalmente impiegata tanto dalla dottrina sostanzialità, quanto dalla dottrina
processual-civilista con differenti significati, per una approfondimento v. A. Proto - Pisani,
Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, 7 note 8 e 9.
115
L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei
provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ. 1986, I, 598; A. ProtoPisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 e ss c.p.c. (Appunti sulla tutela
giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi devoluta al giudice), in Riv. dir. civ.
1990, 421, spec. 431.
57
revocatoria fallimentare nell’ipotesi di conversione della soluzione
negoziata in fallimento.
Il provvedimento di omologazione del negozio sulla crisi d’impresa
concluso, nelle forme del concordato preventivo, consente alla proposta
avanzata dal debitore di incidere - in via diretta e riflessa - (cfr. artt. 184 e
67, comma 3°, lett. e) l. fall.) sulle situazioni giuridiche soggettive dei c.d.
«terzi-creditori».
L’estensione ultra partes del vincolo negoziale viene tradizionalmente
giustificata in virtù del sistema di eterotutela degli interessi dei creditori che
caratterizzava l’intero procedimento di formazione e conclusione del
concordato preventivo.
Sennonché, alla luce della mutata cornice legale entro cui avviene la
conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, occorre rintracciare quali
sono le condizioni che - in conformità all’accentuata natura contrattuale
dell’istituto concordatario - possono giustificare l’emissione del decreto di
omologazione.
In altri e più precisi termini, occorre ricercare i presupposti che devono
sussistere affinché sia possibile l’assoggettamento - ope judicis - dei
creditori di minoranza (i.e. assenti, dissenzienti, astenuti) alla volontà della
maggioranza.
Tale indagine impone di riflettere, innanzitutto, sulla struttura e sulla
funzione del procedimento di omologazione (rectius sul significato del
controllo giurisdizionale) rispetto all’accordo tra debitore e creditori.
Il percorso esplorativo non può che prendere le mosse dall’analisi della
nuova struttura del procedimento di omologazione e deve arrivare fino
all’oggetto del giudizio stesso.
Tale percorso, nella sua apparente specificità, rappresenta un pertugio
tramite il quale compiere una più ampia indagine sulla funzione del
concordato preventivo nell’ordinamento civile.
58
2.- Nell’impostazione della legge fallimentare del ’42 il giudizio di
omologazione veniva disciplinato congiuntamente dagli artt. 180 e 181
l.fall.
Il primo definiva le forme del giudizio di omologazione; il secondo
l’oggetto (116).
A seguito delle recenti riforme, invece, la disciplina del procedimento e
quella dell’oggetto sono stati inseriti nell’unica disposizione dell’art. 180
l.fall.
La disciplina ivi prevista segna, innanzitutto, l’abbandono del rito
ordinario, in favore del rito in camera di consiglio (117).
116
Il testo abrogato dell’art. 181 l.fall. prevedeva che: «Il tribunale, accertata la
sussistenza delle condizioni di ammissibilità del concordato e la regolarità della procedura,
[dovesse] valutare: 1) la convenienza economica del concordato per i creditori, in relazione
alle attività esistenti e all’efficienza dell’impresa; 2) se sono state raggiunte le maggioranze
prescritte dalla legge, anche in relazione agli eventuali creditori esclusi che abbiano fatto
opposizione all’esclusione; 3) se le garanzie offerte danno la sicurezza dell’adempimento
del concordato e, nel caso previsto dall’art. 160, comma secondo, n. 2, se i beni offerti sono
sufficienti per il pagamento dei creditori nella misura indicata nell’articolo stesso; 4) se il
debitore, in relazione alle cause che hanno provocato il dissenso e alla sua condotta, è
meritevole del concordato [...]».
117
La disposizione dell’art. 180 l. fall. contiene l’intera regolamentazione del giudizio
di omologazione fondata sul procedimento in camera di consiglio, caratterizzato dalla
previsione in capo al Tribunale del potere di acquisire d’ufficio le informazioni e le prove
necessari per la pronuncia del provvedimento finale. La riforma configura, quindi, un
procedimento camerl-sommario sul modello della disciplina dettata dagli artt. 737 e ss
c.p.c. nella convinzione che il rito camerale sia quel contenitore neutro idoneo ad essere
utilizzato, con i dovuti adattamenti, anche per l’accertamento dei diritti soggettivi e status;
in questo senso v. Cass. sez. un. 19 giugno 1996, n. 5629, in Giur. it. 1996, I, 1300 con nota
di A. Carratta, La procedura camerale come «contenitore neutro» e l’accertamento dello
status di figlio naturale dei minori; il precedente delle sez. un. si articolava in tre
fondamentali passaggi argomentativi: a) in primo luogo, si valutava la procedura camerale
alla stregua di un «contenitore neutro», vale a dire capace di accogliere al suo interno, tanto
le cause aventi sostanza giurisdizional-volontaria, quanto quelle di natura contenziosa; b) in
secondo luogo, si rilevava come la tutela giurisdizionale dei diritti comportasse, però, la
garanzia costituzionale di un accertamento non sommario ai fini del giudicato, ovvero sia di
un accertamento pieno ed esauriente che non poteva essere retto dal modello delineato dagli
artt. 737; c) infine, si concludeva con la necessità di procedere ad una lettura
costituzionalmente orientata dell’iter del procedimento in camera di consiglio in tema di
facoltà di prova, sistema ordinario di impugnazione, immodificabilità della decisione
assicurata al giudicato; prospettando, insomma, per la procedura camerale la necessità «di
ammantarsi di forme tipiche del giudizio ordinario».
59
La formulazione originaria dell’art. 180 l.fall. conteneva un espresso
richiamo al rito ordinario. Il giudizio di omologazione consentiva, quindi, di
effettuare una cognizione piena ed esauriente sull’oggetto del processo.
Prima di affrontare nello specifico la struttura del nuovo giudizio di
omologazione è opportuno, in via preliminare, chiarire brevemente la nota
dicotomia cognizione piena ed esauriente / cognizione sommaria.
È insegnamento noto che la cognizione piena ed esauriente sussiste se è
assicurata la «predeterminazione legale delle forme e dei termini dell’intero
processo (e non solo la generica previsione della convocazione delle parti,
della loro facoltà di prova, dell’obbligo di motivazione, della congruità del
termine per impugnare; né tanto meno lo svolgimento in concreto secondo
prassi rispettosa del contraddittorio)» (118).
La cognizione piena ed esauriente sull’oggetto del giudizio sussiste essenzialmente - se sono predeterminate per legge le forme e i termini di
esercizio dei poteri attribuiti alle parti e, soprattutto, al giudice (119).
118
A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss cpc (Appunti
sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi devoluta al giudice), in
Riv. dir. proc. civ. 1990, 414, più precisamente, questo A., prima della riforma dell’art. 111
Cost. (ad opera della legge 23 novembre 1999, n. 2) e della introduzione del principio
secondo cui «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» che:
«A me sembra che il valore della cognizione piena sia dato dalla circostanza che le
modalità di realizzazione del principio contraddittorio non sono rimesse alla
determinazione discrezionale del giudice, bensì sono nella loro massima parte
predeterminate dalla legge attraverso la previsione di forme e termini e la corrispondente
attribuzione di poteri, doveri, facoltà processuali alle parti e al giudice. É il legislatore, cioè,
e non il giudice che individua forme e termini del dovuto processo legale o, il che è lo
stesso, le modalità di partecipazione delle parti al procedimento di formazione del
provvedimento finale ovvero del convincimento del giudice».
119
A. Proto-Pisani, Garanzia del giusto processo e tutela dei minori, in Quest. giust.
2000, 470, spec. 471 ove l’A. afferma: «Solo quando le forme e i termini del processo sono
predeterminati dal legislatore è possibile assicurare: a) che le parti siano titolari, anche nel
corso dello svolgimento del processo e non solo in quello della sua messa in moto, di poteri
processuali e non unicamente di soggezione; b) che il processo destinato a concludersi col
provvedimento finale del giudice sia nella sua massima parte controllabile in iure e non
rimesso alla discrezionalità del giudice con il solo obbligo di motivare in modo logicamente
corretto il perché delle sue scelte»; dello stesso A. vedi anche: Il nuovo articolo 111 Cost. e
il giusto processo civile, in Foro it. 2000, V, 241; questo, dunque, è quanto la moderna
scienza del diritto processuale civile è andata sempre più rigorizzando, in particolare
mediante la teorizzazione del processo come concatenazione di predeterminati poteri-
60
L’essenza in sé della cognizione piena ed esauriente viene dunque
ravvisata nella predeterminazione legale dello schema processuale, più che
nel contenuto della predeterminazione stessa.
Ciò significa che i poteri, i doveri e le facoltà processuali delle parti e del
giudice devono essere disciplinate ex lege. In particolare, devono essere
predeterminate ex lege: a) le modalità e i tempi di allegazione dei fatti che
costituiscono il fondamento delle domande e delle eccezioni; b) i
meccanismi di conoscenza del fatto, quali mezzi di prova (tipici o atipici),
nonché in riferimento alle relative modalità di assunzione, con particolare
attenzione alla individuazione dei soggetti su iniziativa dei quali le prove
possono essere acquisite nel processo; c) i termini a difesa delle parti, sia
nella fase introduttiva, sia nel corso dello svolgimento, che nella fase
decisoria (120).
obblighi delle parti e del giudice, in nessun modo riconducibili a qualsiasi discrezionalità
del magistrato. In particolare, dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 111 Cost., l’attenzione
si è concentrata nell’inciso «regolato dalla legge» e nella dottrina sono emerse posizioni che
ritengono o meno conforme ai principi costituzionali procedimenti in cui la disciplina delle
forme e dei termini di esercizio dei poteri processuali sia predeterminata dalla legge,
anziché essere rimessa all’iniziativa discrezionale del giudice. Per l’orientamento
favorevole v. L. Lanfranchi, «Pregiudizi illuministici» e «giusto processo» civile, in Id. (a
cura di) Giusto processo civile e procedimenti sommari, Torino, 2001, spec. 4; E.
Fazzalari, Il giusto processo e i «procedimenti speciali» civili, in Riv. trim. dir. proc. civ.
2003, 4 e ss; G. Costantino, Il processo civile tra riforme ordinamenti, organizzazione e
prassi degli uffici (una questione di metodo), in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 84; Id.
«Giusto processo» e procedure concorsuali, in Foro it. 2001, 3456; M. Bove, Art. 111 e
«giusto processo civile», in Riv. dir. proc. 2002, 495; Id. Rito camerale e «giusto processo
regolato dalla legge» (A proposito dell’ordinanza della Corte d’appello di Genova del 4
gennaio 2001), in Giust. civ. 2002, II, 404; in posizione critica: B. Capponi, Il giusto
processo civile e la riforma dell’art. 111 Cost, in Il giudice di pace, 2000, 203. Ritengono,
invece, costituzionalmente dovuta la predeterminazione dei poteri/doveri processuali
corrispondenti alla c.d. «garanzie minime», ma non le forme o i termini di esercizio dei
medesimi: S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 e il processo civile, in Riv. dir. proc. 2000, 1016;
Id. Giusto processo e fallimento, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 499; L. P. Comoglio, Le
garanzie fondamentali del «giusto processo», in Jus 2000, 350 e ss; N. Trocker, Il nuovo
articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo» in materia civile:profili generali, in
Riv. trim. dir. proc. civ. 2001, 392.
120
A. Proto-Pisani, Giusto processo e valore della cognizione piena, in Riv. dir. civ.,
2002, I, 265; Id. Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V; L.
Lanfranchi, Giusto processo: I) processo civile, in Enc. giur. XV, Roma, 2001; A. Carratta,
Prova e convincimento del giudice, Riv. dir. proc 2003, 52; G. Costantino, Il processo
civile tra riforme ordina mentali, organizzazione e prassi degli uffici (una questione di
61
L’intera disciplina dei doveri, delle facoltà delle parti e del giudice, in
buona sostanza, deve essere predeterminata dal legislatore e non deve essere
rimessa alla discrezionalità del magistrato. La disciplina del processo deve
avere il fine ultimo di sottrarre le parti e il loro difensori dalla mera
soggezione al giudice.
L’essenza della cognizione sommaria è, invece, speculare (121).
Se, infatti, il processo a cognizione piena ed esauriente è caratterizzato
dalla predeterminazione legale della disciplina del processo, il processo a
cognizione
sommaria
è
invece
segnato
dall’ampia
discrezionalità
riconosciuta al magistrato nel definire la disciplina del giudizio (122).
Ove manchi ogni predeterminazione legale delle regole processuali il
giudice è libero di scegliere a sua discrezione l’ammissione e l’assunzione
dei mezzi di prova richiesti dalle parti, ha la possibilità di ammettere mezzi
di prova atipici e, ai fini della decisione, potrebbe anche accontentarsi della
mera verosimiglianza delle allegazioni delle parti.
metodo), Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 84; Id. Giusto processo e procedure concorsuali, in
Foro it. 2001, 3456; M. Bove, Art. 111 e giusto processo civile, in Riv. dir. proc. 2002,
495; Id. Rito camerale e giusto processo regolato dalla legge a proposito dell’ordinanza
della Corte d’appello di genova del 4 gennaio 2001), in Giust. civ. 2002, II, 404; dopo
l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 111 Cost. on è mancato chi ha sostenuto che
l’introduzione dell’espressione «regolato dalla legge» non impedisce in alcun modo al
legislatore di dettare una disciplina della cognizione piena nella quale le forme siano
rimesse al potere discrezionale del giudice ovvero descritte attraverso c.d. “clausole
elastiche”, come tali bisognose di una concretizzazione ed integrazione a livello
interpretativo del giudice, così: S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in
Riv. dir. proc. 2000, 1010; Id. Giusto processo e fallimento, in Riv. trim. dir. proc. civ.
2003, 499; L. P. Comoglio, Le garanzie fondamentali del «giusto processo», in Jus 2000,
350 e ss; N. Trocker, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo» in
materia civile:profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2001, 392; F. Tommaseo,
Processo minorile, forme camerali e mista del “giusto processo”, in Fam. dir. 2001, 323;
Id. Giudizi camerali de potestate e giusto processo, in Fam. e dir. 2002, 234; G. Vignera,
Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo” art. 111 cost. in Riv.
trim. dir. proc. civ. 2003, 1187, nota 7.
121
A. Carratta, Processo sommario, Enc. dir. Annali, vol. II, Tomo I, 877; A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione
volontaria, in Riv. dir. civ. 1987, 444; A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura
camerale, cit. 393 e ss; Id. Giusto processo e valore della cognizione piena, cit. 279.
122
F. Tommaseo, Rito camerale e giudizio di merito nel reclamo di stato di figlio
naturale davanti al tribunale minorile, in Fam. dir. 1996, 305.
62
Il processo a cognizione sommaria è, dunque, facilmente riconoscibile: le
forme, i termini e le modalità della fase preparatoria, istruttoria e decisoria
non sono in alcun modo predeterminate dal legislatore, ma sono rimesse alla
discrezionalità del giudice.
All’interno di tale categoria viene tradizionalmente annoverato il
procedimento in camera di consiglio descritto dagli artt. 737 c.p.c. e ss (123).
Le «Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio» non
contemplano alcuna disciplina della fase preparatoria del procedimento
(corrispondente a quella che nel rito ordinario è collocata negli artt. 163 183 c.p.c), né alcuna disciplina della fase decisoria (corrispondente a quella
che nel rito ordinario è disciplinata dagli artt. 188-190, 275 c.p.c.). La
disciplina di tali fasi è rimessa, di volta in volta, all’iniziativa e alla
discrezione del giudice, il quale è tenuto a conformarsi solo al principio
delle forme allo scopo, sancito in via generale per tutti gli atti del processo
(delle parti e del giudice) dal combinato disposto degli artt. 121 e 156 c.p.c.
(124).
La fase istruttoria, invece, è unicamente disciplinata dalla laconica
affermazione contenuta nell’art. 738, comma 3°, c.p.c.: il «giudice può
assumere informazioni». Secondo la communis opinio, l’inciso poc’anzi
richiamato consentirebbe al giudice di derogare ai principi e alle regole che
reggono l’istruzione probatoria nel processo ordinario. Più precisamente,
consentirebbe al giudice: a) di derogare al principio della disponibilità delle
prove (art. 115 c.p.c.); b) di derogare alla regola della tipicità dei mezzi di
123
Seppure non si esprima in termini di sommarietà cfr: A. Cerino - Canova, Per la
chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit.
444; A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 393 e ss; Id. Giusto
processo e valore della cognizione piena, cit. 279 per il quale chiaramente: «Alla luce delle
considerazioni svolte in questo articolo dovrebbe apparire chiara, infine la differenza
abissale che separa i processi a cognizione piena dai processi in camera di consiglio ex art.
737. Là dove nei primi vige come regola la predeterminazione da parte del legislatore delle
forme e dei termini tramite i quali esercitare il diritto di azione, il diritto di difesa e il potere
giurisdizionale, nei secondi domina la discrezionalità del giudice»
124
A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 416.
63
prova e di superare i rispettivi limiti di ammissibilità; c) di derogare alle
modalità tipiche di assunzione dei mezzi di prova così come disciplinati
dagli artt. 191 a 266 c.p.c. (125).
Sulla scorta di tali imprescindibili considerazioni è possibile passare ad
esaminare nello specifico la nuova struttura del giudizio di omologazione
del concordato preventivo descritta dagli artt. 180 l.fall.
Innanzitutto, la nuova disciplina del giudizio di omologazione costituisce
l’ennesima estensione delle forme del procedimento camerale in materie
tradizionalmente riservate alle forme del rito ordinario, concluse con
provvedimenti idonei a produrre effetti su diritti soggettivi perfetti (126).
125
L. Montesano, «Dovuto processo» su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in
Riv. dir. proc. 1988, 932, il quale rileva che: «É, certo, di immediata evidenza che le
“informazioni”, di cui parla l’art. 738, comma 3°, c.p.c. [...] sono diverse dalle “sommarie
informazioni” delle quali più volte dice il legislatore a proposito dei “procedimenti
sommari”, giacché le prime sono atte ad esaurire l’indagine in fatto sull’oggetto della
controversia, mentre le seconde o non lo sono mai, o lo sono condizionatamente alla loro
non rimozione con azione ordinaria, di regola proponibile in termine perentorio decorrente
dal provvedimento conclusivo del procedimento “speciale”. Tutto ciò è, peraltro, estraneo
ai reali termini della questione, che è stata sempre chiaramente impostata in chiave non di
intensità di contenuto o di stabilità degli effetti delle “informazioni” in discorso, ma della
loro qualità, in specie in riguardo a ciò che la loro atipicità, non formalità, officiosità, non
contraddittorietà o non piena contraddittorietà non sono compatibili con la garanzia delle
difese delle parti che, in specie in materia istruttoria, deve valere anche nei confronti del
giudice e degli altri organi giudiziari»; v. anche: A. Carratta, Prova e convincimento del
giudice, cit. 54; contra L. P. Comoglio, Garanzie costituzionali e prove atipiche nel
procedimento camerale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1976, 1162 per il quale vanno
ricomprese nelle “informazioni”«eterogenee fonti di prova, accomunando fatti tipici (quali,
le dichiarazioni delle parti interessate, e quelle di scienza dei terzi) a fatti propriamente
atipici (per esempio, gli atti certificativi e le informazioni scritte della pubblica
amministrazione, i verbali ed i rapporti della polizia giudiziaria le consulenze tecniche
stragiudiziali, o le prove assunte ed acquisite in altro giudizio)»; in riferimento al
concordato fallimentare v. P. Farina, La nuova disciplina della fase di omologazione e di
esecuzione del concordato fallimentare, in U. Apice (diretto da), La procedura
fallimentare, II, Torino, 564. In giurisprudenza: Cass. 28 luglio 2004, n. 14227, in Giust.
civ. 2005, I, 1029; Cass. 8 marzo 1999, n. 1947, secondo cui il giudice, ai sensi dell’art. 738
c.p.c. «procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso
l’assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione,
non resta subordinata all’istanza di parte»
126
Risultano ancora attuali le riflessioni di A. Proto - Pisani, Usi e abusi della
procedura camerale ex art. 737 c.p.c. cit. il quale individua le «ragioni che hanno dato
luogo ad un simile abnorme ricorso alla procedura camerale» sia nelle «incertezze del
legislatore del 1942», sia nella «crisi profonda del processo ordinario di cognizione», sia,
infine, in «una serie di cause di carattere più tecnico [...] quali, sopratutto: a) l’assenza nel
64
In secondo luogo, occorre soffermarsi sulla tecnica normativa impiegata
dal legislatore per disciplinare il rito del giudizio in esame (127).
Il rito è disciplinato essenzialmente tramite un mero richiamo alle c.d.
«Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio» a cui sono
stati aggiunti meri oneri di pubblicazione dei provvedimenti.
nostro ordinamento processuale di uno schema generale di procedimento sommario (in
contraddittorio o senza) [...] destinato a sfociare in un provvedimento sommario con
attitudine a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso [...]; b) l’assenza nel
nostro ordinamento processuale di uno schema generale di procedimento sommario semplificato - esecutivo destinato a sfociare in un provvedimento avente solo efficacia
esecutiva [...]; c) l’assenza, poi, [...] di uno schema generale di procedimento cautelare [...];
d) ancora, [...] assenza [...] di un processo a cognizione piena a trattazione collegiale in
primo grado ed in appello»; v. anche: A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee, cit.
secondo cui: «il successo applicativo del modello camerale ha la sua radice al di là delle
nuove leggi e trae ulteriore linfa da interpretazioni ovvero ricostruzioni di interi settori
dell’ordinamento nel senso più favorevole alla cameralizzazione del giudizio [...] ancor
prima della loro fondatezza, esse meritano di essere valutate quale espressione di questo
convincimento: che il rito camerale costituisca una sorta di modello alternativo adottabile
senza limiti di materia ed in forza di mere ragioni di urgenza che caratterizzano la
procedura»; per un ampio panorama giurisprudenziale v. anche: M.G. Civinini Taffini,
Procedimento camerale: orientamenti giurisprudenziali in tema di ricorribilità in
cassazione ex art. 111, comma 2°, Cost. in Foro it. 1984, I, 2844; E. Pazzi, Orientamenti
giurisprudenziali in tema di ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. avverso
provvedimenti camerali (1984-1989), ivi, 1990, 1959. L’estensione ad opera del legislatore
delle forme del procedimento in camera di consiglio in materie tradizionalmente attratte
nell’alveo del rito ordinario deriva anche da una certa disinvoltura e poca accortezza della
giurisprudenza costituzionale, cfr. A. Carratta, I procedimenti cameral-sommari in recenti
sentenze della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1992, 1049; e della
giurisprudenza di legittimità cfr. Cass. sez. un. 19 giugno 1996, 5629, in Giur. It 1996, I,
1300, con nota di A. Carratta, La procedura camerale come “contenitore neutro” e
l’accertamento dello status di figlio minore; anche in Foro it. 1996, I, 3070, con nota di
M.G. Civinini, Dichiarazione giudiziale di genitore naturale e rito applicabile innanzi al
tribunale per i minorenni.
127
Si condivide l’opinione espressa da: G. Costantino, La gestione della crisi d’impresa
tra contratto e processo, in F. Di Marzio – F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e
crisi d’impresa, Milano, 2010, 209: «Quale che sia l’obiettivo perseguito, sono
incompatibili con il quadro costituzionale i tentativi di fuga dalla giurisdizione e dalla
giurisdizione ordinaria, dal processo e dalla cognizione piena. Non solo non è possibile
prescindere dalla applicazione degli strumenti giurisdizionali, ms non è neppure possibile
prescindere dalla applicazione di quelli ordinari: la sommarizzazione e la cameralizzazione
dei procedimenti non sono risposte adeguate, perché anche prescindendo dalla implicita
rinuncia ad un processo “regolato dalla legge” ai sensi dell’art. 111 Cost. il problema
dell’efficienza della giustizia si pone più che in riferimento alla disciplina, alla concreta
prassi applicativa della stessa, e, quindi, appare ragionevole dubitare che una soluzione
possa consistere nell’affidarsi totalmente ai poteri discrezionali del giudice»
65
Rispetto alla disciplina del procedimento in camera di consiglio è stato
aggiunto: a) l’onere di pubblicare nel registro delle imprese, ex art. 17 l.fall.,
il provvedimento del giudice delegato che fissa l’udienza in camera di
consiglio per la comparizione delle parti e del commissario giudiziale; b)
l’onere per il debitore di notificare il provvedimento in questione al
commissario giudiziale e agli eventuali creditori dissenzienti; c) l’onere del
debitore, del commissario giudiziale e degli eventuali creditori dissenzienti
e di qualsiasi altro interessato di costituirsi almeno dieci giorni prima
dell'udienza fissata; d) la comunicazione del decreto motivato del Tribunale
al debitore e al commissario giudiziale, il quale provvede a darne notizia ai
creditori; e) la pubblicazione del decreto in parola nel registro delle imprese
ex art.17 l.fall. (128).
La disciplina del giudizio di omologazione può essere così sintetizzata:
a)
il procedimento prende avvio ex officio; b) il provvedimento di
apertura è pubblicato nel registro delle imprese ex art. 17 l.fall. c) le parti
devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza; d) nello stesso
termine (anche se ciò non è chiarito) devono essere proposte le opposizioni
da parte degli eventuali legittimati; in tal caso il tribunale deve assumere i
mezzi di prova richiesti dalle parti o disposti d’ufficio; f) la trattazione è
collegiale; g) non è previsto alcuno scambio di comparse conclusionali; h)
l’udienza per la discussione non è pubblica; i) il tribunale provvede con
decreto motivato; l) tale decreto è pubblicato nel registro delle imprese ex
art. 17 l.fall.
Non sono, quindi, disciplinate le modalità di costituzione delle parti in
giudizio, le facoltà e i termini per esercitare i poteri di allegazione e di
prova; non è disciplinata l’attività istruttoria ed i mezzi di prova utilizzabili
128
Cfr. M. Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo, in Giust.
proc. civ. 2009, 726; A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del concordato
preventivo, in Riv. dir. proc. 2008, 647.
66
(tipici o atipici) dalle stesse; non sono, inoltre, disciplinati i poteri del
giudice in sede di trattazione, istruzione e decisione.
Per quanto attiene a quest’ultimo profilo, l’art. 180 l.fall. prescrivere
soltanto che in mancanza di opposizioni il Tribunale deve verificare «la
regolarità della procedura e l’esito della votazione»; se, invece, sono state
proposte opposizioni, il Tribunale «assume i mezzi istruttori richiesti dalle
parti o disposti d’ufficio».
In conclusione, rispetto allo schema processuale deformalizzato del
procedimento in camera di consiglio (129), l’art. 180 l.fall. prevede soltanto
alcuni elementi d’indubbio tenore formalistico, quali: i) la previsione dei
termini per la costituzione in giudizio delle parti, con l’aggancio a tali
termini della facoltà di proporre l’opposizione da parte dei creditori
dissenzienti, assenti, astenuti o qualunque altro; ii) la previsione che
l’attività istruttoria, nell’ipotesi in cui siano proposte opposizioni, non si
esaurisce, come tipicamente accade nella procedura camerale, nella raccolta
di «informazioni» da parte del giudice, ma può consistere nell’assunzione,
nel contraddittorio tra le parti, di veri e propri mezzi di prova richiesti dalle
parti o disposti d’ufficio.
L’istruzione probatoria, ai sensi dell’art. 180, comma 4°, l.fall. dovrebbe
svolgersi solo nel caso in cui siano state proposte opposizioni e soltanto in
tale evenienza al Tribunale è riconosciuta la possibilità di disporre anche
d’ufficio l’assunzione di mezzi istruttori. Tale potere, se calato nella logica
inquisitoria e deformalizzata del procedimento in camera di consiglio,
potrebbe intendersi come una generale autorizzazione del Tribunale ad
ammettere mezzi di prova atipici, ad assumere mezzi di prova tipici in via
atipica e superare i limiti di ammissibilità fissati dalla disciplina sostanziale
per le prove tipiche.
129
E. Allorio, Saggio polemico sulla giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. proc.
civ. 1948, 487 e ss, il quale a p. 513 definisce il procedimento in camera di consiglio «a
basso titolo formale» in contrapposizione con la solennità e la gradualità del rito ordinario.
67
Se non sono proposte opposizioni, invece, la cognizione del Tribunale
dovrebbe limitarsi ai fatti allegati negli atti del fascicolo della procedura,
integrati, semmai, con i risultati delle indagini compiute dal commissario
giudiziale (130).
In conclusione, la nuova disciplina del giudizio di omologazione non
prevede alcuna predeterminazione legale delle forme, dei poteri, dei termini
per le parti e per il giudice nella fase preparatoria, istruttoria e decisoria. Il
giudizio di omologazione del concordato preventivo deve essere, quindi,
annoverato nell’ambito della categoria dei procedimenti a cognizione
sommaria (131).
Ciò non significa, però, che nel giudizio di omologazione vi sia un minor
grado di razionalità dell’accertamento logico compiuto dal giudice.
Significa solo che quest’accertamento è frutto di un processo che si svolge
secondo forme e termini rimessi in massima parte alla discrezionalità del
giudice e non predeterminate dal legislatore (132).
2.1. Il provvedimento del Tribunale può essere impugnato con il reclamo
avanti la Corte d’appello (art. 183 l.fall.).
130
V. però, Trib. Locri 2 ottobre 2008, Fall. 2009, 862 con commento di C. Esposito,
Omologazione del concordato fallimentare: verifica della regolarità. Nel caso di specie –
seppure in assenza della suddivisione dei creditori in classi e della proposta di opposizioni il Tribunale non aveva omologato il concordato perché ai creditori era offerta una
percentuale inferiore a quella che si sarebbe potuto ripartire all’esito della procedura
fallimentare.
131
Cfr. anche se non pienamente condivisa: M. Fabiani, Contratto e processo nel
concordato fallimentare, Padova, 271 il quale afferma che nel giudizio di omologazione si
è di fronte ad un processo sommario nelle forme ma con struttura contigua a quella del
processo a cognizione piena.
132
Su questo rapporto tra cognizione sommaria e grado dell’accertamento v. A. Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 c.p.c cit. 415.
68
Se non sono proposte opposizioni, il provvedimento di omologazione del
Tribunale, per espressa previsione di legge (art. 180, comma 3°, l.fall.), non
è impugnabile (133).
Anche per quanto attiene alla disciplina del giudizio avanti alla Corte
d’appello occorre rilevare l’ulteriore omissione da parte del legislatore della
concreta regolamentazione delle fasi del procedimento. La disposizione
dell’art. 183 l.fall. prescrive soltanto che la Corte d’appello deve
pronunciarsi ‹‹in camera di consiglio››.
Di fronte al lacunoso dato positivo sorge inevitabilmente l’esigenza di
colmare il vuoto lasciato dal legislatore, mutuando la disciplina prevista per
altre ipotesi simili, quali: a) la generale figura del reclamo contro i
provvedimenti in camera di consiglio ex art. 739 c.p.c.; b) il reclamo contro
i provvedimenti del giudice delegato e del tribunale ex art. 26 l. fall.; c) il
reclamo previsto per l’omologazione del concordato fallimentare ex art. 131
l. fall.; d) ed infine il reclamo avverso la sentenza di fallimento previsto
dall’art. 18 l.fall. (134)
Tra le diverse scelte, poc’anzi dette, appare preferibile quella in ultimo
prospettata (135).
Il secondo comma dell’art. 183 l.fall. dispone che con ‹‹lo stesso
reclamo›› deve essere impugnata la sentenza di fallimento emessa
133
v. però I. Pagni, sub art. 183 l.fall. in C. Cavalli (diretto da) Commentario alla legge
fallimentare, Milano, 2010, 862, la quale rileva che: «[...] non vi è dubbio che il Tribunale
non possa modificare la proposta approvata dai creditori, ma possa soltanto omologare o
non omologare l’accordo, ricorrendo le condizioni previste dalla legge fallimentare.
Orbene, qualora il decreto di omologa si distacchi da quanto contenuto nella proposta
(violando, da un lato, il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; dall’altro
lato, sovrapponendosi alla volontà delle parti espressa dall’accordo), deve essere possibile
per il debitore e per i creditori, ricorrere ad uno strumento che consenta di rimettere in
discussione il provvedimento giudiziale, nonostante la previsione dell’art. 180, comma 3°,
l. fall. apparentemente non permetta».
134
Per una approfondita panoramica v. F. S. Flicorno, sub art. 183 l. fall. in M. Ferro, (a
cura di) La legge fallimentare, Padova, 2008, 378.
135
M. Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo, in Gius. proc.
civ. 2009, 730.
69
contestualmente al decreto di rigetto dell’omologazione del concordato
preventivo.
Il reclamo per impugnare la sentenza di fallimento è quindi ‹‹lo stesso››
con cui si deve impugnare il decreto che ha negato l’omologazione del
concordato.
Ora, siccome non è pensabile che la sentenza di fallimento possa essere
impugnata con due strumenti diversi a seconda che venga pronunciata in via
principale ed autonoma (ex art. 15 l.fall.), ovvero, contestualmente al rigetto
dell’omologazione del concordato preventivo (ex art. 180 ult. co.). Pertanto,
occorre ritenere che l’impugnazione della sentenza di fallimento emessa
all’esito del concordato preventivo venga regolata dalla disciplina del
reclamo dell’art. 18 l.fall. (136).
Quindi, se è stata pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento il
reclamo avanti la Corte d’appello deve assumere le forme previste dall’art.
18 l.fall.
Poiché ai sensi dell’art. 183, comma 2° l.fall. tale reclamo è ‹‹lo stesso››
di quello previsto al 1° comma della medesima disposizione, ne segue che,
il reclamo dell’art. 183 l.fall. sarà regolato dalla disciplina dell’art. 18 l.fall.
anche in mancanza della dichiarazione di fallimento.
Il richiamo alla disciplina contenuta nella disposizione dell’art. 18 l.fall.
richiede, però, degli adattamenti: a) la forma del provvedimento finale,
almeno dove l’impugnativa sia rivolta contro il mero decreto di omologa,
dovrà essere quella del decreto e non, come prevede l’art. 18, comma 11°,
l.fall. quella della sentenza; b) la legittimazione ad impugnare spetterà alle
sole parti della precedente istanza di giudizio e non anche, come previsto
dallo stesso art. 18, all’indistinta platea dei terzi interessati; c) il termine
perentorio di trenta giorni fissato dall’art. 18, comma 1°, l. fall. per la
proposizione del gravame non può che farsi decorrere dalla notifica del
136
L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino, 2010, 161.
70
provvedimento, appositamente sollecitata da una delle parti, non potendosi
in questa sede ritenersi applicabile la pubblicazione a norma dell’art. 17
l.fall. in quanto non sussiste l’esigenza di notiziare i terzi (137).
La Corte d’appello deve pronunciarsi «in camera di consiglio», per cui,
oltre alla disciplina dettata dall’art. 18 l.fall., occorrerà tenere conto delle
regole e dei principi sottesi agli artt. 737 e ss del c.p.c.
La disciplina del reclamo, pertanto, risentirà dei principi informatori
dell’attività istruttoria del procedimento camerale: informalità, ufficiosità,
atipicità (138).
In sintesi: il reclamo dovrà essere proposto con ricorso alla Corte
d'appello e dovrà contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto
su cui si fonda l'impugnazione; inoltre, dovrà essere data menzione dei
mezzi di prova di cui il ricorrente intenderà avvalersi e dei documenti che
offre in comunicazione. Il ricorso, unitamente al decreto che fissa l’udienza
di comparizione, dovrà essere notificato - a cura del reclamante - al
commissario giudiziale e alle altre parti costituite nel giudizio di
omologazione. Tra la data della notificazione e quella dell’udienza dovrà
intercorrere un termine non minore di trenta giorni. Le parti che intendono
resistere dovranno costituirsi depositando in cancelleria, almeno dieci giorni
137
In questo senso: M. Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo,
cit. 731; M. Fabiani, sub art. 183 l. fall. in G. Lo Cascio, (diretto da), Codice commentato
del fallimento, 2008, 1646.
138
L. Montesano, «Dovuto processo» su diritti incisi da giudizi camerali, in Atti del
convegno nazionale (Palermo, 6-7 ottobre 1989), I procedimenti in camera di consiglio e
la tutela dei diritti, 226 e ss, spec. 228, il quale afferma: «Da una lato quel generale e
generico potere di “assumere informazioni” o di “verificare” consente al magistrato di
ricercare e di far ricercare autonomamente, in via inquisitoria, con tutti i mezzi che egli
ritenga opportuni e senza alcuna previa notizia alle parti, e così acquisire e usare per la
decisione, ogni fonte di cognizione sul materiale di causa; d’altro lato non basta, a
rimediare tale carenza d’ogni garanzia difensiva nei riguardi del magistrato inquisitore, che
egli sottoponga poi al contraddittorio con le parti e tra le parti i risultati delle dette
informazioni o verifiche, e neppure che le stesse parti siano genericamente invitate a
cooperare alle indagini informali e atipiche, di cui si è detto, né che a tutto ciò segua una
istruzione “tipica” o meglio modellata, sia pure con qualche differenza, su quella della
cognizione ordinaria»; v. anche: R. Capponi, Le “informazioni” del giudice civile, in Riv.
trim. dir. proc. civ. 1990, 911.
71
prima dell’udienza, una memoria contenente l’esposizione delle difese in
fatto e diritto, con l’indicazione dei mezzi di prova.
La fase istruttoria e la fase decisoria, per contro, non risultano, affatto
disciplinate.
Quanto allo svolgimento della fase istruttoria, l’art. 18, comma 10, l.fall.
prescrive solo che potranno essere ‹‹sentite le parti» e che il collegio potrà
disporre l’assunzione ‹‹anche d'ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i
mezzi di prova che ritiene necessari».
Non sono, quindi, disciplinate le modalità di assunzione dei mezzi di
prova e, men che meno, sono indicati i mezzi di prova di cui il collegio
potrà disporre l’assunzione ex officio.
Il collegio, quindi, potrebbe disporre l’assunzione, anche d’ufficio, di
tutti i mezzi di prova tipici; potrebbe disporre l’ingresso di prove atipiche;
nonché potrebbe disporre l’assunzione con modalità atipiche di tutti i mezzi
di prova tipici (139).
La disciplina della fase istruttoria, in conclusione, anche nella fase del
reclamo sarà interamente rimessa alla discrezionalità del magistrato.
Unico limite al potere del giudice, posto a garanzia delle parti, è
costituito dal richiamo, peraltro generico, al ‹‹rispetto del contraddittorio».
139
L. Montesano, «Dovuto processo» su diritti incisi da giudizi camerali, in Atti del
convegno nazionale (Palermo, 6-7 ottobre 1989), I procedimenti in camera di consiglio e la
tutela dei diritti, cit. 228, il quale ritiene che al fine di “costituzionalizzare” le istruttorie
ufficiose e atipiche dei giudizi camerali che decidono o incidono - occasionalmente o
incidentalmente - su diritti soggettivi: «Occorre invece, che - senza sacrificare le esigenze
di urgente tutela perseguite dal legislatore con le “cameralizzazioni” in discorso - la
decisione finale sulla domanda non si possa mai fondare, come su elemento preponderante
o comunque determinante, su materiale istruttorio che il giudice abbia raccolto senza la
contraddittoria partecipazione dei privati contendenti o che, pure in contraddittorio, sia stato
assunto “atipicamente”, senza cioè che le parti abbiano avuto il modo di predisporre le
proprie adeguate difese a strumenti istruttori “tipicamente” o “formalmente” loro
preannunciati negli aspetti essenziali del materiale da acquisire al processo e dei modi di
tale acquisizione. Tutto ciò significa - per riassumere e concludere - che le giudiziarie ed
inquisitorie “informazioni” e “verifiche”, di cui si è detto, possono essere usate, nella
decisione finale, non mai come “prove” di per sé sufficienti, ma solo come “argomenti di
prova”, cioè come strumenti per valutare l’attendibilità delle prove tipicamente,
formalmente e contraddittoriamente preannunciate, disposte ed assunte».
72
Il ‹‹rispetto del contraddittorio» costituisce una clausola generale, la cui
«concretizzazione» è rimessa al potere discrezionale del collegio, pertanto,
le parti continueranno comunque a versare in una condizione di soggezione
rispetto al giudice (140).
Quanto alla fase decisoria, l’art. 18, comma 11, l.fall. afferma che la
‹‹corte provvede sul ricorso con decreto».
Non sono, quindi, definite le modalità con cui deve avvenire la
rimessione in decisione della causa, né i poteri delle parti di svolgere le
proprie difese conclusionali, né le eventuali repliche alla luce dei risultati
dell’attività processuale svolta (corrispondenti alle analoghe previsioni del
rito ordinario degli artt. 188-190, 275 ss c.p.c.).
2.2. - Alla luce di quanto sopra, risulta evidente che il reclamo descritto
dall’art. 183 l.fall. presenta, a ben vedere, notevoli differenze rispetto agli
ordinari mezzi di impugnazione elencati dagli artt. 323 e 324 c.p.c.
Tali differenze non possono non ripercuotersi sulla natura del giudizio di
omologazione.
Le ricadute riguardano principalmente il tipo, melius la qualità,
dell’efficacia del provvedimento conclusivo del concordato preventivo.
Le differenze, in estrema sintesi, sono: a) il reclamo non è annoverato tra
i mezzi di impugnazione idonei a condizionare il passaggio in giudicato
(formale) della sentenza ex 324 c.p.c. (141); b) il provvedimento conclusivo
140
Il generico richiamo al rispetto del «contraddittorio» e alle «facoltà delle parti di
chiedere mezzi di prova» operato da C. Cost. 1° luglio 1975, n. 202, in Foro it. 1975, I,
1574, non è stato ritenuto sufficiente, cfr: L. P. Comoglio, Garanzie costituzionali e prove
atipiche nel procedimento camerale, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1976, 1150, spec. 1166;
E. Fazzalari, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc. 1988, 909 e ss; L.
Lanfranchi, La cameralizzazione del giudizio sui diritti, in Giur. it. 1989, IV, 33 ss; contra
V. Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1987, 33 e ss;
riteneva superfluo ogni intervento costituzionalizzatrice: F. Cipriani, Procedimento
camerale e diritto di difesa, in Riv. dir. proc. 1974, 189; ribadito poi in F. Cipriani,
Ostracismo per il procedimento camerale di divorzio?, in Giur. it. 1989, I, 53, spec. 57.
141
Cfr. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova,
1994, 186, che fa notare che: «Se si passa all’esame della nozione accolta dal nostro
73
del concordato preventivo non è sempre impugnabile, in quanto, per
espressa previsione di legge, non è soggetto a gravame il decreto di
omologazione del concordato preventivo in assenza di opposizioni; c)
contro il decreto della Corte d’Appello non è prevista la possibilità di
proporre il ricorso ordinario in cassazione (142).
Come noto, l’elencazione dei mezzi di impugnazione effettuata dall’art.
323 c.p.c. è sviluppata in funzione della successiva disposizione sul
giudicato formale.
Se in una sequela procedimentale non è possibile avviare il tipico sistema
di gravami contro il provvedimento giurisdizionale, non sussiste la
condizione – sistematica - per applicare il disposto dell’art. 324 c.p.c. Di
conseguenza, al provvedimento conclusivo non è possibile attribuire il
vincolo (per le parti e per il giudice) del giudicato formale (143).
legislatore della codificazione del 1942, non può non percepirsi come anche per il nostro
diritto positivo, art. 324 c.p.c., il concetto stesso di cosa giudicata formale sia più ristretto
rispetto a quello di impugnabilità», in particolare l’A. in esame prosegue chiarendo che:«Si
conferma in questo modo l’esclusione del giudicato materiale dalla esperienza della
volontaria giurisdizione: se il reclamo è certo una impugnazione, non di meno questa forma
gravame non è stata ritenuta idonea a delineare i presupposti strutturali per la cosa giudicata
formale, come parimenti in Germania quando si è alla presenza di un gravame
temporalmente illimitato. La posizione di base è sempre la medesima: non ogni
impugnazione appronta lo sviluppo procedimentale utile a produrre un provvedimento
idoneo alla cosa giudicata formale».
142
La possibilità di impugnare il provvedimento di omologazione del concordato
preventivo emesso dalla Corte d’appello in sede di reclamo tramite il ricorso straordinario
in cassazione ex art. 111 Cost. è stata, tuttavia, ammessa per via giurisprudenziale dalla
Cass. 12 ottobre 2011, n. 22931, inedita, ma reperibile su www.ilcaso.it, secondo cui: «Il
decreto con il quale la corte d’appello decide in ordine al reclamo nei confronti del decreto
con il quale il tribunale ha omologato la proposta di concordato preventivo ha natura di
sentenza, in quanto ha l’attitudine alla definitività ed incide su diritti soggettivi; esso è
pertanto ricorribile per cassazione, ai sensi dell’articolo 111 Cost., nel termine ordinario di
60 giorni previsto per il rito camerale»; non può, però, essere trascurato che la dottrina ha
evidenziato come non possa dirsi affatto sufficiente giustapporre al termine di un
procedimento qualsiasi la possibilità di adire la Cassazione ex art. 111 Cost. per far sì che il
diritto soggettivo sia tutelato da un «giusto processo», cfr. L. Lanfranchi, Profili sistematici
dei procedimenti decisori sommari, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1987, p. 55 e ss.
143
A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e
di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ. 1987, 449, il quale afferma che: «Il giudicato
formale si congiunge indissolubilmente ad un certo articolato sistema di impugnazioni ed
anzi è la matrice ispirativa che gli dà ragione: come risulta dalla stessa legge e cioè dal fatto
che l’elencazione dei gravami, puntualmente effettuata nell’art. 323 c.p.c., è subito
74
Più precisamente, si afferma che il giudicato formale dipende tanto alla
struttura del processo, quanto dai mezzi di impugnazione del rispettivo
provvedimento (144).
Quanto alla struttura, l’art. 324 c.p.c. postula la possibilità (non la
necessità) di consumare almeno una fase a cognizione piena nell’ambito
della sequela procedimentale all’esito della quale è emesso il provvedimento
(145).
Quanto ai mezzi d’impugnazione, invece, l’art. 324 c.p.c., non
contemplando la figura del reclamo, esclude implicitamente l’idoneità dello
sviluppata in funzione del giudicato dal precetto immediatamente posteriore. Dove
quell’insieme di gravami non è applicabile e tutto si riduce ad un solo, atrofizzato mezzo di
controllo, difettano le premesse essenziali del giudicato formale e la ratio legis di questo
esclude ogni riferimento ad esso».
144
A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 185, il
quale osserva in via preliminare che: «non sembra del tutto preciso ricondurre la cosa
giudicata formale alla mera inoppugnabilità del provvedimento. Il concetto, infatti, si
presenta in termini ben più modulati, e rigorosamente definito dal legislatore: la
impossibilità (relativa) per le parti di promuovere una fase impugnatoria esprime con una
certa genericità solo una conseguenza della cosa giudicata formale, ma non definisce la
figura sul piano normativo», infatti, in primo luogo, l’A. rileva come dall’esegesi dell’art.
324 c.p.c. «il concetto steso di cosa giudicata formale sia più ristretto rispetto a quello della
non impugnabilità», in secondo luogo, che: «il concetto del giudicato formale prospetta la
conclusione procedimentale cui si perviene ai fini della produzione di quel peculiare effetto
che è la cosa giudicata materiale» e che sussiste una «stretta correlazione, pertanto, tra
giudicato materiale e presupposto individuato da una sequela che si conclude nella cosa
giudicata formale per il diritto positivo», la tesi di fondo, infatti, è che: «non ogni
impugnazione appronta lo sviluppo procedimentale utile a produrre un provvedimento
idoneo alla cosa giudicata formale»; in questo senso cfr. A. Cerino - Canova, Per la
chiarezza delle idee, cit. 449.
145
Cfr. L. Lanfranchi, La verificazione del passivo nel fallimento. Contributo allo studio
dei procedimenti sommari, cit. 93 ss, per il quale risulta del tutto inutile definire con i
termini della non sempre univoca nozione di preclusione pro judicato l’effetto finale del
procedimento sommario non seguito dall’eventuale e potenziale fase a cognizione piena, in
quanto, alla consapevole mancata instaurazione della fase a cognizione piena ed esauriente
per volontà delle parti segue, invece, l’effetto del giudicato formale ex art. 324 e sostanziale
art. 2909 c.c.; Id. Profili sistematici dei procedimenti decisori sommari, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 1987, 88; A. Proto-Pisani, Usi e abusi, cit. 402; M. Montanari, Fallimento e
giudizi ordinari pendenti sui crediti, Padova, 1991, 93; contra V. Androidi, Volontà e
giudizio nel processo civile, in Annali Facoltà di Giurisprudenza Università di Genova, I,
Milano, 1962, 115 per il quale il giudicato può conseguire solo all’espletamento effettivo
della cognizione ordinaria.
75
stesso a condizionare il passaggio in giudicato formale del provvedimento
che vi è assoggettato (146).
Passando, quindi, ad analizzare la specifica disciplina del procedimento
di omologazione, preme osservare che la struttura di entrambi i due gradi di
giudizio è fondata sullo schema del procedimento in camera di consiglio.
Quest’ultimo non prevede la possibilità di trasformare il rito nella
cognizione ordinaria o, comunque, non sommaria (in senso lato) (147);
mentre il decreto emesso all’esito del procedimento camerale è impugnabile
solo con lo strumento del reclamo ex art. 739 c.p.c.
La disciplina del procedimento in camera di consiglio non contempla le
condizioni - sistematiche - affinché il provvedimento finale possa acquisire
l’efficacia del giudicato formale ex art. 324 c.p.c. in quanto: a) non sussiste
la possibilità di consumare almeno un grado a cognizione piena; b) non
sussiste la possibilità di avviare l’iter dei mezzi di gravame previsto dall’art.
323 c.p.c. (148).
146
Cfr. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 188, il
quale rileva che:«Infatti, proprio con riferimento al dato esegetico, non si è dimenticato di
evidenziare che il regime della impugnazione camerale si differenzia in accentuata misura
dal sistema dei mezzi di gravame di cui agli artt. 323 c.p.c. e seguenti e che il procedimento
camerale manca di un complesso coordinato di controlli sequenziali tali da assicurare una
tendenziale riparazione a ogni vizio del provvedimento».
147
A. Proto-Pisani, Usi e abusi, cit. 419, il quale però rileva che in materia si
«sommarietà» della cognizione vi sia in dottrina molta incertezza tanto che: «così che ciò
che è sommario per gli uni, integra invece per gli altri gli estremi della cognizione piena»;
L. Montesano, Giurisdizione volontaria, in En. giur. XV, Roma, 1989, 11; A. Pagano,
Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, in Dir. e giur. 1989, 68; V.
Denti, I procedimenti camerali come giudizi sommari di cognizione: problemi di
costituzionalità ed effettività della tutela, in I procedimenti in camera di consiglio e la tutela
dei diritti, Atti del XVII convegno nazionale, nei Quaderni dell’associazione fra gli studiosi
del processo civile XLV, Milano, 1991, 41
148
Possono, infatti, richiamarsi le opinioni di quegli A. che hanno approfondito
l’applicabilità dell’art. 161, comma 1, c.p.c. al rito camerale: cfr. R. Donzelli, La tutela dei
diritti processuali violati nei procedimenti ablativi e limitativi della potestà parentale, in
Fam. e dir. 2004, 168, spec. 172, il quale rileva che in via preliminare ad ogni analisi «è da
verificare il se ed in che limiti operi il generale principio di assorbimento disciplinato
all’art. 161, comma 1, c.p.c. all’interno dei procedimenti di volontaria giurisdizione»;
secondo una parte della dottrina infatti le nullità del provvedimento camerale possono
essere fatte valere anche oltre ed indipendentemente lo strumento del reclamo, e tale
convincimento trae origine dall’esegesi del combinato disposto degli artt. 739 e 742 c.p.c.,
76
Tali condizioni non sussistono, a ben vedere, neanche nella speciale
disciplina del giudizio di omologazione del concordato preventivo.
La struttura portante del giudizio di omologazione è rappresentata dal
tradizionale modello deformalizzato del procedimento camerale, a cui è
stata aggiunta unicamente la predeterminazione dei tempi, tra la fissazione
dell’udienza e la data dell’udienza medesima e la previsione del termine di
dieci giorni prima dell’udienza concesso alle parti per costituirsi.
La disciplina dell’impugnazione del provvedimento di omologazione (i.e.
il reclamo ex art. 183 l. fall.) non riproduce la fisionomia di alcun tipico
gravame contro la sentenza (art. 323 c.p.c.). Il decreto di omologazione del
concordato preventivo è contestabile solo con un unico mezzo di
impugnazione, che non è, tuttavia, proponibile in ogni caso e che, né nel
nome, né nella sua regolamentazione, può essere accostato alla tipologia dei
gravami per impugnare la sentenza (149).
così: A. Proto – Pisani, Usi e abusi, cit. 419, L. Montesano, Giurisdizione volontaria, cit.,
1989, 11; A. Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, in
Dir. e giur. 1989, 68; A. Cerino – Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 67; A. Chizzini,
La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 341-342; v. anche: E. T.
Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, in Foro it.
1948, I, 328 il quale rilevava che «la mancata proposizione del reclamo od il suo rigetto
non rendono definitivo il decreto se non nel senso tutto formale di esaurire l’iter
processuale stabilito dalla legge»; altra parte della dottrina che ritiene che i vizi che le parti
avrebbero potuto far valere con l’esercizio del reclamo si sanano a seguito del decorso del
termine per impugnare previsto dall’art. 739 c.p.c., così: M.G. Civinini, I procedimenti in
camera di consiglio, Torino, 1994, 294 la quale ritiene che la sanatoria operi solo per i vizi
rilevabili ad istanza di parte e che sopravvivano alla conversione i vizi di legittimità
verificatesi in primo grado ma rilevabili d’ufficio, i vizi verificatesi in secondo grado e i
vizi della decisione emanata in sede di reclamo sulle nullità dedotte quali motivi di
reclamo; E. Grasso, I procedimenti camerali e l’oggetto della tutela, in Riv. dir. proc.
1990, 66; L. Montesano, Giudizi camerali su atti di società e tutela giurisdizionale di diritti
e interessi, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 827; G. Monteleone, Camera di consiglio
(diritto processuale civile), in Noviss. dig. it. Appendice, I, Torino, 1980 che attribuisce
espressamente al reclamo la funzione di rimediare ai vizi di legittimità dell’atto; G. A.
Micheli, Camera di consiglio (dir. proc. civ.) in, Enc. dir. V, Milano,1956, 995; G. Franchi,
Sull’efficacia dei procedimenti di giurisdizione volontaria e sull’opponibilità dei motivi di
revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. civ. 1960, II, 209.
149
P. Pajardi – A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Torino, 2008, 881, in
cui sostiene che il decreto di omologazione può essere impugnato in cassazione ex art. 111
Cost. ma è “appropriato” affermare che non si formi il giudicato sostanziale.
77
Alla luce di quanto precede, occorre quindi concludere che nella nuova
disciplina del procedimento di omologazione del concordato preventivo non
è possibile ravvisare i presupposti squisitamente formali individuati dalla
dottrina necessari per ricollegare al decreto del Tribunale e a quello della
Corte d’appello l’efficacia del giudicato formale (150).
3.- Dopo aver affrontato la nuova cornice processuale e aver individuato
le implicazioni dal punto di vista sistematico delle scelte compiute dal
legislatore, seguendo il criterio metodologico dichiarato in apertura, è
dunque giunto il momento di dedicarsi all’oggetto del giudizio di
omologazione.
Il profilo in parola rappresenta la questione giuridica più delicata che la
nuova disciplina del concordato preventivo impone di risolvere. Da esso
dipende la determinazione della natura dell’istituto e la risoluzione dei
diversi profili problematici che la nuova cornice processuale sottopone
all’attenzione dell’interprete. Tra questi, ad esempio, i limiti del sindacato
giurisdizionale nel procedimento di omologazione, il contenuto e l’efficacia
del decreto emesso dal Tribunale, la vincolatività della decisione per i
successivi giudici e per i creditori di minoranza.
Tuttavia, chiarire la questione poc’anzi indicata non appare affatto
agevole, dal momento che i profili strutturali del procedimento di
omologazione si presentano a tratti incerti e talora propriamente assenti.
150
Propende, invece, per l’efficacia di giudicato: L. Lanfranchi, Costituzione e
procedure concorsuali, cit. e 47 il quale muove però dalla premessa che l’oggetto del
giudizio di omologazione sia integrato anche dai crediti eventualmente contestati ex art.
176 l.fall. e ciò, trattandosi di diritti soggettivi, evoca – secondo la nota ricostruzione
sistematica dell’A. – la correlazione necessaria tra la possibilità di esperire almeno un
accertamento a cognizione ordinaria (o, comunque, non sommaria) e l’idoneità al giudicato
formale e sostanziale dell’accertamento. Condividendo la tesi poc’anzi espressa, tuttavia,
nel proseguo dell’indagine si cercherà di dimostrare che, in realtà, l’oggetto del giudizio di
omologazione non è (e non può essere mai) rappresentato da diritti soggettivi e il
provvedimento di omologazione non contiene mai un accertamento dei fatti costitutivi dei
diritti di credito (neppure di quelli contestati).
78
Per tale motivo, oltre al momento esegetico-analitico volto a definire
l’oggetto del giudizio, sarà necessario compiere un successivo sforzo
ricostruttivo di sintesi per definire - in chiave sistematica - la natura e la
struttura del giudizio di omologazione.
Ciò posto, la determinazione dell’oggetto del giudizio di omologazione
richiede innanzitutto di prendere le mosse dall’unico dato positivo certo
rintracciabile nella disciplina del giudizio di omologazione.
Il dato positivo in questione è costituito dalla disposizione dell’art.184
l.fall. secondo la quale: «il concordato preventivo omologato è vincolante
per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura».
Come ormai assodato, alla concessione del provvedimento di
omologazione si ricollega la produzione degli effetti diretti e riflessi verso i
c.d. «terzi-creditori» del concordato preventivo. Tali effetti possono essere i
più vari, essendo il contenuto della proposta è retto dal principio
dell’atipicità.
Il primo interrogativo da porsi è se i diritti sostanziali interessati dagli
effetti diretti e riflessi del provvedimento sono nel accertati procedimento di
omologazione con efficacia di giudicato sostanziale.
Il concordato preventivo è stato appositamente ideato per produrre effetti
sui diritti dei creditori, ma ciò di per sé non esclude che l’oggetto del
giudizio possa non essere costituito dai diritti soggettivi dei creditori
coinvolti.
Nel concordato preventivo diversamente da quanto avviene nel
concordato fallimentare, non sussiste una fase giurisdizionale destinata
all’accertamento dei diritti sostanziali dei creditori (151).
151
Il concordato fallimentare rappresenta una delle possibili modalità di chiusura del
procedimento fallimentare che - prima delle recenti riforme - poteva essere richiesta da uno
o più creditori dopo che si fosse conclusa la fase di verificazione del passivo. A seguito
delle recenti riforme, invece, la proposta di concordato fallimentare può essere formulata e
avanzata anche da una «terzo» e può essere presentata prima dell’emissione del decreto che
rende esecutivo lo stato passivo, purché sia stata tenuta la contabilità dell’impresa ed i dati
79
Il diritto di voto sulla proposta, invero, non trae origine da alcun
accertamento giurisdizionale dei diritti sostanziali dei creditori, ma si fonda
su: a) un atto di riconoscimento unilaterale, lato senso sostanziale, che il
debitore compie nel momento in cui propone la domanda per l’ammissione
al concordato preventivo, vale a dire, il deposito dell’elenco nominativo dei
creditori e dei titolari dei diritti reali e personali sui beni di sua proprietà o in
suo possesso; b) le rettifiche operate dal commissario giudiziale sulla base
delle indagini da lui compiute, nel caso in cui riscontrerà delle divergenze
rispetto a quanto affermato dal debitore; c) le modifiche apportate dal
giudice delegato ai sensi dell’art. 176 l.fall. a seguito delle contestazioni
sollevate dai creditori o dal debitore durante l’adunanza dei creditori.
Le rettifiche compiute dal commissario giudiziale non possono reputarsi
un accertamento giurisdizionale dei diritti dei creditori, in quanto tali
modifiche vengono compiute da un organo investito soltanto di funzioni
lato senso amministrative.
Inoltre, sebbene il giudice delegato possa ammettere e, ovviamente,
possa anche escludere, in tutto o in parte i crediti contestati, la cognizione
del giudice delegato sui fatti costitutivi affermati dal creditore è
espressamente limitata e finalizzata al calcolo delle maggioranze (152).
da essa risultanti, unitamente alle altre notizie disponibili, consentano al curatore di
predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all’approvazione del
giudice delegato. Il diritto di voto sulla proposta e il diritto al riparto della fase esecutiva
del concordato fallimentare, sebbene abbiano natura meramente processuale, traggono
origine da un accertamento giurisdizionale dei diritti sostanziali dei creditori. In altri
termini ed in buona sostanza, il diritto al voto e il diritto al riparto riflettono l’accertamento
delle situazioni compiuto nella fase di verificazione del passivo fallimentare; v. M. Fabiani,
Contratto e processo nel concordato fallimentare, cit. 256.
152
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1943, 303, il quale chiaramente
afferma che lo: «Spirito della procedura di concordato non è quello di fissare posizioni
giuridiche da valere al di fuori di essa e oltre i suoi brevissimi termini, ma di giungere il più
rapidamente possibile a una decisione sulla proposta del debitore, nell’interesse di tutti.
S’intende che in questo modo c’è la possibilità di pregiudicare il rispetto dovuto alle
prescrizioni della legge, raggirando la sua volontà, e creando artificiose maggioranze con
creditori fittizi. Ma anche a questo è stato trovato un rimedi, che concilia le esigenze della
giustizia con la sollecitudine dovuta: e il rimedio è nella contestazione che ciascun creditore
può sollevare sui crediti aspiranti a partecipare alla deliberazione. Tale contestazione però
80
Il provvedimento del giudice delegato non precluderà al creditore
soccombente la possibilità di agire contro il debitore in via ordinaria con
una nuova e autonoma azione per accertare i fatti costitutivi del diritto
vantato.
L’accertamento dei fatti costitutivi affermati dal creditore non è idoneo
ad acquisire l’efficacia di giudicato formale, né tanto meno quella di
giudicato sostanziale.
Quindi, diversamente da quanto previsto nel concordato fallimentare,
prima del giudizio di omologazione, nel concordato preventivo non avviene
(e nemmeno può avvenire) alcun accertamento dei diritti sostanziali
interessati dagli effetti del provvedimento di omologazione; di conseguenza,
per risolvere il quesito poc’anzi posto, non resta che volgere lo sguardo
proprio all’interno del giudizio in esame.
3.1. - Preziose e forse risolutive indicazioni possono ricavarsi dalla
disciplina dell’opposizione all’omologazione.
non ha alcun carattere formale: essa fa parte della discussione che si svolge nell’adunanza,
è puramente orale, e può essere immediatamente ribattuta sia dai creditori contestati, sia dal
debitore, il quale a sua volta può sollevare le contestazioni che crede. La decisione spetta al
giudice delegato: ed è anche questa una decisione non formale, perché il giudice non fa
altro che emettere un giudizio provvisorio, di ammissione o di esclusione del credito dalla
deliberazione, senza che ciò pregiudichi definitive sulla sussistenza del credito stesso (art.
176 l. fall.). Un giudizio più approfondito si può avere in sede di omologazione, se i
creditori esclusi facciano opposizione (nelle forme dell’art. 129 l. fall.) contro la loro
esclusione; ma anche qui siamo ben lontani, e anci agli antipodi, da un giudizio vero e
proprio: essi infatti possono fare opposizione solo se la loro ammissione avrebbe avuto
influenza sulla formazione delle maggioranze, e il tribunale li prende in considerazione solo
sotto questo punto di vista. Pertanto, sen riterrà che dovevano essere ammessi, rifiuterà
l’omologazione, perché li considererà come votanti in senso contrario alla proposta del
debitore; se riterrà che giustamente erano stati esclusi, omologherà il concordato; e in
entrmbe le ipotesi il giudizio definitivo sul credito, da compiersi dalle autorità competenti,
resterà impregiudicato»; cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974,
2310; G. Ragusa – Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova 1994, 1038; G. Lo
Cascio, L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato preventivo, in
Giust. civ. 1993, 2065; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel concordato
preventivo, in Giust. civ. 1995, 2353; in giurisprudenza, assolutamente consolidata, v. Cass.
22 settembre 2000, n. 12545, inedita; Cass. 14 febbario 2002, n. 2104, in Fall. 2003, 25;
Cass. 22 dicembre 2006, n. 27489, in Fall. 2007, 466.
81
Nella disciplina originaria della legge fallimentare l’opposizione si
proponeva con un autonomo atto di citazione, che doveva essere notificato
sia al debitore, che al commissario giudiziale (153).
Legittimati all’opposizione erano i creditori dissenzienti e qualunque
altro interessato (154).
L’opposizione - già per la sua denominazione - evocava l’esistenza di un
conflitto tra il debitore e i creditori sulla proposta approvata dalla
maggioranza. Per via di tale apparente conflittualità impressa in seno al
giudizio di omologazione, l’opposizione era qualificata alla stregua di un
atto d’intervento, pur non sussistendone, in realtà, i presupposti (155).
L’intervento, come noto, costituisce il veicolo per proporre una domanda
volta a ottenere - almeno - l’accertamento di un diritto soggettivo
nell’ambito di un giudizio già pendente tra altre parti. Il principale effetto
dell’intervento è quello di produrre un cumulo oggettivo nel giudizio e
aumentare il grado di conflittualità tra le parti originarie (156).
153
R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, IV, 1974, Milano, 2313; G. Ragusa
Maggiore, Diritto fallimentare, II, 1974, 1052; A. Bonsignori, Concordato preventivo, in
V. Scialoja – M. Branca, Commentario della legge fallimentare, Bologna - Roma, 1979,
sub art. 180, 402 e ss.
154
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 307; R. Provinciali, Trattato di diritto
fallimentare, cit. 2310; G. Ragusa – Maggiore, Diritto fallimentare, Napoli, 1974, 1053.
155
G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, 1974, Napoli, 1052 che rileva come:
«L’interesse all’opposizione legittima la partecipazione al giudizio di omologazione anche
nella forma dell’intervento, sempre che non si tratti (come i dissenzienti) di soggetti che
avrebbero dovuto proporre opposizione e costituirsi prima dell’udienza di comparizione,
nel qual caso essendo decaduti dall’opposizione, non potrebbero aggirare l’ostacolo
mediante l’intervento. Può quindi intervenire chi abbia un interesse diverso da quello che
legittimerebbe l’opposizione, come per esempio il garante del concordato»; in senso
analogo cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 1874 che incidentalmente fa
notare che «Le parti del giudizio sono: il fallito (e il fallito soltanto), se al concordato non è
mossa alcuna opposizione. Non è ammissibile l’intervento dei creditori: se dissenzienti,
debbono fare opposizione nelle forme prescritte; se assenzienti, non vi hanno interesse».
156
Sulla distinzione tra litisconsorzio necessario e facoltativo v. A. Proto- Pisani,
Appunti sul litisconsorzio facoltativo, in Scritti in onore di Raselli, Milano, 1971, pp. 1217
ss.; in particolare v. E. Redenti, Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1960
(ristampa dell’edizione del 1911), p. 6 ss, il quale, oltre ad individuare nella doverosità o
meno del litisconsorzio la principale e più evidente divergenza tra le suddette fattispecie,
osserva che nell’ipotesi di litisconsorzio necessario il provvedimento richiesto all’organo
giurisdizionale da più o contro più soggetti risulta essere logicamente e giuridicamente
82
Ora, osservando con attenzione l’abrogata disciplina delle forme
dell’opposizione, senza lasciarsi suggestionare dal nomen juris attribuito
allo strumento in esame, risulta evidente che i creditori e gli altri interessati
non potevano chiedere al giudice la tutela dei loro diritti soggettivi in sé.
L’opponente, in altri termini, non poteva richiedere l’accertamento di un
proprio diritto sostanziale nei confronti del debitore concordatario e degli
altri creditori.
Se ciò fosse stato possibile la richiesta dell’opponente avrebbe potuto: a)
integrare l’oggetto di un autonomo e distinto giudizio; b) essere proposta, in
alternativa
e
successivamente
al
giudizio
di
omologazione,
con
l’opposizione di terzo ordinaria (art. 404 c.p.c.).
Le due possibilità, invece, non avrebbero mai potuto verificarsi (157).
unico. Per cui la peculiarità del rapporto tra le istanze delle parti e la pronuncia dell’organo
giurisdizionale è rintracciabile nel fatto che tutte le istanze tendono a determinare la
pronuncia di un provvedimento non solo formalmente, ma soprattutto sostanzialmente
unico. Differentemente, nell’ipotesi di processo cumulativo, si osserva che la pronuncia
richiesta all’organo giurisdizionale, mediante domande simultanee e congiunte nello
svolgimento, risulta essere costituita dalla sommatoria di altrettanti provvedimenti
ontologicamente distinti, di tale natura, però, da poter essere sommati in una pronuncia
formalmente unica. In argomento v anche: M.G. Civinini, Note per uno studio sul
litisconsorzio unitario, con particolare riferimento al giudizio di primo grado, in Riv. Trim.
proc. Civ., 1983, 429 ss.; G. Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio
necessario, Napoli, 1979, p. 7 ss.; S. Fabbrini, Contributo alla dottrina dell’intervento
adesivo, Milano, 1964, p. 171; S. Menchini, Il processo litisconsortile, Milano, 1993, p. 14
ss., che contrappone il litisconsorzio unitario a quello semplice , in cui il simultaneus
processus è determinato da ragioni di opportunità, ed a quello reciproco, in cui la
trattazione congiunta discende da interferenze tra i rapporti sostanziali, come
l’incompatibilità e la pegiudizialità. Differentemente, la giurisprudenza suole definire il
fenomeno in cui si rende necessaria un decisione unitaria, ma non anche la partecipazione
al processo, come litisconsorzio necessario processuale, come evidenziato in G. Costantino,
voce Litisconsorzio, in Enc. Giur., 2 , l’a. infatti al fine di evitare pericolose confusioni, in
considerazione delle diverse accezioni del termine litisconsorzio, ritiene opportuno riferire i
termini “litisconsorzio necessario” e “litisconsorzio facoltativo” soltanto alla necessità o
alla possibilità che più persone agiscano o siano convenute nello stesso processo,
circoscrivendone l’impiego soltanto alla fase introduttiva del giudizio. Per quanto riguarda,
invece, le modalità di svolgimento e decisione dei giudizi con pluralità di parti, l’a.
preferisce rifarsi all’antica formulazione di cumulo facoltativo o necessario, a seconda che
sia o meno ammissibile il frazionamento della decisione rispetto alla pluralità di parti
presenti in giudizio, impiegando, dunque, la locuzione di litisconsorzio facoltativo con
cumulo necessario per definire la fattispecie predetta.
157
Per l’inammissibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404, comma 1°, c.p.c. si rinvia
al par. 6.1.
83
L’opposizione doveva essere proposta con atto di citazione a comparire
all’udienza fissata dal giudice delegato e l’opponente aveva l’onere di
costituirsi almeno cinque giorni prima di quella data. La disciplina prevista
dall’abrogato art. 180, comma 2°, l. fall. imprimeva, pertanto, un chiaro
vincolo di «inscindibilità» tra la domanda di opposizione e quella di
omologazione (158).
Il legame di inscindibilità tra le due domande emerge ulteriormente
considerando che la domanda di omologazione del concordato preventivo e
quella di opposizione non potevano essere decise l’una indipendentemente
dall’altra.
Quindi, sebbene il giudizio di omologazione prendeva avvio a impulso
ufficioso, tale giudizio veniva, in realtà, promosso mediante l’atto iniziale
dell’imprenditore, il quale consentiva di dare impulso a tutte le fasi della
procedura, fino alla richiesta di omologazione, per cui l’affissione del
provvedimento di fissazione dell’udienza collegiale all’albo del tribunale
costituiva soltanto una mera forma di pubblicità, volta a far conoscere ad
ogni interessato la data dell’udienza del procedimento già in corso (159).
Con il ricorso introduttivo veniva dunque formulata sia la proposta di
concordato da sottoporre all’approvazione del ceto creditorio, sia la richiesta
di omologazione della stessa.
L’imprenditore era quindi onerato ad allegare e provare fin dalla fase
introduttiva, oltre che la sussistenza delle condizioni di ammissibilità alla
procedura ex art. 160 l.fall., le condizioni prescritte dall’art. 180 l.fall.
L’imprenditore doveva allegare e provare che: a) il concordato era
conveniente economicamente per i creditori (n. 1, abrogato art. 181 l.fall.)
rispetto all’alternativa fallimentare; b) le garanzie offerte assicuravano, in
158
A. Bosignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – M. Branca, Commentario alla
legge fallimentare, Bologna – Roma, 1979, sub art. 180, 399 e ss; Trib. Catania, 29
settembre 1989, Dir. fall. 1990, II, 310
159
Cass. 19 ottobre 1992, n. 11439, in Foro it. 1993, I, 3329.
84
ogni caso, l’adempimento del concordato, ovvero, che nel caso di
concordato per cessione, i beni offerti erano sufficienti per pagare i crediti
almeno nella percentuale minima prescritta ex lege (n. 3, abrogato art. 181
l.fall.).
Ciò posto, al fine di individuare l’oggetto dell’opposizione è,
innanzitutto, opportuno chiarire chi erano i soggetti legittimati ad avvalersi
dello strumento in esame.
È noto che la proposizione di una domanda in giudizio è subordinata alla
sussistenza dell’interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c.). Tale interesse sussiste
quando risulta necessario ricorrere al giudice per evitare la lesione di un
proprio diritto. Precisamente, per rimuovere (o evitare) un pregiudizio
derivante da un danno (o pericolo di danno) concreto e attuale (o imminente
e irreparabile), ovvero per conseguire una concreta utilità (160).
Al concetto d’interesse ad agire occorre necessariamente rinviare per
individuare i soggetti legittimati a proporre opposizione in conformità
all’art. 180, comma 2°, l.fall. in quanto rientranti nella nozione di qualunque
interessato.
Ora, dal momento che il concordato preventivo omologato era (e come
tale resta) obbligatorio verso qualsiasi credito sorto prima del decreto di
ammissione (ex art. 184 l.fall.) e ai fini dell’omologazione era necessaria la
160
F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, I, Introduzione (1920), Padova,
rist. 1930, p. 5; Id., Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e composizione del
processo, Padova, 1936, p. 8, affermi – tra l’altro impiegando (per le ragioni spiegate infra,
§ 3.) il termine «bisogno» al posto di quello di «interesse » – che «tutti i bisogni sono
individuali. Il bisogno è attitudine dell’uomo singolo; non vi sono bisogni della collettività
come tale; quando si parla di bisogni collettivi si usa un’espressione traslata per significare
che sono sentiti da tutti gli individui appartenenti a un dato gruppo»; A. Proto - Pisani,
Dell’esercizio dell’azione, Art. 100, Interesse a agire, in Commentario del codice di
procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1066, osserva che la formula
prevista dall’art. 100 c.p.c., deriva dall’art. 36 c.p.c. del 1865 in cui si «elevò a dignità di
norma giuridica la corrente di idee particolarmente diffusa nella dottrina e giurisprudenza
francese espressa dagli aforismi “point d’intérêt, point d’action”, ovvero “l’intérêt est la
mesure des actions”»; v. anche R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi
colletivi, Napoli, 2008, 277, per il quale probabilmente l’origine della formulazione dell’art.
100 c.p.c., in cui parla di «azione», deriverebbe intesa dall’attività materiale umana, che
sarebbe poi divenuta l’«azione» come concetto giuridico processuale.
85
sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 181 l.fall., legittimato a
proporre l’opposizione, oltre al creditore chirografario ammesso al voto e
dissenziente (o escluso al voto ex art. 176 l.fall.), si riteneva fosse
qualunque titolare di una situazione giuridica soggettiva che avrebbe potuto
essere soddisfatta in modo più favorevole seguendo la via della liquidazione
fallimentare (161).
L’opposizione costituiva uno strumento volto a richiedere l’accertamento
negativo delle condizioni prescritte dall’art. 181 l.fall. (162).
161
Cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit.1882, per il quale la
legittimazione a proporre opposizione si ricollega a quella specifica funzione che la legge
demanda ai creditori e ai terzi per operare quali organi di controllo, allo scopo di garantire
la legittimità di determinati atti del procedimento fallimentare. Per tale ragione il creditore è
legittimato perché non rappresenta soltanto l’interesse proprio, ma allo stesso tempo quello
dell’intera categoria dei creditori, più precisamente l’opponente: «è legittimato a farsi
gestore dell’interesse generale e della pubblica convenienza, finalità a cui si informano gli
istituti di concordato, preventivo e fallimentare, a che non sia concesso o sia revocato il
provvedimento che non risponda alle suddette finalità»; v. anche: G. Ragusa - Maggiore,
Diritto fallimentare, cit. 1053 che osserva come: «L’interesse che sta al fondo
dell’opposizione inerisce alla situazione giuridica dell’opponente, il quale però si rende
partecipe di un più ampio interesse quale quello di tutti i creditori, poiché il concordato
concerne tutti costoro. Praticamente, si tratta di una posizione analoga a quella che può
profilarsi come interesse legittimo nel diritto privato, che spetta al singolo come membro di
un gruppo o di una categoria. Ora, o si tratta di un interesse particolare pur sempre con in
prospettiva quello generale, o invece l’interesse è di tutti i creditori fatto valere dal singolo.
In tal caso, ove sussista una miglior tutela di tutti i creditori attraverso il concordato, può
obiettarsi che il singolo manchi di un interesse specifico. Può all’opponente, per esempio,
eccepirsi che i creditori ricaverebbero dalla liquidazione fallimentare una percentuale
minore di quella del 40% offerta dal debitore. Questa eccezione è relativa infatti alla
convenienza del concordato, la cui valutazione va fatta dal tribunale per la concessione del
beneficio, ma essa si contrappone anche all’interesse che giustifica l’opposizione»
162
A. Bonsignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – G. Branca, Commentario
alla legge fallimentare, Bologna – Roma, 1979, sub art. 180, 399 e ss il quel osserva che le
opposizioni non possono costituire alcun cumulo obiettivo perché non hanno un oggetto
distinto da quest’ultimo, ma sempre lo stesso: legittimità e convenienza del concordato. Per
tale autore l’unitarietà del processo, che già emerge indubbiamente dall’analisi della
struttura formale, dipende dall’unitarietà dell’oggetto, sia pure prospettato dall’opponente
con segno negativo, proprio perché le opposizioni concernono quella stessa illegittimità o
dannosità del concordato, che è considerata sia pure con segno positivo nell’omologazione.
In termini, in parte diversi, G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, 804 per il quale
invece: «il giudizio di omologazione ha carattere unitario, anche se coesistono due aspetti
diversi nel giudizio stesso e cioè: quello relativo all’omologazione e quello relativo al
contraddittorio eventuale. Solo per motivi di ordine processuale i due giudizi sono unificati
e unica risulta l’udienza di comparizione»; v. anche R. Provinciali, Trattato di diritto
fallimentare, cit. IV, 2300, per il quale il carattere unitario deriva dal fatto che
l’opposizione “nasce” dall’omologazione.
86
In altri e più concreti termini, l’opponente, diversamente dal debitore,
aveva l’onere di allegare e provare che non sussistevano le condizioni di
legittimità o di merito per omologare la proposta di concordato approvata
dalla maggioranza. Le domande del debitore e quella dell’opponente non
avevano a oggetto due distinti diritti sostanziali generati da un medesimo
fatto costitutivo. Le domande di omologazione e quella di opposizione non
erano neppure legate da alcun rapporto di connessione (163).
Ora, alla luce delle considerazioni sin qui svolte è possibile ricavare un
ulteriore e prezioso dato per rispondere all’interrogativo posto sopra: il
giudizio di omologazione era finalizzato unicamente ad accertare la
correttezza formale dell’iter procedimentale e a valutare la sussistenza della
convenienza della proposta e la fattibilità del piano.
L’opposizione non dava luogo ad alcun cumulo obiettivo all’interno al
giudizio di omologazione, in quanto la richiesta di opposizione non aveva
un oggetto distinto dalla richiesta di omologazione, ma sempre lo stesso:
l’accertamento (negativo) delle condizioni di legittimità e convenienza del
concordato (164).
La ratio della trattazione congiunta non risiedeva quindi nell’opportunità
di esaminare una pluralità di domande connesse tra loro (165) e, men che
163
A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit., 401 il quale ritiene che mediante
l’opposizione gli interessati possono richiamare l’attenzione Tribunale sui singoli fatti di
illegittimità e sconvenienza, con il solito effetto proprio di ogni domanda giudiziale, in
quanto, riguardo gli eventi in questione e nei limiti delle relative allegazioni, il tribunale
fallimentare ha il potere-dovere di provvedere, che si sovrappone a quello d’ufficio sullo
stesso oggetto.
164
Cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 1882; A. Bonsignori,
Concordato preventivo, cit. 399, che affrontando il profilo dell’oggetto e della
legittimazione rileva subito come per il concordato preventivo sia possibile operare un
richiamo a quanto detto in riferimento al concordato fallimentare: «Ciò specie per quel che
concerne il rapporto fra opposizioni e omologazione, perché si tratta non soltanto di un
processo che ha un oggetto unitario, dato dalla legittimità e dalla convenienza del
concordato preventivo, con la peculiarità, però, che quest’ultimo è presentato dagli
eventuali opponenti con segno negativo, nel senso appunto che le opposizioni stesse
concernono l’illegittimità o la dannosità del concordato preventivo stesso».
165
Cfr. G. Ragusa - Maggiore, Diritto fallimentare, II, cit. 1052 per il quale:
«L’istruttoria per la concessione del concordato si svolge in unico contesto e in via parallela
87
meno, nell’esistenza di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra la
domanda di omologazione e quella di opposizione (166).
La ragione dell’unitarietà in parola risiedeva, invece, nell’identità
dell’oggetto delle antagoniste richieste di accertamento avanzate tanto dal
debitore, quanto dagli opponenti (167).
La richiesta di omologazione e la richiesta di opposizione avevano lo
stesso oggetto: la proposta avanzata dal debitore e approvata dalla
maggioranza dei creditori.
Tra le due richieste sussisteva un rapporto analogo a quello che nel
giudizio ordinario sussiste, da un punto di vista generale, tra azione ed
eccezione (168).
Ma l’opposizione non poteva essere considerata un’eccezione in senso
tecnico, vale a dire, uno strumento per veicolare all’interno del processo
fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del fatto costitutivo affermato
con l’altra relativa alle opposizioni all’omologazione, secondo gli stessi criteri già indicati a
proposito del concordato fallimentare. É infatti giusto che il tribunale abbia una visione
completa di tutti gli interessi incidenti nel concordato e poiché la concessione di esso risulta
da una comparazione di tali interessi, giudizio di omologazione e di opposizione
all’omologazione si svolgono contestualmente».
166
R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, III, 1875, il quale trattando della fase
introduttiva del concordato fallimentare rileva che: «Si è dubitato se, in difetto di
opposizione, occorra iscrizione a ruolo (del c.d. giudizio di omologazione). Dato che questo
procede con le forme del processo ordinario di cognizione, non vedo come, altrimenti, si
potrebbe portare all’udienza la causa a cognizione del collegio. Costituito che sia il curatore
in questo giudizio, tale costituzione si estende anche a quello di opposizione; analogamente,
costituitosi il curatore nella causa di opposizione al concordato, tale costituzione vale anche
per il giudizio di omologazione; ciò per la unitarietà del processo sulla c.d. «omologazione»
del concordato, di cui l’opposizione non rappresenta che uno sviluppo, che può anche non
effettuarsi, ma che, se sussiste, si inerisce senza soluzione di continuità nel procedimento,
di carattere necessario, sulla c.d. “omologazione” (rectius concessione)».
167
Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 411, per il quale nel concordato
preventivo in fondo: «vi è un processo con pluralità soltanto eventuale di parti: il debitore, e
il commissario giudiziale, devono sempre parteciparvi, mentre la presenza di opponenti
dipende dalle circostanze; peraltro, se opposizioni vi siano, il giudizio resta sempre unico,
data l’unitarietà dell’oggetto, puntualmente rappresentata dalla disposizione in esame,
unitarietà che sfocia, infine, nella già menzionata unicità della sentenza, tanto se sia di
omologazione del concordato preventivo, quanto se, invece, risulti di conversione in
fallimento. Con la non indifferente conseguenza pratica, sempre nell’ipotesi di opposizione,
dell’applicabilità sia in primo grado, sia in fase di impugnazione, della disciplina del
litisconsorzio necessario».
168
In questo senso: Trib. Catania, 29 settembre 1989, in Dir. fall. II, 1990, 310 e ss
88
dall’attore. Ciò dal momento che nel processo di concordato preventivo, non
era (e non è tutt’ora) possibile individuare un diritto soggettivo di natura
sostanziale fatto valere dall’imprenditore con il ricorso (169).
L’opposizione invece serviva soltanto per richiamare l’attenzione del
Tribunale sui singoli presupposti di legittimità, convenienza e fattibilità, che
avrebbero potuto, comunque, essere oggetto d’indagine in sede di
omologazione, anche su stessa iniziativa ufficiosa (170).
3.2 - La disposizione dell’art. 180 l.fall. è stata modificata una prima
volta ad opera del decreto legge del 14 marzo 2005, n. 35.
Nella previgente disciplina dopo la fase di approvazione, il giudice
delegato doveva fissare una nuova udienza avanti a sé, rispetto alla quale chi
voleva opporsi all’omologazione doveva notificare l’atto di citazione e
costituirsi almeno cinque giorni prima. Dopodiché, il giudice delegato
doveva fissare l’udienza innanzi al collegio e il procedimento sarebbe
proseguito con le forme della disciplina dettata dagli artt. 183 c.p.c. e
seguenti del codice di rito.
Il c.d. «Decreto competitività» aveva previsto che dopo la chiusura della
fase deliberativa il Tribunale doveva fissare un’udienza in camera di
consiglio per la comparizione del debitore e del commissario giudiziale. Il
169
V. però: S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 290, secondo cui: «Il
concordato preventivo è una misura di favore accordata dalla legge al debitore insolvente:
come tale, il ricorso al concordato costituisce un suo diritto che si oppone a quello dei
creditori di chiedere sia l’esecuzione singolare sui beni, sia l’esecuzione collettiva, e
prevale su di esso. Con l’esecuzione ha comune il fine, che è la soddisfazione dei creditori,
e con la esecuzione collettiva ha comune il mezzo, che è la destinazione di tutto il
patrimonio a questa soddisfazione. Ciò che lo distingue nettamente è il modo col quale
questa destinazione è realizzata: perché mentre nell’esecuzione collettiva ciò si raggiunge
attraverso la liquidazione del patrimonio e la distribuzione del ricavato fra i creditori, nel
concordato preventivo si ha una attribuzione convenzionale di valore al patrimonio
medesimo»; la ricostruzione dell’A. poc’anzi citato è stata ripresa dopo la riforma da M.
Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Padova, 271 il quale afferma
che nel giudizio di omologazione si è di fronte ad un processo sommario nelle forme la
l’oggetto è alquanto attiguo alla cognizione piena: «perché lì si tratta di accertare se esiste il
potere del debitore di veder modificata la regolazione delle proprie obbligazioni».
170
A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 403 e più approfonditamente 411.
89
relativo provvedimento doveva essere affisso all’albo del Tribunale e
notificato al commissario giudiziale e agli eventuali creditori dissenzienti a
cura del debitore. Quest’ultimo, il commissario giudiziale, gli eventuali
creditori dissenzienti e qualsiasi altro interessato dovevano costituirsi
almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata, depositando una «memoria
difensiva» contenente le eccezioni processuali e di merito non rilevabili
d’ufficio e l’indicazione dei mezzi di prova.
La nuova disposizione dell’art. 180 l.fall. riconduceva il rapporto
intercorrente tra il debitore e i creditori al tipico schema della dialettica
azione-eccezioni. La modifica dell’art. 180 l.fall. consentiva di superare
ogni dubbio sulla tipologia del rapporto intercorrente tra le richiesta di
omologazione e quella di opposizione.
Successivamente, però, l’art. 180 l.fall. è stato modificato ad opera del
decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169.
L’attuale formulazione prevede che i creditori dissenzienti e qualsiasi
altro interessato devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza
fissata dal Tribunale per la comparizione delle parti.
Non è più prevista alcuna disciplina del contenuto dell’atto.
L’opposizione dovrà essere proposta, almeno dieci giorni prima
dell’udienza fissata dal Tribunale, tramite una memoria di costituzione
contenente le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.
L’impiego del termine «eccezione», in realtà, risulta improprio e
necessità di essere chiarito.
Nel ricorso per accedere al concordato preventivo non può essere
effettuata alcuna allegazione di fatti costitutivi di un diritto soggettivo, in
quanto non sussiste e non può essere vantato un “diritto soggettivo alla
regolazione del dissesto secondo nelle forme del concordato preventivo”
(171), per cui non possono neanche esistere fatti impeditivi, estintivi e
171
V. però nota 53.
90
modificativi della pretesa dell’attore. Le disposizioni degli artt. 160 l.fall. e
ss. hanno natura eminentemente processuale e disciplinano la modalità (i.e.
lo strumento) per giungere alla conclusione di un negozio sulla crisi
d’impresa.
Ciò non toglie che si possa continuare ad utilizzare l’espressione
«eccezioni processuali e di merito» per definire il contenuto dell’atto di
opposizione anche dopo il decreto correttivo, ma occorre essere consapevoli
che tale dicitura non implica l’esistenza di fatti idonei a contestare un fatto
costitutivo posto a fondamento della pretesa di omologazione del
concordato.
Il significato dell’espressione «eccezioni sollevabili dall’opponente» va
quindi ricavato con precipuo riferimento all’oggetto della domanda di
omologazione, tenuto conto, altresì, che questa non assume i connotati di
un’azione di accertamento di un diritto soggettivo vantato dall’imprenditore
in crisi.
Le nuove disposizioni non chiariscono, per vero, quale sia l’oggetto del
giudizio di omologazione.
Di contro, possono essere rinvenuti una serie di dati, dai quali occorre
muovere, precisamente: a) dall’indubbia conflittualità che caratterizza il
procedimento in presenza di opposizioni non si può far discendere sic et
simpliciter l’esistenza di un cumulo (oggettivo) di diritti contrapposti, posto
che esistono settori della giurisdizione civile in cui la conflittualità può
anche vertere su interessi ontologicamente diversi dai diritti (172); b)
172
Cfr. art. 82 c.c e art. 181 c.c. e la classificazione operata da A. Proto-Pisani, Usi e
abusi della procedura camerale, cit. 421, il quale osserva che in tali ipotesi l’intervento del
giudice interviene: «in una situazione di conflitto d’interessi virtuali, quale ad esempio
nell’ipotesi di autorizzazione del matrimonio del minore che abbia compiuto il sedicesimo
anno (art. 82 c.c.), o di conflitto reale di interessi, quale ad esempio l’autorizzazione con cui
si supplisce al rifiuto di consenso di un coniuge in regime di comunione legale al
compimento di un atto di straordinaria amministrazione la cui stipulazione sia “necessaria
nell’interesse della famiglia o dell’azienda” (art. 181 c.c.). In queste ipotesi si è in presenza
di procedimenti bi o plurilaterali, in situazione di conflitti virtuali o reali d’interessi, tramite
i quali si chiedono sempre al giudice valutazioni di opportunità a “negozi” da compiere. Il
91
l’esame della disciplina legale (abrogata e in vigore) riservata allo strumento
dell’opposizione - per le ragioni addietro svolte - mostra come né con la
richiesta di omologazione, né con le opposizioni le parti richiedono (e, men
che meno, possano richiedere) l’accertamento dei loro diritti soggettivi di
natura sostanziale; c) tra la richiesta di omologazione e quella di
opposizione sussiste un rapporto lato senso analogo a quello che nel
giudizio ordinario s’instaura tra azione ed eccezione, per cui la proposizione
delle opposizioni non è idonea a mutare l’oggetto del giudizio di
omologazione.
Va poi aggiunto che: i) quanto previsto dal terzo comma dell’art. 180
l.fall. laddove si attribuisce al Tribunale il compito di verificare la regolarità
della procedura e l’esito della votazione non costituisce, a ben vedere, un
dato esegetico risolutivo, in quanto l’ampiezza o la profondità del sindacato
che il giudice può operare, non sono affatto indici decisivi per la
determinazione dell’oggetto del giudizio di omologazione; ii) il concordato
incide senz’altro sui diritti di tutti creditori e degli altri interessati ma solo se
omologato, in forza di quanto dall’art. 184 l.fall.
Occorre, poi, osservare che: a) l’incisione dei diritti soggettivi dei
creditori e degli altri interessati avviene sempre conformemente alla
proposta formulata dal debitore e approvata dalla maggioranza; b)
l’efficacia intra ed ultra partes dell’accordo è sempre subordinata alla
concessione del provvedimento di omologazione.
Alla luce delle considerazioni che precedono è possibile concludere
agevolmente nel senso che l’unico l’oggetto sul quale deve concentrarsi il
sindacato giurisdizionale è l’accordo raggiunto tra il debitore e i suoi
creditori.
provvedimento del giudice è destinato, poi, ad integrare uno degli elementi costitutivi di atti
negoziali.
92
4.- Dopo aver compiuto l’esame della nuova struttura e aver tentato di
portare in luce l’oggetto del giudizio di omologazione, è giunto il momento
di arrestare il percorso esplorativo e riflettere sulle implicazioni sistematiche
che derivano dai risultati conseguiti.
Occorre, cioè, interrogarsi sulla fenomenologia del giudizio di
omologazione, la cui natura è notoriamente controversa. L’uso del
sostantivo «natura» viene, però, impiegato nel significato meno entificante
possibile: per natura dell’istituto si intende quel micro-sistema di regole che
caratterizzano l’istituto, di volta in volta, in via normativamente tipica.
L’indagine sulla natura del giudizio di omologazione consente di
individuare i tratti normativi salienti in virtù dei quali è possibile accostare
l’istituto in questione a un ben preciso micro-sistema già presente
nell’ordinamento.
Lo scopo ultimo dell’indagine è proprio quello di individuare quale sia
tale micro-sistema, al fine di poter procedere poi, per via di ortopedia
ermeneutica, al completamento delle disposizioni di legge incomplete o
contraddittorie del giudizio di omologazione, proprio come si trattasse di
procedere ad integrare le parti mancanti di una veste alla luce della tipica e
nota trama che tale veste deve avere per essere ricondotta al genus.
Sulla scorta dei risultati conseguiti, gli elementi normativi a cui dare
rilievo ai fini qualificatori sembrerebbero i seguenti:
a) né con la richiesta di omologazione, né con le opposizioni, le parti
esercitano un’azione di cognizione con la quale richiedono l’accertamento
dei loro diritti soggettivi;
b) la conflittualità che si origina per effetto delle opposizioni
sull’oggetto del giudizio non può, di per sé sola, far propendere per la natura
contenziosa del procedimento, posto che, pacificamente, anche l’attività
giurisdizionalvolontaria può essere svolta in presenza di un conflitto di
interessi tra le parti;
93
c) il concordato omologato in forza dell’art. 184 l. fall. incide sui diritti
dei creditori e dei terzi;
d) non è prevista la possibilità di proporre il ricorso ordinario in
cassazione avverso il decreto della Corte d’appello emesso in sede di
reclamo;
e) la struttura del giudizio di omologazione non presenta i presupposti
sistematici per ricollegare al decreto di omologazione l’efficacia di
giudicato formale;
A questi rilievi deve essere aggiunta una ulteriore considerazione di
carattere sistematico: la tradizionale dicotomia tra giurisdizione contenziosa
e giurisdizione volontaria (173), fondata su: a) i diversi oggetti delle due
173
L’esigenza di procedere ad una netta demarcazione tra giurisdizione contenziosa e
giurisdizione volontaria sorse a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura
civile, ove, diversamente quanto previsto nell’abrogato codice di rito, l’espressione
«giurisdizione volontaria» fu sganciata dal procedimento camerale, e fu ricondotta
esclusivamente: a) nell’art. 801 c.p.c. - oggi abrogato - che prevedeva che «Agli atti dei
giudici stranieri in maniera di volontaria giurisdizione, quando si vuole farli valere in Italia,
è attribuita efficacia nella Repubblica a norma degli artt. 796 e 797 in quanto applicabili; b)
nell’art. 32 disp. att. c.c. ove si prevede che: «Il pubblico ministero deve essere sempre
sentito nei procedimenti di volontaria giurisdizione riguardanti il fondo patrimoniale» e
negli artt. 35 e 36 D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200. La scelta del legislatore ha poi dato
origine alla nota “disputa” dottrinale sorta negli anni ’40 sulla “natura” della giurisdizione
volontaria, cfr. G.A. Micheli, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria,
in Riv. dir. proc. civ. 1947, I, 18; Forma e sostanza della giurisdizione volontaria, ivi, 101,
e ss, secondo il quale la giurisdizione ha come caratteristica peculiare l’imparzialità del
giudice e ciò può essere riscontrato anche nella giurisdizione volontaria; contra E. Allorio,
Giudizio divisorio e sentenza parziale con pluralità di parti, in Giur. it 1946, I, 79 (anche in
Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 475); Id. Saggio polemico sulla «giurisdizione»
volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, 486, per il quale invece: «La “giurisdizione”
volontaria è attività amministrativa, ossia sprovvista di cosa giudicata, perché risultato d’un
procedimento inidoneo a giustificare quest’ultimo effetto, assegnata però per competenza a
organi abitualmente giurisdizionali, che cioè normalmente adempiono un’attività
giurisdizionale in senso proprio, produttrice della cosa giudicata». La disputa può dirsi
ormai superata non residuando più dubbi sul carattere giurisdizionale della giurisdizione
volontaria v. V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 55 sia per la «etraneità
del giudice e dell’attività sua all’interesse o agli interessi, la cui tutela costituisce l’oggetto
del provvedimento (art. 101, comma 2°, cost.)», sia per il «principio della domanda, nel
quale si è constatato sussistere la caratteristica differenziale della giurisdizione da altre
forme di garanzia dell’ordinamento costituito»; v. anche: L. Montesano, La tutela
giurisdizionale dei diritti, in F. Vassalli, Trattato di diritto civile italiano, Torino, 1985, 17;
A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 e ss. c.p.c. cit. 396 che
preferiscono distinguere tra «funzioni giurisdizionali costituzionalmente necessarie» e
94
attività giurisdizionali (diritti soggettivi, da un lato, e meri interessi,
dall’altro lato) (174); b) nonché sui rispettivi e diversi risultati (certezza
giuridica dell’accertamento in forma di autorità di cosa giudicata, da un lato,
e
massima
convenienza/opportunità
dell’accertamento
garantita
da
provvedimenti revocabili in ogni tempo, dall’altro) (175); non consente una
corretta sistemazione delle ipotesi in cui:
«funzioni giurisdizionali costituzionalmente non necessarie»; contra: E. Fazzalari,
Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc. civ. 1988, 909 e ss spec. 914
che: «il solo riferimento al soggetto delle due attività non può certo colmare il vallo che le
divide, e che è scavato proprio in punto di garanzie»; Id. Uno sguardo storico e sistematico,
relazione al convegno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile
(Palermo, 6-7 ottobre 1989), sul tema I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei
diritti, in Atti del XVII Convegno nazionale, Milano, 1991.
174
Nel vigore del codice di rito abrogato v. G. Chiovenda, Principi di diritto
processuale civile, Napoli, 1928, 316, per il quale «gli atti di giurisdizione volontaria
tendono sempre alla costituzione di stati giuridici nuovi, e cooperano allo svolgimento di
rapporti esistenti», precisamente, «la costituzione o svolgimento di stati giuridici che
avviene nella giurisdizione volontaria non attua un diritto che spetti a Tizio contro Caio», in
quanto gli atti di giurisdizione volontaria possono essere divisi in quattro categorie: a) gli
atti di intervento dello Stato nella formazione dei soggetti giuridici, segnatamente il
riconoscimento delle persone giuridiche; b) gli atti di integrazione della capacità giuridica,
in cui sono inseriti gli atti a tutela delle persone fisiche incapaci; c) gli atti di intervento
nella formazione dello stato delle persone, in cui sono inseriti l’adozione, il matrimonio, la
tenuta dei registri dello stato civile; d) gli atti di partecipazione al commercio giuridico,
vale a dire registrazioni ed omologazioni di contratti già stipulati fra privati; nella dottrina
pubblicistica v. infatti: E. Zanobini, L’amministrazione pubblica del diritto privato, in Riv.
dir. publ. 1918, I, 169 secondo cui gli atti di volontaria giurisdizione sono atti in buona
parte discrezionali, la cui adozione competeva all’autorità giudiziaria perché quello che
viene perseguito è un interesse essenzialmente privato, ma che per le implicazioni di
carattere pubblicistico, viene affidato alla cura di un soggetto, il giudice, normalmente
deputato alla cura degli interessi privati; nella dottrina processual-civilistica: E. T.
Liebman, Giurisdizione volontaria e competenza, in Riv. dir. proc. 1924, II, 274; nello
stesso senso: F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 239 con
la nota definizione secondo cui l’intervento dell’autorità giudiziaria opera nelle materie di
giurisdizione volontaria per realizzare «l’interesse in conflitto», mentre nella giurisdizione
contenziosa avviene per comporre «un conflitto di interessi». Dopo l’entrata in vigore del
codice del ’42 v. E. Fazzalari, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, 167, per il quale
l’assenza di un diritto soggettivo è assunta ad elemento discretivo, anzi a primo elemento
discretivo, della giurisdizione volontaria; E. Allorio, Nuove riflessioni critiche in tema di
giurisdizione e di giudicato, Padova, 1957, 97 e 114 il quale chiaramente afferma che la
dichiarazione di un diritto o di uno status è deferita alla giurisdizione e alle forme del
processo ordinario; così anche: De Marini, Considerazioni sulla natura della giurisdizione
volontaria, in Riv. dir. proc. 1954, I, 275; L. Monteleone, voce Camera di consiglio (dir.
proc. civ.), in Nuoviss. Digesto it. Appendice, I, Torino, 1980, 986.
175
Nel vigore del codice abrogato: G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile,
Napoli, 1928, 319 il quale riteneva che il provvedimento di volontaria giurisdizione fosse
95
i) l’attività giurisdizionale, sebbene si compia nelle forme del rito a
cognizione piena ed esauriente e i rispettivi provvedimenti possano
acquisire l’idoneità al giudicato formale, si sostanzia in verifiche, controlli e
valutazioni di opportunità su atti tra privati (176);
ii) l’attività giurisdizionale, sebbene non sia svolta nelle forme del rito
ordinario e non sia direttamente rivolta all’accertamento di diritti soggettivi,
sempre revocabile dal giudice nella gestione dell’interesse pubblico affidatogli. Tale
impostazione ha avuto forte eco in sede di redazione del codice di procedura del ’42, cfr. S.
Satta, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2 Milano, 1969, 47, il quale sostiene
che l’art. 742 c.p.c. «deriva direttamente da Chiovenda e dalla sua concezione della
giurisdizione volontaria»; v. poi: E. T. Liebman, Impugnazione in sede contenziosa del
provvedimento di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc. 1953, II, 95; E. Allorio, Saggio
polemico sulla giurisdizione volontaria, cit. 510 ha individuato la caratteristica essenziale
della giurisdizione nel giudicato, che non è invece ravvisabile nel processo volontario; E.
Fazzalari, La giurisdizione volontaria, cit. 115; più di recente v. A. Cerino Canova, Per la
chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv.
dir. civ. 1987, 447 il quale a definito il reclamo previsto dall’art. 739 c.p.c un «atrofizzato
mezzo di controllo» da cui discende che «Il regime dell’impugnazione camerale regge due
implicazioni di tenore negativo: da un lato, esclude ogni possibilità di sussunzione nello
schema del giudicato, sia formale sia sostanziale; dall’altro, rende inapplicabile la regola di
assorbimento delle nullità»; nello stesso senso: A. Proto - Pisani, Usi e abusi della
procedura camerale ex art. 737 c.p.c, cit. 419 il quale osservare che: «Revocabilità e
modificabilità in ogni tempo significa niente altro che assenza del giudicato formale (e della
operatività del principio dell’assorbimento delle nullità ex art. 161, comma 1°, c.p.c.) e del
giudicato sostanziale (ed in specie della preclusione del dedotto e del deducibile)», in
particolare preme richiamare che per l’A. «L’assenza del giudicato formale è una
conseguenza sia della discrezionalità cui è improntata la quasi totalità della disciplina del
procedimento e quindi della sua non controllabilità in iure della (coerente) non ricorribilità
in cassazione. Ancora, l’assenza del giudicato sostanziale è una conseguenza sia
dell’assenza del giudicato formale, sia della mancata previsione della possibilità di
svolgimento in via di opposizione eventuale di un processo a cognizione piena»; così: L.
Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non
contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ. 1986, I, 618; per un completo
approfondimento v. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione,
Padova, 1994, passim.
176
Cfr. A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 483: «invero il legislatore è
tenuto a rispettare un minimo di garanzie, ma è libero nel dispensarle in maggior copia e
misura di quanto è comunque necessario. In ispecie può estendere le forme, dovute per
materie che si soggettivano in diritto e status, anche alla giurisdizione volontaria. E sarà
indotto a farlo in relazione a più puntuali esigenze che, a grandi linee, si rifondono in un
comune denominatore: la gravità di essenza, estensione, persistenza dell’effetto
giudizialmente statuito [...] Si disegna, così, il fenomeno dei processi “a contenuto
oggettivo”»; per la definizione in chiave sistematica di maggior respiro v. F. Tommaseo, I
processi a contenuto oggettivo, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, 81, ed
in Riv. dir. civ. 1988, I, 495
96
i rispettivi provvedimenti giudiziali finiscono con incidere su situazioni
giuridiche soggettive sostanziali perfette (177).
Sulla scorta delle osservazioni poc’anzi formulate è dunque possibile
passare ad indagare la natura del procedimento di omologazione del
concordato preventivo.
Al riguardo le posizioni rintracciabili sia prima, che dopo le recenti
riforme sono piuttosto variegate.
177
Le predette ipotesi sono state ricondotte nell’ambito di un tertium genus di
giurisdizione, c.d. «oggettiva», elaborata da: E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prima
dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, Vol. I, Milano, 1957, 116; tale
categoria è stata ripresa ed sviluppata da: L. Montesano, La tutela giurisdizionale del diritti,
cit. 17; Id. Sull’efficacia, sulla revoca, cit. 598, il quale osserva che: «Non pochi
provvedimenti conclusivi di procedimenti in camera di consiglio o comunque di
procedimenti più affini a questi che ad altri hanno efficacia ben diversa da quella dei
provvedimenti la cui assegnazione ala giurisdizione volontaria si è tratta dalla esegesi e
dalla estensione sistematica di espliciti discorsi legislativi, cioè non predispongono o
realizzano elementi di una fattispecie il cui elemento finali o principale è un atto di diritto
sostanziale, ma integrano di per sé soli una compiuta fattispecie di per sé sola produttiva di
effetti sostanziale (si pensi alla nomina o alla destituzione del tutore; alle revoche di
amministratori; alla fissazione di termini per il compimento di atti o l’emissione di
dichiarazioni ex art. 749 c.p.c.; ai provvedimenti camerali che vincolano pubblici funzionari
a documentazioni o iscrizioni in registri, per alcuni dei quali si suole parlare di
“omologazione” nel senso di approvazione giudiziaria dell’atto di diritto sostanziale da
iscrivere e quindi di giurisdizione volontaria non dissimile da quella dei provvedimenti di
autorizzazione già richiamati ma, a mio avviso, erroneamente perché la fattispecie
complessa, di cui l’atto di diritto sostanziale è elemento principale, è integrata non dal
provvedimento che ordina la documentazione o iscrizione, ma da questa documentazione o
iscrizione, mentre il provvedimento giudiziario è di per sé compiuta fattispecie costitutiva o
meglio cognitiva-costitutiva del dovere di documentare o di iscrivere: così è, ad esempio,
per la cosiddetta omologazione degli atti costitutivi delle società per azioni: art. 2330,
commi 3° e 4°, c.c.)»; Id. “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e
sommari, in Riv. dir. proc. 1988, 915 e ss; contra E. Fazzalari, Profili della giurisdizione
volontaria, in La volontaria giurisdizione - casi e materiali - a cura della Scuola di
notariato A. Anselmi di Roma, Milano, 1997, 12 e ss. ma v. spec. 13 in cui l’A. afferma
come inutili i tentativi di «definire la giurisdizione volontaria attraverso metafore»
riferendosi appunto a chi «definisce la giurisdizione volontaria come giurisdizione in senso
oggettivo [...] con ciò [...] espropria[ndo] la giurisdizione volontaria di una grossa
provincia, per spostarla sul terreno della giurisdizione; però lasciando ferme le regole di cui
disponiamo, cioè quelle che ci vengono somministrate dal codice e da altre fonti normative.
Cosicché, dal punto di vista delle linee generali, le cose restano come stanno», le critiche
ricevute hanno sollecitato un pronta risposta, v. L. Montesano, Giudizi camerali su atti e
gestioni di società e tutela giurisdizionale di diritti e di interessi, relazione introduttiva al
Convegno organizzato dal Centro di ricerca per il diritto di impresa della LUISS (Roma, 5
febbraio 1999) su “La denunzia al tribunale per gravi irregolarità (art. 2409 c.c.)” Rapporti tra volontaria giurisdizione e autonomia privata -”, consultabile su
archivioceradi.luiss.it. e pubblicata in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 819.
97
Secondo una prima lettura, il procedimento di omologazione del
concordato dovrebbe essere ascritto nella giurisdizione volontaria (178). Di
contro, secondo altra impostazione, il procedimento avrebbe natura
contenziosa e decisoria (179). Secondo altra opinione, occorrerebbe distingue
tra il caso in cui vi siano opposizioni e quello in cui - al contrario - queste
manchino: solo nella prima ipotesi il procedimento avrebbe carattere
decisorio (180).
178
I. Pagni, Sub art. 179-180-181, in C. Cavallini, (diretto da) Commentario alla legge
fallimentare, Milano, 2010, 704 e ss. spec. 722; Ea. Sub art. 183, ivi, 861; Ea. Contratto e
processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie
e differenze, in V. Buonocore - A. Bassi, (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, I,
Padova, 2010, 558.
179
A. Carratta, Procedure concorsuali (riforma delle), II) profili processuali, in Enc.
giur. Roma, 2006, 6, per il quale nel giudizio di omologazione: «si è senza dubbio in
presenza di esercizio di funzioni propriamente giurisdizional-contenziose del tribunale,
perché si tratta di accertare se sussistono i presupposti per ammettere l’imprenditore al
trattamento “privilegiato” del concordato preventivo, dopo avere esaminato le eventuali
opposizioni dei creditori dissenzienti», per l’A., inoltre, «L’assunzione delle “informazioni”
e delle “prove” in tanto si giustifica, in quanto si individui l’oggetto del giudizio di
omologazione non nel solo controllo della regolarità formale della procedura ed il
raggiungimento delle maggioranza, ma anche nella valutazione di effettiva fattibilità del
piano presentato dal debitore, a tutela della situazione giuridica dei creditori dissenzienti e
di qualsiasi interessato», per tale A., infatti, alla luce di questa considerazione, «il
procedimento diretto all’omologazione del concordato preventivo va improntato alle forme
del giudizio a cognizione piena ed esauriente»; sebbene riferito alla formulazione anteriore
al c.d. “decreto correttivo” d. lgs. 169/07 v. anche: M. Fabiani, L’impugnazione del decreto
di omologazione nel concordato preventivo, in Fall. 2006, 1085; Id. Contratto e processo
nel concordato fallimentare, Padova, 2009, 271 per il quale la struttura e l’oggetto del
giudizio di omologazione del concordato preventivo si differenziano da quelli del
concordato fallimentare perché «Nel primo caso ci troveremmo di fronte ad un processo sommario nelle forme - ma con una struttura contigua a quella del processo a cognizione
piena, perché lì si tratta di accertare se esiste il potere del debitore di veder modificata la
regolazione delle proprie obbligazioni; nel secondo caso, invece, saremmo al cospetto del
più classico dei procedimenti di volontaria giurisdizione, secondo quella nozione più restiva
che vi vede sicuramente compresi tutti quei provvedimenti del giudice che esprimono la
cooperazione giudiziaria alla formazione della volontà dei soggetti privati»; L. Lanfranchi,
Costituzione e procedure concorsuali, cit. 246.
180
G. Bozza, L’omologazione della proposta (i limiti della valutazione del giudice), in
Fall. 2006, 1067; La tesi in questione è riscontrabile anche con riferimento al sistema
previgente nel quale l’omologazione del concordato preventivo, in assenza di opposizioni,
veniva inteso come un procedimento (non camerale) di volontaria giurisdizione, pur
essendo svolto nelle forme del rito ordinario e con la peculiarità della sua conclusione con
sentenza assoggettata agli ordinari mezzi di gravame (Cfr. Cass. 15 gennaio 1985, n. 67, in
Fall. 1985, 640), per assumere invece, in presenza di opposizioni, natura mista, di
giurisdizione volontaria e contenziosa (Cfr. Trib. Isernia, 2 maggio 1990, i Giust. civ. 1991,
I, 761)
98
La ricostruzione da ultimo proposta non convince.
Dai risultati conseguiti emerge che, tanto nel sistema abrogato, quanto
nel sistema in vigore, l’opposizione, pur evocando certamente profili di
conflittualità tra i creditori e il debitore, non mutava, né attualmente muta,
l’oggetto del giudizio di omologazione.
Sia in presenza di opposizioni, sia in assenza, l’oggetto del giudizio di
omologazione non può che rimanere, in ogni caso, ancorato all’accordo
concluso tra il debitore e i creditori (181).
Le opposizioni, infatti, conservano la tradizionale funzione di allargare la
base fattuale utilizzabile dal Tribunale per formare il proprio convincimento
(182). Dopo le recenti riforme la funzione delle opposizioni è ancora più
marcatamente chiara: il rimedio in parola serve a introdurre questioni di
fatto che l’opponente ritiene utili al fine di rimettere in discussione ciò che
stato oggetto di discussione e votazione in seno all’adunanza dei creditori.
L’opponente può allegare questioni di fatto identiche a quelle che il
commissario giudiziale può sottoporre all’attenzione del giudice nel proprio
parere motivato, ex art. 180, comma 2°, l. fall. (o tramite la segnalazione al
Tribunale del venir meno delle condizioni di ammissibilità del concordato,
come gli impone l’art. 173 l.fall.)
181
Cfr. I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di
ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, in V. Buonocore - A. Bassi (diretto da),
Trattato di diritto fallimentare, 2010, Padova, 583; P. Pajardi – A. Paluchowsky, Manuale
di diritto fallimentare, cit. ove si afferma espressamente: «Quanto alla natura del giudizio
non pare onestamente che ne cambi la sostanza a seconda che vi siano o meno opposizioni,
cambia la sua complessità e la possibilità di assumere prove, il cui ingresso pare limitato
alla sola ipotesi che vi siano opposizioni, ma non pare che il contenuto del giudizio del
tribunale possa sensatamente variare nel suo contenuto proprio, in quanto non è teso
strutturalmente alla tutela diretta dei diritti violati, quanto a garantire un controllo di
legittimità che è suscettibile di incidere su diritti soggettivi perfetti».
182
Nella disciplina originaria le opposizioni consentivano di veicolare questioni di fatto
da sottoporre all’attenzione del Tribunale al fine di impedire l’omologazione dell’accordo
concluso tra il debitore e la maggioranza dei creditori. Esse, quindi, non mutavano l’oggetto
dell’accertamento giurisdizionale, non consentivano di sottoporre alla cognizione del
Tribunale i fatti costitutivi dei diritti vantati dagli opponenti.
99
Volgendo, quindi, lo sguardo verso altri procedimenti di omologazione, è
possibile osservare che, in generale, la caratteristica principale di tali giudizi
risiede nel fatto che: a) il legislatore ha attribuito al giudice un controllo su
un atto negoziale o, ad ogni buon conto, sul contenuto di un atto che è
tendenzialmente frutto dell’autonomia privata; b) tale controllo si effettua in
un processo di natura non contenziosa, cioè il giudice non è chiamato a
dirimere una controversia e a dichiarare diritti soggettivi e obblighi
correlativi; c) il giudizio, di regola, si conclude con un provvedimento
emanato nelle forme camerali ed è privo di attitudine al giudicato formale e
sostanziale, in quanto è impugnabile soltanto con lo strumento del reclamo
alla Corte d’appello ai sensi degli art 739 c.p.c., contro il cui relativo
provvedimento non è data la possibilità di proporre il ricorso ordinario in
cassazione (183).
183
Possono essere collocati in tale categoria, ad esempio, il giudizio di omologazione
dell’accordo dei coniugi che decidono di separarsi, ovvero, quello della transazione sulla
falsità del documento oggetto del giudizio di falso, prevista dall’art. 1968 c.c.; rientrava,
inevece, in tale tipologia di giudizi il controllo del Tribunale sugli atti costitutivi delle
società prima che venisse abrogato a norma della legge 24 novembre 2000, n. 340. V. anche
A. Proto – Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 423, il quale osserva che in
tali ipotesi: «il giudice non è chiamato ad assicurare la tutela giurisdizionale di diritti o
status violati (o anche meramente contestati), non a risolvere controversie relative a diritti o
status, bensì a gestire interessi di minori, incapaci, patrimoni separati, gruppi collettivi. Al
giudice non si chiede di accertare una fattispecie concreta legislativamente disciplinata, non
si chiede di accertare – se del caso in via di accertamento costitutivo – una concreta e
preesistente volontà concreta di legge, bensì si chiede qualcosa di radicalmente diverso:
effettuare valutazioni di opportunità in ordine alla gestione di interessi a lui
eccezionalmente devoluta. Questo tanto in ipotesi di procedimenti unilaterali, quanto in
ipotesi di procedimenti bilaterali; tanto allorché la gestione di interessi può entrare in
conflitto solo con meri interessi altrui, quanto allorché essa incide su diritti o status altrui.
In casi di specie, situazioni di diritto soggettivo o status possono venire in considerazione o
perché costituiscono il presupposto dell’attività di gestione (es. qualità di coniuge, di
genitore, di socio etc.), o perché su di esse incide l’attività di gestione (es. revoca per giusta
causa dell’amministratore di condominio o di società, di sindaci etc.). Il proprium delle
funzioni esercitate dal giudice nelle fattispecie in esame non è però mai l’accertamento
previo o tantomeno l’incisione dei diritti soggettivi o status, bensì è la gestione di
interessi»; v. però L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei
provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, cit. 597, per il quale a tal proposito
afferma che i: «provvedimenti [che] concludono procedimenti che non sono messi in moto
da richieste di tutela di diritti soggettivi o solo di diritti soggettivi, ma insieme avvertendo
che le loro incidenza su diritti soggettivi comporta la necessità sistematica, anzi, di
legittimità costituzionale, che quei procedimenti o abbiano in sé le caratteristiche
100
Tornando al concordato preventivo, alla luce di quanto richiamato,
appare, quindi, evidente come la natura del giudizio di omologazione non
possa cambiare in dipendenza della proposizione delle opposizioni (184).
Il Tribunale, infatti, non è mai chiamato ad accertare i fatti costitutivi dei
diritti soggettivi delle parti del procedimento. Anche se sono proposte
opposizioni, il giudizio di omologazione continua ad avere come oggetto il
negozio concluso tra il debitore e i creditori (185).
Ciò non significa che l’ampiezza del controllo giurisdizionale deve essere
limitata al mero riscontro della regolarità formale del procedimento e della
documentazione prodotta. Il nuovo dato positivo, invece, se letto
adeguatamente in chiave sistematica, induce a ritenere che il Tribunale
abbia, in realtà, il compito di effettuare una valutazione più penetrante sulla
soluzione proposta.
Il concordato preventivo una volta omologato «incide» sui diritti
soggettivi dei creditori di minoranza e di coloro che non hanno partecipato
alla votazione (c.d. «terzi-creditori» all’accordo), rispetto ai quali non è
possibile giustificare l’incisione della loro situazione giuridica soggettiva in
virtù del principio dell’autonomia privata (186).
sufficienti a farne “dovuti processi legali” a tutela dei diritti incisi o che questa tutela sia
assicurata in via di ordinaria azione civile contenziosa atta a rimuovere le lesioni dei diritti
inerenti al provvedimento di giurisdizione “oggettiva”»; su quest’ultima categoria, in senso
contrario v. E. Fazzalari, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc. 1988,
915.
184
In questo senso: I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli
accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, in V. Buonocore - A. Bassi
(diretto da), Trattato di diritto fallimentare, Padova, 2010, 558 ss per la quale:
«L’opposizione, insomma, evoca certamente profili di conflittualità con i creditori, ma non
trasforma la natura del procedimento da “volontaria”, nel senso precisato a contenziosa (a
meno che non si voglia intendere la giurisdizione non contenziosa come una giurisdizione
che si svolge in assenza di conflitto: il che non è, sol che si pensi all’ipotesi dell’art. 2409
c.c). Non ne muta, infatti, l’oggetto, che rimane saldamente individuato nell’accordo
raggiunto tra debitore e creditori, cui l’omologa si propone di attribuire efficacia».
185
Così, I. Pagni, Il procedimento di omologa (profili processuali), in Fall. 2006, 1078.
186
Cfr. L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit. 16; Id. Sull’efficacia,
sulla revoca, e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici
civili, cit. 599, che riconduce tali provvedimenti nell’alveo della c.d. giurisdizione
“oggettiva”, intendendo con tale qualifica porre l’accento su ciò che i provvedimenti in
101
Ma avuto riguardo alla situazione giuridica soggettiva sostanziale e
processuale dei c.d. «terzi-creditori» qualunque natura e struttura che si
voglia ricollegare al procedimento - anche per via di ortopedia ermeneutica rischia di risultare erronea e inadeguata alla tutela dei loro interessi.
L’incisione della situazione giuridica soggettiva dei c.d. «terzi-creditori»
non dipende, infatti, dall’accertamento del diritto soggettivo (lato senso
potestativo) vantato dall’imprenditore nei confronti di costoro, né, come
ovvio, dalla loro adesione alla proposta del debitore, ma è direttamente
imputabile alla volontà legislativa, che intende espropriare una parte del loro
credito (ex art. 184 l.fall.).
In altri termini, l’incisione dei diritti dei c.d. «terzi-creditori» avviene per
mezzo del provvedimento di omologazione, che rende unicamente concreta,
nel caso di specie, la volontà del legislatore, il quale vuole vincolati al
concordato preventivo anche coloro che non hanno dato il consenso alla
soluzione negoziata.
Stando così le cose, allora, occorre orientare la traiettoria dell’indagine
proprio alla ricerca dei presupposti che devono sussistere affinché il
Tribunale possa emettere il decreto di omologazione e sancire, così,
l’assoggettamento dei c.d. «terzi-creditori» al vincolo negoziale.
5. - Dopo aver affrontato l’oggetto, aver definito il ruolo delle
opposizioni e la natura del giudizio di omologazione, possono ormai
ritenersi maturi i tempi per avviarsi alla trattazione dello spinoso tema
dell’ampiezza del sindacato giurisdizionale.
discorso concludono procedimenti che non sono messi in moto da richieste di tutela di
diritti soggettivi o solo di diritti soggettivi, ma la loro incidenza su diritti soggettivi
comporta la necessità sistematica, anzi, di legittimità costituzionale, che quei procedimenti
o abbiano in sé le caratteristiche sufficienti a farne «dovuti processi legali» a tutela dei
diritti incisi o che questa tutela sia assicurata in via di ordinaria azione civile contenziosa
atta rimuovere le lesioni dei diritti inerenti al provvedimento di giurisdizione “oggettiva”.
102
Tema sul quale, anche solo a volerlo esporre in termini descrittivi, si
avverte subito un certo sconforto, in quanto ci si trova di fronte,
nuovamente, ad uno scarno testo di legge.
Il legislatore infatti si è limitato a prescrivere che «se non sono proposte
opposizioni, il Tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito
della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a
gravame». Nel caso in cui siano proposte opposizioni occorre distinguere a
seconda che i creditori siano stati o meno suddivisi in classi. Se i creditori
non sono stati suddivisi in classi e l’opposizione proviene da tanti creditori
che rappresentano il venti per cento (20%) dei crediti ammessi al voto,
costoro potranno contestare la convenienza della proposta. Mentre
nell’ipotesi in cui vi sia la suddivisione dei creditori in classi, l’opposizione
e la contestazione della convenienza è ammissibile se proviene anche da un
solo creditore, ma appartenente a una classe dissenziente. In tale ipotesi il
Tribunale dovrà valutare se il creditore opponente potrà essere soddisfatto
dal concordato in misura non inferiore rispetto
alle alternative
concretamente praticabili (rectius la liquidazione fallimentare).
La previgente disciplina nel giudizio di omologazione, invece, imponeva
al Tribunale di accertare la permanenza delle condizioni di ammissibilità, la
regolarità della procedura e l’effettivo raggiungimento delle maggioranze,
anche in relazione alle eventuali opposizioni proposte dai creditori esclusi;
in secondo luogo, imponeva di valutare il contenuto della proposta
approvata dai creditori alla luce dei criteri forniti dall’art. 181, n. 1) e 3)
l.fall.
Il giudice doveva verificare la convenienza economica del concordato per
tutti i creditori. La valutazione in parola poteva fondarsi, oltre che sulle
attività esistenti e sull’efficienza dell’impresa, anche sul presumibile esito
delle azioni revocatorie, delle azioni di responsabilità degli amministratori e
dei
giudizi
pendenti.
Il
Tribunale,
103
pertanto,
poteva
concedere
l’omologazione solo se avesse riscontrato una - presumibile - maggiore
utilità del concordato preventivo rispetto al fallimento (187).
In conformità a quanto prescritto dal n. 3) dell’art. 181 l. fall. il
Tribunale doveva verificare se le garanzie offerte avessero assicurato
l’adempimento del concordato, ovvero, se nel caso del concordato per
cessione, i beni offerti fossero stati sufficienti al pagamento dei crediti nelle
percentuali prescritte dalla legge. Questo secondo profilo di indagine
costituiva, in realtà, una mera specificazione del giudizio di convenienza già
descritto poc’anzi (188).
Una soluzione concordata avrebbe, quindi, potuto ritenersi conveniente
rispetto alla liquidazione fallimentare solo se le garanzie offerte ne avessero
assicurato l’adempimento delle obbligazioni, ovvero, mediante un giudizio
prognostico si fosse stimato che la liquidazione dei beni ceduti avesse
permesso il pagamento dei creditori almeno nelle percentuali di legge (189).
187
Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 420.
In questo senso A. Bosignori, Concordato preventivo, cit. 425, per il quale, tuttavia:
«[...] si tratta di una ultroneità, in un testo normativo così scarno come quello qui in esame,
che non nuoce, date che serve all’interprete per tenere presenti alcuni temi già dibattuti in
passato, come, ad esempio, quello secondo il quale anche un deliberazione favorevole delle
garanzie, effettuata all’inizio del procedimento, può non escludere ora una diversa
pronuncia, non soltanto perché, come si scrisse esattamente, siano emerse nuove passività,
insorte senza dolo o colpa grave del debitore, in quanto gli elementi del patrimonio del
debitore subirono una svalutazione, evidentemente dovuta a elementi congiunturali, ovvero
per la necessità di prendere in considerazione passività inerenti a rapporti preesistenti, non
toccati dal procedimento, e in genere al concorso dei nuovi creditori, ma anche qualora, a
seguito di un’istruttoria più approfondita, la consistenza economica di un certo bene si sia
dimostrata inferiore alle risultanze precedenti. Inoltre, la sovrabbondante dizione è utile a
richiamare l’esegeta al controllo dell’identità fra le garanzie offerte effettivamente prestate
e alla necessità che tale calcolo concerna il pagamento integrale dei diritti a collocazione
preferenziale, dei crediti privilegiati e della percentuale spettante ai creditori chirografari e
degli interessi sulle somme di cui all’art. 160, comma 2°, l.fall».
189
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 307, per il quale: «L’indagine del
tribunale nella omologazione è di legalità e di merito»; G. Ragusa Maggiore, Diritto
fallimentare, cit. 1055; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 2316.
188
104
Il controllo sulla convenienza, svolto in termini esclusivamente
economici, costituiva un giudizio connotato da un’ampia discrezionalità
tecnica e di mero fatto, quindi, insidacabile in cassazione (190).
Il Tribunale doveva verificare se il concordato avesse permesso a tutti i
creditori - non soltanto ad alcuni - di conseguire un vantaggio economico
(191). Se il Tribunale riteneva che i creditori avessero potuto conseguire una
maggiore soddisfazione dalla liquidazione fallimentare, ad esempio, per
effetto dell’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari, senza ritenersi in
alcun modo vincolato dal consenso espresso dai creditori, ancorché
unanime, avrebbe dovuto negare l’omologazione del concordato (192).
Si trattava, come ovvio, di una valutazione di natura prognostica, di
ardua difficoltà, rispetto alla quale l’organo giurisdizionale non possedeva
certo le necessarie competenze (193).
Tuttavia, il controllo economico sulla proposta approvata dai creditori,
pur con tutta l’aleatorietà insita nella prognosi poc’anzi descritta,
rappresentava un presidio giurisdizionale, caratterizzato dalla imparzialità,
volto a controllare le valutazioni già svolte dai creditori singolarmente
interessati, potenzialmente non dipendenti solo da un asettico calcolo
economico a vantaggio di tutti i creditori (194).
190
Così, giustamente: R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit., 2318, il quale
citando, ex plurimis, il precedente di Cass. 15 luglio 1968, n. 2526, in Dir. fall. 196, II, 248,
osserva, tuttavia, se in tale giudizio non possano comunque influire più o meno
profondamente l’applicazione di norme giuridiche.
191
Parlava, appunto, di vantaggio economico della soluzione concordataria rispetto alla
liquidazione fallimentare: R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit, 2318.
192
G. Ragusa - Maggiore, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974, 1057.
193
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 308, il quale in relazione al giudizio di
merito sulla convenienza, osserva, giustamente che: «Ed è, a dir vero, un punto alquanto
platonico, perché non si vede su quali elementi il giudizio del tribunale possa essere
fondato. Si tratta di una valutazione teorica estremamente complessa, che forse nessuno,
tranne la prova dei fatti, e cioè a posteriori, è in grado di dare».
194
A. Bosignori, Concordato preventivo, cit. 420, secondo cui: «[...] la prospettiva di
questo giudizio, come per il concordato fallimentare, è sempre quella dell’interesse alla
tutela dei creditori, e non già di garantire non meglio identificati interessi pubblici, come
quelli volti alla conservazione di una impresa, collocata in un determinato ambito
territoriale, per i suoi riflessi sull’occupazione, e, quindi, sull’ordine pubblico, ovvero quelli
105
Quanto appena richiamato impone di verificare se la funzione e il ruolo
del giudice nel giudizio di omologazione è mutato per effetto delle recenti
riforme.
Alla luce di quanto sopra, attualmente, il sindacato giurisdizionale
sembrerebbe oscillare tra due opposte sponde: da un lato, in assenza di
opposizioni o di opposizioni provenienti da creditori che non rappresentino
il venti per cento (20%), secondo l’interpretazione attualmente prevalente, il
giudice dovrebbe limitarsi a verificare la regolarità formale della procedura
e l’esito delle votazioni; dall’altro lato, nel caso in cui l’opposizione
provenga da tanti creditori che rappresentino il venti per cento (20%),
ovvero, da un creditore appartenente ad una classe dissenziente che contesti
la convenienza della proposta, il giudice dovrebbe compiere, ex officio, il
giudizio sulla convenienza economica del concordato.
Queste le uniche indicazioni poste dal nuovo art. 180 l.fall.
Di fronte alla nuova disposizione dell’art. 180 l.fall. si avverte la
sensazione di trovarsi di fronte ad un «diaframma», la cui estensione sembra
cambiare in dipendenza della complessità delle questioni sottoposte
all’attenzione del Tribunale.
L’ipotesi di minore ampiezza coincide con quella di minore complessità
delle questioni da risolvere: è il caso in cui non siano proposte opposizioni.
Se accade ciò, il legislatore prescrive al Tribunale di verificare la regolarità
della procedura e l’esito della votazione.
L’ipotesi di maggiore estensione coincide, invece, con quella di maggiore
complessità delle questioni sottoposte all’attenzione del Tribunale: è quella
in cui un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesti la
convenienza della proposta.
già legati alle necessità di produrre o commerciare beni reputati di preminente interesse
nazionale, etc. etc. É indubbio che si tratti di una prospettiva alquanto miope, ma è l’intero
istituto fallimentare che è stato disciplinato legislativamente in questa ristretta dimensione,
sicché l’interprete non può mutarlo, a pena di alterare la norma di legge».
106
In tal caso il Tribunale deve verificare se il creditore opponente potrà
essere soddisfatto dal concordato - in termini economici - in misura non
inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (rectius
liquidazione fallimentare).
L’intensità del controllo giurisdizionale - a stretto rigore del dato positivo
- conoscerebbe quindi soltanto due distinte gradazioni. La disciplina del
sindacato giurisdizionale appare, in altri termini, fondata su una opposizione
di tipo dicotomico.
Al grado inferiore vi sarebbe la verifica della regolarità della procedura e
l’esito della votazione. Al grado superiore, invece, andrebbe collocata, oltre
alla verifica delle regolarità della procedura e all’esito della votazione,
anche la verifica della convenienza del concordato.
Tra l’ipotesi riferita al grado inferiore (mancanza di opposizioni) e
l’ipotesi riferita il grado superiore (opposizione proveniente da un creditore
appartenente ad una classe dissenziente) possono rinvenirsi due ulteriori
ipotesi intermedie: a) la proposizione di opposizioni in assenza della
suddivisione dei creditori in classi; b) la proposizione di opposizioni
provenienti da creditori dissenzienti ma appartenenti a classi consenzienti.
Quanto appena osservato rende evidente che la complessità delle
questioni sottoponibili all’attenzione Tribunale può essere ricondotta più ad
una opposizione di tipo polare. Come noto, l’opposizione dicotomica si
fonda sulla logica binaria e dà luogo ad un’alternativa dove tertium non
datur, né vi sono sfumature o passaggi di grado da una delle due possibilità
all’altra. L’opposizione polare, al contrario, pone in contrapposizione due
estremi che ammettono sfumature intermedie di passaggio (195).
195
La distinzione fra l’opposizione dicotomica e l’opposizione polare viene oggi
impiegata per spiegare la trasformazione del diritto alla luce delle problematiche insite nella
c.d. società post-moderna da G. Zanetti, Individui situati e trasformazioni del diritto, in
Patrick Nerhot (a cura di), L’identità plurale della filosofia del diritto. Atti del XXVI
Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia del Diritto. Prefazioni di Vincenzo
Ferrari e Enrico Pattaro. Napoli, ESI, 2009, 99-111. Ora in Massimo La Torre -
107
Orbene, i poteri di controllo del Tribunale sembrano appiattiti proprio su
una opposizione dicotomica (regolarità della procedura/convenienza della
proposta), mentre la complessità delle questioni sottoponibili all’attenzione
del Tribunale sembra, in realtà, riconducibile più ad una opposizione polare
(mancata
proposizione
classi/opposizioni
di
provenienti
opposizioni/opposizioni
da
creditori
e
assenza
appartenenti
a
di
classi
consenzienti/opposizioni provenienti da creditori appartenenti a classi
consenzienti).
Stando così le cose, occorre interrogarsi se la ricostruzione in termini
dicotomici dell’ampiezza del sindacato giurisdizionale - caldeggiata
dall’impostazione oggi prevalente - possa effettivamente reggere alla luce
della polarità delle questioni sottoponibili alla cognizione del Tribunale.
Detto altrimenti, posto che la complessità delle questioni da risolvere si
presenta in termini polari, nel senso di una complessità crescente da un
minimo ad un massimo, strettamente dipendente dalla presenza o meno
delle classi dei creditori e delle opposizioni, è necessario verificare se la
dicotomia del sindacato giurisdizionale possa reggere di fronte alla polare
complessità insita al giudizio di omologazione.
5.1. - Il tema del sindacato giurisdizionale richiede di prendere le mosse
alcuni dati costanti del giudizio di omologazione. Tali costanti sono
l’oggetto del giudizio e gli effetti del provvedimento di omologazione.
Come ormai assodato, l’oggetto del giudizio di omologazione non risente
della proposizione delle opposizioni e resta - in ogni caso - saldamente
ancorato al negozio concluso tra il debitore e i suoi creditori.
Allo stesso modo, anche gli effetti del provvedimento di omologazione
possono ritenersi, da un punto di vista generale, del tutto indipendenti dalla
Gianfrancesco Zanetti, Altri seminari di filosofia
Ruberanno, 2010.
108
del diritto, Soveria Mannelli (CT),
proposizione delle opposizioni. Il provvedimento di omologazione rende
vincolante la proposta del debitore verso tutti i creditori, vuoi consenzienti,
vuoi dissenzienti o astenuti e terzi (in senso stretto), a condizione che il
titolo sia sorto anteriormente al decreto di ammissione al concordato
preventivo.
Occorre quindi indagare quali siano le questioni che il Tribunale deve
risolvere ai fini dell’omologazione del concordato preventivo. Tali questioni
vanno ricavate con esclusivo riguardo all’oggetto del giudizio di
omologazione, nel senso che potranno ritenersi conoscibili dal giudice solo
le questioni afferenti agli elementi costitutivi del negozio concluso tra il
debitore e i suoi creditori.
Sia pure in relazione a un diverso contesto normativo, ma sempre con
riferimento all’ampiezza del sindacato giurisdizionale, la traiettoria
dell’indagine è stata tradizionalmente orientata proprio in tale direzione, in
quanto si è detto che: ‹‹il concordato è sostanzialmente un contratto
conchiuso tra il debitore e una determinata maggioranza di creditori, con
effetti obbligatori anche per i creditori dissenzienti. In vista di questa sua
efficacia anomala e pericolosa, la legge vuole che codesti effetti non si
dispieghino se alcuni requisiti non sono stati controllati dal Tribunale›› (196).
Ai fini dell’indagine sulla tutela dei c.d. «terzi - creditori» è dunque
necessario far luce sui requisiti costitutivi del negozio sulla crisi d’impresa.
Una volta individuati tali requisiti del negozio in esame risulterà agevole
ricavare poi quali sono le questioni ostative all’omologazione.
Il negozio sulla crisi d’impresa costituisce, innanzitutto, una fattispecie a
formazione progressiva e complessa.
196
F. Carnelutti, Sui poteri del Tribunale in sede di omologazione del concordato
preventivo, in Riv. dir. proc. civ. 1924, I, 65; in senso quasi analogo v. T. Ascarelli, Sulla
natura dell’attività del giudice nell’omologazione del concordato, in Riv. dir. proc. civ.
1928, I, 228, per il quale: «[...] non è il giudice chiamato a dichiarare dell’obbligatorietà nei
confronti di detta minoranza, ma è chiamato a riconoscere ispirandosi ad un pubblico
interesse l’esistenza di determinate condizioni perché questa obbligatorietà sia operativa
così nei confronti della minoranza come in quelli della maggioranza».
109
Si tratta di una fattispecie a formazione progressiva in quanto tale
negozio verrà ad esistenza e produrrà i suoi effetti solo all’esito del lungo
iter in cui si articola la procedura di concordato preventivo (197). Allo stesso
tempo il negozio in parola costituisce anche una fattispecie complessa, in
quanto il contenuto può articolarsi in una pluralità di elementi, alcuni
necessari, altri facoltativi, diversi tra loro, ma tutti uniti da un particolare
vincolo teleologico, pensabile anche in termini di causa stessa del negozio:
la risoluzione della crisi d’impresa (198).
Ora, gli elementi costitutivi del negozio vanno individuati nella
ristrutturazione dei debiti e nelle modalità di soddisfazione dei creditori.
Entrambi i requisiti devono sussistere congiuntamente, dato che non è
pensabile un utilizzo dello strumento concordatario che non miri a procurare
una qualche ristrutturazione dei debiti e una - anche parziale - soddisfazione
dei creditori (199).
La soddisfazione dei crediti costituisce lo scopo-fine di ogni procedura di
concordato preventivo. L’elenco delle opzioni dell’art. 160 l.fall. integra lo
197
A. M. Azzaro, Concordato preventivo, principio maggioritario e classi dei creditori,
in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 552, il quale
afferma che: «la proposta del debitore si colloca in una procedura concorsuale»; v. anche
prima della riforma: L. A. Russo, Natura giuridica e finalità, in Fall. 1992, 228 secondo
cui il concordato preventivo sarebbe un contratto “speciale” di diritto concorsuale, perché:
«destinato a formarsi nell’ambito delle procedure concorsuali e suscettibile di
omologazione da parte del Tribunale sia per i riflessi sulla procedura in corso sia per gli
effetti ricadenti sulle parti»; così anche già: G. De Semo, Diritto fallimentare, Padova,
1959, 467 e 551; F. Ferrara, Fallimento, Milano, 1995, 432; P. Pajardi, Manuale di diritto
fallimentare, Milano, 1998, che parla di «recezione del contratto nel processo» e di «una
impronta processuale che non è, ripeto ancora, una impronta pubblicistica»; contra R.
Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1955, 875.
198
F. Guerrera, Soluzioni concordatarie delle crisi e riorganizzazioni societarie, in F.
Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 575; M. Santoni,
Contenuto del piano di concordato preventivo e modalità di soddisfacimento dei creditori,
in Banca borsa e tit. cred. 2006, I, 517; A. Nigro, La riforma “organica” delle procedure
concorsuali e le società, in Dir. fall. 2006, I, 78.
199
E. Norelli, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo, in Riv. esec. forz.
319;
110
scopo-mezzo, vale a dire le «modalità» che l’imprenditore può scegliere per
soddisfare i creditori tramite il concordato preventivo (200).
L’imprenditore inoltre può predisporre un trattamento differenziato tra le
varie classi, ma ha l’obbligo di ripartire i creditori secondo posizione
giuridica e interessi economici omogenei senza alterare in alcun modo
l’ordine della cause legittime di prelazione (cfr. art. 160, comma 2°, ultimo
alinea). Ciò significa che l’imprenditore deve garantire ai creditori di grado
poziore trattamenti (sia pure falcidiati) non deteriori rispetto a quelli
riservati ai privilegiati di grado inferiore (201).
Il vincolo in parola, sebbene riferito all’ipotesi della suddivisione in
classi, esprime tuttavia un principio generale immanente alla procedura. Il
controllo del Tribunale sulla formazione delle classi costituisce infatti un
presidio giurisdizionale volto a garantire - in via immediata - il rispetto della
par condicio creditorum e delle cause legittime di prelazione, nonché a
tutelare - in via mediata - gli interessi dei creditori. In termini più sintetici: il
controllo del Tribunale sulla formazione delle classi è volto ad impedire che
il debitore pregiudichi arbitrariamente le ragioni sostanziali dei creditori
(202).
Appare, dunque, evidente che la libertà concessa all’imprenditore
incontri precisi ed inderogabili limiti, volti ad evitare un «abuso» dello
strumento concordatario. I limiti entro cui si può l’imprenditore deve
esercitare l’autonomia negoziale sono: a) il dovere di perseguire il
200
A. Nigro, Privatizzazione delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in
Banca borsa tit. cred., 2006, I, 359; E. Norelli, Il concordato fallimentare “riformato” e
“corretto”, in Riv. esec. forz. 2008, 81.
201
M. Sciuto, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (un’analisi
comparatistica), in Giur. comm. 2007, I, p. 566 e ss; C. Ferri, Classi di creditori e poteri
del giudice nel giudizio di omologazione del “nuovo” concordato preventive, in Giur.
comm. 2006, I, 553; Id. La suddivisione dei creditori in classi, in Fall. 2006, 1026.
202
G. Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le
maggioranze richieste dalla nuova disciplina, in Fall. 2005, 1214; S. Ambrosini, Il
controllo giudiziale sull’ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla
formazione delle classi, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi
d’impresa, cit. 525
111
soddisfacimento di tutti i creditori; b) l’obbligo di ripartire i creditori
secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; c) il divieto
di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione; d) l’onere di
prevedere per i creditori privilegiati un trattamento non inferiore rispetto a
quello realizzabile dalla liquidazione fallimentare (203).
Ma non possono, tuttavia, ritenersi gli unici.
L’adesione di tanti creditori che rappresentano congiuntamente la
maggioranza dei crediti non può costituire, di per sé sola, la ragione
giustificatrice dell’estensione verso i c.d. «terzi-creditori» degli effetti del
negozio sulla crisi d’impresa, soprattutto, alla luce del nuovo assetto di
stampo privatistico.
Nei confronti dei terzi non opera il principio dell’autonomia negoziale,
né può sostenersi che la libertà dell’imprenditore è stata limitata in modo
tale da tutelare anche i loro interessi, che vengono lesi in assenza del
consenso. Quei limiti, infatti, costituiscono un presidio legale a garanzia
della par condicio creditorum e delle cause legittime di prelazione a tutela
di tutto il ceto creditorio, in quanto tale.
Il presupposto dell’efficacia ultra partes dev’essere, invece, ricercato
all’interno della nuova impostazione di stampo c.d. privatistico.
Solo dopo aver affrontato tale aspetto potranno dirsi individuati tutti i
requisiti costitutivi del negozio sulla crisi d’impresa, nonché le effettive
questioni da risolvere ai fini dell’omologazione. Solo così sarà possibile
comprendere la reale latitudine del sindacato giurisdizionale.
5.2. - Come dichiarato fin dall’inizio, lo scopo ultimo dell’indagine è
verificare se all’interno di un sistema proteso a favorire la soluzione
negoziata della crisi d’impresa possa trovare applicazione il principio
203
C. Esposito, Il piano del concordato preventivo tra autonomia privata e limiti legali,
in A. Ambrosini, Le nuove procedure concorsuali. Dalla riforma “organica” al decreto
“correttivo”, Bologna, 2010, 543;
112
maggioritario e l’obbligatorietà indistinta del concordato preventivo verso
tutti i creditori.
Interrogarsi sulle condizioni necessarie per l’assoggettamento dei c.d.
«terzi-creditori» alla volontà della maggioranza significa, in realtà, definire
le condizioni affinché il Tribunale possa concedere l’omologazione di un
concordato preventivo.
Nella disciplina originaria l’estensione ultra partes trovava la propria
giustificazione nel rigido sistema di etero tutela degli interessi dei creditori.
Il Tribunale poteva emettere il provvedimento di omologazione solo se
aveva accertato che il concordato preventivo fosse stato più conveniente
rispetto alla liquidazione fallimentare. Proprio il vantaggio economico che il
ceto creditorio poteva conseguire dall’esecuzione del concordato preventivo
giustificava l’estensione ultra partes del vincolo della proposta approvata
dalla maggioranza (204).
Venuto meno, però, il sistema di etero tutela degli interessi dei creditori,
in particolare, essendo mutata la cornice normativa di riferimento, la
conservazione dell’efficacia ultra partes potrebbe esporsi a seri dubbi di
legittimità costituzionale (205).
204
R. Sacchi, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione
controllata, cit. 319 ; v. anche; M. Sandulli, Commento sub art. 184, in A. Nigro – M.
Sandulli, La riforma della legge fallimentare, II, Torino, 2006, 1124
205
L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit. 151 il quale chiaramente
afferma: «appaiono del tutto ingiustificate le affermazioni, secondo le quali il nuovo
concordato preventivo prevederebbe che un certo tipo di maggioranza, formata
eventualmente da uno o pochi creditori con interessi non omogenei rispetto a quelli di molti
creditori in minoranza di somma, possa sacrificare i creditori più deboli a tutela dei
creditori più forti a causa – si badi – dell’esigenza di far partecipare il debitore “al processo
di emersione della crisi e di liquidazione e distribuzione dei beni ai creditori”, per potergli
“riconoscere la libertà di agire nuovamente sul mercato in modo indipendente”. Con il
paradossale risultato ultimo che questo sacrificio dei creditori deboli non si risolve neppure
“con il bonum del salvataggio dell’impresa, già di per sé incostituzionale innanzi tutto per
violazione degli artt. 24 e 42 Cost., ma addirittura solo “con quello del salvataggio
dell’imprenditore” (sovente – giova insistere – né onesto, né sfortunato); v. anche: A. Nigro
– D. Vattermoli, Il diritto delle crisi delle imprese, Bologna, 2009, 293; P. Farina, La nuova
disciplina della fase di omologazione e di esecuzione del concordato fallimentare, in U.
Apice (diretto da), La procedura fallimentare, II, Torino, 2010, 566, che, sebbene riferito al
concordato fallimentare, e richiamando gli autori poc’anzi citati, afferma: «Anche se per
113
Per evitare tale epilogo occorre definire i presupposti che devono
sussistere per concedere l’estensione dell’efficacia ultra partes, muovendosi
all’interno della nuova impostazione c.d. «privatistica» che sorregge
l’istituto in esame.
A tal precipuo fine risulta opportuno operare una distinzione tra ciò che il
Tribunale può conoscere e quello che invece deve accertare nel giudizio di
omologazione, tanto in presenza, quanto in assenza, di opposizioni.
Per quanto attiene all’ambito della cognizione, il materiale di fatto
utilizzabile dal Tribunale ai fini della decisione è agevolmente
individuabile: a) nella proposta di concordato; b) nella relazione del
professionista; c) in quella del commissario e nel suo motivato parere; d)
nelle opposizioni.
Per quanto riguarda, invece, il profilo dell’accertamento, il negozio
concluso in conformità alle forme della procedura di concordato preventivo,
oltre a non ledere gli interessi dei c.d. «terzi-creditori», deve perseguire la
soddisfazione di tutti creditori, compresi quelli che non hanno prestato il
consenso alla soluzione negoziata (206).
Il negozio in parola viene concluso nell’ambito di una procedura
giurisdizionale avente struttura concorsuale (i.e. coinvolge tutti i creditori),
dotata d’efficacia universale (i.e. interessa tutto il patrimonio del debitore)
(207) e tramite esso dovranno essere perseguiti gli scopi dell’istituto sopra
richiamati.
ottenere l’approvazione della proposta concordataria la legge prescrive la sola maggioranza
dei crediti ammessi al voto, senza richiedere l’unanimità, ciò non consente affatto di
imporre ai creditori “una soluzione economicamente non conveniente rispetto alla
soluzione comune del fallimento, quella data cioè dalla liquidazione e successiva
ripartizione del ricavato»; v. anche: A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del
concordato preventivo, cit. 663.
206
V. Cap. 1 par. 2
207
Per un’analisi dei tratti caratteristici dei procedimenti concorsuali v. A. Bonsignori,
Il fallimento, Padova, 1986, 83 e ss; v. anche: P. G. Jaeger, Par condicio crediotorum, in
Fall. 1984, 58-60.
114
Il negozio in questione deve tendere a realizzare un preciso risultato,
pensabile anche in termini di causa stessa del negozio: la risoluzione della
crisi d’impresa, senza pregiudizio per coloro che si sono opposti alla
soluzione negoziata.
Viene, così, in risalto il nodo da sciogliere: a quali condizioni il
Tribunale può emettere il provvedimento di omologazione, rendendo
vincolante il negozio sulla crisi d’impresa anche per i c.d. «terzi-creditori»?
L’interrogativo da risolvere viene a specificarsi nei seguenti termini:
quali condizioni possono giustificare la produzione di un pregiudizio in nei
confronti dei c.d. «terzi-creditori» che non hanno prestato il consenso alla
soluzione negoziale?
Nella disciplina abrogata la protezione dei creditori di minoranza era
fornita dagli ampi spazi di intervento lasciati al giudice, mentre oggi è
affidata alla loro stessa autotutela. Tale scelta legislativa comporta due
distinti tipi di rischi. Da un lato, l’efficienza delle nuove soluzioni
negoziate, le quali presuppongono una partecipazione attiva dei creditori,
potrebbe essere fortemente compromessa per via dell’inerzia dei creditori.
Dall’altro lato, il potere decisionale a favore dei creditori potrebbe dare
luogo a un abuso dei nuovi istituti da parte dei creditori forti a danno di
quelli deboli (208).
Per superare i pericoli poc’anzi segnalati si è cercato di conservare - per
via interpretativa - un ruolo incisivo al controllo giurisdizionale sulla
proposta di concordato. Questa reazione si è tradotta nella prospettazione di
argomentazioni sfornite di ogni supporto positivo e, non di meno, assai
pericolose.
Ci si riferisce, in primo luogo, all’opinione di chi ritiene che non sia
ammissibile una proposta di concordato che preveda un soddisfacimento
208
Segnala il duplice rischio: A. Nigro, Privatizzazione delle procedure concorsuali e
ruolo delle banche, in Banca borsa tit. credito 2006, I, 368 e ss.
115
meramente simbolico per i creditori (209); in secondo luogo, all’opinione di
chi ritiene che il Tribunale, a seguito del D. Lgs. 169 del 2007, possa
sindacare la fattibilità del piano che accompagna la proposta di concordato
preventivo (210).
Tale reazione non può essere accolta, in quanto, sebbene siano animate
dall’apprezzabile
intento
di
evitare
il
rischio
di
comportamenti
opportunistici a vantaggio dei creditori forti e a danno dei creditori deboli, si
pone in senso contrario al dato positivo.
In entrambe le ipotesi si segue lo stesso itinerario logico: l’interprete
costruisce innanzitutto un modello ideale, che costituisce il presupposto per
l’applicazione della normativa da lui non condivisa e, in assenza di uno dei
requisiti che compongono il modello ideale, costruito dallo stesso interprete,
egli arriva fino a disapplicare la normativa (211).
Così, per il concordato preventivo si giunge ad affermare che la proposta
non è una proposta se il livello di soddisfacimento dei creditori è molto
scarso, ovvero, che il piano non è un piano se non è fattibile.
Una simile argomentazione costituisce un’evidente forzatura delle scelte
legislative.
Ma vi è di più.
209
Cfr. Trib. Roma, 16 aprile 2008, in Banca borsa tir. cred. 2008, 732, con nota
adesiva di F. Macario, Nuovo concordato preventivo e (antiche) tecniche di controllo degli
atti di autonomia: l’inammissibilità della proposta per mancanza di causa. Secondo il
Tribunale di Roma la domanda di concordato, da un lato, ripete la natura di atto processuale
(nelle forme del ricorso), dall’altro lato, manifesta natura sostanziale di atto unilaterale tra
vivi a contenuto patrimoniale disciplinato, nei limiti della compatibilità, dalle regole
generali sui contratti. Quindi, come atto di autonomia, esso deve essere fornito di causa,
deve cioè assolvere ad una funzione oggettivamente apprezzabile sotto il profilo della
ragionevolezza economica. Ne segue che, offrire quasi nulla ai creditori chirografari (nel
caso di specie nella misura dello 0,03%) significa non offrire alcunché. Per cui, la domanda
di concordato non offre alcun soddisfacimento ai creditori chirografari.
210
I. Pagni, Il controllo del Tribunale e la tutela dei creditori nel concordato
preventivo, in Fall. 2008, 1091.
211
Così R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato
dell’Autorità giudiziaria, in Fall. 2009, 30;
116
Tali ricostruzioni fomentano il rischio che ogni decisione possa finire, in
realtà, per dipendere essenzialmente dall’idea che il singolo interprete (i.e. il
giudice, prima di tutto) abbia maturato in ordine ai requisiti che devono
sussistere affinché si possa ravvisare una proposta o un piano di concordato
preventivo.
Requisiti, come ovvio, ulteriori rispetto a quelli già predeterminati dalla
legge e definiti, di volta in volta, dalla libera discrezionalità dell’interprete
(212).
Per questa ragione, ogni ricostruzione sull’ampiezza del sindacato
giurisdizionale che non sia sorretta da alcun dato positivo e sistematico
rischia di porsi in una prospettiva eversiva.
Al fine di evitare tale rischio occorre, allora, sviluppare coerentemente
tutte le implicazioni sistematiche connesse alla nuova impostazione
giusprivatistica.
I dati di partenza da cui muovere sono: a) il controllo giurisdizionale ha
ad oggetto esclusivamente il negozio della crisi d’impresa, quale
espressione dell’autonomia negoziale concessa all’imprenditore e ai suoi
creditori; b) il provvedimento di omologazione ha l’unico effetto di rendere
vincolante la proposta di concordato preventivo nei confronti di tutti i
creditori.
L’emissione del provvedimento di omologazione non può non essere
subordinata al riscontro delle condizioni minime, in forza delle quali
l’autonomia negoziale tra privati può produrre effetti sul piano ordinario
anche nei confronti dei c.d. terzi.
212
Cfr. R. Sacchi, Dai soci di minoranza ai creditori di minoranza, in Fall. 2009, 1065,
il quale rileva che tale fenomeno è per certi versi simile a quello che, prima della riforma
della disciplina delle società di capitali, si registrava in relazione alla figura dell’inesistenza
delle deliberazioni assembleari.
117
Come noto, il principio della relatività degli effetti del contratto, sancito
dall’art. 1372 c.c., è logica conseguenza del principio di libertà su cui
poggia l’autonomia privata, almeno in materia patrimoniale.
Il principio poc’anzi richiamato - proprio perché opera in relazione ai
diritti patrimoniali – deve essere contemperato alla luce del divieto di
intromettersi nell’altrui sfera giuridico-economica.
Ora, il divieto in parola impedisce che all’attività di produrre effetti
pregiudizievoli nella sfera giuridico-patrimoniale dei terzi, ma –
implicitamente - consente l’intromissione nell’altrui sfera giuridicoeconomica qualora ciò sia produttivo di effetti incrementativi del patrimonio
(213).
Di qui la liceità e idoneità del negozio a produrre effetti verso terzi,
purché: a) si tratti di effetti favorevoli, nel senso di effetti incrementativi
della situazione patrimoniale; b) sussista la facoltà di evitare la produzione
di tale effetto.
Alla luce della virata in senso privatistico impressa al concordato
preventivo, affinché i c.d. «terzi-creditori» possano essere vincolati ex lege
al negozio sulla crisi d’impresa è necessario che l’accordo produca verso
costoro effetti favorevoli.
5.3. – Stando così le cose, non sarebbe forse del tutto improponibile
accostare, ovviamente con le dovute cautele e accorgimenti, il negozio sulla
crisi d’impresa alla figura del contratto a favore dei terzi (art. 1411 c.c.),
quantomeno ai fini dell’estensione degli effetti diretti e riflessi.
Per verificare se può sussistere concretamente tale condizione è
opportuno volgere lo sguardo al contesto in cui si compie l’attività negoziale
in esame.
213
F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIV, Napoli, 2009, 947.
118
Il negozio in parola è concluso all’interno della procedura del concordato
preventivo. Per accedere al concordato preventivo l’imprenditore deve
trovarsi almeno in stato di crisi (art. 160 ult. co.). La crisi d’impresa viene
quindi assunta dalla legge come causa della contrattazione. La sopravvenuta
incapacità patrimoniale consente all’imprenditore di richiedere una
ristrutturazione dei debiti e modificare le modalità satisfattive delle
obbligazioni.
Ma il negozio concluso nelle forme della procedura di concordato
preventivo deve perseguire un particolare scopo: distribuire risorse
economiche tra tutti i creditori.
La produzione e ripartizione delle risorse economiche rappresenta il
profilo di maggiore criticità di tutte le soluzioni negoziate della crisi
d’impresa.
La problematica non si pone solo con riferimento al concordato
preventivo, ma - come si avrà modo di vedere nel proseguo dell’indagine sussiste anche in relazione all’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Occorre, quindi, prendere le mosse dal contesto economico in cui
avviene la conclusione del negozio in questione. Per accedere alla procedura
di concordato preventivo l’imprenditore deve dimostrare l’esistenza dello
stato di crisi. Tale stato integra un requisito ulteriore e alternativo rispetto a
quello tradizionale dell’insolvenza. Diversamente da quest’ultima, però, il
legislatore non ne ha fornito la nozione.
Il discrimen tra lo stato di crisi e lo stato d’insolvenza viene individuato
non tanto nella maggiore o minore incapacità a adempiere regolarmente le
obbligazioni assunte, quanto, piuttosto, nella conoscibilità della precarietà
economica in cui versa l’impresa (214).
L’impresa verserebbe in stato di insolvenza quando l’incapacità
patrimoniale è nota a una pluralità di soggetti, che possono agire per
214
In questi termini: G. Presti, Rigore è quando l’arbitro fischia?, in Fall. 2009, 26.
119
ottenere la dichiarazione di fallimento; quando, invece, l’incapacità
patrimoniale è nota solo all’imprenditore l’impresa verserebbe in stato di
crisi.
Tale distinzione avrebbe una precisa ratio: quando l’incapacità
patrimoniale non si è ancora manifestata all’esterno dell’impresa soltanto al
debitore è concessa la possibilità di rendere, lato senso, “pubblico” tale
stato.
Il legislatore avrebbe accordato al debitore la possibilità di sfruttare il
vantaggio informativo a sua disposizione, al fine di poterlo tradurre in una
conveniente, per lui stesso e i suoi creditori, proposta di concordato
preventivo.
All’imprenditore in crisi sarebbe, pertanto, concessa la possibilità: a) di
ideare tempestivamente una proposta negoziale da sottoporre ai creditori per
risolvere la crisi; b) di beneficiare della regola della maggioranza ai fini
della conclusione del negozio; c) di conseguire, tramite l’omologazione
dello stesso, l’efficacia ultra partes.
Ecco, allora, che viene in luce un primo dato utile: l’efficacia ultra partes
non è rimessa alla sola iniziativa del debitore, ma è collegata alla particolare
situazione del patrimonio dell’impresa, che si concretizza nell’insolvenza
(quindi, l’incapacità a tutti nota di soddisfare regolarmente le proprie
obbligazioni) o, quanto meno, in una situazione ad essa prossima (la crisi).
Tenuto quindi conto del contesto economico in cui versa l’impresa la
garanzia di conseguire un adempimento (seppure, parziale) potrebbe
rappresentare - con i dovuti accorgimenti - proprio quell’effetto favorevole
per giustificare, sul piano ordinario, l’estensione ope judicis del vincolo
negoziale (215).
215
Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti,
in Riv. dir. civ. 2009, 350, che sebbene riferito agli accordi di ristrutturazione fa notare che:
«come noto, se ho il 50% delle probabilità che il mio credito di 80 non sarà pagato, questo,
in termini di valore “di mercato”, al momento varrà 40; se quindi si realizzano le condizioni
120
La soluzione negoziale della crisi d’impresa dovrebbe rappresentare
l’opportunità per i creditori di conseguire l’adempimento delle obbligazioni
- sebbene, ristrutturate - in un contesto in cui l’incapacità patrimoniale
dell’impresa espone l’intero ceto creditorio - privilegiati inclusi - al rischio
d’inadempimento.
È necessario, però, verificare se tale effetto sia sufficiente anche per
tollerare la conservazione dell’efficacia ultra partes alla luce dei richiamati
principi costituzionali che devono informare i rapporti economici.
Il concordato preventivo costituisce, infatti, una chance per conseguire la
soddisfazione delle obbligazioni – ristrutturate - con tempi e modalità di
adempimento predeterminate
Ora, il vantaggio economico per i c.d. «terzi-creditori» potrebbe risiedere
proprio nella possibilità di conseguire l’adempimento secondo tempi
predeterminati e - stando alla prassi - inferiori rispetto a quelli della
liquidazione fallimentare.
Il vantaggio economico per i c.d. «terzi-creditori» andrebbe, quindi,
valutato dal Tribunale nei termini di concreta utilità marginale: nel senso
che l’esecuzione del concordato preventivo dovrebbe costituire la chance di
conseguire un adempimento, sebbene parziale, in tempi certi e inferiori
rispetto alla via della liquidazione fallimentare (216).
per un pagamento integrale, avrò un beneficio stimabile in misura pari a 40»; allo stesso
modo, in relazione al concordato preventivo può dirsi che se ho il rischio che il mio credito
di 80 rimanga integralmente inadempiuto, ovvero, che potrò conseguire l’adempimento
parziale e solo dopo un considerevole lasso di tempo rispetto alla scadenza, ma si
realizzano le condizioni per ottenere un pagamento parziale e in tempi inferiori, avrò un
beneficio economico stimabile nella misura pari alla minore perdita subita.
216
Si vedano in proposito le Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi –
Prima edizione – 2010 realizzate dall’Unità di ricerca coordinata dal Prof. L. Stanghellini –
Università di Firenze, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dei Dottori
Commercialisti ed Esperti Contabili e ASSONIME, in particolare: «Raccomandazione n. 5
(Arco temporale del piano): L’arco temporale del piano, entro il quale l’impresa deve
raggiungere una condizione di equilibrio economicofinanziario, non deve estendersi oltre i
3/5 anni. Fermo che il raggiungimento dell’equilibrio non dovrebbe avvenire in un termine
maggiore, il piano può avere durata più lunga, nel qual caso è però necessario motivare
adeguatamente la scelta e porre particolare attenzione nel giustificare le ipotesi e le stime
121
Seguendo tale ricostruzione, l’oggetto (necessario) dell’accertamento
giurisdizionale, viene ad essere sempre del tutto indipendente rispetto alla
complessità delle questioni di fatto sottoposte alla cognizione del Tribunale.
Sia in assenza, quanto in presenza di opposizioni e tanto in mancanza,
quanto in concomitanza della suddivisione dei creditori in classi, il
Tribunale dovrebbe accertare che la risoluzione della crisi d’impresa concordata a maggioranza - sia in grado di consentire ai c.d. «terzi creditori» di conseguire il vantaggio economico nel senso poc’anzi espresso
(217).
previsionali utilizzate; occorre comunque inserire nel piano alcune cautele o misure di
salvaguardia aggiuntive, tali da poter compensare o quanto meno attenuare i possibili effetti
negativi di eventi originariamente imprevedibili.L’orizzonte temporale del piano costituisce
un elemento centrale nel condizionare le possibilità di raggiungimento dell’equilibrio
economico-finanziario. In termini generali, maggiore è la durata del piano e maggiore è la
possibilità di evidenziare l’esistenza di condizioni fisiologiche al termine del periodo.
Esiste però un trade-off tra orizzonte temporale e capacità di previsione delle tendenze
future di lungo periodo, che induce a ritenere opportuno non estendere l’orizzonte
temporale necessario al raggiungimento delle condizioni fisiologiche oltre i 3/5 anni,
periodo giudicato dalla prassi aziendale sufficiente per mostrare gli effetti economico
finanziari di interventi strutturali. L’estensione a periodi superiori deve pertanto ritenersi
un’eccezione che indebolisce la qualità del piano, rende inevitabilmente più incerto
l’oggetto dell’attestazione e necessita pertanto delle ulteriori accortezze sopra indicate. È
opportuno chiarire che il raggiungimento di condizioni di equilibrio non implica il rimborso
di tutto il debito, che può essere consolidato anche con date di rimborso successive, ma solo
il ripristino della piena capacità di sostenere l’onere di quello che gravi a tale data. Il
termine di 3/5 anni deve quindi essere riferito alle sole misure “straordinarie” (quali la
cessione di cespiti, la dismissione o razionalizzazione di linee produttive, la messa in
mobilità di dipendenti, ecc.), mentre non implica che in quel termine siano estinte tutte le
passività esistenti al momento della stesura del piano, che possono anzi essere riscadenzate
a termini più lunghi. Parimenti, è del tutto legittimo che il piano preveda, anche in termini
lunghi, rinunzie a crediti o nuovi finanziamenti da effettuarsi a scadenze molto differite,
nell’eventualità che l’impresa risulti averne necessità e al fine di prevenire, ora per allora, il
riemergere di una crisi». Il piano deve infine consentire sia all’attestatore, sia ai creditori
cui il debitore chieda sacrifici, di verificare se esso sia volto alla creazione di significativo
valore, in modo da escludere che esso si limiti ad assicurare la mera sopravvivenza
dell’impresa senza risolvere i suoi problemi in modo definitivo.
217
D. Galletti, Il nuovo concordato preventivo: contenuto del piano e sindacato del
giudice, in Giur. comm. 2006, II, 918, il quale, fortemente critico nei confronti
dell’applicazione nel concordato preventivo del principio di maggioranza, denuncia il
rischio di un “abuso della maggioranza” in assenza di ogni controllo giurisdizionale in
proposito e solleva il dubbio della costituzionalità della esclusione della valutazione della
convenienza (salva, ovviamente, l’eccezione dell’art. 180, comma 4°, l. fall.); nello stesso
senso sembrerebbero orientati anche: E. Norelli, Il giudizio di omologazione del concordato
preventivo, cit. 345; A. Carratta, Procedure concorsuali, cit. 8; la soluzione avanzata nel
122
Il Tribunale, innanzitutto, dovrà verificare che il trattamento economico
previsto per i c.d «terzi-creditori» non sia inferiore rispetto a quello
accordato ai creditori consenzienti che hanno posizione giuridica e interessi
economici omogenei. Il Tribunale, segnatamente, dovrà accertare che la
soluzione negoziata non preveda trattamenti arbitrari e discriminatori tra
creditori.
Il combinato disposto dell’art. 160, comma 1°, lett. c) e d) pone un chiaro
divieto per il debitore: l’imprenditore non può prevedere trattamenti
differenziati tra creditori che vantano posizione giuridica e interessi
economici omogenei.
L’obbligo per il debitore di prevedere un trattamento identico per i
creditori titolari di posizioni giuridiche soggettive e interessi economici
testo non sembra, tuttavia, in conflitto con quella di chi ritiene che - per non annullare del
tutto la diversità tra il terzo e il quarto comma dell’art. 180 l. fall. con una interpretazione
pur possibile, ma non indispensabile per la costituzionalità delle disposizioni in questione se la volontà di tutti i creditori e di qualsiasi altro interessato è quella di non contestare il
concordato, ciò esonera il Tribunale da una nuova e più approfondita valutazione in sede
contenziosa di quanto nel merito delibato positivamente nel giudizio d’ammissione, ma non
può dirsi che l’oggetto sia limitato ai meri profili “procedurali” in senso stretto, in quanto
residua l’operatività della disposizione dell’art. 173 l. fall. così: L. Lanfranchi, Costituzione
e procedure concorsuali, cit. 172, v. anche 168: «A livello esegetico non è certo ovvia la
generalizzabilità dal caso esplicitamente oggi previsto dall’art. 180, comma 4°, II periodo,
l. fall. del creditore dissenziente in una classe [...]. Ma la necessità di questa
generalizzazione appare comunque indispensabile per evitare un’aberrante disparità di
trattamento, inconciliabile con qualsiasi principio di equità e di diritto ordinario e
costituzionale. Anche e sopratutto nella delicatissima materia in esame le “le regole del
gioco” non possono essere lasciate nelle mani del debitore decotto e della maggioranza di
somma, ma devono rimanere garantite dalla eterotutela giurisdizionale e dalla eterotutela
giurisdizionale non esclusivamente risarcitoria. [...] Orbene, secondo quanto si è già
anticipato nel caso delle analoghe contestazioni indubbiamente rintracciabili dietro il
silenzio appena richiamato, anche ed (ormai si può dire) innanzi tutto in riferimento al
concordato preventivo è illogico, ingiusto, contrario ad ogni principio costituzionale ed
ordinario pensare che quel che può ottenere un creditore di una classe a maggioranza di
somma dissenziente, che contesta la convenienza, non possa essere ottenuto da un creditore,
che propone la medesima contestazione in una classe a maggioranza assenziente, o da un
creditore parimenti orientato contro la medesima maggioranza in un concordato privo di
classi. La mancanza di specificazione dei contenuti delle opposizioni previste dall’art. 180
l.fall. (non meno sia della già ricordata vastità della cognizione nel merito evocata dal pur
eccessivamente sintetico “assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio”
del 4° comma dello stesso articolo, sia dell’egualmente già rilevata attitudine al giudicato
anche del complessivo giudizio in questione), agevola - ripeto - questa conclusione e
corrobora quella analoga già proposta per il concordato Marzano».
123
omogenei non può ritenersi vincolante solo nell’ipotesi che la proposta
preveda la suddivisione dei creditori in classi. Il criterio in parola costituisce
un limite alla libertà negoziale dell’imprenditore.
Il vincolo in questione rappresenta, in realtà, l’unico presidio legale a
garanzia del principio della par condicio creditorum.
La regola della parità di trattamento può essere derogata all’interno delle
procedure concorsuali, ma al fine di evitare un «abuso» dello strumento
concordatario il legislatore ha posto un limite alla libertà dell’imprenditore,
così sintetizzabile: il debitore non può effettuare trattamenti arbitrari tra i
creditori, ma deve garantire trattamenti identici tra creditori che vantano
posizione giuridica e interessi economici omogenei. Il Tribunale, pertanto,
deve accertare che ogni soluzione negoziata non preveda per i c.d. «terzicreditori» trattamenti deteriori rispetto a quelli accordati a creditori
consenzienti che vantano posizione giuridica e interessi economici
omogenei.
Inoltre, dopo aver escluso che vi sia un pregiudizio nel senso poc’anzi
detto, il Tribunale dovrà accertare l’esistenza di un requisito positivo: la
soluzione negoziata deve consentire ai c.d. «terzi-creditori» di conseguire
l’adempimento delle obbligazioni - sebbene, ristrutturate - secondo modalità
predefinite e tempi inferiori rispetto alla liquidazione fallimentare (218).
La valutazione del Tribunale dovrà essere compiuta considerando tutto il
materiale di fatto sottoposto alla sua cognizione da parte del debitore (i.e. il
ricorso e la relazione del professionista), da parte del commissario (i.e. la
relazione dell’art. 172 l.fall. e il parere motivato dell’art. 180, comma 4°,
l.fall.) e, eventualmente, dai creditori stessi mediante le opposizioni.
218
L’art. 33, comma 1, lett. b), n.1 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con
modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134 ha introdotto all’art. 160, comma 2, l. fall. la
nuova lettera e) la quale prescrive che nella domanda di concordato deve essere inserito «un
piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della
proposta».
124
L’accertamento del vantaggio economico sarà dunque l’esito di un
giudizio di fatto e chiaramente prognostico.
6. - Al fine di ricondurre l’efficacia ultra partes del negozio sulla crisi
d’impresa all’interno della clausola di riserva prevista dall’art. 1372, comma
2°, c.c. è necessario che i c.d. «terzi-creditori» possano impedire, melius,
rifiutare, la produzione degli effetti diretti che si producono nei loro
confronti (219).
Come ormai assodato, il pregiudizio che si verifica nei confronti dei c.d.
«terzi-creditori» non si produce sic et simpliciter a seguito della conclusione
del negozio sulla crisi d’impresa, ma l’estensione del vincolo negoziale
avviene per il tramite del provvedimento di omologazione (220).
Il Tribunale, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, ha dunque il
compito di: a) controllare le modalità di formazione e manifestazione del
consenso espresso dai creditori aderenti alla proposta del debitore (i.e. la
regolarità della procedura e il raggiungimento delle maggioranze); b)
controllare la sussistenza delle condizioni per l’«estendibilità» degli effetti
dell’accordo verso i terzi (i.e. l’assenza di un trattamento discriminatorio e il
vantaggio economico nel senso poc’anzi espresso).
219
Cfr. M. Fabiani, Diritto fallimentare, cit. 675.
Sulla possibilità che un negozio pregiudichi situazioni giuridiche soggettive non in
iure ma in facto i terzi rispetto all’accordo delle parti cfr. E. Betti, Teoria generale del
negozio giuridico, cit. 273, il quale nell’illustrare le categorie dei terzi afferma che sussiste
anche una categoria di terzi, che sebbene normalmente siano indifferenti, perché titolari di
una posizione giuridica compatibile con quella delle parti del negozio, sono tuttavia
legittimati a reagire contro lo stesso quando risentono di un illecito pregiudizio dagli effetti
del negozio, ciò sussiste quando: «il negozio sia tale da recare un pregiudizio di fatto a
terzi, la cui posizione giuridica non sia né ricompera nel regolamento d’interessi dettato
dalle parti, né incompatibile con esso: terzi che, per l’appunto in ragione di tale
compatibilità del loro rapporto giuridico, si è convenuto di qualificare normalmente
indifferenti. A scanso di equivoci e di troppo facili “confutazioni”, giova chiarire ancora
che la differenza di questa categoria di terzi (fra i quali primeggiano i creditori) è
puramente giuridica e si contrappone concettualmente a un interesse di fatto, che essi
possono benissimo avere: interesse all’inefficacia del negozio altrui, in presenza del quale
si pone per l’appunto il problema della loro soggezione ai suoi effetti; interesse, senza il
quale il problema non si porrebbe neppure».
220
125
Appare, quindi, evidente che la possibilità di «rifiutare» gli effetti del
negozio sulla crisi d’impresa da parte dei c.d. «terzi-creditori» non possa
prescindere dalla contestazione dell’«accertamento» compiuto dal Tribunale
nel giudizio di omologazione.
6.1. - La possibilità di contestare l’«accertamento» contenuto nel giudizio
di omologazione è strettamente connessa con la vexata quaestio dei mezzi di
impugnazione del provvedimento di omologazione, in particolare di quelli
c.d. straordinari, tra cui l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.
Tale ultimo profilo è dibattuto fin dall’entrata in vigore della legge
fallimentare del ’42.
I fautori della concezione «contrattualistica» negavano l’ammissibilità
dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di
omologazione, in quanto ritenevano che gli effetti pregiudizievoli nei
confronti dei terzi derivassero direttamente dal contratto di concordato (221).
Dal lato opposto i sostenitori della concezione «processualistica» e la
stessa
giurisprudenza
di
legittimità, ammettevano la
proponibilità
dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di
omologazione del concordato, ritenendo sufficiente, ai fini della
221
F. Ferrara, Il fallimento, Milano, 1959, 458 secondo cui: «non sembra ipotizzabile
l’opposizione di terzo contro la sentenza di omologazione, perché essa costituisce una
condizione di efficacia del contratto, del quale si limita a controllare la regolare
stipulazione e la convenienza, e gli eventuali effetti pregiudizievoli per il terzo si
ricollegherebbero al contratto»; Id. Concordato fallimentare, in Enc. dir. XIII, Milano,
1961, 498 che aggiunge alla precedente argomentazione che l’opposizione di terzo ex art.
404 c.p.c. non sarebbe ammissibile dal momento che l’opposizione all’omologazione
sarebbe assorbente ed esclusiva di ogni altra impugnazione, sicché, ammettendo anche
l’opposizione di terzo, si ostacolerebbe la funzione del concordato fallimentare di
estinguere il processo di fallimento, mentre quella del concordato preventivo era, appunto,
quella di evitalo e la riprova di ciò risiederebbe proprio nel fatto che l’opposizione
all’omologazione viene concessa non solo ai creditori dissenzienti, ma anche a qualunque
terzo interessato. Si pongono poi in senso contrario all’ammissione dell’opposizione di
terzo anche: U. Azzolina, Il fallimento, Torino, 1953, II, 445; F. Ughi, Della opposizione di
terzo alla sentenza omologativa di concordato fallimentare, in Dir. fall. 1948, II, 72.
126
legittimazione, che l’opponente si fosse trovato in una situazione tale,
relativamente all’oggetto, da poter intervenire nel giudizio (222).
L’ammissibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. - anche prima
delle recenti riforme - è sta affrontata più volte dalla stessa giurisprudenza
di legittimità, la quale ha precisato che il creditore estraneo al giudizio di
omologazione del concordato preventivo non poteva proporre appello
avverso la sentenza di omologazione, né poteva proporre ricorso
straordinario in cassazione ex art. 111 Cost. - dal momento che non aveva
assunto la qualità di parte nel procedimento - ma poteva promuovere
soltanto l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. purché: a) non fosse stato a
conoscenza della procedura di concordato preventivo a causa del mancato
ricevimento da parte del commissario giudiziale della comunicazione
222
Il primo precedente noto risulta: Trib. Roma, 7 agosto 1946, in Dir. fall. 1947, II, 65
che è stato confermato da Cass. 21 luglio 1960, n. 2069 in Dir. fall. 1960, II, 830, la quale
precisa ulteriormente però che: «Ciò non significa, peraltro, che tutti coloro che potevano
intervenire nel giudizio di omologazione, possano anche proporre opposizione di terzo;
poiché occorre che questa sia fondata sulla pretesa lesione di un diritto, è escluso che
dell’impugnazione possano avvalersi coloro che possono addurre soltanto motivi di
mancanza di convenienza del concordato, anche se, per avventura, essi possono, in pari
tempo, prospettare vizi concernenti la forma e la sostanza, senza tuttavia essere in grado di
stabilire un rapporto di connessione tra quel vizio e un preciso pregiudizio di un loro
diritto» anche in Giust. civ. 1960, I, 1554 con nota adesiva di L. Bianchi d’Espinosa,
Opposizione di terzo contro la sentenza di omologazione del concordato; v. anche
successivamente: App. Roma, 13 marzo 1967, in Dir. fall. II, 490, secondo cui:
«condizione necessaria per la proponibilità dell’opposizione è che la sentenza, inter alias,
pregiudichi, come espressamente è detto nel primo comma dell’art. 404 c.p.c. un diritto del
terzo che peraltro deve preesistere alla sentenza impugnata»; nello stesso senso v. anche:
Cass. 4 gennaio 1978, n. 24, Giur. comm. 1979, II, 27, la quale, escludendo la
legittimazione del creditore pretermesso al ricorso (ordinario) in cassazione per non essere
stato parte del giudizio di opposizione, ha ammesso l’opposizione di terzo avverso la
sentenza di omologazione del concordato fallimentare e ha riconosciuto la legittimazione in
favore dei creditori che non abbiano proposto opposizione al concordato ai sensi dell’art.
129 l. fall. Le sentenze richiamate accolgono la tesi sostenuta da R. Provinciali,
L’opposizione di terzo contro la sentenza omologativa del concordato, in Dir. fall. 1939,
330 e successivamente ripresa e sviluppata in Manuale di diritto fallimentare, II, Milano,
1974, 1934; la maggior parte della dottrina tradizionale riteneva ammissibile l’opposizione
di terzo da parte dei creditori non insinuati, anche se esclusi dal voto nel concordato: A.
Pazzaglia, Opposizione di terzo e sentenza omologativa di concordato, in Dir. fall., 1947,
II, 65; A. Minoli, Considerazioni sull’opposizione di terzo alla sentenza di omologazione
del concordato fallimentare, in Studi per Carnelutti, II, 157 e ss; V. Andrioli, Sentenza di
omologazione di concordato e opposizione di terzi, in Temi, 1948, 328; S. Satta, Istituzioni
di diritto fallimentare, Roma, 1966, 345.
127
prescritta dall’art. 171 l.fall. (223); b) il provvedimento di omologazione del
concordato preventivo avesse determinato una lesione di un suo diritto
soggettivo (224).
La soluzione della giurisprudenza di legittimità accordava un rimedio
soltanto a favore del creditore che fosse stato integralmente pretermesso
dalla procedura di concordato.
Tuttavia, le argomentazioni spese a sostegno dell’ammissibilità
dell’opposizione di terzo appaiono pressoché prive di supporto logico
sistematico e pertanto non possono essere sottaciuti alcuni rilievi critici nei
confronti delle stesse.
Innanzitutto, nella previgente disciplina l’avviso ai creditori previsto
dall’art. 171 l. fall. era (ed è tutt’ora) unicamente funzionale alla
partecipazione dei creditori al voto; mentre, semmai, soltanto con
riferimento all’ordinanza emessa dal giudice delegato ai sensi del previgente
art. 180 l. fall. - con cui veniva fissata l’udienza avanti al giudice delegato,
successiva all’approvazione - si poteva sostenere che la stessa avesse avuto
223
Nei termini della specifica questione in esame, v. A. Bonsignori: Concordato
preventivo, cit., 379, 401, 468, secondo cui l’omissione dell’avviso ex art. 171 l. fall. e la
conseguente mancata partecipazione all’adunanza del creditore a causa di tale omissione,
comportano comunque invalidità della deliberazione (e, quindi, della sentenza di
omologazione), anche se non risultino modificate le necessarie maggioranze. Ciò posto, per
tale A. l’opposizione di terzo avverso la sentenza di omologazione è ammissibile perché
«un soggetto che avrebbe dovuto e potuto essere parte nell’omologazione-opposizione, e
invece parte non fu, dal che discende la legittimazione attivai all’opposizione di terzi»;
contra G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 393, per il quale, invece, la soluzione
dell’invalidità dell’assemblea votante in mancanza dell’avviso appare discutibile, specie se
la mancata espressione del voto non abbia prodotto alcuna influenza sul risultato delle
votazioni, alla luce, sopratutto, della regola sancita dall’art. 176 l. fall. che attribuisce ai
creditori esclusi la legittimazione all’opposizione all’omologazione.
224
Cfr. Cass. 19 maggio 1983, n. 3451, in Fall. 1983, 1068 secondo cui l’opposizione di
terzo ex art. 404 c.p.c. sarebbe ammissibile sulla base delle seguenti argomentazioni: a)
nella legge non si rinviene alcuna eccezione all’operatività dell’istituto processuale
dell’opposizione di terzo nell’ambito del sistema fallimentare; b) nella fattispecie esaminata
i creditori non avvertiti ai sensi dell’art. 171 l.fall. rimangono estranei al giudizio e non vi
assumono la qualità di parte; c) in difetto della comunicazione predetta di cui al citato art.
171 l.fall., secondo comma, non si può far derivare alcuna decadenza dall’esercizio
dell’azione di cui all’art. 404 c.p.c.; nello stesso senso v. App. Bari 31 ottobre 1985, in Fall.
1986, 527
128
la funzione di una generale provocatio ad opponendum rivolta ai creditori
dissenzienti, astenuti e assenti.
In secondo luogo, preme rilevare che il provvedimento di omologazione
produceva (e produce tutt’ora) sempre un pregiudizio alle situazioni
giuridiche «terzi» ai sensi dell’art. 184 l. fall. Diversamente dall’ordinaria
sentenza, rispetto alla quale vige il (tendenziale) principio res inter alias
iudicata tertio non nocet, che trova unica (apparente) eccezione negli artt.
108 e 111 c.p.c. (225), il provvedimento di omologazione del concordato
preventivo, al contrario, produce sempre - per volontà di legge - effetti
diretti lesivi del diritto soggettivo dei terzi. Il provvedimento di
omologazione integra, infatti, la condicio iuris a cui è subordinata
225
Cfr. F.P. Luiso, Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi,
Milano, 1981, 57, per il quale, tuttavia: «il successore nel diritto controverso non viene
normalmente, pregiudicato dall’emanando provvedimento più di quanto lo sia da un atto di
disposizione del suo dante causa che s’ipotizzi avere le stesse caratteristiche - data certa,
trascrizione etc. - della domanda giudiziale»; v. anche: A. Proto-Pisani: Opposizione di
terzo ordinaria, cit., 204; sotto il vigore del codice di procedura civile abrogato, il tema
dell’estensione degli effetti della sentenza verso terzi è stato affrontato compiutamente dalla
dottrina con risultati che possono ritenersi tutt’oggi validi, v. infatti: E. T. Liebman,
Efficacia ed autorità della sentenza, Milano, 1935, 97 per il quale: «Il processo non è
dunque un affare combinato in famiglia e produttivo di effetti per le sole persone iniziate ai
misteri del singolo processo, ma un’attività pubblica compiuta per garantire l’osservanza
della legge; e poiché a questa sono tutti indistintamente soggetti, tutti debbono ugualmente
sottostare all’atto che dall’ordinamento giuridico è destinato a valere come sua imparziale
applicazione», tuttavia, «mentre astrattamente tutte le persone sono sottoposte all’efficacia
della sentenza, praticamente ne subiscono gli effetti [solo] quelli nella sfera giuridica dei
quali rientra più o meno direttamente l’oggetto della sentenza: quindi anzitutto e
necessariamente le parti, titolari del rapporto affermato e dedotto in giudizio, e poi
gradatamente tutti gli altri, i cui diritti siano in qualunque modo con esso in relazione di
connessione, dipendenza o interferenza giuridica o pratica, sia quanto alla loro esistenza, sia
quanto alla possibilità della loro effettiva realizzazione», quindi, «La natura di questa
soggezione è per tutti, parti o terzi, la medesima; la misura della soggezione è determinata
invece dalla relazione di ciascuno con l’oggetto della decisione», ne segue, pertanto, che
secondo l’A. «bisogna distinguere gli effetti della sentenza dalla cosa giudicata: se questa è
limitata alle parti, non così è per quelli, che invece possono prodursi e naturalmente si
producono anche per i terzi, ed è quindi appunto in vista di essi che il terzo può avere
interesse ad intervenire nel processo pendente per impedire che la sentenza contenga una
decisione per lui dannosa»; v. anche: E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi,
Milano, 1935, 113, il quale chiarisce, però, che: «Per il terzo che deve riconoscere l’altrui
cosa giudicata, non ha semplicemente importanza l’esistenza, ma il contenuto della
decisione. Non il fatto della sentenza deve il terzo riconoscere; ma il regolamento contenuto
nella sentenza è, per lui, normativo».
129
l’estensione degli effetti anche nei confronti dei creditori che non hanno
dato il consenso. L’effetto lesivo che si produce nei confronti dei c.d. «terzicreditori» è sì mediato dal provvedimento di omologazione, ma è un effetto
che si produce per espressa dalla volontà di legge (art. 184 l.fall.). Ogni
provvedimento di omologazione del concordato preventivo è dunque
astrattamente idoneo a ledere le situazioni giuridiche soggettive dei c.d.
«terzi-creditori»; gli effetti pregiudizievoli che si producono in concreto,
invece, dipendono dal contenuto della proposta avanzata dall’imprenditore.
L’efficacia (sostanziale) ultra partes del provvedimento di omologazione è,
dunque, un effetto predeterminato dal legislatore: la sentenza di
omologazione vale sempre erga omnes creditoris come «formulazione della
concreta volontà dello Stato per il caso deciso» (226). Tale effetto,
diversamente da quanto previsto rispetto alla sentenza emessa nel giudizio
ordinario, diviene «immutabile» tanto per le parti, quanto per i terzi, nel
momento in cui il provvedimento non è più soggetto ad alcun mezzo di
gravame (227).
Ciò chiarito, è evidente che le argomentazioni spese dall’orientamento
della giurisprudenza di legittimità per fondare la legittimazione ad agire con
l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. non possono avere alcun
226
L’espressione è riferita alla sentenza del giudizio ordinario: E.T. Liebman, Efficacia
ed autorità della sentenza, cit. 112, ma la sentenza di omologazione del concordato
preventivo differisce dall’ordinaria sentenza, quanto agli effetti nei confronti delle parti e
dei terzi, per le ragioni subito esposte nel testo.
227
Cfr. E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, cit. 112, il quale afferma
che: «la sentenza vale per tutti come formulazione della concreta volontà dello Stato per il
caso deciso: questo effetto per le parti è reso immutabile quando si forma la autorità della
cosa giudicata, mentre per i terzi si produce con una intensità minore, perché può essere
caso per caso respinto con la dimostrazione che la volontà dello Stato è in realtà diversa da
quella dichiarata. Per quanto questa affermazione possa sembrare ardita, essa è tuttavia
giustificata nel modo più semplice e facile dalla posizione e dal carattere pubblico,
universalmente riconosciuti al processo nello Stato moderno, e a rilevarne l’evidenza è
bastato dissociare la nozione dell’efficacia della sentenza da quella della autorità della cosa
giudicata, che nel pensiero comune sono state da tempo immemorabile commiste e
confuse»; contra A. Proto – Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, cit. 416, in particolare
ove afferma: «Circa il modo in cui i terzi in esame possono sottrarsi all’efficacia della
sentenza, il Liebman non è chiaro».
130
fondamento, dal momento che: a) dal punto di vista sostanziale, il
concordato preventivo omologato è sempre vincolante (rectius il
provvedimento di omologazione è sempre lesivo) nei confronti di tutti
coloro che non hanno partecipato al giudizio di omologazione e di coloro
che non erano a conoscenza dell’apertura della procedura stessa per mancato
invio della comunicazione ex art. 171 l. fall. ; b) dal punto di vista
processuale, non sussiste la necessità di garantire il rispetto del diritto al
contraddittorio, né, men che meno, l’esigenza di introdurre un rimedio con
cui ex post il terzo possa contestare l’ingiustizia dell’accertamento (228), in
quanto, ogni creditore e qualunque interessato potevano proporre
opposizione all’omologazione ex art. 180 l. fall.
Nella previgente disciplina, quindi, contro la sentenza di omologazione
del concordato preventivo l’opposizione di terzo dell’art. 404, comma 1°,
c.p.c. non poteva ritenersi ammissibile, in quanto: a) la lesione del diritto
soggettivo dei terzi creditori è un effetto diretto della sentenza di
omologazione, che deriva, però, indistintamente dalla stessa volontà della
legge (art. 184 l.fall.); b) ogni creditore poteva prevenire e contestare la
sussistenza delle condizioni legali necessarie per l’omologazione preventivamente all’emissione della sentenza - mediante l’opposizione
all’omologazione prevista dall’art. 180 l.fall.; c) la mancata conoscenza del
procedimento per omesso avviso del commissario giudiziale ai sensi dell’art
228
Cfr. E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, cit. 113, il quale in
riferimento alla sentenza emessa nel giudizio ordinario afferma che: «L’ingiustizia riguarda
invece la sentenza come giudizio e può dipendere tanto da un errore di diritto, quanto da un
errore di fatto: in ogni caso la concreta volontà dello Stato è diversa da quella dichiarata e la
sentenza può quindi pregiudicare ingiustamente il terzo, il cui diritto sia in qualche modo
connesso col rapporto deciso. Quando ciò si verifica, spetta al terzo la facoltà di far valere e
dimostrare l’errore che vizia la decisione, allo scopo di respingere l’effetto dannoso per
lui»; contra E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit. 315, secondo cui il
pregiudizio che poteva legittimare il terzo a promuovere l’opposizione avverso la sentenza
pronunciata tra altre parti era, in realtà, un pregiudizio ipotetico, nel senso del pregiudizio
che sarebbe derivato al terzo se l’accertamento normativo compiuto tra le parti valesse
anche nei suoi confronti, dunque, il pregiudizio, che poteva legittimare il terzo ad agire
consisteva nello stato di contestazione in cui la sentenza poneva il suo diritto.
131
171 l. fall., ovvero, in ipotesi, per mancata affissione dell’ordinanza di
fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 180 l.fall. – che nell’abrogata
disciplina segnava l’apertura del giudizio di omologazione - poteva
legittimare, semmai, la richiesta di rimessione in termini, a fronte
dell’intervenuta decadenza dalla possibilità di promuovere l’opposizione
all’omologazione (229).
In sintesi: dal momento che legittimato ad opporsi all’omologazione del
concordato preventivo erano qualunque creditore e interessato, ciò doveva
indurre ad escludere la sussistenza di una concorrente legittimazione
229
Cfr. in termini generali, A. Proto-Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, cit. 679, il
quale chiaramente afferma che la legittimazione all’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.
spetta ai terzi soggetti all’efficacia diretta della sentenza, ma non legittimati alla
proposizione delle impugnazioni c.d. proprie delle parti, ed essi sono: a) il falso
rappresentato; b) il litisconsorte necessario pretermesso, quando il l.c.n. trovi il suo
fondamento in un rapporto giuridico sostanziale unico con più parti, o nella legittimazione
straordinaria. Viceversa, pur essendo soggetti all’efficacia diretta della sentenza e pur non
avendo partecipato al processo(ma ne subiscono l’autorità), non sono legittimati alla
proposizione dell’opposizione di terzo ordinaria: a) il successore nel diritto controverso ed
il garantito estromesso, in quanto legittimati alla proposizione delle impugnazioni c.d.
proprie delle parti; b) il contumace involontario, perché legittimato ex art. 327, comma 2°,
alle impugnazioni c.d. proprie delle parti, anche se non soggetto ai termini ordinari di
decadenza; c) il pubblico ministero quando il suo intervento era obbligatorio e la sentenza
sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito, in quanto legittimato alla proposizione
della revocazione ex art. 397, n.1: in questa ipotesi non si è però alla presenza di una
soggezione all’efficacia diretta della sentenza. Inoltre, non sono legittimati all’opposizione
ordinaria di terzo coloro che, pur non rivestendo la qualità di parte e non potendo avvalersi
delle impugnazioni c.d. proprie delle parti: a) siano titolari di rapporti giuridicamente
dipendenti da quello deciso, e pertanto sono soggetti all’efficacia riflessa (e non diretta)
della sentenza, e legittimati alla proposizione della sola opposizione di terzo revocatoria se
la sentenza sia l’effetto di dolo o collusione delle parti a danno di essi terzi; b) non sono
soggetti al alcuna efficacia della sentenza, ed allora tutt’al più saranno legittimati alla
proposizione dell’opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c. se, essendo titolari
di diritti autonomi ed incompatibili con quello deciso (e, quindi, non terzi estranei in senso
assoluto), siano (o si pretendano) lesi dalla esecuzione); contra G. Fabbrini, L’opposizione
di terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968, 111, per il quale la domanda
fondamentale da cui muove tutta l’indagine è se: «la titolarità di un diritto incompatibile
con la situazione che si creerebbe in fatto, ove la sentenza emessa inter alios ricevesse
concreta attuazione, abilita il terzo a sperimentare l’opposizione ordinaria del primo comma
dell’art. 404 c.p.c? La nostra risposta è positiva; e la dimostrazione più convincente si
ottiene considerando che, in capo a quel terzo, si realizzano puntualmente tutte le
condizioni volute dall’art. 404 c.p.c. : non solo, infatti, egli è terzo rispetto alla sentenza
emanata, ma è anche titolare di un diritto soggettivo perfetto che risulterebbe leso, ove la
sentenza venisse attuata inter partes».
132
all’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso il provvedimento di
omologazione del concordato preventivo (230).
La tesi poc’anzi espressa, tenuto conto della nuova cornice processuale
entro cui deve avvenire la conclusione del concordato preventivo, può
ritenersi, a ben considerare, tutt’oggi valida, in quanto: a) a norma dell’art.
166 l. fall. il decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo
è pubblicato mediante iscrizione nel registro delle imprese ex art. 17 l. fall.
b) dopo che il concordato è stato approvato, il giudice delegato deve riferire
al Tribunale, il quale deve fissare un’udienza in camera di consiglio per la
comparizione delle parti; c) il provvedimento che fissa l’udienza di
comparizione è anch’esso pubblicato mediante iscrizione nel registro delle
imprese a norma dell’art. 17 l. fall.; inoltre, tale provvedimento deve essere
notificato a cura del debitore agli eventuali creditori dissenzienti; d) se il
commissario giudiziale rilevi che, dopo l’approvazione del concordato, sono
mutate le condizioni di fattibilità del piano - oltre che darne menzione nel
proprio parere ex art. 180, comma 2°, l. fall. - deve darne pronto avviso a
tutti i creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione per
230
Cfr. Trib. Monza, 16 dicembre 1989, in Fall. 1990, 644, con nota di C. M. Ruggeri,
Può il creditore pretermesso proporre opposizione di terzo contro la sentenza che omologa
il concordato preventivo?; sul tema v. anche: A. Ceccherini, Il procedimento di
omologazione del concordato fallimentare. Natura del giudizio e problemi di
legittimazione, in Fall. 1989, 190, il quale ha escluso che il creditore insinuato nel
concordato fallimentare sia legittimato all’opposizione di terzo per non aver avuto notizia
per un vizio di procedura della proposta o dell’ordinanza ex art. 129 l. fall. L’A.
riconosceva che il procedimento di concordato preventivo presentava seri profili di
illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 24 Cost. ed ha suggerito, al fine di
ricondurre la disciplina nell’orbita delle garanzie costituzionali, di ampliare i casi di
legittimazione all’appello avverso la sentenza di omologazione, facendovi rientrare anche
coloro che non erano stati parte nel giudizio di primo grado; in altri termini, secondo l’A. la
legittimazione ad impugnare con l’appello la sentenza di omologazione dovrebbe essere
estesa, a prescindere dalla partecipazione al giudizio di omologazione avanti al Tribunale,
«a tutti coloro che siano stati lesi nei loro interessi qualificati (e non solo nei loro diritti
autonomi) dal provvedimento di omologazione», compresi, quindi, i creditori non avvisati.
Tale soluzione, tuttavia, non avrebbe potuto comunque eliminare completamente il vuoto di
tutela a cui erano (ed in sostanza sono rimasti) esposti tutti i creditori, in quanto l’effettiva
possibilità di proporre appello nei termini previsti era subordinata alla conoscibilità, da
parte del creditore che non avesse partecipato al giudizio, del deposito della sentenza di
omologazione.
133
modificare la propria dichiarazione di voto; e) gli eventuali creditori
dissenzienti e qualsiasi altro interessato che intendano proporre opposizione
devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata; f) se non
sono state proposte opposizioni il decreto di omologazione non è soggetto al
reclamo ai sensi dell’art. 183 l. fall.
Tutto ciò, quindi, esclude che il decreto di omologazione del concordato
preventivo possa essere impugnato con un strumento diverso dal reclamo
previsto dall’art. 183 l. fall.
Inoltre, anche se il concordato preventivo continua ad essere
caratterizzato dalla c.d. «struttura aperta» della fase deliberativa ( 231), in
quanto sussiste il rischio che alcuni creditori non sono stati portati a
conoscenza dell’apertura della procedura da parte del commissario
giudiziale, è anche pur vero che: a) il decreto di ammissione è pubblicato
nel registro delle imprese, e ogni creditore che ne sia venuto a conoscenza
può intervenire nel procedimento deliberativo; b) il provvedimento che
dispone l’apertura del giudizio di omologazione è anch’esso pubblicato nel
registro delle imprese, e «ogni interessato» può, per ciò solo, proporre
opposizione all’omologazione.
La disciplina dell’opposizione all’omologazione ex art. 180, comma 2°,
l.fall, è dunque idonea ad «assorbire» in sé qualunque tipo di gravame (di
primo grado) utile per dedurre, tanto i pregiudizi derivanti dalla (pressoché
ormai esclusa) impossibilità di conoscere l’apertura del procedimento,
quanto i pregiudizi che potrebbero derivare alle situazioni giuridiche
soggettive a seguito di una illegittima concessione dell’omologazione.
Quanto precede rende ancor più evidenti i limiti strutturali dell’intero
arco procedimentale per l’operatività esclusiva dell’autotutela dei creditori,
e conferma la necessità dell’«accertamento» del vantaggio economico a
231
v. Cap. I, sez. I, par. 1.
134
tutela dei c.d. «terzi-creditori» - nei termini sopra espressi - anche e,
soprattutto, in assenza di opposizioni.
SEZIONE II
IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NELL’ACCORDO DI
RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
7. - Il giudizio di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti
è disciplinato nell’art. 182 - bis, comma IV, l. fall.
Va subito rilevato che la collocazione della disposizione in esame non
consente di far assumere alla procedura ivi descritta la natura concorsuale
(232).
Sussistono chiari indici positivi che inducono a propendere che il
procedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti
non possa essere considerato una procedura concorsuale, dal momento che:
a) alla conclusione dell’accordo non si perviene tramite una scandita sequela
procedimentale di natura giurisdizionale; b) il debitore non subisce alcuno
spossessamento, neppure attenuato come avviene, invece, nell’ambito del
concordato preventivo, in quanto l’imprenditore continua ad avere la piena
gestione dell’impresa e gli atti negoziali non subiscono alcun vincolo, né
sono sottoposti ad alcun controllo; c) la fase delle trattative non è assistita
232
L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di
insolvenza, Bologna, 2007, 361; F. Guerrera, Le soluzioni concordatarie della crisi
d’impresa, Aa.Vv. Diritto fallimentare, Manuale breve, Milano, 2007, 40; M. Fabiani,
Accordi di ristrutturazione dei debiti: l’incerta via italiana alla “reorganization”, in Foro
it. 2006, I, 264; Id. Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art.
182 - bis l. fall., in Foro it. I, 2564; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in S.
Ambrosini (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Bologna, 2006, 384; per la
natura concorsuale: E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Un nuovo
procedimento concorsuale, Padova, 2009, 81; A. Di Majo, Gli accordi di ristrutturazione
dei debiti ex art. 182 - bis l. fall. in Corr. giur. 2010, 241 per una posizione intermedia v.
P. Pajardi – A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. 907; L. Guglielmucci,
Diritto fallimentare, 2008, 345, per il quale l’accordo omologato: «costituisce una via
ibrida tra quella privatistica della composizione stragiudiziale e quella pubblica del
concordato preventivo».
135
alcun organo (c.d. «della procedura»), quale il commissario giudiziale o il
giudice delegato; d) non è possibile conseguire una regolazione concorsuale
del dissesto in quanto non devono essere convocati nel procedimento tutti i
creditori dell’imprenditore; e) quest’ultimi non sono organizzati come
“collettività”, ma rilevano unicamente per il valore nominale del loro
credito; f) il debitore non deve sottoporre l’intero patrimonio a garanzia
degli impegni assunti.
Alla luce delle considerazioni che precedono, appare quindi preferibile
propendere
per
la
natura
prettamente
negoziale
dell’accordo
di
ristrutturazione dei debiti concluso con le forme e modalità dell’art. 182 bis l.fall.
Tale accordo, però, si distingue da ogni altro negozio concluso tra
l’imprenditore e alcuni dei suoi creditori. L’accordo di ristrutturazione dei
debiti, infatti, verrà normalmente concepito non come fine a sé stesso, ma in
quanto preordinato ad essere omologato dal Tribunale. Tramite la
concessione del provvedimento giurisdizionale di omologazione potranno
essere conseguiti anche gli ulteriori effetti - c.d. legali - i quali potranno
anche essere assunti dalle parti a presupposizione della loro stipulazione
(233). Gli effetti in questione consistono, da un verso, nella esenzione
dall’azione revocatoria degli atti di disposizione posti in essere in
esecuzione dell’accordo di ristrutturazione (ex art. 67, comma 3°, lett. e) l.
fall.) e dall’esenzione dal rischio di integrare la fattispecie penale dei reati di
bancarotta (ex art. 217 - bis l.fall.).
Le modalità per conseguire tali risultati, vale a dire, le forme del
procedimento giurisdizionale non sono state definite dal legislatore.
La disciplina contenuta nella disposizione dell’art. 182 - bis l. fall.
contiene soltanto l’indicazione che: a) entro trenta giorni dalla
233
M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit.
355; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” ( o di
ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 301.
136
pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese i creditori e ogni altro
interessato possono proporre opposizione; b) il Tribunale, decise le
opposizioni, deve procedere all’omologazione in camera di consiglio con
decreto motivato; c) il decreto è reclinabile alla Corte d’appello ai sensi
dell’art. 183 l.fall. - in quanto applicabile - entro quindici giorni dalla
pubblicazione nel registro delle imprese.
Non risulta, dunque, disciplinata la fase introduttiva del giudizio, né la
fase istruttoria, né quella del procedimento. La determinazione della
disciplina che governa le singole fasi è, pertanto, lasciata all’attività
ermeneutica dell’interprete.
Per ricostruire tale disciplina occorre, innanzitutto, prendere le mosse dai
dati forniti dalla disposizione in esame.
Il comma IV opera un espresso richiamo al procedimento in camera di
consiglio, le prescrizioni contemplate dall’art. 182 - bis l.fall. dovranno
essere lette alla luce della disciplina degli artt. 737 e ss c.p.c.
Per cui, dopo aver concluso l’accordo di ristrutturazione dei debiti,
l’imprenditore in crisi ne dovrà richiedere la pubblicazione nel registro delle
imprese. Da tale momento, ai sensi dell’art. 182 - bis l.fall., l’accordo
«acquista efficacia». Gli effetti in parola non possono che essere quelli c.d.
legali poc’anzi richiamati, in quanto quelli negoziali si producono, in linea
di principio, alla conclusione del negozio (234).
234
Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti,
cit. 342 secondo cui «la pubblicazione nel registro delle imprese» a cui genericamente si
riferisce l’art. 182 -bis l.fall. deve intendersi tecnicamente come iscrizione avente efficacia
costitutiva, nel senso che “costitutiva” si riferisce: «innanzitutto rispetto agli effetti legali
che produce (immediato blocco delle azioni esecutive e cautelari e del maturare di termini
prescrizionali e decadenziali; nonché poi esenzione da revocatoria degli atti compiuti in
esecuzione del piano dal momento dell’iscrizione, subordinatamente però alla sua
omologazione e, ovviamente, alla successiva apertura di una procedura fallimentare); e
quindi - come anche conviene dire, più specificamente - «normativa», in quanto quegli
effetti non costituiscono materia negoziale, non appartengono cioè al regolamento pattizio,
essendo piuttosto una conseguenza legale della iscrizione-omologazione».
137
Quanto alla modalità di introduzione del procedimento, è chiaro che
l’atto introduttivo del procedimento avrà la forma del ricorso, posto che si
devono seguire le forme del rito in camera di consiglio.
La struttura del giudizio già in questa fase presenta una particolarità: il
procedimento potrà essere indistintamente instaurato tanto per iniziativa
dell’imprenditore con il deposito del ricorso per chiedere l’omologazione,
quanto dei creditori, precisamente, i creditori opponenti, con il deposito del
ricorso contenente la richiesta di opposizione all’omologazione.
I creditori e ogni altro interessato, infatti, entro trenta giorni dalla
pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese, potranno opporsi
all’omologazione dell’accordo (235). Quindi - di regola - il debitore dovrà
iscrivere nel registro delle imprese l’accordo di ristrutturazione dei debiti e
contestualmente depositare in Tribunale il ricorso per chiederne
l’omologazione. In tal caso, il procedimento giurisdizionale prenderà avvio
per iniziativa stessa del debitore.
Tuttavia, il debitore potrebbe limitarsi a depositare l’accordo di
ristrutturazione nel registro delle imprese chiedendone l’iscrizione e
attendere il decorso dei trenta giorni - termine entro cui i creditori
potrebbero
avanzare
l’opposizione
-
per
depositare
la
richiesta
omologazione dell’accordo stesso.
In tal caso, il procedimento giurisdizionale potrebbe essere incardinato
presso il Tribunale per iniziativa di un creditore o di ogni altro interessato
235
Cfr. M. Fabiani, Diritto fallimentare, cit. 704, che interrogandosi sulla nozione di
“qualunque interessato” giunge a ritenere che: «Per ciò che concerne gli altri interessati
l’opzione del legislatore è stata (come tante volte nella legge fallimentare) quella di lasciare
campo libero alla legittimazione alla luce di una “evidenza pubblica” degli interessi che si
agitano attorno all’impresa in crisi. E tuttavia, questa massima latitudine non deve essere
enfatizzata sino a ricomprendere ogni portatore di un interesse concreto e attuale in
conformità ai principi in tema di impugnazioni civili e ciò per la semplice ma decisiva
osservazione che l’opposizione all’omologazione non è un’impugnazione (che come ben
noto è la richiesta di riesame di un provvedimento dell’autorità giudiziaria), ma la
sollecitazione rivolta al tribunale a che la richiesta di omologazione non venga accolta».
138
che, venuto a conoscenza dell’accordo tramite il registro delle imprese,
intende proporre opposizione.
7.1. - Se si accoglie la ricostruzione da ultimo prospettata occorre tuttavia
ritenere che l’opposizione non potrà proseguire finché il debitore non avrà
depositato il ricorso per l’omologazione.
Nel silenzio della legge, infatti, appare logico ritenere che la domanda di
opposizione potrà essere decisa dal Tribunale solo se il debitore avrà
avanzato la richiesta di omologazione, che - in tesi - potrebbe anche non
essere mai proposta.
Tra la domanda di omologazione e l’opposizione sussiste un rapporto
analogo a quello che intercorre nel giudizio di cognizione tra un’azione ed
un’eccezione di merito. L’opposizione, per vero, al pari di quanto avviene
nel concordato preventivo, non rappresenta uno strumento per proporre una
domanda giudiziale volta all’accertamento di un diritto soggettivo, ma
rappresenta lo strumento per veicolare questioni di fatto da sottoporre
all’attenzione del Tribunale al fine di impedire l’omologazione dell’accordo.
Secondo alcuni tra i primi commentatori del nuovo istituto, la
legittimazione all’opposizione andrebbe riconosciuta anche a coloro che
hanno aderito all’accordo di ristrutturazione, i quali potrebbero avere
interesse a dedurre vizi genetici dell’accordo (ad esempio, un vizio di
nullità, ovvero, di annullabilità del contratto) (236).
Se si ammettesse questa possibilità l’opposizione potrebbe essere decisa
dal Tribunale anche in assenza della richiesta di omologazione, in tale
ipotesi non sussiste il rapporto azione-eccezione, in quanto l’opposizione
avrebbe tutti i connotati di una vera e propria autonoma domanda giudiziale.
236
Con riferimento alla possibilità di impugnare il contenuto delle condizioni pattuite
nella separazione consensuale dei coniugi omologata dal Tribunale cfr. I. Pagni, Vizi del
consenso e annullabilità della separazione consensuale omologata: lo sfuggente rapporto
tra autonomia negoziale e controllo giudiziale, in Fam. e dir. 2005, 511, nota di commento
a Cass. 4 settembre 2004, n. 17902.
139
É pur vero che ove si volesse riconoscere agli aderenti all’accordo di
ristrutturazione la possibilità di esperire - sotto la veste di opposizione - le
impugnative negoziali delle pattuizioni, si dovrà ritenere, di conseguenza,
che il provvedimento emesso dalla Corte d’appello sarà, altresì, suscettibile
di essere impugnato tramite il ricorso ordinario in cassazione (o
straordinario).
8. - L’oggetto delle domande di omologazione e di opposizione è
costituito
unicamente
dall’accordo
di
ristrutturazione
concluso
dall’imprenditore con i suoi creditori.
Il debitore nella richiesta di omologazione dovrà allegare e provare
l’esistenza di requisiti prescritti dalla legge per la concessione del
provvedimento di omologazione. Tali requisiti sono: a) la partecipazione di
tanti creditori che rappresentino il sessanta per cento dei crediti non
adempiuti; b) l’«attuabilità» degli impegni assunti con i creditori aderenti; c)
l’«idoneità» dell’accordo a liberare risorse sufficienti per consentire il
pagamento integrale dei creditori estranei (237).
Il Tribunale per l’omologare l’accordo dovrà accertare l’esistenza dei
requisiti predetti; non dovrà accertare, invece, l’esistenza dei fatti costitutivi
delle pretese vantate dai creditori aderenti, né, men che meno, dei non
aderenti (c.d. terzi).
La cognizione e l’accertamento del Tribunale sui diritti dei creditori sarà,
in ogni caso, svolto in via incidentale e finalizzato al riscontro della
condizione richiesta per l’emissione del provvedimento di omologazione
dell’accordo di ristrutturazione. Per tale ragione, al provvedimento di
omologazione non può ricollegarsi alcun «accertamento» idoneo ad
237
Cfr. Trib. Milano, decr. 10 novembre 2009, in Foro it. I, 2010, 297; Trib. Roma, 5
novembre 2009, in Corr. giur. 2010, 241; App. Firenze, 4 settembre 2007, in Dir. fall.
2008, II, 297; Trib. Roma, 16 ottobre 2006, in Fall. 2007, 187 con nota di C. Proto, Accordi
di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella crisi di impresa e ruolo del
giudice.
140
acquisire l’efficacia di giudicato sostanziale sui fatti costitutivi dei diritti dei
creditori.
L’accertamento contenuto nel decreto di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione, inoltre, non può acquisire l’efficacia di giudicato
sostanziale, in quanto il procedimento non presenta le condizioni affinché il
provvedimento conclusivo sia suscettibile di acquisire l’efficacia di
giudicato formale (ex ex art. 324 c.p.c.) (238).
L’opponente, dal canto suo, dovrà allegare e provare che non sussistono
le condizioni per concedere l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione
dei debiti. In altri termini ed in buona sostanza, il creditore opponente
nell’accordo di ristrutturazione richiederà l’accertamento negativo degli
stessi requisiti che vengono affermati esistenti dal debitore nella richiesta di
omologazione.
Più precisamente, l’opponente dovrà allegare e provare che gli impegni
assunti dai contraenti non sono attuabili e che l’esecuzione dell’accordo non
garantisce l’adempimento delle obbligazioni dei c.d. «terzi-creditori».
L’oggetto del giudizio di omologazione resta, pertanto, sempre ancorato
all’accordo concluso tra l’imprenditore e i suoi creditori, anche in presenza
delle opposizioni.
Il giudizio di omologazione, quindi, alla luce delle considerazioni che
precedono sulla struttura e sull’oggetto non può che essere annoverato
238
Cfr. A. Cerino – Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 450, il quale a proposito del
procedimento camerale osserva che: «il regime di ridotta impugnabilità, del decreto
costituisce un sicuro elemento distintivo dello schema camerale, almeno nell’ambito in cui
opera. La previsione di un rimedio, pur con tutti i suoi limiti, discrimina lo schema descritto
dall’art. 737 ss nella multiforme congerie dei procedimenti speciali, ove normalmente
difetta la concessione di un gravame oppure la tutela avverso il provvedimento si snoda
nelle forme del processo ordinario. D’altra parte, la differenza con questo processo è netta
proprio nella disciplina dell’impugnazione e comporta, in via di immediata implicazione,
l’irriferibilità del decreto camerale al combinato disposto degli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c.
Alla luce di queste norme il provvedimento suscettibile di mero reclamo non fa giudicato:
come del resto la concezione più classica del tema qui studiato ha sempre insegnato con
ferma convinzione»; così anche: A. Proto - Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex
art. 737 ss codice procedura civile (Appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla
gestione di interessi al giudice), cit. 419 ss.
141
nell’ambito della c.d. «giurisdizione volontaria», in particolare, nell’alveo
della categoria dei c.d. «controlli preventivi di legittimità» (239).
9. - «Controllo preventivo di legittimità» non significa che il Tribunale
deve limitarsi a una mero riscontro della regolarità formale della procedura
e della documentazione prodotta.
Di certo, nel giudizio di omologazione il Tribunale non è tenuto ad
effettuare un controllo di opportunità dell’accordo (e neppure le parti
possono richiederlo), come può avvenire invece nelle ipotesi in cui la
disciplina del procedimento in camera di consiglio è impiegata per l’attività
di gestione degli interessi (ad esempio: di minori, di incapaci, di società)
equivalente al c.d. merito della potestà amministrativa o dei poteri privati
(240).
Il Tribunale, invece, deve verificare soltanto se sussistono le condizioni
per concedere l’omologazione e, quindi, concedere alle parti dell’accordo la
possibilità di beneficiare della sottrazione degli atti esecutivi dell’accordo di
ristrutturazione dei debiti dall’azione revocatoria fallimentare.
Tali condizioni sono: a) l’attuabilità degli impegni assunti; b) l’idoneità a
garantire il regolare pagamento dei c.d. «terzi-creditori».
I c.d. «terzi-creditori» non sono formalmente parti dell’accordo di
ristrutturazione, ma l’accordo dovrà contemplare anch’essi quali beneficiari
degli effetti favorevoli derivanti dall’esecuzione del negozio sulla crisi
d’impresa (241). Tali effetti non devono consistere in un semplice ed
eventuale «effetto indiretto» conseguente alla fase esecutiva, ma devono
integrare un elemento della causa negoziale dell’accordo di ristrutturazione.
239
Sulla natura di giurisdizione volontaria (perché costituzionalmente non necessaria)
dei controlli preventivi di legittimità e sul significato che ha l’applicazione ad essi della
procedura camerale: v. A. Proto - Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737
ss codice procedura civile (Appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di
interessi al giudice), cit. 393 ss.
240
Cfr. A. Proto - Pisani, op. loc. ult. cit.
241
Cfr. Trib. Roma, 16 ottobre 2006, in Fall. 2007, 187.
142
L’effetto in questione è assunto dalla legge come vera e propria condizione
per l’omologazione dell’accordo e deve esprimersi in termini di garanzia
dell’integrale pagamento del credito vantato dai c.d. «terzi-creditori» (242).
Tale garanzia può essere ottenuta mediante l’incremento delle risorse
economiche disponibili dall’imprenditore, che si originano per via delle
rinunce
(i.e.
ristrutturazioni)
compiute
dagli
altri
creditori.
La
ristrutturazione dei debiti invero dovrebbe dar luogo a una sopravvenienza
economica (243).
La sopravvenienza economica può avere origine per via dell’effetto di
risparmio di spesa, il quale produce un incremento della garanzia
patrimoniale del debitore a favore dei terzi creditori estranei all’accordo, i
quali possono vedersi aumentare le chance di realizzo dell’intero credito
vantato (244).
Inoltre, nel valutare la sussistenza della predetta garanzia il Tribunale
potrebbe tenere conto eventualmente della c.d. nuova finanza che, ai sensi
dell’art. 182 - quater l. fall., deve essere dichiarata nel ricorso per
242
Tale conclusione appare ancor più sostenibile alla luce delle recenti modifiche
introdotte dall’ art. 33, comma 1, lett. e), n.1) del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito
con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 che ha introdotto nel primo comma
dell’art. 182 - bis l. fall. la condizione che l’accordo di ristrutturazione dei debiti deve
«assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini: a)
entro centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b)
entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data
dell’omologazione».
243
L’art. 55, comma 4, DPR 917/86 (Testo unico delle imposte sui redditi), prevede che
non si considera sopravvenienza attiva la riduzione dei debiti dell’impresa in sede di
concordato preventivo. Si tratta, però, di una agevolazione ai soli fini fiscali, in quanto dal
punto di vista economico l’effetto revisori produce comunque un risparmio di spesa e un
aumento di ricchezza. Tant’è che, non essendo ancora prevista analoga disposizione
esimente per l’accordo di ristrutturazione dei debiti, l’effetto revisori è oggetto di tassazione
da parte dell’agenzia delle entrate.
244
Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti,
cit. 350, secondo cui l’accordo di ristrutturazione dei debiti costituisce: «Un contratto [...] la
cui causa si lascia individuare nel rafforzamento del credito altrui (ma in fondo poi almeno negli auspici - anche dello stesso credito dei creditori stipulanti, commisurando il
valore di realizzo di tale credito attraverso l’accordo, con quello altrimenti ottenibile in sede
fallimentare; ché altrimenti - se anche per i creditori stipulanti un vantaggio, almeno
auspicato, non vi fosse - dovrebbe arrivare a parlarsi addirittura di contratto senza causa
ovvero a titolo gratuito».
143
l’omologazione se si vuole far beneficiare il finanziatore della c.d.
prededucibilità nell’ipotesi di successiva conversione in fallimento.
L’accertamento delle condizioni prescritte ex lege per la concessione del
provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, al pari di
quanto accade nel concordato preventivo, integra, quindi, un giudizio
prognostico e di fatto.
Tuttavia, non si può reputare sufficiente che l’accordo di ristrutturazione
appaia ex ante attuabile, in quanto ai fini del giudizio di meritevolezza di
tutela degli interessi perseguiti mediante gli atti esecutivi dell’accordo di
ristrutturazione deve ritenersi imprescindibile che tale attuabilità sia
riscontrabile ex post e in concreto.
La fase di attuazione degli accordi di ristrutturazione rappresenta un
aspetto piuttosto rilevante a causa dell’elevato tasso di esternalità negative
che l’accordo è in grado di produrre sulla garanzia patrimoniale del debitore
(245).
La disposizione dell’art. 182 - bis l.fall. si disinteressa però di
regolamentare le sopravvenienze fattuali che potrebbero sorgere dopo che
l’accordo sia stato omologato. In particolare, non risulta disciplinata
l’ipotesi - certamente pronosticabile - in cui l’accordo, da un certo momento
in poi, risulti non più attuabile, ovvero, che sebbene ancora eseguibile, non
garantisca più la possibilità di adempiere integralmente i c.d. terzi-creditori.
Il legislatore ha omesso di disciplinare gli strumenti di tutela per l’ipotesi in
cui ex post (i.e. a seguito della sopravvenuta dichiarazione di fallimento)
emerga, ad esempio, che ab origine non sussistevano le condizioni per la
concessione del provvedimento di omologazione, ovvero, per l’ipotesi di
sopravvenienza di fatti tali da rendere l’accordo non più attuabile e, quindi,
inidoneo a garantire l’integrale adempimento dei c.d.«terzi-creditori».
245
Cfr. G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa e tit. credito,
2006, 27; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” ( o di
ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 300;
144
É dunque compito dell’interprete indagare quali sono i rimedi spendibili
dai c.d. «terzi-creditori» contro le c.d. «esternalità negative» abusivamente
prodotte nella fase esecutiva.
10. - Il decreto emesso dal Tribunale può essere reclamato avanti la
Corte d’appello entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro
delle imprese. Non è prevista, invece, la possibilità di proporre avverso il
decreto emesso dalla Corte d’appello il ricorso in cassazione, che del resto
non è contemplata neppure, come si è visto, per il concordato preventivo.
Come per il concordato preventivo, anche in riferimento all’accordo di
ristrutturazione dei debiti la possibilità di proporre il ricorso in cassazione
riceve soluzioni opposte a seconda che si privilegi o meno la natura non
decisoria dell’omologazione.
Così, da un verso, al pari di ipotesi analoghe - quali il decreto che
attribuisce efficacia alla separazione personale concordata tra i coniugi - il
giudizio di omologazione dell’accordo di ristrutturazione si può considerare
un procedimento giurisdizionale nell’ambito del quale non si accertano
diritti soggettivi e la cui struttura non presenti le condizioni sistematiche per
ricollegare al provvedimento finale l’efficacia del giudicato formale.
Oppure, dall’altro verso, si può ritenere che, sebbene il provvedimento di
omologazione non incida sui diritti soggettivi dei creditori coinvolti,
consentire che la decisione sia suscettibile di essere rimessa in discussione si
scontra con il fatto che la soluzione negoziata della crisi esplica effetto
verso un elevato numero di soggetti (246).
Quest’ultima soluzione incontra però un limite: la stabilità del
provvedimento di omologazione può essere travolta se si ammettono le
246
Vi è, infatti, chi propone di accogliere l’idea di un provvedimento avente natura
omologatoria e tuttavia stabile, diversamente da quel che avviene nella materia della
separazione consensuale dei coniugi, in questo senso sembrerebbe esprimersi I. Pagni,
Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei
debiti: analogie e differenze, cit. 609.
145
impugnative negoziali da parte di ciascun creditore; l’accordo potrebbe
essere impugnato oltre che per «vizi funzionali», legati all’inattuazione
degli accordi, anche per «vizi genetici» del singolo contratto.
All’orizzonte dell’interprete si prospettano, allora, due strade.
Se si ritiene ammissibile la proponibilità del ricorso in cassazione si
privilegerebbe l’esigenza di stabilità del provvedimento giurisdizionale; ma
così opinando occorrerebbe considerare assorbite le azioni negoziali di
nullità e di annullamento nella previsione del ricorso in cassazione, perché,
se così non fosse, sarebbe inutile invocare l’art. 111 Cost. per conferire
stabilità all’accordo (247).
Se, invece, come pare preferibile, contro l’accordo si ritengono
ammissibili le azioni negoziali, sia per vizi funzionali (ad esempio, l’azione
di risoluzione ex art. 1453 c.c.), sia per vizi genetici (ad esempio, l’azione di
nullità/annullamento ex art. 1418 c.c e 1427 c.c.), allora, non sussistono
ostacoli a conservare l’operatività dell’istituto della revoca ex art. 737 c.p.c.
in luogo dell’intervento del giudice di legittimità.
Sugli strumenti di tutela utilizzabili dai creditori, in particolare dai c.d.
«terzi-creditori» non aderenti all’accordo che ritengano di essere lesi dalle
«esternalità negative» prodotte durante la fase esecutiva dell’accordo di
ristrutturazione (quindi, per via di una abuso dello strumento in esame),
saranno approfondite nel proseguo dell’indagine.
247
Cfr. I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di
ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, cit. 609.
146
CAPITOLO III
LA TUTELA DEI TERZI NELLA FASE ESECUTIVA.
SOMMARIO: SEZIONE I. - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI DIRETTI: LE
AZIONI NEGOZIALI. - 1. Premessa metodologica e traiettoria
dell’indagine. - 2. L’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa: il
coordinamento tra le disposizioni e la ricostruzione in chiave sistematica
della relativa disciplina. - 2.1. Il ruolo degli organi della procedura: il
coordinamento delle disposizioni. - 2.2. Il potere di segnalazione del
commissario giudiziale: la spia di un etero tutela per i creditori - 3.
L’autotutela delle parti. I vizi funzionali del negozio sulla crisi
d’impresa: l’inadempimento e l’azione di risoluzione. - 3.1. I vizi
genetici del negozio sulla crisi d’impresa: il dolo e l’azione di
annullamento. - 4. Gli effetti sostanziali della risoluzione e
dell’annullamento. - 5. Il procedimento e la richiesta di fallimento: gli
effetti riflessi. Cenni e rinvio. - SEZIONE II. - LA CONTESTAZIONE DEGLI
EFFETTI RIFLESSI: L’INDIVIDUAZIONE DEL RIMEDIO - 6. La deroga alla
ripartizione del ricavato nell’eguale proporzione e nell’uguale
condizione tra i creditori: gli effetti riflessi e la loro giustificazione
sistematica. - 6.1. L’assenza di un controllo preventivo sugli atti
esecutivi e il problema del vantaggio informativo durante la fase
esecutiva delle soluzioni negoziate: il possibile abuso degli effetti
riflessi. - 7. Le conseguenze dell’abuso: il pregiudizio per i c.d. «terzi creditori» della fase esecutiva. - 8. La tutela dei c.d. «terzi - creditori»
della fase esecutiva: la necessità di un preventivo giudizio sulla
meritevolezza di protezione degli atti esecutivi. - 9. L’oggetto del
giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi: le
sopravvenienze fattuali nell’ottica degli effetti riflessi. 9.1- L’incapacità
del piano a risolvere la crisi: l’impossibilità di giungere ad una
risoluzione anticipata a tutela dell’interesse dei creditori. - 10 La
struttura del giudizio: l’ammissibilità del revoca del decreto di
omologazione. - 10.1 I motivi che potrebbero condurre alla revoca del
decreto di omologazione: il difetto funzionale del negozio - 10.2 La
legittimazione ad agire del curatore fallimentare: la riaffermazione della
possibilità giuridica di agire con l’azione revocatoria e la limitata
efficacia del rimedio.
SEZIONE I
LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI DIRETTI: LE AZIONI NEGOZIALI
147
1. - La fase esecutiva del concordato preventivo è stata riformata dal D.
Lgs. 12 settembre 2007, 169 - c.d «decreto correttivo» - cercando di
coordinare le disposizioni originarie con la nuova impostazione c.d.
«privatistica» della procedura.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti non prevede invece alcuna
disciplina della fase esecutiva, pertanto, alla luce della natura negoziale di
tale istituto, la predisposizione di una eventuale disciplina ad hoc sarà
rimessa integralmente all’autonomia delle parti.
Occorre, tuttavia, soffermarsi compiutamente sulla disciplina della fase
esecutiva, delle soluzioni negoziali, al fine di definire le modalità con cui
può avvenire la produzione degli effetti diretti e riflessi. Tale indagine mira,
segnatamente, ad individuare quali sono (o potrebbero essere, se non
previsti) i rimedi utilizzabili per tutelare le situazioni giuridiche soggettive
dei creditori, illegittimamente lesi durante l’esecuzione della soluzione
negoziale.
La problematica in questione attiene tanto al concordato preventivo,
quanto all’accordo di ristrutturazione dei debiti, ragion per cui, il profilo in
questione verrà affrontato in parallelo tra i due istituti.
2.- La fase esecutiva delle soluzioni negoziali prende avvio a seguito
dell’emissione del provvedimento di omologazione (248).
Il provvedimento di omologazione del concordato preventivo è
provvisoriamente esecutivo e dev’essere pubblicato nel registro delle
imprese; il provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione
248
R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2354; M. Macchia,
L’esecuzione del concordato preventivo, in Fall. 1992, 297; A. Bonsignori, Del
concordato, in V. Scialoja - G. Branca, Commentario alla legge fallimentare, Bologna Roma, 1977, 498; P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano,
2008, 887; Cass. 17 novembre 1965, n. 2380, in Rep. Foro it. 1965 609; Cass. 27 aprile
1978, n. 6083, in Rep. Foro it. 1978, 1992; App. Firenze, 7 dicembre 1966, in Dir. fall.
1967, II, 644; contro Trib. Macerata, 1 giugno 1976, in Riv. it. prev. soc. 1977, 122; Trib.
Parma, 26 settembre 1964, in Dir. fall. 1964, II, 463.
148
dei debiti, invece, non risulta beneficiare della provvisoria esecutorietà, per
cui la fase esecutiva potrà avviarsi solo dopo che siano decorsi i termini per
proporre reclamo, ovvero, dopo che si sia svolto il relativo giudizio avanti la
Corte d’appello (249).
Il decreto di omologazione segna, pertanto, la chiusura del procedimento
di omologazione e l’inizio dell’attività esecutiva del negozio sulla crisi
d’impresa.
Dal punto di vista sostanziale, il provvedimento in parola produce: a) la
modifica delle obbligazioni in conformità a quanto previsto nel negozio
sulla crisi d’impresa (250); b) consente al debitore di riacquistare la
disponibilità del proprio patrimonio, se il piano posto a base della
ristrutturazione sia stato predisposto in una forma diversa dalla cessione dei
beni o con una cessione soltanto parziale dei beni stessi ( 251); c) consente al
debitore, nelle ipotesi in cui il piano preveda la prosecuzione dell’attività
d’impresa, di gestire l’azienda senza il controllo dell’organo di vigilanza
249
G. U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 569; P.
Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 887; L.
Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 329; A. Maffei-Alberti, Commentario
breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, V. Zanichelli, Concordati giudiziali, Torino,
Padova, 2010, 309.
250
P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. 885, secondo cui:
«La diversa tipologia che ora la proposta di concordato può assumere, con particolare
riferimento proprio alle ipotesi nelle quali non venga specificata la percentuale di
soddisfazione assicurata od addirittura non venga proprio prevista una soddisfazione in
termini monetari, ma con mezzi alternativi, contemplati dalla norma, ha posto delle
problematiche non di scarso momento in relazione alla posizione dei fideiussori e dei
coobbligati per la difficoltà di commisurare il debito pagato e quello residuo al termine del
concordato»; F. Audino, Commento sub art. 184 l. fall. in A. Maffei-Alberti, Commentario
breve alla legge fallimentare, Padova, 2000, 736; A. Bonsignori, Del concordato, cit. 468.
251
V. però Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345, in Fall. 2011, 533 secondo cui ove in deroga
all’art. 182 l. fall. nella proposta di concordato preventivo approvata dai creditori ed
omologata
sia
stato
attribuito
direttamente
al
debitore
(nella
specie
amministratore/liquidatore) un ampio potere discrezionale sulle modalità esecutive da
adottare, senza nomina del liquidatore giudiziario e senza imposizione di regole alle quali è
necessario conformarsi, il tribunale non può stabilire ulteriori modalità ad integrazione di
quanto previsto e, in particolare, quelle concernenti l’autorizzazione del giudice delegato
degli atti di straordinaria amministrazione e la nomina da parte di quest’ultimo organo dei
coadiutori e professionisti.
149
(i.e. il commissario giudiziale) e senza il condizionamento degli atti di
amministrazione straordinaria all’autorizzazione del giudice delegato (252).
Va, innanzitutto, osservato che alla fase esecutiva del concordato
preventivo è dedicata soltanto un’unica disposizione: l’art. 185 l.fall. (253).
Il d.l. n. 35 del 2005 aveva modificato soltanto alcune disposizioni del
concordato preventivo, lasciando inalterate proprio quelle riguardanti la fase
esecutiva. Per tale ragione, si era posto il problema di comprendere se ed in
che termini le norme contenute nell’art. 185 l.fall. fossero compatibili con la
nuove disposizioni che accentuavano il carattere negoziale impresso al
concordato preventivo (254). Successivamente con il c.d. «decreto
correttivo» - d. lgs. 169 del 2007 - il legislatore ha modificato la disciplina
di rimedi (la risoluzione e l’annullamento del concordato) cercando di
eliminare le incongruenze determinate dalla frettolosa riforma del marzo del
2005 lasciando, tuttavia, invariata la disposizione dell’art. 185 l.fall.
L’art. 185 l.fall. continua, infatti, a riportare la dicitura di «sentenza» per
indicare la forma del provvedimento di omologazione, in luogo dell’attuale
forma prescritta del «decreto motivato» e continua, altresì, ad operare un
richiamo all’art. 136, 2° comma, l. fall. creando così una incompatibilità tra
252
L’art. 33, comma 1, lett. h), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con
modificazioni nella l. 7 agosto 2012, n. 134 ha introdotto il nuovo art. 186 - bis che
disciplina il concordato preventivo con prosecuzione di attività. Si noti in particolare
l’ultimo comma della nuova disposizione che introduce un penetrante controllo ad opera
del Tribunale nella fase esecutiva: «Se nel corso della procedura iniziata ai sensi del
presente articolo l’esercizio dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannoso
per i creditori, il tribunale provvede ai sensi dell’art. 173 l. fall. Resta salva la facoltà del
debitore di modificare la proposta di concordato».
253
P. Giammaria, Commento art. 185, in C. Cavallini, (diretto da) Commentario alla
legge fallimentare, Milano, 2010, 873; M. Vitiello, Commento all’art. 185, in G. Lo
Cascio, (diretto da) Codice commentato del fallimento, 2008, 1658; T. E. Cassandro,
L’esecuzione del concordato preventivo, in U. Apice (diretto da), Trattato di diritto
fallimentare, III, 406; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011, 647.
254
P. Marano, Sub art. 185 l. fall. in A. Jorio - M. Fabiani, (diretto e coordinato da), Il
nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, 2601; G. Rago, L’esecuzione del concordato
preventivo, in Fall. 2006, 1098; M. R. Grossi, La riforma della legge fallimentare, Torino,
2005, 358.
150
la disposizione in esame con quella introdotta al penultimo comma dell’art.
180 l.fall.
Appare, dunque, evidente la necessità di compiere uno sforzo sinteticoricostruttivo della disciplina della fase esecutiva, al fine di coordinare le
scarne disposizioni dettate in materia di esecuzione alla luce della nuova
impostazione assunta dall’istituto concordatario.
Tale attività ermeneutica dev’essere compiuta tenendo in considerazione
due distinti profili Il primo, come ovvio, è quello dell’accentuazione della
natura contrattuale impressa all’istituto del concordato. Al debitore, infatti, è
stata accordata la possibilità di costruire il piano di ristrutturazione
svincolandosi dalle tradizionali soluzioni della cessio bonorum e del
concordato c.d. per garanzia (255). Il secondo, invece, attiene alla disciplina
della fase esecutiva, che è definita, in realtà, tramite una costellazione di
disposizioni, quali: a) la disposizione nell’art. 185 l.fall., espressamente
dedicata all’esecuzione del concordato; b) alcune norme contenute nell’art.
181 l.fall; c) le disposizioni contenute nell’art. 182 l.fall. relative ai casi in
cui l’esecuzione si svolga nell’ambito di un concordato per cessione dei
beni; d) quelle contenute nell’art. 186 l.fall. che regolano la particolare
azione di risoluzione e annullamento del concordato; e) la nuova disciplina
del concordato con prosecuzione dell’attività ex art. 186 - bis l.fall.
Alla luce di quanto precede, occorre preliminarmente definire le
prerogative degli organi della procedura (Tribunale e commissario
giudiziale) in conformità al principio dell’autonomia contrattuale che
governa il nuovo concordato (256).
255
P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. 887; S. Pacchi,
L’omologazione. La risoluzione e l’annullamento. La chiusura del concordato preventivo,
in S. Pacchi (a cura di), Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 252.
256
S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
Padova, 2008, 150; F. S. Filocamo, Commento art. 185 l. fall. in M. Ferro, (a cura di), La
legge fallimentare, Padova, 2007; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011,
653.
151
In particolare, le funzioni del Tribunale e del commissario giudiziale
devono essere definite alla luce: a) del principio dell’atipicità che governa il
contenuto del piano concordatario; b) dell’abrogazione della norma
contenuta nell’art. 181, comma 3°, nella sua formulazione anteriore alla
riforma (257); c) dell’attribuzione della legittimazione ad agire per la
risoluzione del concordato esclusivamente al singolo creditore rimasto
insoddisfatto, o parzialmente insoddisfatto (art. 186 l. fall.).
Le disposizioni appena richiamate permettono di ricavare un primo dato
rilevante: l’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa non contempla una
ingerenza attiva da parte di organi esterni all’imprenditore.
Dopo l’emissione del decreto di omologazione il debitore riacquista il
potere di gestire - senza alcun vincolo - l’impresa e può provvedere
direttamente alla fase esecutiva e adempiere agli impegni assunti nella
proposta concordataria. Ciò potrebbe accadere, in realtà, anche nel caso in
cui la proposta prevedesse la cessione dei beni ai creditori (258).
257
Si trattava dell’unica disposizione che, consentendo al Tribunale di determinare le
modalità di versamento delle somme dovute in esecuzione del concordato, prevedeva
l’ingerenza attiva dell’organo giurisdizionale nell’esecuzione del concordato per garanzia.
258
Sotto il vigore della disciplina originaria del ’42 si è cercato di accostare la disciplina
della cessione dei beni del concordato preventivo alla cessio bonorum di cui all’art. 1977
c.c. ma la specifica fisionomia dell’istituto concorsuale impediva però di giungere ad una
automatica estensione delle regole civilistiche, cfr. F. Ferrara - A. Brogiotti, Il fallimento,
Milano, 1995, 210; E. Frascaroli - Santi, Il concordato preventivo, in L. Panzani (diretto
da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Padova, 2000, 199; G. Rago,
L’esecuzione del concordato preventivo, Padova, 1996, 97; Id. L’esecuzione del
concordato preventivo, in Fall. 2006, 1094; per una completa analisi sulla natura giuridica
della cessione concordataria cfr. A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in
Commentario Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1979, 64 e ss in cui vengono prospettati i
diversi tentativi di ricondurre la cessione dei beni concordataria alla figura del mandato, al
negozio satisfattorio, al pactum de non petendo ; v. anche: U. Azzolina, Il fallimento e le
altre procedure concorsuali, Torino, 1961, 1590 secondo cui la cessione dei beni operava
di una datio in solutum in favore dei creditori pro solendo o pro soluto con liberazione del
debitore; alla riconduzione della cessione concordataria in un trasferimento della proprietà
dei beni del debitore ai creditori si era replicato che tale eventualità non potesse realizzarsi,
in quanto il decreto di omologazione non opera, in realtà, nessun trasferimento di proprietà
a favore dei creditori, nei quali permane soltanto l’aspettativa di ottenere il pagamento di
una percentuale, così A. Patti, La legittimazione processuale del debitore nel concordato
preventivo con cessione dei beni tra titolarità (mantenuta) e disponibilità (trasferita del
patrimonio), in Fall. 2001, 781. La giurisprudenza, dal canto suo, si era orientata per una
152
La disposizione dell’art. 182 l. fall. - alla luce della mutata cornice di
riferimento - potrebbe assumere un ruolo lato senso sussidiario e, quindi,
trovare applicazione solo nel caso in cui il debitore ometta di disciplinare
interamente nella sua proposta concordataria la fase esecutiva (259).
qualificazione giuridica della cessione dei beni del concordato preventivo nell’ambito della
cessione dei beni civilistica, ai sensi degli artt. 1977 e ss c.c. affermando che sia nel caso in
cui al debitore spetti l’eventuale sopravanzo (pro solvendo), sia nel caso in cui fosse
riconosciuto il diritto dei creditori all’eventuale ricavo superiore alla percentuale offerta
(pro soluto), non sarebbe stato configurabile un trasferimento della proprietà dei beni ceduti
con immediata liberazione del debitore; secondo la giurisprudenza nel decreto di
omologazione occorreva ravvisare il conferimento agli organi della procedura concordataria
di una legittimazione a disporre dei beni, identificando tale conferimento in un mandato
irrevocabile, perché rilasciato anche nell’interesse dei terzi, a gestire e liquidare il
patrimonio, con liberazione del debitore, ai sensi dell’art. 1984 c.c., allorché i creditori
avessero conseguito con il ricavato della liquidazione le somme loro spettante, così: Trib.
Modena, 27 luglio 1990, in Giur. comm. 1992, II, 126; Cass. 18 dicembre 1991, n. 13626,
in Fall. 1992, 470; Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Fall. 1993, 807; Cass. 13 aprile 2005,
n. 7661, in Fall. 2005, 1435.
259
Cfr. Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345, in Fall. 2011, 533; in dottrina: M. Fabiani,
Concordato preventivo per cessione dei beni e predeterminazione delle modalità della
liquidazione, in Fall. 2010, 593, nota a Trib. Lodi 1° marzo 2010. Già nella vigenza della
precedente disciplina si riteneva che il Tribunale poteva soltanto scegliere se omologare il
concordato, ovvero, rigettare la richiesta di omologazione, ma non poteva per certo
modificare la proposta, in questo senso: A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in
Commentario Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1977, 335; R. Provinciali, Trattato di
diritto fallimentare, Milano, 1974, 1894; in giurisprudenza: Cass. 12 giugno 1964, n. 1492,
in Dir. fall. 1964, II, 149, la quale ha affermato che a motivo dell’opportunità di evitare
ingerenze nella sfera di autonomia dei privati resta giustificato il divieto di modificazioni
giudiziali della proposta. Inoltre, nel caso in cui la sentenza avesse omesso di citare talune
clausole contenute nella proposta, vi era chi riteneva che tali clausole fossero comunque
efficaci, in quanto, essendo la sentenza di accoglimento, essa non poteva che concernere
l’intero novero delle clausole proposte dal debitore, così A. Bonsignori, Il fallimento, in F.
Galgano (diretto da), Trattato diritto commerciale e diritto pubblico, IX, Padova, 1986,
845; in giurisprudenza cfr. Cass. 28 marzo 1983, n. 2213 in Fall. 1983, 1037; contra R.
Provinciali, op. cit. 1895, che riteneva che in tal caso le clausole non riscritte fossero da
ritenersi escluse o abbandonate. In senso parzialmente difforme si riteneva che il Tribunale
potesse inserire precisazioni idonee a ricondurre il concordato nell’orbita della legge, senza
alterare la volontà delle parti e che, comunque, la sentenza di omologa, sovrapponendosi
agli accordi delle parti, fosse vincolante anche se difforme dalla proposta, così: S. Satta,
Diritto fallimentare, Padova, 1996, 413; in giurisprudenza, con riferimento al concordato
fallimentare: App. Torino, 26 maggio 1999, in Giur. mer. 2001, 679 secondo cui con la
sentenza di omologazione, in quanto decisione «a contenuto vincolato», il tribunale non
può apportare modifiche o aggiunte alla proposta di concordato, se non quelle destinate a
ricondurre la stessa nell’orbita della legge. Il carattere c.d. vincolante della sentenza
secondo alcuni avrebbe consentito l’esperibilità del rimedio di correzione materiale di cui
all’art. 287 c.p.c. limitato però alle sole ipotesi in cui la difformità fra sentenza di
omologazione e proposta fosse dovuta ad un mero errore materiale o di calcolo; qualora, al
contrario, la difformità fosse sostanziale, si riteneva che fosse necessario proporre appello
153
Per cui, ove l’imprenditore abbia dettagliatamente previsto nel piano di
concordato
le
modalità
della
liquidazione,
la
disciplina
ideata
dall’imprenditore potrebbe prevale rispetto a quella del nuovo testo dell’art.
182 l.fall. (260)
L’autonomia del debitore non potrà però arrivare fino al punto di
escludere la sorveglianza del commissario giudiziale e la possibilità per
perché il vizio della sentenza era sintomatico del fatto che il tribunale non avesse
esattamente vagliato la domanda del debitore, così: A. Bonsignori, Il fallimento, cit. 845, in
conformità con quanto sostenuto dall’Autore in tema di immodificabilità della proposta.
260
Nella vigenza della precedente disciplina vi erano contrastanti orientamenti tra la
dottrina e la giurisprudenza. Nella dottrina vi era chi riteneva prevalente gli aspetti
pubblicistici e, di conseguenza, accomunava la figura del liquidatore giudiziale al curatore,
e chi, al contrario, escludeva la possibilità di accostare la fase della liquidazione
concordataria a quella fallimentare, cfr. per una ampia disamina G. Lo Cascio, Il
concordato preventivo, Milano, 2008, 805 e ss; nella giurisprudenza, invece, era nettamente
prevalente l’opinione per la quale il concordato con cessione dei beni dovesse essere
ricondotto all’istituto privatistico disciplinato dall’art. 1977 e ss c.c., così: Cass. 13 aprile
2005, n. 7661, in Fall. 2005, 1435; Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, ivi, 1993, 807; Cass. 18
dicembre 1991, n. 13626, ivi, 1992, 470; contra Trib. Milano 10 luglio 1987, in Fall. 1988,
247 secondo cui il richiamo alle norme dettate dagli artt. 1977 ss c.c. non poteva comunque
snaturare la natura pubblicistica della cessione dei beni, caratterizzata da un intervento
diretto degli organi della procedura. Con il decreto correttivo del 2007 il legislatore ha
profondamente mutato il quadro normativo di riferimento, equiparando la figura del
liquidatore giudiziale a quella del curatore attraverso il richiamo espresso agli artt. 28, 29,
37, 38, 39 e 116 l. fall. Nella relazione accompagnatoria al D. Lgs. n. 169/2007, con
riferimento alle modalità di liquidazione, si legge che con decreto correttivo si è voluto
«dettare una più completa e razionale disciplina della liquidazione dei beni ceduti ai
creditori, oggi rimessa alla discrezionalità del liquidatore e alle modalità non meglio
individuate che dovrebbero essere stabilite dal tribunale allo scopo di garantire che le
operazioni liquidatorie si svolgano correttamente ed efficacemente nell’interesse dei
creditori». Il legislatore ha, quindi, voluto limitare il potere conformativo del Tribunale:
quest’ultimo quando è chiamato a dettare o comunque ad integrare le modalità della
liquidazione non è più libero di dettare discrezionalmente tali modalità, ma è vincolato
all’adozione di quelle prescritte dalla norma, sia con riferimento alla nomina degli organi
ed alle loro funzioni, sia con riferimento alle forme della liquidazione, che devono essere
conformate a quanto previsto per la liquidazione fallimentare. Tuttavia, già prima della
riforma la giurisprudenza di merito aveva ritenuto ammissibile che la liquidazione
giudiziale fosse affidata allo stesso debitore. In particolare, si era ritenuto che nel caso in
cui la proposta di concordato contemplasse l’indicazione del debitore quale soggetto
deputato alla fase liquidatoria, il tribunale non avrebbe potuto nominare una persona
diversa modificando tale clausola, potendo, semmai, negare l’emissione del provvedimento
di omologazione, in questo senso: Trib. Milano, 2 luglio 1979, in Fall. 1980, 532 con nota
di M. Lugaro, Concordato preventivo per cessione dei beni e liquidazione giudiziale ad
opera dello stesso debitore; Trib. Milano, 15 marzo 1984, in Fall. 1984, 1050; Trib. Como,
15 dicembre 1988, in Fall. 1989, 759; Trib. Milano 11 gennaio 1993, in Fall. 1993, 443;
contra Trib. Milano 4 luglio 1985, in Fall. 1986, 201.
154
quest’ultimo di sollecitare il controllo del giudice delegato (261). La
permanenza degli organi della procedura nelle loro funzioni - sebbene in via
di gestione non attiva - ma quanto meno di controllo indiretto, induce a
ritenere che il legislatore non ha voluto lasciare lo svolgimento della fase
esecutiva solo all’autonoma iniziativa del debitore. Anzi, proprio la
permanenza degli organi della procedura nella fase esecutiva induce a
ritenere che tale fase presenti ancora una forte connotazione pubblicistica,
sebbene il carattere in parola sia attualmente configurabile in una forma
notevolmente più attenuata (262).
Quanto all’accordo di ristrutturazione, invece, anche dopo il c.d. decreto
«correttivo» la disciplina positiva continua a tacere in ordine agli aspetti
relativi alla fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione. La dottrina si è
261
Anche dopo la riforma è possibile però riconoscere una natura altamente
«pubblicistica» alla fase di liquidazione del concordato con cessione dei beni, infatti,
secondo parte della dottrina, nel caso di indicazione proveniente dal debitore della persona
che dovrà svolgere le mansioni di liquidatore «costui non potrà definirsi liquidatore
giudiziale, proprio perché la nomina non profanerà dal Tribunale, egli sarà,
ragionevolmente un mandatario del debitore, ove non coincida con quest’ultimo», così A.
Paluchowski, Sub art. 182, in P. Pajardi, (a cura di M. Bocchiola - A. Paluchowski) Codice
commentato del fallimento, Milano, 2009, 1774. La giurisprudenza di legittimità ha
comunque affermato che il liquidatore, tanto di nomina giudiziale, quanto di nomina del
debitore, deve assolvere sempre ad una «funzione di tutela degli interessi dei creditori in
vista della migliore riuscita della liquidazione dei beni ceduti», così: Cass. 16 luglio 2008,
n. 19506, in Fall. 2008, 1397 con nota di commento G. Lo Cascio, Natura giuridica della
liquidazione postconcordataria; in particolare, la giurisprudenza di legittimità ha affermato
che il liquidatore deve compiere tutti quegli atti: «che il medesimo debitore non sarebbe più
ormai libero di non compiere, per finalità satisfattorie dei creditori del tutto analoghe a
quelle della procedura esecutiva fallimentare ed in un ambito di controlli pubblici del pari
destinati a garantirei raggiungimento di tale finalità», così: Cass. 16 luglio 2008, n. 19506
cit. Alla luce del quadro che precede emerge, quindi, che la fase di liquidazione dovrebbe
comunque svolgersi in un contesto procedimentalizzato, caratterizzato dal controllo
pubblico in cui potrà essere sindacato l’operato del liquidatore. Così, ad esempio, il
Tribunale, in forza del richiamo all’art. 37 l.fall. potrà revocare il liquidatore anche se
nominato dal debitore o coincidente con lo stesso. Diversamente opinando la fase esecutiva
non conoscerebbe, per vero, alcun potere di reazione dell’organo giudiziario pure ove
emerga una sostanziale incapacità dello stesso ad esercitare la propria funzione, ovvero, una
scarsa diligenza con la quale questa funzione venisse svolta. Si finirebbe, così, per
consentire che il liquidatore possa porre in essere atti esecutivi difformi dalla proposta o
dalle modalità di liquidazione indicate dal Tribunale, ovvero non proceda affatto
all’esecuzione del concordato.
262
S.Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
Padova, cit. 150.
155
sforzata di colmare questa lacuna, interrogandosi sulle forme di controllo
dell’operato dell’impresa debitrice, che senza alcuno ostacolo può procedere
in solitudine ad eseguire il piano di ristrutturazione, il quale può essere
votato tanto alla continuazione dell’attività, quanto alla liquidazione
integrale degli assett (263).
2.1 – Ciò posto, seguendo il criterio metodologico poc’anzi dichiarato,
occorre soffermarsi, in via preliminare, sulla disciplina degli organi della
procedura: Tribunale e Commissario giudiziale.
Il decreto di omologazione del concordato preventivo determina la
conclusione dell’ingerenza attiva del commissario giudiziale e del giudice
delegato nella gestione dell’impresa in crisi. Le loro funzioni, però, non si
esauriscono, ma si trasformano (264).
Entrambi gli organi continuano ad esercitare un controllo sulla condotta
del debitore e sul rispetto degli impegni assunti nella proposta di
263
Cfr. E. Rovelli, Il ruolo del trust nella composizione negoziale dell’insolvenza di cui
all’art. 182 - bis l.fall., in Fall. 2007, 597 il quale afferma che: «il piano di ristrutturazione
non necessariamente mira - come invece mira il piano di risanamento attestato - alla
prosecuzione dell’impresa, al ripristino della sua capacità di restare sul mercato, potendo,
anche la soluzione privatistica della crisi, risolversi in una completa liquidazione
dell’impresa».
264
T. E. Cassandro, L’esecuzione del concordato preventivo, cit. 409: «Le funzioni di
ingerenza attiva attribuite, fino al decreto di omologa, al commissario giudiziale ed al
giudice delegato - quanto al primo volte all’attività di vigilanza e quanto al secondo,
ancorché oggi privato del potere direttivo, ancora titolare del potere autorizzativo degli atti
di straordinaria amministrazione - cessano infatti con il deposito del decreto di
omologazione, provvisoriamente esecutivo, e si trasformano in funzioni di controllo
sull’adempimento del concordato»; A. Maffei - Alberti, Commentario breve alla legge
fallimentare, cit. 1103; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 653, per il quale: «Oggi
l’attività di vigilanza del commissario giudiziale è divenuta molto più impegnativa perché
non si tratta di sovrintendere al soddisfacimento dei creditori, secondo le modalità indicate
nella proposta o di sorvegliare l’espletamento della liquidazione giudiziale, ma di svolgere
operazioni che possono anche risultare di particolare complessità economica e giuridica.
Pertanto è anche difficile tracciare un quadro esauriente dei compiti in cui debba esplicarsi
non soltanto l’incarico del commissario e del liquidatore giudiziale, ma anche di ogni altro
mandatario al quale è attribuito l’adempimento delle modalità di esecuzione del
concordato».
156
concordato. Tale controllo è svolto nell’interesse dei creditori e, in generale,
di tutti coloro che sono interessati all’adempimento del concordato (265).
Quanto alle forme del controllo, occorre muovere innanzitutto
dall’analisi dell’art. 185 l.fall. secondo cui il Tribunale deve stabilire le
«modalità» di esecuzione e di adempimento degli impegni assunti nella
proposta.
Ora, le «modalità» a cui genericamente si riferisce l’art.185 l.fall. non
potranno, a ben vedere, riguardare l’adempimento della proposta, che in
conformità all’accentuato carattere privatistico dell’istituto concordatario
devono restare in tutto e per tutto quelle definita dal debitore (266).
265
Cfr. ult. co. art. 186- bis l. fall. in cui viene attribuito al tribunale il potere ufficioso
di attivarsi ai sensi dell’art. 173 l. fall. per interrompere la prosecuzione dell’attività
impresa qualora questi risulti «manifestamente dannosa per i creditori».
266
Già nel vigore della precedente disciplina si riteneva che il commissario giudiziale
sarebbe rimasto comunque preposto all’esclusiva sorveglianza dell’adempimento degli
obblighi assunti dal debitore, in particolare, nel caso in cui le funzioni del liquidatore
sarebbero state svolte dal debitore stesso; il liquidatore avrebbe, cioè, assunto un ufficio di
diritto privato, assimilabile a quello del tutore, svolto sotto il controllo di soggetti pubblici e
senza necessità di autorizzazione, così: G. Landolfi, Il liquidatore giudiziale nel concordato
preventivo mediante cessione dei beni, in Dir. fall. 1991, I, 911. Nella relazione al decreto
correttivo d. lgs. 169/2007 è affermato che: «l’ampliamento dell’uso degli strumenti
negoziali e la maggiore scioltezza che caratterizzano la nuova disciplina della liquidazione
dell’attivo nel fallimento inducono ad estendere tale disciplina alla fase liquidatoria del
concordato preventivo la quale allo stato è rimessa alla discrezionalità del liquidatore ed
alle modalità non meglio individuate che dovrebbero essere stabilite dal Tribunale ai sensi
dell’art. 182 l. fall.» Nel caso in cui la proposta e il piano di concordato prevedano la
regolamentazione negoziale dell’esecuzione, tale regolamentazione debba prevalere rispetto
a quella pubblicistica, tuttavia, alla luce del richiamo all’art. 28 il liquidatore del concordato
preventivo dovrebbe possedere i requisiti per la nomina a curatore fallimentare, per cui non
potrebbe coincidere con il proponente, né con lo stesso commissario giudiziale, il quale non
verrebbe ad assumere sia le funzioni di sorveglianza che gestoria della procedura, così: G.
Lo Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 537; va, però, osservato
che la giurisprudenza di legittimità Cass. sez. un. 16 luglio 2008, n. 19506 in Fall. 2008,
1394 ha affermato che la proposta di concordato preventivo si pone come alternativa a
quella fallimentare in presenza di un soggetto che riveste ugualmente la qualità di
imprenditore commerciale e versa in stato di insolvenza e che la vendita dei beni ceduti,
ove pure se ne debba occupare il debitore o un suo mandatario, si pone in un contesto
“proceduralizzato” in presenza di atti che il debitore non sarebbe in condizioni di compiere
direttamente in vista di finalità satisfattorie dei creditori, non dissimili da quelli
dell’esecuzione fallimentare e nell’ambito di controlli giurisdizionali che non potrebbero
mancare.
157
Le «modalità» in parola potranno riguardare, invece, soltanto il controllo
del commissario giudiziale durante la fase esecutiva. Il Tribunale potrebbe
imporre al debitore concordatario obblighi strettamente funzionali
all’esercizio del controllo (e, dunque, nella sostanza, di natura informativa),
mentre non potranno essere introdotti obblighi miranti ad introdurre
condizionamenti rispetto a tempi, forme e modalità dell’esecuzione (267).
Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti, invece, non è prevista alcuna
disciplina dell’attività di sorveglianza e di verifica che eventualmente
potrebbe essere compiuta durante la fase di esecuzione. Le parti
dell’accordo di ristrutturazione, tuttavia, hanno la facoltà di inserire
all’interno dell’accordo meccanismi di tutela dei creditori. Tali meccanismi
potrebbero consistere: a) nell’obbligo per il debitore di assicurare costanti
flussi informativi sull’andamento della gestione e sulla situazione
patrimoniale e finanziaria; b) nella facoltà dei creditori di avanzare in ogni
tempo richieste di informazioni e di documentazione; c) nell’eventuale
coinvolgimento di uno o più rappresentanti del ceto creditorio nell’organo di
gestione e in quello di controllo (268).
267
Cfr. App. Milano, 20 marzo 2009, in Fall. 2010, 340, con nota di G. B. Nardecchia,
La liquidazione del concordato preventivo per cessione di beni dopo il D. Lgs. 169/2007, il
quale afferma che «Nel caso in esame la Corte d’appello di Milano ha affermato la
correttezza della decisione del tribunale che, a fronte di una proposta che prevedeva
l’indicazione di un liquidatore fornito di poteri gestori non meglio specificati, ha richiamato
il liquidatore medesimo al rispetto dell’art. 185 l. fall. ed ha dettato disposizioni sul
procedimento da adottare per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione [...]
Il tribunale può limitare, ma solo in sede di omologa tale attività discrezionale con
l’imposizione di termini e vincoli (nel rispetto di quanto previsto dall’art. 182 l. fall.) la cui
osservanza è poi demandata al controllo del commissario e del giudice delegato sulla base
delle relazioni periodiche del liquidatore. In definitiva appare evidente come nel concordato
preventivo la fase della liquidazione sia ormai disciplinata in maniera profondamente
differente a seconda che si trovi di fronte ad un concordato con cessione di beni o meno
dato che in quest’ultimo ipotesi le modalità della liquidazione sono ancora interamente
rimesse alla volontà negoziale delle parti».
268
S. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in A. Jorio - M. Fabiani
(diretto da) Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni
dalla riforma, 2010, Bologna, 1166; M. Arato, Gli accordi di salvataggio o di liquidazione
dell’impresa in crisi, in Fall. 2008, 1241.
158
2.2. - L’attività di controllo svolta dal commissario giudiziale durante la
fase esecutiva del concordato preventivo risulta «qualitativamente» diversa
rispetto a quello svolta durante la fase giurisdizionale in cui avviene la
conclusione del negozio sulla crisi d’impresa (269).
Il controllo che il commissario giudiziale è chiamato a svolgere durante
la fase esecutiva va, innanzitutto, modellato sulla base del contenuto della
proposta e del piano di concordato. Il commissario giudiziale dovrà
verificare costantemente lo stato di avanzamento dell’esecuzione del piano
e, in particolare, dovrà richiedere informazioni al debitore stesso
sull’andamento della fase esecutiva.
Ma a ciò dovrà provvedere il Tribunale, in modo più o meno preciso, a
seconda delle caratteristiche del singolo caso concreto. Il commissario
giudiziale non è più chiamato a verificare se le garanzie promesse esistano
effettivamente, ovvero, se il debitore rispetti le scadenze temporali dei
pagamenti, oppure, che nel caso di concordato per cessione dei beni il
liquidatore adempia correttamente al proprio mandato.
Occorre ad ogni modo ritenere che il commissario giudiziale debba
comunque segnalare eventuali inadempimenti da parte del debitore agli
impegni assunti.
Tale dovere, diversamente da quanto accadeva prima della riforma,
dovrebbe essere esercitato in favore del creditore o dei creditori interessati
dall’inadempimento, al fine di informarli tempestivamente della possibilità
di agire per richiedere la risoluzione del concordato.
Il commissario giudiziale non può più richiedere la risoluzione del
concordato e non dovrà più riferire al giudice delegato sulle condotte del
debitore costituenti forme di inadempimento, ma dovrà informare soltanto i
singoli creditori interessati.
269
Cfr. M. Vitiello, Sub art. 185 l. fall., cit. 1659; T. E. Cassandro, L’esecuzione del
concordato preventivo, cit. 417; M. Marano, Sub art. 185 l. fall. in A. Jorio - M. Fabiani
(diretto e coordinato), Il nuovo diritto fallimentare, II, Bologna, 2006, 2605.
159
Se, infatti, il piano concordatario prevedesse una ristrutturazione dei
debiti piuttosto complessa potrebbe ragionevolmente accadere che non tutti i
creditori possano avere tempestiva contezza dell’inadempimento, anche
perché potrebbe anche non essere imputabile al debitore.
Ad esempio: i) nel piano si prevede l’adempimento delle obbligazioni
mediante l’attribuzione ai creditori di quote di una costituenda società e tale
attribuzione deve avvenire a seguito di una fusione per incorporazione, ma
l’atto di fusione non viene posto in essere alle scadenze concordate; ii)
oppure, il piano prevede che le risorse economiche per i pagamenti devono
essere reperite mediante la prosecuzione dell’attività d’impresa, ma
quest’ultima continua a generare perdite economiche.
Alla luce delle modifiche apportate all’art. 160 e dell’art. 186 l.fall., la
funzione di sorveglianza del commissario e il controllo del giudice delegato
devono ritenersi ormai mutati nella sostanza, nonostante l’immutato tenore
letterale dell’art. 185 l.fall.
Le prerogative del giudice delegato si sono senza alcun dubbio ridotte, in
quanto: a) non è più competente a ricevere le segnalazioni dei fatti di
inadempimento provenienti dal commissario; b) non può più dichiarare la
risoluzione del concordato ex officio.
Il commissario giudiziale ha assunto invece il compito di svolgere una
stringente funzione di sorveglianza sul rispetto degli obblighi assunti dal
debitore concordatario.
La funzione di sorveglianza dovrebbe consistere: a) nel vigilare
accuratamente sull’esecuzione della soluzione negoziata posta in essere dal
debitore; b) nel segnalare ai creditori tutti gli eventi che possono
compromettere la corretta esecuzione del piano concordatario, al precipuo
scopo di consentire loro, ove lo vogliano, di agire tempestivamente con
l’azione di risoluzione.
160
3.- La disciplina della risoluzione contenuta nell’art. 186 l.fall. è stata
modificata dal c.d. decreto correttivo della riforma (D. Lgs. 169/2007). Il
legislatore è intervenuto per cercare di armonizzare la disciplina del
rimedio in questione in conformità ai nuovi principi informatori dell’istituto
concordatario.
La formulazione originaria dell’art. 186 l.fall. (richiamando l’art. 135
l.fall.) prevedeva sia la legittimazione ad agire del commissario giudiziale,
che la possibilità per il Tribunale di dichiarare risolto d’ufficio il
concordato, dichiarando contestualmente il fallimento del debitore
concordatario.
La disciplina attuale, invece, attribuisce la legittimazione ad agire
esclusivamente ai
creditori, anche singolarmente considerati (270),
escludendo con ciò l’iniziativa del commissario giudiziale. La risoluzione
del concordato preventivo, inoltre, è subordinata all’accertamento
dell’«inadempimento di non scarsa importanza» (271).
270
La legittimazione spetta, altresì, anche ai creditori che siano rimasti estranei alla
procedura per non essere stati convocati all’adunanza, cfr. C. Cost. 2 aprile 2004, n. 106, in
Dir. fall. 2004, II, 679, con nota di A. Coppola, Il creditore pretermesso può richiedere il
fallimento anche se il concordato non è stato annullato; la Corte ha disatteso la questione
con una sentenza interpretativa di rigetto riconoscendo invece la sua legittimazione.
271
Cfr. G.B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, cit. 253 secondo cui
il presupposto oggettivo dell’«inadempimento», necessario al fine di ottenere la risoluzione
del concordato preventivo, non può essere definito in astratto, ma occorrerà procedere ad
una attenta verifica in concreto del piano e della proposta. La proposta può prevedere,
infatti, non soltanto una riduzione quantitativa dei crediti chirografari, am anche una
modifica qualitativa della prestazione offerta, delle modalità di adempimento diverse dal
pagamento, con la conseguenza che soltanto analizzando in concreto il singolo piano è
possibile accertare gli effetti (dilatori, remissori, modificativi) che il concordato produce sui
rapporti obbligatori. Allo stesso modo, soltanto dall’analisi della proposta è possibile
stabilire il momento in cui si determinano gli effetti sui rapporti obbligatori coinvolti nel
concordato, l’A. citato osserva: «Nell’ipotesi di concordato preventivo con garanzia che si
concretizzi in una proposta di pagamento di una percentuale fissa, da eseguirsi in n tempo
determinato, l’effetto remissorio, l’estinzione delle ragioni di credito eccedenti la quota
concordataria, è direttamente conseguente all’omologazione, o, più correttamente, alla
definitivi del decreto ex art. 180 l. fall. Nel concordato con cessione dei beni (che non
preveda l’immediato trasferimento della proprietà in capo ai creditori) l’effetto estintivo
parziale del credito potrà avvenire solo in fase esecutiva, dopo la suddivisione dell’attivo
liquidato, nei limiti solo allora accertabili, delle entità non soddisfatte». In ogni caso, la
161
Per il resto, invece, la nuova formulazione dell’art. 186 l.fall. riproduce,
in termini pressoché analoghi, la precedente disciplina: a) la risoluzione non
può essere richiesta decorso un anno dalla scadenza del termine fissato per
l’ultimo adempimento previsto dal concordato; b) la risoluzione non opera
nel caso in cui gli obblighi concordatari sono stati assunti da un terzo, con
conseguente immediata liberazione del debitore.
La disciplina della risoluzione rappresenta una disposizione cardine del
nuovo concordato, perché riafferma chiaramente il marcato carattere
«contrattuale» assunto dall’istituto concordatario (272).
Orbene, non può essere trascurato che il concordato preventivo rispetto al
contratto bilaterale, si caratterizza per il fatto che una delle sue parti, quella
costituita dalla massa dei creditori, ha natura eterogenea e plurisoggettiva.
Tale particolare profilo soggettivo impone di definire il parametro di
raffronto tra quanto è stato eseguito dal debitore durante la fase esecutiva e
quanto, invece, è stato dallo stesso promesso nella proposta sottoposta
all’approvazione dei creditori (273).
Più precisamente, è necessario stabilire se il punto di vista da assumere
per valutare l’inadempimento sia quello del singolo creditore, precisamente
del creditore che ha presentato il ricorso per la risoluzione, ovvero, quello
della massa dei creditori. Ciò è rilevante al fine di definire se l’eventuale
inadempimento, così come l’eventuale sua non scarsa rilevanza, debbono
essere individuati con riguardo alle aspettative di soddisfacimento del
singolo o dell’intera categoria dei creditori.
liberazione del debitore non può che essere ricollegata all’effettiva esecuzione del
concordato, la quale può assumere diverse modalità a seconda del tipo di piano e proposta.
272
M. Vitiello, Sub art. 186 l. fall. in G. Lo Cascio, Codice commentato del fallimento,
cit. 1664; P. Gianmaria, Sub art. 186, cit. 879.
273
M. Vitiello, Sub art. 186, cit. 1663; P. Gianmaria, Sub. art 186, cit. per il quale:
«mancherebbe, nella nuova procedura, la stessa possibilità di individuare un “massa” in
senso tecnico, atteso che i creditori, nella nuova disciplina, vanno suddivisi non solo in base
alla tipologia del credito stabilita dal codice, ma anche, e sopratutto in ordine alla “atipica”
modalità di soddisfazione proposta nel concordato; essi, cioè, presentano caratteristiche
talmente eterogenee da rendere del tutto improprio indicarli come “massa”».
162
Muovendo dalla premessa che la parte del negozio sulla crisi d’impresa è
l’intera massa dei creditori, si deve escludere la risolubilità nell’ipotesi in
cui l’«inadempimento» sia limitato a uno soltanto o a pochi creditori; così
opinando si privilegerebbe, ovviamente, la conservazione dell’accordo (274).
Verrebbe, cioè, valorizzata la peculiarità concorsuale dell’istituto e la sua
funzione di strumento conservativo dell’impresa, ma si trascurerebbe che
legittimato alla presentazione della domanda di risoluzione è il singolo
creditore e che la richiesta non può affatto provenire da un organo in
funzione rappresentativa della massa (275).
Dopo aver risolto il profilo soggettivo, occorre affrontare il profilo
oggettivo dell’inadempimento, dovendosi assegnare il corretto significato
alla rilevanza dell’inadempimento degli obblighi previsti dalla proposta, in
quanto il piano può prevedere modalità di adempimento diverse rispetto a
quelle del passato. Così, ad esempio, la mancata esecuzione di alcuni
passaggi intermedi del piano potrebbe non pregiudicare le aspettative di
274
Si afferma che, essendo il concordato un accordo tra il debitore e l’insieme dei
creditori (accordo di carattere concorsuale), tanto che, conseguentemente, l’effetto
risolutorio si estende automaticamente a tutti i rapporti creditori, la valutazione
dell’importanza dell’inadempimento andrebbe parametrata al complesso degli obblighi
assunti dal debitore e non al singolo rapporto obbligatorio con il creditore istante, così: V.
Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 332; A. Penta, La revoca dell’ammissione
al concordato preventivo: rilevanza della percentuale offerta e della fattibilità del piano,
in Fall. 2010, 865 - 866; G. Fauceglia, Esecuzione, risoluzione e annullamento del
concordato preventivo, in G. Fauceglia - L. Panzani (a cura di), Fallimento e altre
procedure concorsuali, Torino, 2009, 1769; A. C. Marrollo, L’inadempimento nella
risoluzione del concordato preventivo dopo il D. Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, in Fall.
2009, 982; in giurisprudenza v. Trib. Milano 25 gennaio 2010, in Fall. 2010, 1315 secondo
il quale l’inadempimento di non scarsa importanza è quello che tocchi almeno un quarto del
totale delle obbligazioni concordatarie.
275
Poiché la legittimazione a chiedere la risoluzione è stata attribuita singolarmente ad
ogni creditore e sottratta al commissario giudiziale, alcuni autori negano che un creditore
possa far valere anche inadempimenti estranei alla sua sfera giuridica e, conseguentemente,
ritengono che la valutazione dell’importanza dell’inadempimento debba essere limitata
all’inadempimento fatto valere dal creditore (o dai creditori) istante, così: A. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, 1109; G. Rago, La
risoluzione del concordato preventivo fra passato, presente e...futuro, in Fall. 2007, 1214;
L. Pica, Il concordato preventivo, in P. Celentano - E. Forgino (a cura di), Fallimento e
concordati, Torino, 2008, 1172.
163
soddisfacimento dei creditori (276); potrebbe però accadere che, sebbene il
piano e la proposta abbiano trovato esatto adempimento sino ad un
determinato momento, è altrettanto chiaro che da quel momento in poi il
piano non potrà più esser portato ad integrale esecuzione e la proposta non
potrà più essere integralmente adempiuta (277).
Ora, a seconda del punto di vista soggettivo adottato, si avranno dirette
ripercussioni
sulla
stessa
operatività
dell’istituto
della
risoluzione
concordataria.
Nella prima ipotesi, infatti, ai fini della risolubilità rileverebbe solo il
rispetto degli obblighi concordatari, conformemente a quanto accadrebbe se
l’inadempimento dovesse riferirsi anche a uno soltanto o a pochi dei
creditori (278). Nel secondo caso, invece, sarebbe rilevante, quale causa
risolutiva del concordato, anche la semplice previsione di non proseguibilità
del piano concordatario, senza che fosse indispensabile attendere gli esiti
della fase esecutiva. Ove si preferisse tale ricostruzione, occorrerebbe, però,
chiedersi se la prognosi di inadempimento debba anch’essa essere svolta o
meno alla luce del criterio della rilevanza di quest’ultimo (art. 1455 c.c.);
276
Cfr. G. B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fall. 2012, 258,
il quale rileva che la :«violazione del piano potrebbe non determinare la risoluzione del
concordato perché il debitore è comunque stato in grado di soddisfare i creditori nei termini
della proposta, così come l’osservanza del piano non è di certo ostativa alla risoluzione del
concordato ove il debitore non abbia comunque adempiuto alla proposta»
277
Cfr. P. Sisinni, Commento sub art. 186 l. fall. in A. Nigro - M. Sandulli - V. Santoro
(a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, III, Torino, 2010, 2364 che evidenzia
come l’importanza dell’inadempimento non possa essere valutata avendo riguardo ai
singoli passaggi del piano «dal momento che la mancata esecuzione degli stessi non
necessariamente (ma solo in seguito ad una valutazione giudiziaria dei termini e delle
percentuali di soddisfacimento) si traduce in un grave inadempimento della proposta
concordataria, così come la loro osservanza non necessariamente conduce alla realizzazione
del piano»
278
In senso contrario, sotto il vigore della precedente disciplina, cfr. Cass. 27 dicembre
1996, n. 11503, in Fall. 1997, 815, secondo cui: «nel giudizio di risoluzione del concordato
preventivo per inadempimento degli obblighi concordatari, il tribunale non ha altro compito
né altro potere che quello di accertare se il concordato fosse stato eseguito, o meno, nei
termini e con le modalità stabiliti nel decreto di omologazione, senza alcun margine di
discrezionalità in ordine alla valutazione della gravità o all’imputabilità
dell’inadempimento»; in senso analogo: Cass. 10 gennaio 1996, n. 157, in Fall. 1996, 277.
164
come pure la prognosi della irrilevanza degli scostamenti dalle prospettive
attuative, rispetto a quanto previsto nel piano (279).
Potrebbe, poi, verificarsi l’ipotesi della sopravvenuta improseguibilità del
piano non direttamente imputabile ad un inadempimento del debitore.
Occorre, pertanto, interrogarsi se i fatti sopravvenuti, che si rivelino estranei
alla sfera di volontà del debitore consentano o meno di ottenere la
risoluzione del concordato. Sotto il vigore della passata disciplina, nel
giudizio sulla risolubilità del concordato - in una prospettiva intesa a
valorizzare il preminente interesse dei creditori - la giurisprudenza di
legittimità accordava rilevo solo all’oggettivo inadempimento della proposta
del concordato, prescindendo da ogni indagine sulla imputabilità o meno
dell’inadempimento al debitore (280).
Nell’affrontare
il profilo delle sopravvenienze di fatto, è opportuno
prendere le mosse dal mutato quadro generale di riferimento e considerare
l’interesse alla conservazione della soluzione concordataria, il quale deve
orientare in misura maggiore, rispetto a prima, le possibili soluzioni
interpretative. Pertanto, nel caso di incolpevolezza dell’inadempimento,
sarebbe forse opportuno che il Tribunale non provveda a dichiarare sic et
279
Cfr. G. B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fall. 2012, 259
secondo cui: «Solo ove si ipotizzi, come pare preferibile, l’esistenza di un interesse
sovraindividuale, comune all’intera massa dei creditori concordatari (quello volto ad
ottenere il massimo valore di realizzo, anche prospettico, dal patrimonio del debitore), potrà
esservi spazio per una richiesta che si estenda ad inadempimenti diversi da quello
dell’istante, e, di conseguenza, l’importanza dell’inadempimento potrà essere valutata alla
luce del complesso degli obblighi assunti dal debitore. Interesse ad ottenere il massimo
valore di realizzo, anche prospettico, dal patrimonio del debitore che dopo l’omologa si
tramuta in un interesse comune all’adempimento del concordato»; T. E . Cassandro,
L’esecuzione del concordato preventivo, cit. 440 il quale: «Deve però qui insistersi nella
rilevata singolarità della scelta operata dal legislatore, che da un lato ha attribuito la
legittimazione ad ogni singolo creditore, il che presuppone che l’inadempimento azionato al
fine della risoluzione produce effetti, diretti o indiretti, sulla sfera giuridica, poiché
diversamente difetterebbe l’interesse ad agire; dall’altro ha affidato le sorti del concordato
alle determinazioni del singolo creditore, che può provocarne l’inefficacia nei confronti di
tutto il ceto creditorio».
280
Cass. 25 marzo 1976, n. 1073, in Foro it. 1977, I, 2023; Cass. 21 gennaio 1993, n.
709, in Fall. 1993, 807; Cass. 27 dicembre 1996, n. 11503, in Fall. 1997, 815; Cass. 10
gennaio 1996, n. 157, in Fall. 1996, 277.
165
simpliciter la risoluzione del concordato, ma tenti almeno di avviare un
procedimento volto a conseguire una ridefinizione del piano o, per lo meno,
ne consenta il tentativo.
Il terzo comma dell’art. 186 l.fall. circoscrive poi la possibilità di
utilizzare il rimedio della risoluzione entro un arco temporale ben
determinato. Tale ambito temporale viene, però, ampliato rispetto
all’abrogata disciplina. Non è più previsto un termine entro cui deve
intervenire la pronuncia della risoluzione, ma soltanto il termine entro il
quale deve essere depositato il ricorso inteso ad ottenerla. Il termine di
decorrenza non coincide più con la scadenza dell’ultimo pagamento stabilito
nel concordato, ma con la scadenza del termine fissato per l’ultimo
adempimento. Si tratta di una modifica opportuna alla luce delle diverse
modalità satisfattive che il piano concordatario può prevedere e, in
particolare, a fronte della possibilità di prevedere forme di soddisfacimento
del ceto creditorio alternative al pagamento.
Il quarto comma dell’art. 186 l.fall. prevede l’esclusione della risolubilità
del concordato se gli obblighi vengano assunti da un terzo, con liberazione
immediata del debitore (c.d. concordato con assuntore). La ratio della
previsione è chiara e va riposta nell’opportunità di non penalizzare
ulteriormente il debitore, il quale ha ceduto il suo patrimonio all’assuntore.
Resta, però, il problema di individuare gli strumenti di tutela dei creditori a
fronte dell’inadempimento dell’assuntore. Da un verso, la giurisprudenza
esclude che il concordato possa risentire della mancata esecuzione da parte
dell’assuntore, con la conseguenza che soltanto nei confronti di quest’ultimo
i creditori potranno indirizzare le loro azioni (281); dall’altro verso, invece,
una parte della dottrina, ritiene che la risoluzione sia ammissibile nei
confronti del solo assuntore, con la conseguenza che quest’ultimo verrebbe
281
In questo senso: Cass. 3 marzo 2000, n. 2400, in Fall. 2001
166
esautorato dalla liquidazione, la quale dovrebbe essere effettuata dagli
organi della procedura (282).
Non è stato riproposto il divieto di risolvere il concordato per cessione
dei beni se a seguito della liquidazione ne sia derivato il soddisfacimento del
ceto creditorio chirografario in una percentuale non inferiore al quaranta per
cento (art. 186, secondo comma del testo previgente) (283). Tale omissione
risponde, a ben vedere, ad una esigenza di coerenza con il nuovo sistema,
che non impone più, come accadeva sulla base del previgente art. 160 l.fall.
la condizione di ammissibilità rappresentata dall’offerta di pagamento del
chirografo in una misura minima predeterminata dalla legge (il quaranta per
cento, appunto).
Nel nuovo sistema, invece, occorre stabilire se, qualora la proposta
preveda la cessio bonorum o comprenda, tra le varie opzioni, anche una
cessio bonorum, la risoluzione sia condizionata soltanto al mancato
pagamento in una qualsiasi percentuale, anche minima, dei chirografari, ed
al mancato soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati. La soluzione
dipende, in realtà, dalla premessa da cui si intende muovere: se si considera
che è stata abrogata la norma di cui al testo originario dell’art. 186, secondo
comma, l. fall. è possibile che il debitore possa limitarsi, nella sua proposta,
a proporre la cessione dei suoi beni, o di determinati beni, senza vincolarsi
ad alcuna garanzia di soddisfacimento in termini percentuali. In questa
prospettiva, la risoluzione del concordato potrebbe derivare dal totale
mancato pagamento dei creditori chirografari o, per il caso di divisione di
questi ultimi in classi, di quelli appartenenti ad una delle classi stesse, e dal
282
In questo senso: G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare,
Padova,1994, 540; F. Ferrara, voce Concordato fallimentare, in En. dir. VIII, Milano,
1961, 507.
283
B. Inzitari, Il soddisfacimento dei creditori forniti di prelazione e la risoluzione del
concordato preventivo con cessione dei beni, in Giur. comm. 1990, 383; G. Ferra, Sulla
risoluzione del concordato preventivo con cessione di beni ai creditori, in Riv. dir. civ.
1969, II, 503. In giurisprudenza v. Trib. S.M. Capua Vetere 23 luglio 2002, in Fall. 2003,
224.
167
mancato soddisfacimento dei privilegiati in misura integrale o nella misura
promessa, per il caso in cui la proposta preveda la falcidia dei privilegiati o
di alcuni di essi. Se invece si ritene che il debitore deve indicare con
precisione il risultato conseguibile per i creditori - a prescindere dalle
modalità satisfattive che il piano può in concreto assumere - la risoluzione
potrà essere richiesta e disposta sulla base del mero inadempimento di non
scarsa importanza (284). Tuttavia, la previsione di una soddisfazione dei
creditori secondo percentuali e tempi non rigidamente predeterminati ma
rimessi alle modalità esecutive della liquidazione, potranno comunque
ritenersi compatibili con il nuovo sistema. Occorre infatti riconoscere che il
sistema non impone più al debitore alcun vincolo formale nella costruzione
del piano concordatario e nella definizione della proposta. L’imprenditore,
ad esempio, può prospettare che a seguito della liquidazione del patrimonio
possa derivare una percentuale di adempimento dei creditori chirografari
inferiore al quaranta per cento; può, altresì, prevedere, a certe condizioni, la
falcidia del creditore privilegiato. Inoltre, va osservato che il debitore è
libero di prevedere la cessione di una parte soltanto dei beni, ovvero,
prevedere la cessione di alcuni beni come forma accessoria o a garanzia di
altre forme di soddisfacimento dei creditori.
In relazione all’accordo di ristrutturazione dei debiti, invece, il legislatore
non ha predisposto alcuna disciplina dei rimedi utilizzabili dai creditori per
contestare l’efficacia dell’accordo successivamente all’omologazione.
Ora, durante la fase esecutiva potrebbe accadere che l’accordo non possa
più trovare regolare esecuzione o, comunque, che la sua esecuzione non
possa più assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei (c.d. vizi
funzionali). Inoltre, potrebbero sorgere fatti ostativi all’esecuzione,
strettamente dipendenti tanto dal contenuto dell’accordo, quanto dalle
284
In questo senso è orientata la giurisprudenza maggioritaria: Trib. Monza, 16 ottobre
2005 e Trib. Monza 28 settembre 2005, Fall. 2005, 1402; Cass. 9 maggio 2007, n. 10634,
in Fall. 2007, 1297.
168
modalità con cui è stato concluso l’accordo (i c.d. vizi genetici), che
potrebbero condurre, ad esempio, alla dichiarazione di nullità (per illiceità
della causa o - forse meglio - dei motivi comuni) o annullamento
dell’accordo.
Ora, di fronte a tali sopravvenienze, si potrebbe essere indotti a ricercare
la soluzione nei rimedi già predisposti per il concordato preventivo, quali la
risoluzione e l’annullamento ex art. 186 l.fall. Tuttavia, tale operazione
ermeneutica non pare praticabile in quanto, diversamente dal concordato
preventivo, l’accordo di ristrutturazione è un vero e proprio contratto,
efficace solo inter partes (seppure oggetto di un provvedimento di
«omologazione» e capace di riverberare sui terzi gli effetti legali che ne
discendono). La natura negoziale dell’accordo di ristrutturazione consente
certamente di ammettere il rimedio della «risoluzione» tipicamente di diritto
comune disciplinata dagli artt. 1453 c.c. Ma il rimedio contrattuale in
questione è accessibile solo ai creditori aderenti all’accordo ed è utilizzabile
soltanto a partire dal momento in cui si constati che l’accordo non stia
trovando più regolare esecuzione (285).
I c.d. «terzi-creditori», invece, oltre ad avere la possibilità di opporsi
all’omologazione, dovranno, invece, avvalersi degli altri strumenti di tutela
che normalmente l’ordinamento accorda a qualunque situazione obbligatoria
che non stia trovando attuazione; fra i quali, il più noto, la proposizione
dell’istanza di fallimento, sempre che dall’insuccesso dell’accordo,
285
M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in
Riv. dir. civ. 2009, 358 per il quale: «Neppure è esclusa, in principio, la possibilità che una
delle parti si limiti ad opporre un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.). Però è pur
chiaro che, tendenzialmente, l’interesse perseguito nel caso in questione non è tanto quello
dello scambio di prestazioni in sé (ed anzi, profili di diretta corrispettività potrebbero anche
non emergere affatto, quante volte ad una mera novazione decrementativa del diritto di uno
dei creditori, evidentemente volta a favorire l’uscita dalla crisi del debitore, non
corrisponda una controprestazione ad hoc di quest’ultimo), quanto quello di realizzare la
rimozione dello stato di crisi. Sicché, è plausibile che non saranno tanto singoli
inadempimenti a costituire oggetto di contestazione, quanto il venir meno - sia pure per loro
effetto - della possibilità di realizzare la finalità complessiva dell’accordo, invocandone
allora la risoluzione».
169
rivelatosi inidoneo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori istanti,
emerga un effettivo stato di insolvenza del debitore.
3.1. - Ulteriore rimedio negoziale predisposto per il concordato
preventivo è costituito dall’azione di annullamento.
Il nuovo art. 186 l.fall. disciplina l’annullamento del concordato
preventivo operando un mero rinvio alla disciplina dettata all’art. 138 l.fall.
per l’annullamento del concordato fallimentare.
La disciplina dell’art. 138 l.fall. sebbene sia stata modificata con il
decreto correttivo n. 169 del 2007 è rimasta - nella sostanza - inalterata
rispetto a quella antecedente. L’unica novità attiene al riferimento temporale
ancorato all’«ultimo adempimento» e non più all’«ultimo pagamento»,
quale termine di decorrenza del periodo utile per la presentazione
dell’istanza. Si tratta, anche in tal caso, di una modifica che era necessaria
alla luce del possibile contenuto atipico della proposta.
I motivi che possono condurre all’annullamento del concordato
preventivo restano sempre e soltanto due: a) la «dolosa esagerazione del
passivo»; b) la «sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante
dell’attivo».
Continuano, pertanto, a rimanere privi di sanzione altri
comportamenti, anche gravi, posti in essere dal debitore con finalità
fraudolente, quali ad esempio il mercato del voto (286).
Le
condotte
tipizzate
devono
essere
necessariamente
sorrette
dall’elemento psicologico del dolo e giustificano l’annullamento perché
dalle stesse emergerebbe l’intenzione del debitore di ingannare il ceto
creditorio in relazione, in particolare, al requisito della convenienza della
proposta. Proprio per tale ragione l’annullamento del concordato provoca la
caducazione, con efficacia retroattiva, di tutti gli effetti negoziali
conseguenti omologazione.
286
G. U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2007, 766
170
La dolosa esagerazione del passivo non pone, in realtà, alcun problema
interpretativo, in quanto può essere integrata, alternativamente o
cumulativamente,
dalla
esposizione
di
inesistenti
crediti
o
dalla
rappresentazione di debiti in misura superiore al reale (287); viceversa, per
quanto attiene alla dissimulazione di attivo si esclude la configurabilità della
fattispecie nel caso in cui i beni siano stati sottostimati, ma risultino
comunque individuati nelle loro caratteristiche essenziali (288). Per l’ipotesi
della sottrazione dell’attivo la norma prevede l’ulteriore requisito della
rilevanza; tuttavia, pare corretta l’estensione del requisito in parola, in via
interpretativa, anche all’esagerazione del passivo, quale espressione di un
principio secondo cui soltanto le alterazioni idonee ad incidere sulla volontà
dei creditori assumono valenza ai fini della possibile risoluzione del
concordato (289).
4. - Tanto la risoluzione del concordato, quanto l’annullamento, danno
luogo alla caducazione degli effetti negoziali dei rapporti giuridici
autorizzati dal provvedimento di omologazione, primo tra tutti quello
esdebitativo (art. 184 l. fall.).
A seguito della declaratoria di risoluzione o annullamento i creditori
avranno la possibilità di insinuare il credito nel successivo fallimento per
l’intero e originario ammontare, ovvero, nell’ipotesi in cui il debitore
ritornasse in bonis - ad esempio, per l’accertata carenza del presupposto
dello stato di insolvenza, o per la mancanza di ricorsi o richieste di
fallimento - i creditori potranno agire in via esecutiva individuale per il
recupero dell’intero ammontare originario del credito.
287
A. Bosignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – M. Branca. La legge
fallimentare, Bologna - Roma, 1979, 530.
288
Cfr. Cass. 19 gennaio 1987, n. 396, in Fall. 1987, 594.
289
Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 529; S. Satta, Diritto fallimentare,
Padova, 1996, 432; e dopo le recenti riforme: G. Fauceglia, La risoluzione e l’annullamento
del concordato preventivo, in Fall. 2006, 1107.
171
Nonostante l’ampia riforma che ha interessato la legge fallimentare, l’art.
186 l.fall. non consente di chiarire quale sia il regime di efficacia degli atti
compiuti in epoca anteriore all’apertura della procedura, nel caso in cui alla
risoluzione del concordato consegua la dichiarazione di fallimento.
Ora, seguendo i criteri generali, gli atti compiuti prima dell’apertura del
concordato potranno essere soggetti all’azione revocatoria fallimentare,
sulla base del noto fenomeno della consecuzione delle procedure,
ravvisabile anche nel caso in cui la dichiarazione di fallimento consegua alla
risoluzione del concordato (290). Per quanto riguarda invece l’accordo di
ristrutturazione di debiti occorre rilevare che «manca un espresso
coordinamento fra un’eventuale dichiarazione di fallimento richiesta dai
creditori estranei e la sorte dell’accordo omologato, concluso con gli altri
creditori» (291). Per cui, in linea di principio, e dal punto di vista sostanziale,
si dovrebbe ritenere che a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento si
caducheranno tutti gli effetti negoziali dell’accordo omologato.
5. - L’art. 186 l.fall. omette poi di disciplinare gli aspetti processuali e
rinvia, quanto agli stessi, all’art. 137 l.fall. il quale a sua volta rinvia all’art.
15 l. fall. che disciplina il procedimento fallimentare.
La riforma consente di superare la duplicità di percorsi processuali che
nel vigore della passata disciplina avrebbero potuto verificarsi tra, da un
lato, il procedimento di risoluzione, per il quale era prevista la forma
camerale, destinata a sfociare in un decreto in caso di rigetto del ricorso per
la risoluzione e di sentenza di fallimento nell’opposta ipotesi, e, dall’altro
290
In questo senso: G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, 746; A. Patti,
La conversione delle procedure concorsuali, in Compendio fallimentare, coordinato da G.
Lo Cascio, Milano, 1996, 487; contra A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 516; R.
Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2365.
291
In questo senso: S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 313,
secondo la quale la mancata omologazione dell’accordo per la ristrutturazione dei debiti indipendentemente dalla dichiarazione di fallimento che ne potrebbe conseguire - comporta
anche l’invalidità e, dunque, l’inefficacia dell’adesione espressa dei creditori.
172
lato, il procedimento di annullamento, per il quale era previsto
l’instaurazione del rito ordinario, che si concludeva sempre con una
sentenza, avverso la quale sarebbero stati esperibili gli ordinari mezzi di
impugnazione.
La disciplina del procedimento di risoluzione e annullamento ora è unica;
resta unicamente la differenza in punto di legittimazione attiva: a) nel caso
della risoluzione, la legittimazione ad agire è limitata ai soli creditori, anche
individualmente considerati; b) nel caso dell’annullamento, invece, la
legittimazione è estesa anche al commissario giudiziale.
In entrambi i casi, sia che si tratti di risoluzione o di annullamento del
concordato, è comunque esclusa la legittimazione attiva del debitore in
concordato.
Per il resto, il rinvio all’art. 15 l.fall. risponde all’esigenza di verificare,
nel contraddittorio delle parti e, quindi, con il necessario contraddittorio del
debitore se, oltre ai presupposti cui la legge subordina la risoluzione o
l’annullamento, siano presenti i requisiti di assoggettabilità a fallimento, e
segnatamente (stante l’equivalenza, nel fallimento e nel concordato, del
presupposto soggettivo), se sussista lo stato di insolvenza, non
necessariamente integrato dalla crisi che aveva legittimato l’imprenditore
alla presentazione della domanda di concordato (292).
Nel caso in cui il procedimento camerale previsto dall’art. 15 l. fall.
consenta di accertare, sussistendo i presupposti di risoluzione o
annullamento, che il debitore, oltre che in crisi, è anche insolvente, il
tribunale, previa applicazione analogica dell’ultimo comma dell’art. 180
l.fall., dovrà emettere contestualmente al decreto, a seconda dei casi, di
risoluzione o annullamento, la sentenza dichiarativa del fallimento.
292
Cfr. E. Bertacchini, Commento sub art, 137 l. fall. in A. Nigro - M. Sandulli - V.
Santoro (a cura di) La legge fallimentare dopo la riforma, III, Torino, 2010, 1836.
173
Nell’ipotesi in cui non si dovesse risolvere o annullare il concordato, o
nel caso in cui, nonostante la risoluzione o l’annullamento, dovesse
emergere che l’imprenditore non sia in stato di decozione, il procedimento
si concluderà soltanto con un decreto, di rigetto o accoglimento del ricorso
per la risoluzione o l’annullamento.
La necessità di coordinare la disciplina in esame con l’esclusiva
iniziativa di parte, esclude la possibilità che il Tribunale pronunci la
sentenza di fallimento, contestualmente al decreto che dichiara risolto o
annullato il concordato, se non in presenza di un ricorso di fallimento
presentato da un creditore o della analoga richiesta del pubblico ministero
(293).
Tenendo presente ciò, nel caso in cui dovesse mancare il ricorso di
fallimento, da parte del ricorrente per la risoluzione o per l’annullamento, il
tribunale avrà cura di trasmettere gli atti del procedimento al pubblico
ministero, secondo quanto previsto dall’art. 7, ult. co., l. fall. per consentire,
eventualmente, all’organo della pubblica accusa di presentare la sua
richiesta di fallimento in vista dell’udienza fissata ex art. 15 l. fall. (294)
SEZIONE II
LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI RIFLESSI: L’INDIVIDUAZIONE DEL
RIMEDIO.
6.- Resta dunque da verificare se sussiste la possibilità di contestare
anche la produzione dei c.d. effetti riflessi.
293
S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
Padova, 2008, 154; G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali.
Aggiornamento al d. lgs. 169 del 2007, Milano, 2008, 1027; G. U. Tedeschi, Manuale del
nuovo diritto fallimentare, Padova, 2007, 572.
294
Si consentito rinviare a R. Fava, La segnalazione dello stato di insolvenza al p.m. tra
principio di terzietà e par condicio creditorum, in Corr. mer. 2010, 943 e ss.
174
Tali effetti si verificano solo a seguito della dichiarazione di fallimento e
danno luogo alla riduzione della garanzia patrimoniale che avrebbe potuto
essere assoggetta ad esecuzione concorsuale. La riduzione in parola si
origina in quanto gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse durante la fase
esecutiva non possono essere aggrediti con l’azione revocatoria fallimentare
in virtù di quanto previsto dalla disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e)
l.fall.
Se, infatti, la soluzione negoziata non riuscisse a traghettare
l’imprenditore fuori dalla crisi d’impresa e si convertisse nella procedura
fallimentare, la disposizione in parola impedirebbe agli «atti esecutivi» del
negozio sulla crisi d’impresa di essere dichiarati inefficaci rispetto alla
massa dei creditori. Più precisamente, la disposizione in esame realizza il
«consolidamento» di tutti i pagamenti, di tutte le garanzie concesse e, più in
generale, di ogni atto dipendente dal negozio sulla crisi d’impresa.
L’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare accordata agli «atti
esecutivi» delle soluzioni negoziate rappresenta la principale novità
introdotta dal legislatore delle recenti riforme (295).
L’effetto protettivo accordato rappresenta il punto di forza delle nuove
soluzioni negoziate, tant’è che può essere assunto quale vera e propria
«presupposizione» del consenso prestato dal creditore. Il creditore, infatti,
potrebbe essere indotto a prestare il consenso perché attratto «dal miraggio»
di conseguire - anche parzialmente - l’adempimento del credito, senza
sentirsi esposto al rischio di subire un’azione revocatoria fallimentare
nell’ipotesi che la soluzione negoziale si converta in fallimento. La revoca
delle garanzie o dei pagamenti - sopratutto a distanza di tempo - implica,
295
C. D’Ambrosio, Art. 67, comma 3°, lett. d), e), g), in A. Jorio - M. Fabiani, (diretto e
coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, 985; G. B. Nardecchia, Crisi
d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, 2007, 98; S. Bonfatti,
Gli atti di “esecuzione” in generale delle procedure concausali minori, degli accordi di
ristrutturazione e dei “piani” di risanamento, in S. Bonfatti, La disciplina dell’azione
revocatoria, Milano, 2005, 185.
175
inevitabilmente, un peggioramento della condizione del creditore a seguito
della crisi dell’imprenditore.
Se l’imprenditore non provvede ad adempiere regolarmente alle proprie
obbligazioni, il creditore ha ragione di temere che l’incapacità temporanea
possa sfociare nella definitiva «incapienza» patrimoniale. I creditori in
grado
di
acquisire
tempestivamente
informazioni
sulla
situazione
patrimoniale del debitore tenderanno, pertanto, a sfruttare il vantaggio
informativo a danno degli altri, ad esempio, agendo immediatamente in via
di autotutela per conseguire un pagamento o per ottenere una causa di
prelazione. Nel momento in cui si manifesta l’incapacità patrimoniale del
debitore, si genera una situazione di competitività e conflittualità tra i
creditori, in quanto il soddisfacimento di uno o di pochi può determinare un
danno per gli altri. Proprio per questo motivo l’apertura della procedura
concorsuale interferisce con le pretese e le esecuzioni individuali,
rendendole inammissibili e improcedibili (296).
L’incapacità patrimoniale del debitore, la conflittualità che la stessa
origina tra i creditori e, soprattutto, la diversa possibilità che i creditori
hanno di accorgersi di tale stato, giustificano l’abbandono del principio
prior in tempore, potiore in iure in favore del principio della par condicio
creditorum (297).
296
S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 67; R. Provinciali, Trattato di diritto
fallimentare, cit. A. Bonsignori, Il fallimento, Padova, 1986, 101.
297
Come noto, il principio della par condicio creditorum - che trova il suo referente
normativo nell’art. 2741 c.c. - non è un principio assoluto, in quanto sussistono le cause
legittime di prelazione. Tale principio della parità di trattamento conoscerebbe, in realtà,
oltre ad una «relatività» sostanziale, anche una «relatività» di natura c.d. processuale, in
questo senso: V. Colesanti, Mito realtà della «par condicio creditorum», in Fall. 1984, 32;
sulla c.d. «relatività» del principio della par condicio creditorum v. anche: P. Schlesinger,
L’eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Riv. dir. proc.
1995, 318, per il quale «il principio in questione rappresenta solo uno strumento comodo
per la soluzione di un problema distributivo altrimenti difficile o addirittura irresolubile,
senza alcuna pretesa di giustizia sostanziale»; in senso analogo: P. G. Jaeger, Par condicio
creditorum, in Giur. comm. 1984, 88, per il quale: «La par condicio creditorum non è un
principio assoluto, ispirato a interessi superiori, di carattere economico, sociale o
ideologico. Essa risponde, piuttosto, a criteri di “ordine” nelle procedure concausali, che
176
Il principio poc’anzi richiamato è perseguito, da un verso, precludendo
creditori di agire individualmente sul patrimonio del debitore fallito, e,
dall’altro verso, imponendo ai creditori di partecipare proporzionalmente
alla distribuzione del dividendo patrimoniale, nonché ai costi e alle perdite
conseguenti. Il principio della parità di trattamento si sostanzia, in altri
termini, nel diritto all’uguale percentuale di credito assegnabile, nel senso
che ogni creditore di uguale natura e rango ha diritto alla medesima
percentuale di adempimento del credito. L’«eguale» diritto dei creditori ad
essere soddisfatti sul patrimonio del debitore (art. 2741 c.c.) viene così a
consistere in un criterio di partecipazione proporzionale tanto alla
distribuzione del ricavato dalla vendita del patrimonio, quanto alle perdite
che dipendenti dalla sopravvenuta incapacità patrimoniale del debitore.
L’«eguale» diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni (residui) del
passano in secondo piano di fronte al riconoscimento di interessi prevalenti meritevoli di
tutela. Come tale, ha, effettivamente, un valore “residuale” il che non toglie che gli si possa
riconoscere un’impronta di generalità, dopo che sia chiarito l’ambito e la portata delle
ipotesi “eccezionali”, nelle quali non trova applicazione. Infine, non è possibile sostenere
che dal principio derivino diritti soggettivi, e neppure posizioni soggettive tutelate in
quanto tali, dal momento che queste ultime rappresentano, semplicemente, il riflesso di
precetti obbiettivi», l’A. conclude, pertanto, che: «in definitiva la par condicio creditorum
[...] rappresenta una tendenziale esigenza del concorso fallimentare, ma che non può
realizzarsi col carattere dell’assolutezza senza porre il rischio di istituire un sistema di
sostanziale disincentivazione dei rapporti economici e commerciali». La riflessione sulla
contrapposizione dei principi prior in tempore, potiore in iure e par condicio creditorum è
apparsa anche nella letteratura anglosassone, in un noto - e forse unico - libro dedicato al
tema dell’etica del fallimento: J. Kilpi, The ethics of bankruptcy, Rutledge, London - New
York, 1998, 13, ove emerge subito che: «Thus, interference in individual debt collection is
justified because the target of individual seizure efforts is actually a common pool to which
no sole person should have an exclusive right.»; tuttavia, secondo l’A. in esame, in tale
contesto fattuale, da un punto di vista etico, l’impossibilità di agire in via di autotutela
individuale, e l’assoggettamento di tutti i creditori ad una procedura unitari, collettiva e
concausale, si spiega in quanto per effetto dell’insolvenza il debitore per il diritto (morale)
di proprietà dei beni, che viene acquisita dalla massa dei creditori, cfr. op. loc. ult. cit.
«Ethically it is a recognition that the debtor’s insolvency has extinguished her moral right
to her property and the joint right of creditors has taken over. The institution of bankruptcy,
by transferring the property to the creditors’ joint control, gives legal expression to this
ethical idea».
177
debitore, a fronte del rischio di un generale inadempimento, viene garantito,
più precisamente, ponendo tutti creditori in un’identica condizione (298).
La procedura concorsuale risponde a tale esigenza e tenta di risolvere il
conflitto sorto tra i creditori creditori prefallimentari cercando di garantire a
tutti i creditori la medesima opportunità di essere soddisfatti (299).
L’ordinamento vuole evitare che alcuni creditori si approprino di tutto il
patrimonio e che ad altri creditori non sia riconosciuto ciò che è loro dovuto
(300). Tale finalità è perseguita con una duplice efficacia: a) ex nunc, cioè
dal momento in cui si apre il concorso tra i creditori; b) ex tunc, vale a dire,
dal momento in cui si presume che lo stato di incapacità patrimoniale fosse
conoscibile per i creditori (301). Il sistema di ripartizione fallimentare tende
298
L’uguaglianza delle condizioni iniziali di partecipazione alla ripartizione dell’attivo
fallimentare è particolarmente avvertita nella letteratura anglosassone, in particolare dai
teorici giusnaturalistici che considerano l’uguaglianza giuridica dei creditori come il
riflesso di una uguaglianza di diritto naturale, cfr. J. Finnis, Natural law and natural rights,
Oxford, Clarendon Press, 1986, 190, secondo cui: «The debts te prove are paid to te pari
passu. That is to say, each receives, from the pool remaining after payment of preffered
creditors, the same percentuale of the debt owed to him (not the same percentuale of chat
pool); if the pool is insufficient the claim each abates proportionately. This is, then, another
instante of the geometrical equality which, as oppose to arithmetical equality, si
characteristic of distributive justice».
299
Cfr. J. Kilpi, The ethics of bankruptcy, cit. passim per il quale l’uguaglianza dei
creditori deve essere intesa come valore metanormativo, che attiene proprio alla posizione
dei creditori di fronte al patrimonio dell’imprenditore insolvente; nella prospettiva di Kilpi,
in realtà, la procedura concorsuale è la risposta normativa al problema etico della
conflittualità dei creditori e si tratta di un problema etico in quanto attiene al
comportamento di più soggetti in uno stato di conflittualità; in argomento cfr. V. De Sensi,
L’etica del fallimento, in archivioceradi.luiss.it, 2002, 11 secondo cui: «Parlare di etica del
fallimento non vuol dire parlare di qualcosa di fumoso, privo di consistenza e di utilità
scientifica, al contrario significa recuperare i criteri di orientamento sia nella
interpretazione ed attuazione della disciplina attuale, sia nella impostazione di un futuro
assetto normativo».
300
Cfr. V. De Sensi, L’etica del fallimento, in archivioceradi.luiss.it, 2002, 11 secondo
cui dal punto di vista etico la concorsualità tra i creditori non sembra molto lontana dal
concetto di giustizia assunto da Aristotele (l’A. richiama Aristotele, Etica nicomachea,
tradotto da Natali, Roma-Bari, 1999, 209), il quale affermava che la giustizia si identifica
con l’astensione dalla pleonexia, cioè dall’ottenere per sé vantaggi appropriandosi di ciò
che appartiene ad altri o di negare ad una persona ciò che le è dovuto.
301
L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, 276, il
quale chiaramente a proposito del principio della parità di trattamento afferma che nel
sistema fallimentare: «La parità di trattamento fra i creditori non sarebbe quindi solo
affermata ex post, a procedura aperta, ma sarebbe assicurata ex ante»; Id. La nuova
178
ad impedire che i creditori in possesso di un vantaggio informativo sulle
reale capacità di adempimento del debitore possano, in forza di ciò, vantare
nel concorso fallimentare condizioni di preferenza distributiva rispetto ai
creditori rimasti ignari della sopravvenuta incapacità del debitore. Le c.d.
azioni «di massa» sono volte a ristabilire ex post (i.e. una volta accertato lo
stato di insolvenza nella sentenza di fallimento) le «condizioni iniziali» in
cui versavano i creditori nel momento in cui si presume che l’incapacità del
debitore fosse conoscibile (302).
La finalità ultima del sistema fallimentare è quella di garantire a tutti i
creditori l’uguale opportunità di essere soddisfatti, conformemente alla
condizione in cui si trovavano nel momento in cui lo stato di incapacità
patrimoniale iniziava a manifestarsi all’esterno dell’impresa. Il sistema
concorsuale, pertanto, è volto a perseguire una duplice identità: a) l’identità
della percentuale del ricavato distribuita tra i creditori che hanno la stessa
natura e rango; b) l’identità della condizione in cui in creditori si trovavano
nel momento in cui l’incapacità patrimoniale si presume si fosse
manifestata. L’«eguale diritto [dei creditori] di essere soddisfatti sui beni del
debitore», si sostanzia nel diritto ad essere soddisfatti sul ricavato delle
vendita dei beni del debitore con identica proporzione e nell’identica
condizione vantata nel momento in cui la garanzia patrimoniale sia
diventata incapiente.
revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in La riforma
della legge fallimentare, Atti del XXVI convegno nazionale (Napoli, 26-27 ottobre 2007),
Bologna, 2008, 177 per il quale: «La revocatoria può dunque essere vista come un tassello
importantissimo di un sistema che, nel suo insieme, mira a disincentivare chi opera per
l’impresa e con l’impresa dal tenere comportamenti pregiudizievoli per i creditori nel loro
complesso o (in caso di alterazione dell’ordine di soddisfazione) anche solo per alcuni di
essi, e mira a ripristinare la situazione quo ante: in forma specifica, eliminando gli atti
compiuti in danno dei creditori, o per equivalente, facendo sorgere obblighi risarcitori»;
302
v. anche: I. Pagni, Le azioni di massa e la sostituzione del curatore ai creditori, in
Fall. 2007, 1037 secondo cui i creditori sarebbero titolari di un diritto al mantenimento
dell’attivo dell’impresa superiore al passivo, e che questo diritto darebbe fondamento alle
c.d. azioni di massa, cioè a quelle azioni il cui risultato utile rifluisce a vantaggio di tutti i
creditori indistintamente e alla cui proposizione sarebbe legittimato il curatore fallimentare.
179
Sennonché, il principio poc’anzi esposto viene travolto in virtù dei c.d.
effetti riflessi che si originano dal provvedimento di omologazione dalle
soluzioni negoziate.
La disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. “altera”, infatti, tale
principio, in quanto impedisce di realizzare il soddisfacimento tra i creditori
nel rispetto della «condizione iniziale» in cui si trovavano nel momento in
cui si è manifestata - nuovamente - l’incapacità patrimoniale.
Ma vi è di più.
La nuova disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. può dar
luogo ad una situazione alquanto contraddittoria.
Da un verso, i pagamenti, le garanzie e, più in generale, gli atti compiuti
in esecuzione della soluzione negoziata, non potranno essere dichiarati
inefficaci nei confronti della massa con l’azione revocatoria fallimentare.
Dall’altro verso, però, i pagamenti, le garanzie e, più in generale, gli atti
compiuti nel c.d. periodo «sospetto» antecedente la dichiarazione di
fallimento, potranno essere dichiarati inefficaci, sulla scorta del noto
fenomeno della consecuzione delle procedure concorsuali (303).
Dunque, la stessa tipologia di atti (pagamenti, garanzie, contratti
preliminari etc.) in dipendenza del momento in cui sono posti in essere prima o durante - l’esecuzione della soluzione negoziale, saranno soggetti a
un diverso regime di efficacia. I pagamenti e le garanzie acquisite prima che
l’imprenditore depositi il ricorso per accedere alla procedura di concordato
preventivo, ovvero, il ricorso per richiedere l’omologazione dell’accordo di
ristrutturazione, potranno essere dichiarati inefficaci. Viceversa, i pagamenti
303
L’art. 33, comma 1, lett. a - bis), n.1), del D.L. 22 giugno 2012, n.83 convertito, con
modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 ha inserito all’art. 69-bis un nuovo II°
comma secondo cui: «Nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la
dichiarazione di fallimento, i termini di cui agli artt. 64, 65, 67, primo e secondo comma, e
69 decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle
imprese».
180
e le garanzie concesse «in esecuzione» della soluzione negoziata non
potranno essere aggrediti dal curatore fallimentare.
Il sistema delle azioni di massa, pertanto, sconta un deficit di effettività,
in quanto mediante le stesse si potranno ristabilire unicamente le
«condizioni iniziali» che esistevano prima che l’imprenditore tentasse la via
della soluzione negoziata della crisi d’impresa. Il creditore che ha acquisito
una garanzia reale (o ricevuto un pagamento) nel periodo c.d. «sospetto»
che precede il deposito del ricorso per accedere alla soluzione negoziata
della crisi d’impresa, potrebbe vedersi revocare l’atto dispositivo compiuto
dal debitore; viceversa, il creditore che ha acquisito una garanzia (o ricevuto
un pagamento) in esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa potrà vantare
tale diritto nel successivo fallimento.
La disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. origina un diverso
trattamento tra i creditori del medesimo debitore in sede di riparto
fallimentare. Tale disparità di trattamento, tuttavia, si giustifica alla luce del
fatto che lo stato di crisi dell’impresa è stato reso noto a tutti i creditori (304).
Gli atti dispositivi compiuti sul patrimonio dell’imprenditore sono posti
in essere sulla base di un piano portato a conoscenza dell’intero ceto
creditorio, in cui devono essere descritte le cause della crisi unitamente alle
modalità e ai tempi di adempimento della proposta (305). I creditori pertanto
sono consapevoli della situazione di «precarietà» in cui versa il patrimonio
dell’imprenditore e proprio ciò giustifica la disparità di trattamento tra il
creditore che ha conseguito un posizione preferenziale o un pagamento
prima o durante l’esecuzione della soluzione negoziata. Se, infatti, un
creditore ha acquisito una posizione preferenziale o un pagamento (anche
parziale) prima che il debitore rendesse noto a tutto il ceto creditorio lo stato
304
G. Presti, Rigore è quando l’arbitro fischia? in Fall. 2009, 25.
L’obbligo di prevedere la «descrizione analitica delle modalità e dei tempi di
adempimento della proposta» è stato introdotto dalla legge del 7 agosto 2012, n. 134 di
conversione del c.d. decreto sviluppo n. 83 del 2012.
305
181
di crisi si presume che abbia agito perché in possesso di informazioni sullo
stato di incapacità patrimoniale dell’imprenditore (306).
Non tutti i creditori, però, possono in ugual modo attingere ad
informazioni sullo stato della capacità patrimoniale del debitore. Per
ottenere tempestivamente informazioni sull’andamento economico di
un’impresa è necessario avere la possibilità di destinare apposite risorse in
tal senso. Occorre poi avere la capacità di monitorare costantemente
l’andamento del volume d’affari gestito dall’imprenditore e l’indebitamento
globale a cui egli è esposto. Infine, per intraprendere tempestivamente una
autonoma ed efficace iniziativa di autotutela del proprio credito è essenziale
riuscire a controllare anche l’operato degli altri creditori.
L’«informazione», dunque, rappresenta un bene «prezioso» per tutelare
efficacemente il diritto di credito, ma come tutti i beni «preziosi» richiede
un costo elevato per conseguirlo.
I c.d. creditori «forti» sono proprio quelli in grado di sostenere tali costi,
vale a dire: a) hanno la capacità economica di destinare risorse economiche
appositamente per conseguire informazioni sullo stato patrimoniale del
debitore; b) possono monitorare costantemente la gestione economica
imprenditoriale; c) possono controllare gli altri competitori.
Tale categoria può comprende al suo interno soltanto pochissimi
creditori; anzi, per vero, nella categoria predetta potrebbero essere
compendiate esclusivamente le banche (307), le quali hanno disponibilità
306
B. Inzitari – A. Limitone, Tendenze riduzionisti che della revocatoria fallimentare
nel progetto di riforma: effetti sulla concorrenza e sulla libertà di mercato, in Dir. fall.
2005, I, 170.
307
L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di
insolvenza, Bologna, 2007, 275: «I creditori veramente informati sulla crisi del debitore (di
solito le banche), se temono la revocatoria dei pagamenti, iniziano un’azione di disimpegno
graduale, che ha l’effetto di prolungare l’agonia del debitore e di aggravare la perdita. È
come se la revocatoria dei pagamenti, se non opportunamente governata, creasse attorno
all’insolvente un credito artificiale, non fondato sul suo merito come prenditore di denaro,
ma sulla paura di vederlo fallire»; la riflessione su tale problematica ha preso avvio alle fine
degli anni ’70 con A. Nigro, La responsabilità della banca per concessione ‹‹abusiva›› di
credito, in Giur. comm. 1978, I, 219 ss. Sullo stesso argomento successivamente v. A.
182
economiche superiori alla media dei creditori di un’impresa (ad esempio, i
fornitori di un’impresa).
Ecco, quindi, che emerge la funzione delle azioni «di massa»: tali azioni
sono volte a ristabilire - ex post - le condizioni iniziali in cui si trovavano i
creditori prima che, sfruttando i vantaggi informativi sulla situazione di
incapacità patrimoniale, acquisissero un vantaggio patrimoniale (308). Le
Bargioli, Responsabilità della banca per concessione ‹‹abusiva›› di credito, in Giur. comm.
1981, I, 287; F. Galgano, Civile e penale nella responsabilità del banchiere, in Contr. impr.
1987, 20; G. Franchina, La responsabilità della banca per concessione abusiva del credito,
in Dir. fall. 1988, I, 656; G. Terranova, Profili dell’attività bancaria, Milano, 1989, 210; B.
Inzitari, Concessione abusiva del credito: irregolarità del fido, false informazioni e danni
conseguenti alla lesione dell’autonomia contrattuale, in Dir. banc. 1993, I, 399 ss; Id. Le
responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del
credito, in Banca, borsa, tit. cred. 2001, I, 265; Id. L’abusiva concessione di credito:
pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito, in Soc. 2007,
462; R. Sgroi Santagati, ‹‹Concessione abusiva del credito›› e ‹‹brutale interruzione del
credito››: due ipotesi di responsabilità della banca, in Dir. fall. 1994, I, 625; A. Castiello
d’Antonio, Il rischio per le banche nel finanziamento delle imprese in difficoltà: la
concessione abusiva del credito, in Dir. fall. 1995, I, 246; Id. La banca tra ‹‹concessione
abusiva›› e ‹‹interruzione brutale›› del credito, in Dir. fall. 1995, I, 765; V. Roppo, Crisi
d’impresa e responsabilità civile della banca, in Fall. 1996, 874; O. Capolino, Rapporti tra
banca ed impresa: revoca degli affidamenti e ricorso abusivo al credito, in Fall. 1997, 884;
F. Anelli, La responsabilità risarcitoria delle banche per illeciti commessi nell’erogazione
del credito, in Dir. banc. 1998, I, 137; a carattere monografico su questo tema v. A.
Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004
passim; F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, Napoli, 2004 passim.v. anche:
v. A. Nigro, Note minime in tema di responsabilità per concessione ‹‹abusiva›› di credito e
di legittimazione del curatore fallimentare, in Dir. banc. 2002, I, 296 ss; Id. La
responsabilità della banca nell’erogazione del credito, in Soc. 2007, 441; G. Ragusa
Maggiore, La concessione abusiva del credito e la dichiarazione di fallimento, in Dir. fall.
2002, II, 510; G. Lo Cascio, Iniziative giudiziarie del curatore fallimentare nei confronti
delle banche, in Fall. 2002, 1181; M. Robles, Erogazione ‹‹abusiva›› di credito,
responsabilità della banca finanziatrice e (presunta) legittimazione attiva del curatore
fallimentare del sovvenuto, in Banca borsa tit. cred. 2002, II, 274; A. Viscusi, Concessione
abusiva di credito e legittimazione del curatore fallimentare all’esercizio dell’azione di
responsabilità, in Banca borsa tit. cred. 2004, II, 683; C. Esposito, L’azione risarcitoria
‹‹di massa›› per ‹‹concessione abusiva di credito››, in Fall. 2005, 857; M. Ferrari,
Legittimazione del curatore per abusiva concessione del credito: plurioffensività
dell’illecito al patrimonio e alla garanzia patrimoniale, in Corr. giur. 2006, 419; I. Pagni,
La concessione abusiva di credito, tra diritti dei creditori e azioni della curatela, in Soc.
2007, 442; F. Di Marzio, Sulla fattispecie ‹‹concessione abusiva di credito››, in Banca
borsa tit. cred. 2007, II, 399 ss
308
L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei
diritti dei creditori, cit. 193: «La revocatoria fallimentare mira quindi a responsabilizzare i
terzi che hanno rapporti con l’imprenditore, imponendo loro di non trascurare eventuali
segni di difficoltà di costui o addirittura, in certi casi o per certi soggetti (e in primo luogo i
183
azioni in parola, infatti, consentono di ridurre le differenze tra i creditori
stessi che potrebbero essersi originate per via del vantaggio informativo, in
modo tale che gli altri creditori possano partecipare alla distribuzione del
ricavato senza risentire, per quanto possibile, del pregiudizio derivante dalla
mancata
disponibilità
di
informazioni
sullo
stato
della
garanzia
patrimoniale.
Tale esigenza non sussiste nel caso in cui l’apertura del fallimento
consegua al tentativo infruttuoso di perseguire una risoluzione negoziale
della crisi, in quanto i pagamenti o le garanzie sono state acquisite in un
contesto in cui lo stato di crisi dell’impresa era stato reso noto a tutti i
creditori.
Per tale ragione non sussiste l’esigenza di ristabilire le condizioni iniziali
in cui versavano i creditori prima che si aprisse la procedura concorsuale.
I creditori che hanno conseguito pagamenti o garanzie «in esecuzione»
del negozio sulla crisi d’impresa non dovrebbero aver sfruttato un vantaggio
informativo, in quanto è stato lo stesso debitore a rendere noto a tutto il ceto
creditorio la propria situazione di precarietà patrimoniale.
La disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. avrebbe una propria
ragione sistematica: gli «atti esecutivi» del negozio sulla crisi d’impresa non
possono essere revocati in quanto non potrebbero integrare atti preferenziali
in favore di alcuni creditori, conseguiti in forza di un vantaggio informativo.
6.1. - L’esecuzione della soluzione negoziata potrebbe, però, richiede
tempi piuttosto lunghi.
I primi anni di applicazione della riforma dimostrano che - mediamente il debitore si impegna verso i creditori ad eseguire integralmente il piano di
finanziatori), di informarsi attivamente sulle sue condizioni economiche, reagendo
tempestivamente di fronte all’eventuale crisi. Il prezzo della violazione di questa regola è il
coinvolgimento nel pagamento del costo dell’insolvenza, cioè nello sbilancio che si è creato
fra attivo e passivo».
184
ristrutturazione entro tre anni. Si tratta, a ben considerare, di un periodo di
tempo piuttosto lungo, durante il quale, come visto sopra, l’esecuzione può
anche essere interamente lasciata alla libera gestione del debitore.
L’esecuzione del concordato preventivo può essere, infatti, demandata
direttamente al debitore stesso o ad uno suo mandatario, mentre il
commissario giudiziale si limiterà a controllare che l’esecuzione avvenga in
conformità a quanto contenuto nel decreto di omologazione.
Emergono, quindi, i seguenti dati su cui occorre soffermarsi: a)
l’esecuzione della soluzione negoziata potrebbe protrarsi anche per un
periodo di tempo piuttosto lungo (dell’ordine di alcuni anni); b) il controllo
sulla condotta del debitore durante la fase esecutiva della soluzione
negoziata è, in buona sostanza, lasciato all’autonoma autotutela ed iniziativa
dei creditori.
Ora, è ben possibile che i c.d. creditori «forti» continuino ad acquisire
informazioni sulla situazione patrimoniale e sulle reali capacità di
adempimento del debitore, in modo tale da pronosticare, prima di altri, gli
eventuali scenari che potrebbero verificarsi.
L’acquisizione di vantaggi informativi sulle effettive capacità di
adempimento del debitore non è, di per sé, un ostacolo al regolare
svolgimento della ristrutturazione, né, men che meno, potrebbe reputarsi
una pratica illecita.
Tuttavia, non può essere sottaciuto che i creditori in possesso di vantaggi
informativi potrebbero pregiudicare il regolare andamento dell’esecuzione.
Così, ad esempio, se alcuni creditori possono rendersi conto prima di altri
che il debitore non è più in grado adempiere regolarmente agli impegni
assunti, potrebbero sfruttare tale vantaggio informativo in un duplice senso:
a) potrebbero rendere nota a tutti gli altri creditori tale informazione, anche
agendo tempestivamente per ottenere la risoluzione del negozio sulla crisi
d’impresa; b) potrebbero, viceversa, celare segretamente tale informazione,
185
pretendendo che il debitore lì soddisfi in via preferenziale rispetto ad altri
creditori mediante il compimento degli atti ancora eseguibili.
Nella prima ipotesi, il vantaggio informativo verrebbe impiegato per
impedire l’ulteriore esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa e si
eviterebbe la dispersione di risorse economiche a danno di tutti i creditori;
nella seconda ipotesi, invece, il vantaggio informativo verrebbe impiegato
per acquisire un trattamento preferenziale a danno di tutti gli altri creditori
Durante la fase esecutiva della soluzione negoziata possono essere
compiuti atti preferenziali, dal momento che nel concordato preventivo, e
nell’accordo di ristrutturazione dei debiti l’esecuzione può essere lasciata
nella gestione esclusiva del debitore. Il commissario giudiziale o il
professionista nominato nell’accordo di ristrutturazione, infatti, non hanno
alcun potere ex lege per impedire che il debitore compia atti preferenziali a
favore di alcuni creditori; il loro controllo sarà sempre successivo rispetto al
compimento dell’atto (309).
Come ormai assodato, in virtù della disposizione dell’art. 185 l.fall. il
Tribunale può imporre al debitore soltanto obblighi informativi nei confronti
del commissario giudiziale. Il Tribunale non può, invece, modificare la
proposta avanzata dal debitore, né imporre allo stesso obblighi attinenti alle
modalità esecutive del negozio sulla crisi d’impresa (310). Nel decreto di
309
In questo senso cfr. Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345 cit. la cui massima riporta: «Ove
in deroga all’art. 182 (nel testo contemplato dal D. Lgs. n. 5/2006, non modificato rispetto
alla previsione normativa di cui alla precedente legge fallimentare R.D. 16 marzo 1942, n.
267), nella proposta di concordato preventivo approvata dai creditori ed omologata sia stato
attribuito direttamente al debitore (nella specie amministratore giudiziario/liquidatore) un
ampio potere discrezionale sulle modalità esecutive da adottare, senza nomina del
liquidatore giudiziario e senza imposizione di regole alle quali è necessario conformarsi, il
tribunale non può stabilire ulteriori modalità ad integrazione di quanto previsto e, in
particolare, quelle concernenti l’autorizzazione del giudice delegato degli atti di
straordinaria amministrazione e la nomina da parte di quest’ultimo organo dei coadiutori,
professionisti e difensori, nonché il potere di liquidare i compensi»
310
Cfr. Cass. sez. un. 16 luglio 2008, n. 19506 cit. in cui si è ha negato che, in presenza
di un ampio potere discrezionale attribuito direttamente al debitore sulle modalità esecutive
da adottare nel concordato preventivo, il tribunale possa stabilire altre modalità o
integrazioni a quanto previsto dal debitore in materia di amministrazione, di autorizzazione
186
omologazione il Tribunale potrà stabilire le modalità con cui il debitore
dovrà consentire il controllo durante l’esecuzione, vale a dire, le forme e i
termini con cui il debitore dovrà informare il commissario giudiziale
sull’attività svolta (311). Ciò vale anche per il professionista nominato dai
creditori aderenti all’accordo di ristrutturazione, il quale non potrà
interferire sulle modalità di attuazione della soluzione negoziata, ma potrà
soltanto pretendere dal debitore informazioni con periodicità costante
sull’attività compiuta.
Nella fase di esecuzione delle soluzioni negoziate non è prevista
obbligatoriamente ex lege la presenza di un organo deputato a svolgere un
controllo preventivo sugli «atti esecutivi» che il debitore vorrà compiere;
per tale ragione non può sussistere un controllo preventivo sulla conformità
dell’atto rispetto al programma stabilito nel negozio sulla crisi d’impresa.
Il controllo sarà sempre successivo rispetto al compimento o al mancato
compimento dell’atto. Tale controllo sconta, però, un deficit di effettività.
Qualora il commissario giudiziale o il professionista dovessero
riscontrare che l’atto compiuto dal debitore è difforme rispetto al contenuto
della soluzione negoziale omologata, non potranno denunciare al Tribunale
tale irregolarità, ma dovranno informare - senza indugio - i creditori
di atti e quant’altro si renda necessario per espletare l’attività liquidatoria. Per cui, alla luce
della modifica dell’art. 160 l. fall., in forza del quale la proposta può assumere un contenuto
pienamente libero e discrezionale e, quindi dell’accentuato carattere negoziale «sarebbe del
tutto improprio concepire l’applicabilità di norme con cui di impongono vincoli o limiti
pubblicistici nei confronti del proponente. Piuttosto, poiché il contenuto della proposta è
sottoposto all’esame dei creditori, potrebbe accadere che questi ultimi non condividano
determinate clausole o specifiche modalità negoziali di esecuzione stabilite nella proposta.
In quest’eventualità i creditori potrebbero anche non approvare il concordato», così: G. Lo
Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 539.
311
Cfr. G. Lo Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 541: «Se
il Tribunale dovesse procedere alla nomina di un liquidatore giudiziale diverso da quello
indicato dal debitore, o dettare talune modalità di esecuzione, in sostituzione di quelle
previste dal debitore, o disporre in modo contrario al contenuto del piano, ci sembra che si
finirebbe per ledere le aspettative del debitore di poter regolare la sua insolvenza, secondo
quelle clausole inserite nella proposta che è stata approvata dai creditori ed omologata dal
Tribunale, dando luogo alla violazione di un diritto soggettivo e legittimando la
proponibilità del ricorso per cassazione».
187
pregiudicati dal comportamento del debitore. Per cui, se fosse stato posto in
essere un «atto esecutivo» difforme rispetto al programma negoziale, ad
esempio, proprio un atto dispositivo a favore di un creditore e in pregiudizio
di altri, tale atto dovrà ritenersi comunque valido ed efficace.
La validità e l’efficacia dell’«atto esecutivo» non potrà essere contestata né
dal commissario giudiziale (o dal professionista deputato al controllo della
fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione), né dai creditori. Il
commissario giudiziale e il professionista non potranno agire per ottenere la
risoluzione della soluzione negoziata, né potranno impugnare i singoli atti
esecutivi e denunciarne l’illegittimità.
I singoli atti esecutivi, per vero, non potranno essere impugnati neppure
dai creditori. Quest’ultimi potranno agire - nel rispetto delle forme e dei
termini propri di ogni soluzione negoziata - soltanto per ottenere la
risoluzione o l’annullamento del negozio sulla crisi d’impresa.
In sintesi: durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziali i creditori
potranno denunciare il mancato compimento degli atti esecutivi delle
soluzioni negoziate in loro favore, ma non potranno impugnare gli atti
esecutivi compiuti in favore degli altri creditori.
Nella fase esecutiva non sussiste la possibilità di prevenire il compimento
degli atti esecutivi che si discostassero dal programma negoziale, né di
contestare gli atti esecutivi tramite i quali venisse accordato un trattamento
preferenziale in favore di alcuni creditori.
Tale lacuna fomenta il duplice rischio: a) che il debitore proceda ad un
irregolare svolgimento della fase esecutiva, preferendo i creditori che hanno
acquisito il vantaggio informativo a discapito degli altri che siano ancora
ignari delle sopravvenute incapacità di adempimento; b) che i creditori in
possesso del vantaggio informativo cerchino di stringere accordi con il
debitore, chiedendo, ad esempio, pagamenti e garanzie pur di non agire con
l’azione di risoluzione, essendo consapevoli che gli atti compiuti in loro
188
favore saranno esonerati dall’azione revocatoria in caso di conversione della
procedura in fallimento.
Ora, in quest’ultimo caso è evidente che si verificherebbe un vero e
proprio «abuso» del beneficio dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma
3°, lett. e) l. fall. (312).
A seguito delle recenti riforme, al debitore è stata concessa la possibilità
di avanzare la domanda di concordato anche qualora si trovi in stato di crisi.
Ciò significa che al debitore è stata accordata la possibilità di rendere
pubblica, di propria iniziativa, la situazione di difficoltà ad adempiere
regolarmente le proprie obbligazioni. Per cui - in tesi - durante la fase
esecutiva nessun creditore potrebbe vantare e sfruttare un vantaggio
informativo in danno degli atri creditori: lo stato di crisi e l’incapacità
patrimoniale sono stati resi noti a tutti i creditori dallo stesso imprenditore.
Anzi, la parità di informazione tra i creditori e la conseguente possibilità di
conoscere la reale capacità patrimoniale dell’imprenditore, è proprio ciò che
giustifica l’esonero dall’azione revocatoria per gli atti, i pagamenti e le
garanzie conseguite durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziali.
Ma se durante la fase esecutiva un creditore riuscisse a conseguire un
vantaggio informativo rispetto agli altri creditori e in forza di ciò potesse
pronosticare che la soluzione negoziale non fosse più idonea a garantire
312
Il riferimento è alla categoria dell’abuso del diritto la quale presuppone un’analisi
endemica all’esercizio della situazione soggettiva di vantaggio, più precisamente di
un’articolata valutazione del caso concreto. Tale categoria è tradizionalmente posta in
funzione «correttiva» dell’ambito di applicazione delle regole giuridiche che permettono al
titolare del diritto soggettivo di vantare o pretendere posizioni di vantaggio, per l’ipotesi in
cui l’applicabilità delle norme si dilati fino a comprendere casi nei quali l’esito finale e
concreto si rilevi ingiustificato alla luce dei principi generali dell’ordinamento, cfr: U.
Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico
italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1958, 18. Nella giurisprudenza si afferma che l’abuso
del diritto: «è una violazione delle buona fede e consiste nel contegno del contraente che
esercita il diritto per uno scopo diverso da quello che è preordinato dalla legge o dal
contratto», così ex multis Cass. 16 ottobre 2003, n. 15492, in Foro it. 2004, 1845; v. anche:
Cass. 11 dicembre 2000, n. 15592, in Foro it. 2001, I, 2374 e più approfonditamente Cass.
sez. un. 26 giugno 2009, n. 20106, Giur. comm. 2011, II, 286.
189
l’adempimento, è chiaro che tale creditore verrebbe a porsi in conflitto con
tutti gli altri creditori ancora ignari.
Si tratterebbe, a ben vedere, della stessa situazione di conflitto che si
potrebbe creare anche prima della dichiarazione di fallimento.
Ora, è altrettanto evidente che non vi può essere differenza tra gli atti
dispositivi compiuti dal debitore in favore dei creditori detentori di un
vantaggio informativo prima della dichiarazione di fallimento, e gli atti
esecutivi della soluzione negoziata compiuti in favore dei creditori
ugualmente in possesso di un vantaggio informativo per evitare che costoro
chiedano la risoluzione del negozio sulla crisi d’impresa (313).
Entrambe le ipotesi presentano i medesimi presupposti oggettivi (i.e. un
atto dispositivo e diminutivo della garanzia patrimoniale) e soggettivi (i.e. la
consapevolezza di arrecare un pregiudizio agli altri creditori).
Tuttavia, il contesto nel quale sono compiuti gli atti dispositivi del
patrimonio implica un diverso regime di efficacia degli atti stessi nei
confronti della massa dei creditori fallimentari:
a) gli atti dispositivi compiuti nel periodo antecedente la dichiarazione di
fallimento potranno essere dichiarati inefficaci rispetto alla massa dei
creditori;
b) gli atti esecutivi del negozio sulla crisi d’impresa - compiuti
ovviamente nel medesimo periodo antecedente l’apertura della procedura
fallimentare - beneficeranno dell’esonero sancito dall’art. 67, comma 3°,
lett. e) l. fall.
313
Cfr. L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei
diritti dei creditori, cit. 194, per il quale il coinvolgimento dei creditori “informati” sullo
stato patrimoniale del debitore non è giustificato ed appare eccessivamente oneroso solo:
«a) per chi non è finanziatore, in quanto, è inutile e costoso imporre a tutti di monitorare il
debitore, e si deve limitare quest’onere solo a coloro che hanno finanziato l’impresa e che
hanno strutture e mezzi idonei allo scopo; b) per chi ha collaborato con l’imprenditore ad
una soluzione cercata, in buona fede e con mezzi idonei, al fine di evitare al debitore una
costosa e non sempre efficiente (e dunque evitabile) procedura concorsuale».
190
Ma gli atti esecutivi compiuti in tale ultima ipotesi non sarebbero stati
compiuti in favore dei creditori in condizione di uguaglianza informativa tra
loro e volti a risolvere la crisi nel rispetto di quanto concordato, in quanto
sarebbero stati compiuti in una condizione di disuguaglianza informativa al
fine esclusivo di accordare un trattamento preferenziale. Per cui, se a tali atti
si riconoscesse l’esonero dall’azione revocatoria fallimentare, si finirebbe
per ricadere, a ben vedere, in una evidente ipotesi di abuso del diritto, dal
momento che gli atti esecutivi non presentano i presupposti oggettivi, né le
finalità soggettive predeterminate dall’ordinamento (314).
L’esonero sancito dall’art. 67, comma 3° lett. e) l. fall. sarebbe accordato
ad atti che né dal lato oggettivo, né da quello soggettivo perseguono in
concreto l’interesse meritevole di tutela in forza del quale il beneficio
dell’esenzione è attribuito dall’ordinamento (315). L’ordinamento, infatti, ha
314
Come noto, risulta sempre più abbandonata la concezione formalistica del diritto, la
quale tendeva ad interpretare le categorie giuridiche mediante criteri ontologici, mentre va
sempre più affermandosi un indirizzo antiformalistico che punta ad interpretare il diritto
sostanziale attraverso paradigmi assiologici, quali la proporzionalità, la buona fede o la
giustizia del contratto, mediante i quali si pretende di verificare la corrispondenza concreta
del precetto normativo ai principi dell’ordinamento. Partendo, quindi, da tale premessa, la
buona fede diviene il parametro di valutazione delle condotte concrete, ovvero, il criterio
discriminante tre esercizio consentito del diritto ed esercizio abusivo. Quest’ultimo sarebbe,
pertanto, ravvisabile nel caso in cui l’esercizio concreto del diritto avvenga in contrasto con
i principi regolatori di un determinato settore dell’ordinamento giuridico, in quanto il
titolare esercita il diritto al fine di appropriarsi di «utilità diverse ed ulteriori» rispetto a
quelle che l’ordinamento è disposto ad assegnargli in astratto e in modo da ledere situazioni
giuridiche soggettive altrui, cfr. R. Orestano, Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche,
Bologna, 1978, passim; U. Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato 1997. III. L’abuso
del diritto, Padova, 1997, 11; P. Rescingo, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 68; D.
Messinetti, Abuso del diritto, in Enc. dir. II, Agg. Milano, 1998, 15; F. D. Busnelli - E.
Navetta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Studi in onore di Pietro Rescingo,
Milano, 1998, 171; G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, in Riv. dir. priv. 2000,
21; M. Attinenza - J.R. Manero, Illeciti atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo
sviamento di potere, Bologna, 2004, passim; F. D. Busnelli, «Illeciti atipici» e il dibattito
su regole e principi, in Eur. dir. priv. 2006, 1035; G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona
fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, 19.
315
La dottrina costruisce il giudizio di abusività come un’articolata valutazione concreta
dell’equilibrio fissato dall’autonomia privata, ovverosia dei diritti e doveri che
caratterizzano l’esercizio e la struttura dei poteri delle parti, in modo da effettuare il
confronto e la rispondenza con l’interesse giudicato ex ante dal legislatore meritevole di
tutela. L’indagine sull’esercizio concreto del diritto deve, pertanto, essere svolta avendo
riguardo non solo alla fattispecie contrattuale ma anche ai profili esterni ad essa, ovverosia
191
scelto di accordare agli «atti esecutivi» della soluzione negoziale il
beneficio dell’esonero dall’azione revocatoria, al fine di indurre i creditori a
fornire il consenso alla risoluzione negoziale della crisi d’impresa. Ma
l’esecuzione della soluzione negoziata - come visto poc’anzi - deve avvenire
in condizioni di parità informativa tra i creditori o, per lo meno, i creditori in
possesso di un vantaggio informativo non devono poter conseguire, in forza
di ciò, vantaggi patrimoniali.
Si verserebbe, pertanto, in una ipotesi di abuso del diritto se si
riconoscesse l’effetto previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. agli atti
esecutivi: a) che fossero compiuti in favore di singoli creditori in possesso
di un vantaggio informativo; b) che integrassero un trattamento
preferenziale in violazione del programma negoziale, con pregiudizio degli
altri creditori ancora ignari della sopravvenuta incapacità della soluzione
negoziata (316).
Se, dunque, le effettive modalità con cui fosse compiuta l’esecuzione
della soluzione negoziale risultassero inequivocabilmente volte al
perseguimento di un obiettivo contra ius, la concessione del beneficio
alle circostanze che partecipano in varia misura alla composizione dell’assetto di interessi,
verificando in concreto la rispondenza delle condotte delle parti del negozio al modello
astratto di riferimento, cfr. D. Messinesi, Abuso del diritto, in Enc. dir. II, Agg. Milano,
1998, 5; M. Costanza, Brevi note per non abusare dell’abuso del diritto, in Giust. civ.
2001, I, 2444; G. Amadio, L’abuso dell’autonomia contrattuale tra invalidità e
adeguamento, in Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma? Le
prospettive di una novellazione del Libro IV del Codice civile nel momento storico attuale,
in Riv. dir. civ. 2006, 255.
316
La categoria dell’abuso è, invero, impiegata al fine di sondare il contenuto di un
programma negoziale e connotare l’«asimmetria di un potere contrattuale», così: V. Roppo,
Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria del
potere contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv. 2001, 775.
In particolare, la categoria dell’abuso del diritto è volta a stigmatizzare le relazioni tra
l’esercizio del diritto soggettivo e l’iniziativa economica, nei termini di disvalore dello
sfruttamento del potere economico-informativo, cfr. R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del
diritto, in G. Alpa - M. Graziadei - A. Guarnirei - U. Mattei - P. G. Monateri - R. Sacco, Il
diritto soggettivo, Torino, 2001, 281;
192
potrebbe risultare distonica rispetto alla giustificazione sistematica della
disposizione che lo contempla (317).
Si potrebbe obiettare che nella fattispecie in esame non è possibile
ravvisare il tradizionale schema dell’abuso, il quale presuppone un esercizio
del diritto in modo esorbitante rispetto ai fini previsti dall’ordinamento.
L’esonero dall’azione revocatoria fallimentare è ricollegato indistintamente
ex lege a favore degli atti esecutivi del negozio sulla crisi d’impresa, allo
scopo di indurre i creditori a fornire il consenso per la definizione negoziale
della crisi d’impresa.
Tuttavia, nella fattispecie in esame la finalità del legislatore verrebbe ad
essere deviata, dato che il beneficio sarebbe attribuito ad «atti esecutivi»
compiuti per occasione iris contra naturale aequitatem: il beneficio
previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. non rappresenterebbe più
infatti il “premio” che l’ordinamento è disposto a riconoscere ai creditori per
aver aderito alla soluzione negoziale, ma uno strumento fonte di
disuguaglianza, utilizzato per avvantaggiare coloro che hanno preteso e
ottenuto vantaggio economici in virtù di un vantaggio informativo (318).
317
Cfr. Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274, in Fall. 2011, 403 secondo cui: «l’abuso del
diritto altro non è se non una particolare esplicazione del principio della buona fede, inteso
non solo quale parametro di comportamento ma anche quale limite all’esercizio dei diritti».
318
L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit. 277, per il quale:
«Una richiesta di pagamento non soddisfatta ha un prezioso contenuto informativo che i
creditori, aggredendo senza incertezze il debitore, fanno emergere nell’interesse generale.
La non revocabilità del pagamento ottenuto, in un sistema in cui il debitore ha un incentivo
a rivolgersi al giudice chiedendo di essere protetto contro i creditori, è il prezzo che deve
essere pagato perché la crisi venga tempestivamente affrontata, con minore perdita di tutti.
Questa considerazione costituisce al contempo la giustificazione della non revocabilità dei
pagamenti e il suo limite. Nessuna tutela devono infatti avere i pagamenti preferenziali, cioè
quelli fatti dal debitore che consapevolmente attribuisce un beneficio ad alcuni creditori,
che a loro volta sono consapevoli di ricevere tale beneficio. Nessuna tutela devono inoltre
avere i pagamenti ottenuti a ridosso dell’apertura della procedura, quando ormai la crisi era
divenuta palese: questi pagamenti non hanno infatti alcun valore di spinta alla tempestiva
emersione della crisi, e l’informazione al pubblico dominio non deve essere pagata a
nessuno». Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente il principio di correttezza
rappresenterebbe una traduzione normativa del divieto di abuso del diritto: Cass. 5 maggio
1995 n. 4923, in Soc. 1995, 1548; Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm. 1996, II,
332; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353, in Soc. 2004, 188; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387,
in Foro it. 2006, 3467; Cass. 7 novembre 2008, n. 26842, in Giur. comm. 2010, II, 256.
193
7. - Alla luce di quanto precede, occorre allora interrogarsi sulle
conseguenze che potrebbero derivare dall’abuso dell’art. 67, comma 3°, lett.
e) l. fall.
Nel caso in cui l’esenzione sancita dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall.
fosse accordata ad atti che non presentino le condizioni oggettive, né le
condizioni soggettive supposte dall’ordinamento per la concessione del
beneficio, si darebbe luogo, evidentemente, ad una «ingiustificata»
diminuzione della garanzia patrimoniale assoggettabile all’esecuzione
concorsuale.
L’abuso dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall.
consentirebbe: a) un ingiustificato accrescimento patrimoniale del singolo
creditore che avesse conseguito il vantaggio informativo; b) una
ingiustificata diminuzione del patrimonio destinato alla soddisfazione di
tutto il ceto creditorio.
L’accrescimento patrimoniale del singolo creditore e la diminuzione
della generica garanzia patrimoniale potrebbero ritenersi «ingiustificati» in
quanto, da un verso, il creditore conseguirebbe un trattamento preferenziale,
senza che gli altri creditori, né il commissario giudiziale del concordato
preventivo, né l’eventuale professionista nominato dai creditori aderenti
all’accordo
di
ristrutturazione
possano
immediatamente
contestare;
dall’altro verso, l’esenzione sancita dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall.
consentirebbe a tale creditore di vantare un vantaggio patrimoniale nel
concorso fallimentare e di partecipare alla distribuzione del ricavato in una
condizione di disuguaglianza rispetto agli altri creditori.
La procedura concorsuale - come visto sopra - è volta a risolvere il
conflitto tra i creditori prefallimentari derivante dall’incapacità patrimoniale
dell’imprenditore. Il sistema fallimentare tende, infatti, ad impedire che il
vantaggio informativo acquisito nel periodo antecedente l’accertamento
della sopravvenuta insolvenza, consenta ai creditori di vantare nel concorso
194
fallimentare una condizione di disuguaglianza rispetto agli altri creditori,
ignari della sopravvenuta incapacità del debitore. I creditori devono
partecipare al riparto dell’attivo concorsuale nel rispetto di una duplice
identità: a) la percentuale di adempimento riconosciuta ai creditori che
hanno uguale natura e rango; b) la posizione rispetto al patrimonio
dell’imprenditore nel momento in cui si presume che l’incapacità
patrimoniale fosse conoscibile.
Sennonché, è evidente che la disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e)
l. fall. impedisce di perseguire la predetta duplice identità.
Dal punto di vista sistematico l’effetto sancito dalla disposizione dell’art.
67, comma 3°, lett. e) l. fall. implica che: a) in via diretta, il curatore
fallimentare non potrà agire per ripristinare le condizioni in cui versavano i
creditori nel momento in cui si è manifestata l’incapacità del piano posto a
fondamento della soluzione negoziata; b) in via riflessa, la garanzia
patrimoniale destinata al soddisfacimento dei creditori concorsuali si ridurrà
in proporzione all’ammontare degli atti esecutivi eventualmente compiuti
nel c.d. periodo «sospetto», i quali resteranno efficaci nei confronti della
massa.
Se la riduzione della garanzia patrimoniale dipendesse dall’abuso
poc’anzi rappresentato, i creditori che non hanno potuto o voluto sfruttare il
vantaggio
informativo
per
conseguire
un
vantaggio
patrimoniale,
subirebbero un «ingiustificato» pregiudizio in sede di ripartizione
fallimentare.
Pertanto, ove si verificasse l’abuso dell’effetto sancito dall’art. 67,
comma 3°, lett. e) l. fall. la diminuzione della garanzia patrimoniale
andrebbe a pregiudizio dei creditori: a) che non hanno potuto acquisire un
vantaggio informativo sulle capacità di adempimento del debitore agli
impegni assunti nel negozio sulla crisi d’impresa; b) che hanno mantenuto le
loro aspettative di soddisfacimento conformemente a quanto l’imprenditore
195
aveva offerto nel negozio sulla crisi d’impresa, senza pretendere alcun
vantaggio patrimoniale.
Viene quindi ad emergere un’ulteriore categoria di creditori aventi
posizione giuridica subordinata a quella delle altre parti del negozio. L’atto
dispositivo del patrimonio compiuto dal debitore a favore di un creditore si
rifletterà infatti sul patrimonio del debitore a danno di tutti gli altri creditori
(319).
Dunque, da un verso, la garanzia patrimoniale assoggettabile ad
esecuzione concorsuale si ridurrà proporzionalmente, con pregiudizio delle
aspettative di soddisfacimento dei creditori estranei all’atto dispositivo;
dall’altro verso, il creditore che ha preteso ed ottenuto il trattamento
preferenziale, al fine di non rendere nota la sopravvenuta incapacità del
debitore, accrescerà il proprio livello di soddisfacimento, in quanto l’atto
dispositivo non potrà essere dichiarato inefficace in virtù dell’art. 67,
comma 3°, lett. e) l. fall.
Quindi, l’abuso dell’esenzione consentirà al creditore di aumentare il
proprio livello di soddisfacimento, in pregiudizio degli altri creditori.
I creditori estranei all’abuso saranno pertanto «terzi» rispetto all’atto
dispositivo, ma anch’essi partecipano all’interesse meritevole di tutela in
forza del quale il beneficio è concesso dall’ordinamento. Come ormai
assodato, i creditori hanno interesse a conseguire l’adempimento delle loro
obbligazioni in conformità al negozio concluso con il debitore e, in
particolare, nella misura - per quanto concretamente possibile - più
conveniente. Più precisamente, durante la fase esecutiva, i creditori
pretendono: a) di essere soddisfatti integralmente, ma nei limiti di quanto
319
Cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 261, e 265 e ss ove l’A.
rileva che: ‹‹Un negozio giuridico può, per sua destinazione oppure in via riflessa e
accidentale, avere rilevanza giuridica e produrre effetti anche in capo a persona diversa
dalle parti»
196
loro promesso dal debitore; b) che l’esecuzione avvenga nel rispetto del
piano approvato dai creditori.
Appare allora utile il ricorso alla categoria dell’abuso del diritto, di cui si
possono ravvisare gli estremi alla luce delle finalità perseguite dal debitore e
dal creditore.
Se, da un verso, il debitore ha interesse a ritardare l’emersione della
sopravvenuta incapacità ad eseguire integralmente la soluzione negoziata;
dall’altro verso, il creditore ha interesse ad accrescere il proprio
soddisfacimento e sottrarsi al conflitto con gli altri creditori.
Per cui, se l’esonero dall’azione revocatoria fallimentare fosse
riconosciuto anche a tali «atti esecutivi», sebbene ciò sia consentito
all’interno della cornice legale, in concreto, darebbe origine ad una
«ingiustificata» sproporzione tra il beneficio concesso al creditore e il
sacrificio imposto a tutti gli altri c.d. «terzi-creditori».
Vi sarebbe, pertanto, un abuso del beneficio previsto dall’art. 67, comma
3°, lett. e) l. fall. ogni qualvolta l’esonero fosse accordato ad «atti esecutivi»
la cui funzione teleologica - obiettiva e soggettiva - fosse unicamente quella
di accordare un trattamento preferenziale ad un creditore dotato di un
vantaggio informativo sulla sopravvenuta incapacità patrimoniale.
8. - É evidente, allora, che la concessione del beneficio dell’art. 67,
comma 3°, lett. e) l.fall. andrebbe preceduta da un giudizio mirato ad
accertare
la
«meritevolezza» dell’esenzione
dall’azione
revocatoria
fallimentare.
Tale giudizio si pone, a ben vedere, alla stregua del giudizio sul
vantaggio economico svolto dal Tribunale nella fase di omologazione.
Entrambi i giudizi rappresenterebbero due corollari fondamentali del potere
giurisdizionale di estendere il vincolo negoziale nei confronti dei c.d. «terzicreditori».
197
L’accertamento del vantaggio economico del negozio sulla crisi
d’impresa - svolto nel giudizio di omologazione – servirebbe ad evitare che
l’estensione del vincolo negoziale in capo ai c.d. «terzi-creditori» - quale
effetto diretto del provvedimento di omologazione - produca un
ingiustificato e irragionevole pregiudizio in capo ai creditori che non hanno
prestato il consenso alla soluzione negoziata (320).
Così, allo stesso modo, l’accertamento della meritevolezza dell’esenzione
dall’azione revocatoria fallimentare, sarebbe volto ad evitare che si produca
una ingiustificata e pregiudizievole diminuzione della garanzia patrimoniale
destinata al soddisfacimento dei creditori concorsuali del fallimento.
Il giudizio in parola consentirebbe, dunque, di compiere un sindacato di
più ampio spettro: verificare che le discriminazioni prodotte tra i creditori in
forza della disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. possono
reputarsi ragionevoli e giustificate dal punto di vista sistematico. In altri e
più precisi termini, il giudizio servirebbe a verificare che l’esonero dell’art.
67, comma 3°, lett. e) l. fall venga concesso solo ad «atti esecutivi» aventi
una finalità - oggettiva e soggettiva - sincronica rispetto al moderno sistema
di regolamentazione negoziale della crisi d’impresa.
Come assodato, in virtù della previsione legale in esame, sussiste un
diverso regime di efficacia per gli atti dispositivi del patrimonio compiuti
dal debitore in favore dei creditori, in quanto: a) gli atti dispositivi del
patrimonio, compiuti prima che il debitore renda nota l’incapacità
patrimoniale e che rientrino nel c.d. periodo sospetto, possono essere
dichiarati inefficaci rispetto alla massa dei creditori concorsuali tramite
l’azione revocatoria fallimentare, e ciò anche qualora si arrivasse alla
dichiarazione di fallimento a seguito della risoluzione o annullamento della
soluzione negoziale (321); b) gli atti esecutivi della soluzione negoziale
320
Si rinvia a quanto detto nel Cap. II
Cfr. il nuovo art. 69, comma 2°, l. fall. sulla c.d. consecuzione delle procedure
concorsuali
321
198
compiuti nel medesimo periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento
non potranno essere dichiarati inefficaci e il creditore che ne ha beneficiato
potrà vantare una garanzia nel successivo fallimento, ovvero, potrà
conservare il pagamento ottenuto.
Il giudizio in esame, quindi, dovrebbe essere svolto alla luce di tutte le
circostanze del caso concreto, in particolare, mediante l’adozione di una
prospettiva euristica che consideri il complesso assetto degli interessi
coinvolti tanto nell’esecuzione della soluzione negoziale della crisi
d’impresa, quanto nell’esecuzione concorsuale del fallimento (322).
L’esonero dall’azione revocatoria fallimentare non potrà prescindere da
un’analisi della causa concreta che sorregge i singoli «atti esecutivi». Il
beneficio
in
questione,
più
precisamente,
non
potrà
prescindere
dall’accertamento della ragionevole giustificazione tecnica sottesa al
compimento dell’atto esecutivo.
Dal punto di vista speculare, gli effetti riflessi che si verificano sulla
garanzia patrimoniale non potrà verificarsi solo per via di una mera indagine
finalizzata ad accertare che gli atti dispositivi presentino le caratteristiche
astrattamente idonee per essere qualificati come «atti esecutivi» del negozio
sulla crisi d’impresa in conformità all’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall.
Occorre, invece, che l’effetto riflesso sulla garanzia patrimoniale si
verifichi solo all’esito di uno scrupoloso sindacato volto ad accertare che il
debitore e i creditori non abbiano inteso utilizzare la previsione legale
dell’esonero per perseguire finalità diverse e contrarie rispetto a quelle
meritevoli di tutela alla luce del moderno sistema di regolamentazione
negoziale della crisi.
322
In questo senso, sebbene riferito alla valutazione del Tribunale sulla formazione delle
classi di creditori, cfr. I. L. Nocera, Abuso del diritto nella formazione delle classi nel
concordato preventivo, in Dir. fall. 2012, II, 386, nota di commento a Trib. Milano. 19
luglio 2011.
199
Tale sistema, come noto, consente di derogare alla parità di trattamento
ed effettuare trattamenti discriminatori tra i creditori, a condizione che
quest’ultimi siano giustificati dal canone della ragionevolezza, nel senso che
consentano la risoluzione della crisi d’impresa e la soddisfazione dei
creditori (tutti) nella misura - per quanto concretamente possibile - più
conveniente (323). Di conseguenza, se durante l’esecuzione della soluzione
negoziale la ripartizione delle risorse economiche avvenisse in modo
difforme rispetto a quanto previsto nel negozio e il debitore accordasse
trattamenti preferenziali, la concessione dell’esonero darebbe luogo ad una
irragionevole discriminazione tra i creditori. Infatti, gli atti esecutivi
avrebbero perseguito finalità contrarie a quelle poc’anzi dette, perché
l’esecuzione avrebbe consentito unicamente di soddisfare uno o alcuni
creditori, e ciò si ripercuoterebbe in sede di esecuzione concorsuale in un
eccessivo ed ingiustificato sacrificio per tutti gli altri creditori.
Al fine di evitare che si produca tale eccessivo ed ingiustificato sacrificio
in capo ai c.d. «terzi-creditori» estranei all’abuso, è opportuno che l’esonero
dall’azione esecutiva sia accordato esclusivamente agli atti esecutivi che
presentino le condizioni di meritevolezza di protezione in conformità al
moderno diritto della crisi d’impresa.
9. – Va subito osservato che la protezione accordata agli «atti esecutivi»
mediante l’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. non si produce semplicemente
ope legis, in quanto la produzione dell’effetto è subordinata all’emissione
del provvedimento di omologazione della soluzione negoziata.
Al pari dell’effetto esdebitativo - che a norma dell’art. 184 l. fall. si
produce sui rapporti obbligatori dei c.d. «terzi-creditori» - anche la
323
F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, passim; F. Di
Marzio – F. Macario (a cura), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano. 2010,
passim; L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di
insolvenza, cit. 67; D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto
fallimentare fra diritto ed economia, Bologna, 2006, passim.
200
protezione accordata agli «atti escutivi» è un effetto ope judicis che deriva
dal provvedimento omologazione.
Alla luce della nuova disciplina della fase esecutiva e, in particolare, del
rischio di abuso paventato poc’anzi, il provvedimento di omologazione non
può costituire l’unica ed esclusiva condicio iuris in forza della quale tutti
«gli atti esecutivi» delle soluzioni negoziali dovrebbero reputarsi ipso iure
sottratti all’azione revocatoria fallimentare. Per evitare che si possa
verificare un abuso dell’esonero dall’azione revocatoria fallimentare è allora
opportuno che la protezione degli «atti esecutivi» sia subordinata ad un
accertamento della meritevolezza tutela dell’interesse perseguito nella fase
esecutiva.
Al fine di verificare l’ammissibilità di tale giudizio occorre muovere
dall’analisi dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall.
Innanzitutto, la norma non modifica i presupposti dell’azione revocatoria
fallimentare, ma esclude soltanto che gli «gli atti, i pagamenti e le garanzie
posti in essere in esecuzione» della soluzione negoziata siano sindacabili
alla luce dell’art. 67, comma 1° e 2°, l. fall.
L’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. esclude, in altri termini, la possibilità
giuridica di agire del curatore per ottenere la dichiarazione di inefficacia nei
confronti della massa fallimentare degli atti, dei pagamenti e delle garanzie
posti in essere in esecuzione di un concordato preventivo o un accordo di
ristrutturazione dei debiti. Se il curatore decidesse di agire con l’azione
revocatoria fallimentare per ottenere la declaratoria di inefficacia di un
pagamento, di una garanzia, ovvero, più in generale, di un atto a titolo
oneroso compiuto durante la fase esecutiva della soluzione negoziale,
l’azione intrapresa - a prescindere dell’esistenza dei fatti costitutivi della
domanda - dovrebbe essere dichiarata inammissibile, in quanto difetterebbe
una fondamentale condizione dell’azione.
201
L’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. rappresenta, pertanto, una “garanzia”,
tanto per i creditori che hanno dato il consenso alla soluzione negoziata,
quanto per coloro che sono rimasti «terzi», nel senso che gli «atti esecutivi»
compiuti in loro favore non potranno essere dichiarati inefficaci nei
confronti della massa fallimentare.
La garanzia ha una ben precisa ratio: nel momento in cui l’imprenditore
propone la soluzione negoziata rende noto a tutti i creditori che il
patrimonio è incapiente e che non può soddisfare regolarmente le proprie
obbligazioni. É ovvio, allora, che durante la fase esecutiva i creditori
percepiranno i pagamenti, ovverosia conseguiranno i diritti di prelazione,
nella piena consapevolezza dello stato di insolvenza in cui versa il
patrimonio del debitore. Per tale motivo, dunque, non ha senso assoggettare
all’azione revocatoria gli «atti esecutivi» della soluzione negoziata, in
quanto non vi è l’esigenza di rimuovere eventuali vantaggi patrimoniali
conseguiti in virtù di vantaggi informativi.
I creditori, infatti, sono
consapevoli che il patrimonio del debitore è incapiente e non consente il
regolare ed integrale adempimento di tutte le obbligazioni; e verosimilmente
proprio per tale ragione avranno dato il consenso alla ristrutturazione del
loro credito.
Dal lato opposto, i creditori che non hanno prestato il consenso
dovrebbero ricevere la loro tutela nell’accertamento giurisdizionale del
vantaggio economico della soluzione negoziale. Tale accertamento è
necessario per ricondurre nell’orbita dei principi costituzionali dettati in
materia di rapporti economici la disciplina degli artt. 184 e art. 182 - bis, 1°
comma, lett. a) e b), l. fall. che consentono l’estensione nei confronti dei c.d.
«terzi-creditori» degli effetti diretti (l’esdebitazione o la moratoria) del
provvedimento giurisdizionale di omologazione.
L’accertamento consacrato nel provvedimento di omologazione è frutto
di un giudizio di fatto, compiuto in relazione ad un preciso periodo di
202
tempo: l’arco temporale in cui si svolge la procedura giurisdizionale. Per
cui, l’accertamento del vantaggio economico altro non è che un giudizio
prognostico, compiuto alla luce delle circostanze di fatto esistenti e
sottoposte alla cognizione del Tribunale al momento della richiesta di
omologazione.
Di conseguenza, ove la soluzione negoziata, prima della sua integrale
esecuzione,
si
dovesse
convertire
nella
procedura
di
fallimento,
l’accertamento compiuto ex ante dal Tribunale verrà - di fatto - ad essere
disatteso.
Nella prospettiva strettamente negoziale la dichiarazione di insolvenza
del debitore e il suo conseguente assoggettamento al fallimento,
rappresentano la conclamata preclusione della finalità alla quale il negozio
sulla crisi d’impresa era preordinato.
In particolare, la conversione della soluzione negoziale nella procedura
fallimentare rappresenta la negazione della stessa causa dell’accordo, nel
senso di un «difetto funzionale» del negozio stesso.
La conversione della soluzione negoziata nella procedura concorsuale del
fallimento mostrerebbe, quindi, l’intrinseca e potenziale caducità del
negozio sulla crisi d’impresa, derivante dal venir meno del presupposto,
esplicito o implicito che sia, dell’effettiva possibilità di recupero
dell’impresa coinvolta (324).
Ora, il nuovo sistema di risoluzione negoziale della crisi, da un lato,
tende a facilitare la conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, ma
dall’altro lato, non accorda rilievo alle sopravvenienze di fatto che,
324
Tale profilo è stato approfondito in particolar modo in riferimento all’accordo di
ristrutturazione dei debiti cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di
ristrutturazione dei debiti, cit. 361; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti
“di salvataggio” cit. ; quanto al concordato preventivo, v. F. Macario, Insolvenza, crisi
d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele,
Riv. soc. 2008, 131 ss.
203
successivamente alla conclusione del negozio, potrebbero impedire
l’integrale esecuzione della soluzione negoziata.
Le c.d. sopravvenienze fattuali vengono in rilevo soltanto nell’ottica dei
c.d. effetti negoziali, quali vizi funzionali ostativi all’esecuzione
dell’accordo. Il mutamento delle circostanze è rilevante solo nell’ambito
delle c.d. azioni negoziali idonee a caducare l’effetto della ristrutturazione
dei debiti (325).
Il sistema, invece, trascura l’incidenza delle sopravvenienze fattuali
nell’ottica degli effetti riflessi, che in forza dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.
fall. si possono ripercuotere sulla garanzia patrimoniale del debitore nel caso
di conversione della soluzione negoziata nella procedura di fallimento (326).
Il legislatore, in altri termini, ha trascurato l’incidenza delle
sopravvenienze fattuali nell’ottica del peggioramento delle condizioni subite
dai creditori in caso di conversione della soluzione negoziale nella
procedura fallimentare, interessandosi soltanto di favorire e agevolare la
conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, tanto da introdurre il premio
dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare per indurre i creditori a
prestare il consenso.
325
In riferimento all’accordo di ristrutturazione dei debiti cfr. M. Sciuto, Effetti legali e
negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 360 il quale rileva che: «In linea di
principio, e dal punto di vista sostanziale, parrebbe doversi ritenere che a seguito della
sentenza di fallimento si caducheranno tutti gli effetti negoziali dell’accordo omologato».
326
In questo senso cfr. G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 27, le cui
osservazioni possono essere estese anche al concordato preventivo: «L’esenzione dalla
revocatoria fallimentare prevista nell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. nella prospettiva del
creditore estraneo, significa che si riduce il patrimonio oggetto dell’esecuzione fallimentare
ovvero che aumentano le pretese che in tale sede possono essere fatte valere in concorso
con la sua. In entrambi i casi la situazione non cambia: la sua fetta si riduce perché la torta è
più piccola e/o perché la misura delle altre fette è aumentata. [...] Mi pare sufficiente per
dimostrare la ragione che ha indotto il legislatore a richiedere l’omologazione degli accordi
di ristrutturazione come condizione necessaria per fruire dall’esenzione da revoca. Nel caso
che abbiamo ipotizzato il nostro creditore ha agito su due leve: da un lato, ha concesso una
dilazione; dall’altro lato, non essendo samaritano né tantomeno buono, ha acquisito una
garanzia. É evidente che i due strumenti giocano su piani differenti: il primo, diminuendo la
probabilità di fallimento, va a beneficio di tutti i creditori; il secondo, invece, agendo
direttamente sulla specifica pretesa di quel creditore diminuendone la loss given default, va
a suo vantaggio esclusivo e, in modo direttamente proporzionale, a svantaggio degli altri».
204
L’unica preoccupazione del legislatore è stata quella di introdurre un
preventivo sindacato giurisdizionale nella fase genetica del negozio, volto
ad evitare che le parti intendano avvalersi dello strumento per operare il
trasferimento della ricchezza a vantaggio di alcuni creditori e a danno di
altri.
Ma è banale osservare come non si possa reputare sufficiente che la
proposta e il piano appaiano ex ante correttamente formulati, essendo
necessario che entrambi lo siano effettivamente ex post per tutto l’arco
temporale della fase esecutiva.
9.1 - L’incapacità del piano - sopravvenuta o originaria che sia - di
risolvere la crisi dell’impresa non va però considerata un vizio genetico del
negozio sulla crisi d’impresa, bensì un vizio funzionale dello stesso ( 327).
Tale difetto è il presupposto dal quale discenderebbe l’«inadempimento di
non scarsa importanza» alla proposta, che potrebbe giustificare la
risoluzione del concordato preventivo, da cui consegue la caducazione
retroattiva degli effetti esdebitativi e modificativi dei rapporti obbligatori
conseguenti all’omologazione ex art. 180 l. fall.
Alla risoluzione del concordato preventivo si ritiene applicabile, per
analogia, la disposizione dell’art. 140 l. fall. e, quindi, gli atti dispositivi del
patrimonio del debitore, compiuti in favore dei creditori, resteranno efficaci.
Quest’ultimi alla luce del combinato disposto degli artt. 140 ult. co. e 67,
comma 3°, lett. e) l. fall. potranno: a) insinuarsi nel concorso fallimentare
per l’importo originario del credito; b) trattenere le somme riscosse in
327
Una delle pronunce in materia di esecuzione del concordato, App. Firenze, 29
maggio 2012, reperibile su www.ilcaso.it, ha precisato che: «Nel procedimento di
concordato preventivo, il potere del Tribunale di valutare la fattibilità dell’accordo non può
avere ad oggetto la fattibilità del piano, il quale deve essere tenuto distinto dalla proposta
che costituisce l’oggetto dell’incontro delle volontà del debitore e dei creditori. Al piano
non potranno, pertanto, essere riferiti eventuali vizi genetici del negozio concordatario in
quanto esso altro non è che lo strumento per l’adempimento del concordato e la sua
fattibilità potrà avere rilievo esclusivamente nell’ambito dell’eventuale giudizio di
risoluzione del concordato».
205
parziale esecuzione del concordato preventivo, anche se conseguite nel
periodo c.d. sospetto immediatamente antecedente la dichiarazione di
fallimento; c) avvalersi delle garanzie ottenute durante l’esecuzione del
concordato sui beni dell’imprenditore.
Sennonché, alla luce di quanto precede, al fine di evitare che
dell’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare si traduca in un
eccessivo sacrificio per i creditori estranei agli atti preferenziali della fase
esecutiva, è necessario verificare, innanzitutto, che gli atti dispositivi del
patrimonio siano stati posti in essere «in esecuzione» di un piano e, in
secondo luogo, che tale piano fosse in quel momento effettivamente capace
di risolvere la crisi.
Come noto, nel giudizio di omologazione del concordato preventivo,
all’interno del perimetro di controllo demandato al Tribunale non rientra il
potere-dovere di accertare la c.d. fattibilità del piano posto alla base
dell’accordo tra il debitore proponente ed i creditori, in quanto essi, se
informati sin dall’inizio e durante le fasi successive, in modo veritiero e
trasparente sulla situazione aziendale e sulle ragioni di sostegno del piano
concordatario, ben possono accordare a quest’ultimo preferenza, rispetto
alla liquidazione concorsuale (328).
328
Il dibattito sulla possibilità di sindacare la fattibilità del piano da parte del Tribunale
non ha dato ancora una soluzione soddisfacente. Possono ritenersi esistenti tre distinte
ricostruzioni in ordine ai limiti del controllo giudiziale sulla fattibilità del piano
concordatario da parte del Tribunale. Secondo una prima opzione ermeneutica, che
sembrerebbe esse stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità, (v. Cass. 25 ottobre 2010,
n. 21860; Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274; 23 giugno 2011, n. 13817), occorre procedere ad
una interpretazione riduttiva dei poteri interdittivi esercitabili dal Tribunale sia in sede di
ammissione, sia nella successiva fase di omologazione del concordato, per cui il Tribunale
dovrebbe limitarsi ad una mera verifica sulla regolarità
e completezza della
documentazione allegata dalla parte proponente e sulla correttezza della procedura.
Secondo altro filone interpretativo, maggioritario tra la giurisprudenza di merito, il
Tribunale si dovrebbe far carico di valutare la fattibilità del piano. Sussiste poi una
soluzione c.d. intermedia che propende per un, non meglio definito, controllo di legittimità
sostanziale. Per ripercorre tale dibattito v. M. Vitiello, Sub art. 180 l. fall. in G. Lo Cascio,
Codice commentato del fallimento, cit. 1570.
206
Di fronte a tale scelta, consapevolmente deliberata, il Tribunale deve
invero limitarsi a prenderne atto e accertare:
a) la persistenza delle condizioni di ammissibilità della procedura (ex
artt. 160 e 161 l. fall.);
b) l’assenza di fatti che possano giustificare la revoca dell’ammissione
(ex art. 173 l. fall.);
c) la presenza del vantaggio economico per i «terzi-creditori»
assoggettati al vincolo della ristrutturazione (ex art. 184 l. fall.) e alla
moratoria legale (art, 182 - bis, 1° comma, lett. a) e b) l. fall.); tale
accertamento è necessario alla luce dei principi costituzionali di uguaglianza
e ragionevolezza (art. 3 Cost.) dell’iniziativa economica e dell’attività
d’impresa (art. 41 e 42 Cost.).
Il giudizio sulla realizzabilità della proposta, come mera prognosi di
possibilità di adempimento delle obbligazioni ristrutturate, compete,
dunque, solo ai creditori.
Ora, alcuni scenari delle fase esecutiva, per quanto ragionevolmente
presumibile, potrebbero anche essere previsti nella fase genetica del
concordato. Ma è ovvio che né l’imprenditore, né il Tribunale, né i creditori
potranno prevedere ogni possibile sviluppo, soprattutto, rispetto ad un
orizzonte temporale piuttosto lungo dell’ordine di alcuni anni.
La previsione dei possibili sviluppi della fase esecutiva non è, tuttavia,
necessaria, in quanto l’oggetto dell’accordo concordatario è rappresentato
essenzialmente da due elementi: la promessa del debitore di regolare la crisi
con determinate modalità e l’accettazione dei creditori, che a fronte di quella
regolazione rinunciano alla soddisfazione dei loro crediti nella misura
originaria.
Il concordato viene ad esistenza per effetto dell’incontro di queste due
volontà e - preme rilevare - l’oggetto dell’accordo tra l’imprenditore e
creditori è rappresentato soltanto dalla proposta e non dal piano.
207
Per tale ragione, l’inadeguatezza del piano non può essere considerata un
vizio genetico del negozio, in quanto non afferisce alla causa dell’accordo,
la quale consiste essenzialmente nell’interesse delle parti alla risoluzione
della crisi con modalità diverse dalla liquidazione concorsuale. In altri
termini, la prognosi di incapacità del piano non può integrare un vizio
genetico e non può ripercuotersi in un vizio della causa del negozio sulla
crisi d’impresa, tale prognosi non può condurre ad una declaratoria di nullità
dell’accordo e tale vizio non può essere rilevato dal giudice ex officio (ex
art. 1421 c.c.) nel giudizio di omologazione.
Ecco, allora, che occorre aver cura di non confondere i profili genetici
con quelli funzionali del negozio: i primi integrano l’oggetto del sindacato
giurisdizionale compiuto dal Tribunale nel procedimento di omologazione; i
secondi, invece, possono aver rilievo soltanto nella fase esecutiva.
Tale ripartizione si impone in virtù della rilevanza attribuita al consenso
espresso dalla maggioranza dei creditori, dall’assoluta ampiezza dei
contenuti sostanziali che può avere il piano di concordato (tanto da non
potersi più teorizzare una suddivisione tra concordati per garanzia e con
cessio bonorum ) e dall’elisione delle soglie minime di adempimento (sia in
relazione ai creditori privilegiati non capienti, ex art. 160, 2° comma, l. fall.
che ai chirografari).
Ma la ripartizione in parola induce a ritenere che sussista la possibilità di
invocare la risoluzione dell’accordo concordatario tutte le volte in cui
emerga la non fattibilità di quel piano, la cui fattibilità sia stata attestata al
momento della presentazione della proposta di concordato. L’impossibilità
di eseguire il piano concordatario rappresenterebbe il massimo grado di
inadempimento a cui potrebbe giungere il debitore, anche alla luce del
nuovo criterio dell’importanza dell’inadempimento introdotto dall’art. 186,
208
comma 2°, l. fall. (329). È evidente che a seguito della sopravvenuta
infattibilità del piano non potrà che discendere l’impossibilità di onorare gli
impegni concordatari, secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza
anteriore alla riforma .
Nel vigore della disciplina originaria del ’42 si riteneva che la risolubilità
anticipata del concordato preventivo fosse ammissibile nel caso in cui il
piano fosse diventato non più fattibile per cause non imputabili al debitore, e
ciò si giustificava sia in ragione della preminente rilevanza del mancato
soddisfacimento dei creditori sia, conseguentemente, del mancato
superamento dello stato di crisi (insolvenza) (330).
Nello specifico, si riteneva che la sopravvenuta incapacità del piano,
nell’ottica del concordato preventivo, integrasse un’ipotesi di conclamato
inadempimento ai sensi dell’art. 1219, comma 2°, n. 2 c.c. conseguente alla
dichiarazione del debitore di non poter o volere adempiere.
Più precisamente, secondo un orientamento la nozione stessa di
risoluzione implicava un giudizio a posteriori, da poter formulare soltanto
all’esito della cessione di tutti i beni e della definizione di tutti i rapporti
giuridici patrimoniali pendenti in capo al debitore, sì da poter poi valutare la
329
Trib. Milano, 9 marzo 2007, in Fall. 2007, 684; v. anche S. Ambrosini, Il concordato
preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Cottino (diretto da), Trattato di
diritto commerciale, Padova, 2008, 152; F. Marano, Commento art. 186 l. fall. in A. Jorio
(diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, II, 2609; contra G. Lo Cascio, Il
concordato preventivo, Milano, 2008, 844.
330
Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Fall. 1993, 807 la quale ha ritenuto l’impossibilità
fosse valutabile dal Tribunale durante la fase esecutiva ed anche in via prognostica,
allorquando «ancorché prima della liquidazione dei beni emerga, secondo il prudente
apprezzamento del giudice di merito, che il concordato medesimo sia venuto meno alla sua
funzione, per essere ragionevolmente prevedibile che le somme ricavabili dalla vendita dei
beni ceduti non possano essere sufficienti, per cause originarie o sopravvenute, a
soddisfare, nemmeno in minima parte, i creditori chirografari o, a maggior ragione, a
soddisfare integralmente i creditori privilegiati»; nello stesso senso cfr. Cass. 13 dicembre
1969, n. 3936, in Dir. fall. 1970, II, 393; Cass. 23 marzo 1976, n. 1073, in Foro it. 1977, I,
2023; Cass. 3 novembre 1981, n. 5790, in Foro it. 1983, I, 1092; v. anche nella
giurisprudenza di merito: Trib. Sulmona, 3 giugno 1999, in Fall. 1999, 1153; Trib. S. Maria
Capua Venere, 23 luglio 2002, in Fall. 2003, 224.
209
sussistenza dell’inadempimento idoneo a rappresentare causa di risoluzione
(331).
Viceversa, secondo altro orientamento la mancata conclusione del
procedimento non impediva la possibilità di dichiarare la risoluzione,
laddove si fosse stati certi che la liquidazione non avrebbe comunque
consentito il soddisfacimento delle ragioni creditorie privilegiate e almeno
in una qualche misura, delle chirografarie (332). Si riteneva che la risoluzione
fosse possibile anche nel caso di giudizi pendenti volti ad ottenere
l’accertamento di un credito in favore dell’imprenditore, se ciò non avesse
comportato alcun effetto favorevole per le possibilità satisfattorie della
procedura (333).
Prima della riforma, quindi, si ammetteva la risoluzione anticipata del
concordato preventivo qualora fosse emerso, con ragionevole certezza, che
il debitore non avrebbe potuto adempiere alle sue obbligazioni, in quanto il
contrario avrebbe significato imporre agli organi della procedura una inutile
attesa pregiudizievole per i creditori (334).
Ora, alla luce del mutato quadro normativo, la risoluzione anticipata del
concordato preventivo, a seguito della sopravvenuta incapacità del piano,
non potrebbe più avvenire per iniziativa degli organi della procedura.
331
Cfr. App. Milano, 12 febbraio 1968, in Dir. fall. 1968, II, 293; Trib. Napoli, 6 marzo
1997, in Fall. 1997, 1223; contra Cass. 10 gennaio 2005, n. 295, in Fall. 2005, 701: «in
materia di concordato preventivo con cessione dei beni, qualora sia disposta la vendita
all’asta dei beni, la fissazione del prezzo base non può ritenersi vincolata dall’importo della
somma necessaria a soddisfare i creditori, in quanto detto prezzo dipende esclusivamente da
valutazioni di mercato e anche se esso sia insufficiente al succitato scopo, non possono
ritenersi sussistenti, per ciò solo, i presupposti per la risoluzione del concordato, dato che
non è possibile prevedere se, ed in quale misura, all’esito della gara il prezzo di
aggiudicazione sarà superiore all’importo base, ferma restando l’intangibilità del diritto del
miglior offerente all’aggiudicazione anche nel caso in cui questa ipotesi non si sia
verificata».
332
Cfr. S. Satta, Diritto fallimentare, III ed. 1996, Padova, 516 e nota 59.
333
Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011, 695.
334
Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Dir. fall. 1993, II, 920; Trib. Milano, 20 settembre
2000, in Fall. 2001, 358.
210
Come noto, il commissario giudiziale non ha più la legittimazione ad
agire per richiedere risoluzione del concordato preventivo, né il Tribunale
può dichiararla d’ufficio. La risoluzione del concordato preventivo è
unicamente subordinata all’iniziativa di un creditore che deduca la
sussistenza del c.d. «inadempimento di non scarsa importanza».
Sennonché, come rilevato sopra, non tutti i creditori hanno la medesima
possibilità
di
compiere
giudizi
predittivi
sulle
effettive
capacità
dell’imprenditore di proseguire nella fase esecutiva della soluzione
negoziata.
Ecco, allora, che il sindacato sulla capacità del piano e sulla
meritevolezza degli «atti esecutivi» dipendeni dallo stesso, non potrà che
essere svolto soltanto a seguito della già avvenuta risoluzione del concorato
preventivo.
10. - Così ricostruito il tessuto normativo, è possibile pertanto prendere le
mosse dai dati che si sono raccolti in apertura dei lavori e da quelli
evidenziati in questa sede, per introdurre e regolare il giudizio sulla
meritevolezza degli «atti esecutiviı».
In particolare, interessa ricordare, innanzitutto, che gli effetti riflessi che
si producono sulla garanzia patrimoniale del debitore sono strettamente
subordinati all’emissione del provvedimento di omologazione della
soluzione negoziata. Più precisamente, il provvedimento in questione è stato
definito la condicio iuris che rende concreta la volontà di legge di esonerare
gli «atti esecutivi» delle soluzioni negoziate ex art. 67, comma 3°, lett. e) l.
fall.
L’effetto in questione non è un effetto ope legis in senso stretto, in
quanto la concessione del beneficio in parola è subordinata ad un preventivo
scrutinio giurisdizionale, volto ad evitare illegittimiti trasferimenti di
richezza a favore soltanto di alcuni creditori e in pregiudizio di altri.
211
Nel giudizio di omologazione è inibito ogni controllo giurisdizionale
sulla fattibilità del piano, dal momento che l’incapacità del piano integra –
come detto - un «vizio funzionale» del negozio e, pertanto, non può essere
rilevata d’ufficio nella fase genetica dell’accordo.
Ma tale «vizio funzionale» può essere conosciuto e accertato dal
Tribunale durante la fase esecutiva a seguito del ricorso presentato dal
creditore finalizzato ad ottenere la risoluzione della soluzione negoziale e, di
conseguenza, la caducazione degli effetti negoziali, anch’essi dipendeti dal
provvedimento omologazione.
Ciò chiarito, preme osservare che la possibilità di ottenere la risoluzione
delle soluzioni negoziali (e gli effetti che da queste discendono), induce a
ritenere che il provvedimento di omologazione non è suscettibile di
acquisire una assoluta stabilità formale; appare, cioè, evidente che il
provvedimento di omologazione non è effettivamente idoneo a vincolare in
assoluto le parti e il giudice agli effetti del negozio sulla crisi d’impresa.
Gli effetti diretti del provvedimento di omologazione (ex art. 184 l. fall. e
182 - bis comma 1°, lett. a) e b) l. fall.) possono essere rimossi mediante
l’esercizo delle azioni negoziali, esperibili a fronte della sopravvenuta
incapacità del piano a garantire l’esatto adempimento della soluzione
negoziata.
Occorre, però, verificare se il «difetto funzionale» poc’anzi rilevato,
possa giustificare anche la rimozione degli effetti riflessi che dipendono dal
provvedimento di omologzione.
La possibilità di contestare gli effetti riflessi non può prescindere
dall’analisi degli strumenti di contestazione del decreto di omologazione
della soluzione negoziata. In questa direzione, alla luce del carattere
camerale del provvedimento, diviene preliminare (ed assorbente di ogni
altra indagine) determinare se sia possibile ammettere l’esercizio del potere
di revoca nei confronti del decreto di omologazione.
212
Come noto, ai sensi dell’art. 742 c.p.c i decreti emessi all’esito del
procedimento in camera di consiglio «possono essere in ogni tempo
modificati o revocati».
Tale disposizione è suscettibile di applicazione analogica a ogni
provvedimento di natura giurisdizional-volontaria emesso all’esito di un
procedimento regolato dalle forme del procedimento camerale, in cui non
sia prevista una disposizione contraria o la disciplina del singolo
provvedimento non sia informata a criteri incompatibili con la possibilità di
ottenere la revoca (335).
Si è infatti affermato che la revoca non sarebbe configurabile per i
provvedimenti emessi all’esito di procedimenti regolati dalle forme del
procedimento in camera di consiglio e aventi sostanzialmente contenuto
decisorio o, comunque, incisivo su diritti soggettivi (336).
Si è, tuttavia, osservato che se il provvedimento è stato emesso all’esito
di un procedimento svolto secondo le forme del rito camerale si deve, di
conseguenza, accettarne anche la revocabilità, a prescindere dalla
individuazione di un oggetto contenzioso, ossia dalla deduzione nelle forme
camerali di un diritto soggettivo (337).
La revocabilità potrebbe essere esclusa solo per effetto dell’effettiva
predeterminazione legale delle forme e dei termini necessaria a trasforme il
basso tasso di formalità del procedimento camerale e la relativa cognizione
sommaria in un giusto processo a cognizione piena ed esauriente, ossia in un
335
G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione e
sull’opposizione dei motivi di revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. proc. civ. II, 1960,
205; il dato della generale revocabilità risulta poi confermato dalla limitata impugnabilità e
dalla inidoneità al giudicato formale e, di conseguenza, al giudicato sostanziale, cfr. A.
Cerino - Canova: Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di
giurisdizione volontaria, cit., 447 e 458; nel senso più liberare: E. T. Liebman, Id. Limiti
alla domanda di revoca di decreto “volontario”, in Giur. it 1957, I, 435.
336
G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione e
sull’opposizione dei motivi di revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. proc. civ. II, 1960,
205.
337
Cfr. A. Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c. in
cit. I, 435.
213
procedimento che assegni alle parti quella pienezza delle garanzie formali
che sono necessario presupposto del giudicato formale (ex art. 324 c.p.c.)
(338).
Ora, il provvedimento di omologazione delle soluzioni negoziate non ha
ad oggetto l’accertamento di situazione giuridiche perfette (i.e. diritti
soggettivi o status).
L’unico effetto di incisione che si verifica sul diritto soggettivo dei c.d.
«terzi-creditori» ai sensi degli artt. 184 l. fall. e 182 - bis, 1° comma, lett. a)
e b) l. fall. viene, tuttavia, caducato a seguito della risoluzione o
dell’annullamento a seguito dell’impugnative negoziali; si riespande, cioè,
la situazione giuridica soggettiva in precedenza compromessa dal
provvedimento di omologazione. Proprio per tale ragione in relazione al
provvedimento di omologazione delle soluzioni negoziate non potrebbe
trovare accoglimento l’orientamento poc’anzi richiamato, che esclude
dall’ambito applicativo della revoca il provvedimento che, oltre ad avere
carattere decisorio, avrebbe anche carattere definitivo, quindi, sarebbe
sostanzialmente equiparabile ad una sentenza (339).
10.1 – Ora, la revoca del provvedimento camerale viene considarata
l’esercizio di un nuovo potere giurisdizionale (340), che non può essere
338
A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 351 il
afferma che: «non basterà giustapporre al termine della trama camerale la mera
irrevocabilità, per consentire al provvedimento di soddisfare il bisogno di stabilità e
idoneità all’accertamento che si ricollega alle decisioni su diritti o stati personali. Non si
può attribuire in alcun modo alla irrevocabilità una simile virtù taumaturgica» e la stessa
virtù taumaturgica non può derivare neppure dalla sola garanzia offerta dalla impugnazione
di legittimità ai sensi dell’art. 111, Cost.
339
Pone, infatti, dei limiti alla revocabilità la giurisprudenza di legittimità, nel caso in
cui il provvedimento sia decisorio o incidente su diritti soggettivi: cfr. Cass. 28 novembre
1989, n. 5173, in Rep. Giust. civ. 1989, v. Adozione, n. 32 in tema di delibazione del
provvedimento straniero di adozione di cui all’art. 801 c.p.c. in quanto attribuirebbe al
minore lo stato di figlio adottivo.
340
Così chiaramente: E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in
camera di consiglio, in Giur. it. 1948, I, 327; Id. Limiti alla domanda di revoca di decreto
214
fondato, però, sul mero arbitrio del giudice, ma che deve essere subordinato
ad una ben precisa «causa», quale requisito essenziale di ogni atto
giudiziario (341), ossia si richiede l’individuazione dei motivi illegittimitàopportunità della precedente decisione (342).
La necessità di ancorare la revoca alla individuazione di motivi trova
fondamento, in realtà, oltre che nel generale richiamo alla «causa» richiesta
per ogni atto giudiziario, anche, se si osserva con attenzione, più nello
specifico, nella disciplina dei provvedimenti camerali stessi, laddove si
richiede ex art. 737 c.p.c. che tali provvedimenti debbano avere la «forma di
decreto motivato» (343).
“volontario”, in Giur. it 1957, I, 435. S. Satta, Il procedimento in camera di consiglio, in
Riv. comm. 430
341
Cfr. L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei
provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, cit. 619 ove si richiamano gli artt. 121,
131, 156 c.p.c. e l’obbligo di motivazione si deduce dall’art. 737 in deroga all’alt. 135, IV
comma, c.p.c. ; v. anche: 591 ss, effettua dei chiarimenti in merito ai procedimenti di
giurisdizione volontaria, affermando che «i provvedimenti giudiziari con efficacia di
giudicato o comunque consumativa delle azioni di parte e dei poteri decisori del giudice
[...] non sono di giurisdizione volontaria», affermando, altresì, che «i provvedimenti
conclusivi dei procedimenti in camera di consiglio, che sono esplicitamente assegnati dal
nostro legislatore alla giurisdizione volontaria, hanno tutti la caratteristica [...] di non
costituire di per sé soli compiute fattispecie ma o di vincolare in parte forme e contenuti di
futuri atti di diritto sostanziale o di concorrere immediatamente a costituire fattispecie
giuridiche che hanno negli atti di diritto sostanziale giudiziariamente autorizzati i loro
elementi finali o principali» contra E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti
pronunciati in camera di consiglio, cit. 328, che a proposito della stabilità del
provvedimento camerale rileva però che: «L’organo che l’ha emanato può cioè andare in
contrario avviso e provvedere nuovamente secondo ciò che ritenga conforme a diritto e
opportunità, senza essere vincolato dal provvedimento precedentemente pronunciato».
342
A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 302.
343
Nel senso della più liberale v. però: E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti
pronunciati in camera di consiglio, cit. 449 per il quale la revoca non deve essere
subordinata alle c.d. sopravvenienze, in quanto la possibilità di modificazioni quando
sopravvengono nuove circostanze è propria anche delle sentenze passate in giudicato, le
quali abbiano per oggetto un rapporto continuativo, mentre in relazione al provvedimento
camerale: «La legge all’interessato due strade, formalmente e praticamente molto diverse,
per ottenere il mutamento degli effetti prodotti dal provvedimento; preclusa la prima di
esse, rimane tutt’ora aperta l’altra, che consiste nella facoltà di riproporre la questione allo
stesso organo che ha provveduto, con la speranza di indurlo a mutare il proprio
convincimento. Si badi: così è e così deve essere, non solo perché questo è il senso
trasparente delle disposizioni legali ricordate, ma anche perché questo e non altro significa
negare che i provvedimenti di questa categoria valgono come cosa giudicata. Usando una
terminologia da me proposta altra volta, dirò che ad essi spetta efficacia (cfr. art. 741 c.p.c.)
215
Ai fini dell’indagine sulla revoca del provvedimento di omologazione la
disposizione poc’anzi richiamata viene pertanto in rilievo in un duplice
senso: da un verso, impone di individuare i motivi che possono condurre alla
revoca del provvediemento; dall’altro verso, mostra che la revoca del
provvedimento camerale è strutturata come un mezzo di impugnazione a
critica libera, nel senso che la cognizione del giudice non è limitata a
determinati presupposti prefissati dalla legge per l’esercizio del potere di
revoca (344). I motivi che possono giusitificare la revoca del decreto
camerale integrano l’unico presupposto oggettivo in forza del quale può
sorgere il potere del giudice e, diversamente da quanto previsto in tema di
revocazione delle sentenze (art. 395 c.p.c.), si caratterizzano per la loro
«atipicità» (345).
Ciò è perfettamente coerente con l’impostazione classica data alla revoca
quale strumento che giova alla giustizia della decisione e che si pone a
discapito delle esigenze di certezza del diritto (346).
Occorre, quindi, interrogarsi su quali potrebbero essere i motivi in forza
dei quali si potrebbe ottenere la revoca del decreto di omologazione delle
soluzioni negoziate.
Secondo un certo orientamento la revoca del provvedimento camerale
sarebbe ammissibile, in generale, solo nel caso in cui vengano addotti nuovi
motivi di merito sopravvenuti, mentre i vizi originari, sulla scorta di un
principio analogo a quello della conversione dei motivi di nullità in motivi
ma non autorità del giudicato che vuol dire immutabilità (o, d’accordo con la terminologia
corrente, che non acquistano né la cosa giudicata formale né la materiale)».
344
A. Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, Dir.
giust. 1988, 80;
345
E. Fazzalari, Giurisdizione volontaria, cit. 350; G. Franchi, Sulla revoca dei
provvedimenti di giurisdizione volontaria, cit. 217 : A. Cerino - Canova, Per la chiarezza
delle idee, cit. 458.
346
F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, I, Roma, 1942, 373-374;
G. Chiovenda, Sulla cosa giudicata, in Id. Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930,
III, 400.
216
di gravame ex art. 161 c.p.c. potrebbero essere dedotti solo con il reclamo
(347).
Si è osservato, però, che tale orientamento finirebbe per operare una
indebita sovrapposizione tra il provvedimento camerale e le sentenze
passate in giudicato formale, in quanto a seguito del mutamento delle
circostanze la revoca è propria anche di quest’ultime se incidono su rapporti
continuativi (348).
Ma proprio in virtù dell’inidoneità al giudicato formale e sostanziale del
provvedimento di omologazione, i motivi di revoca non si possono ritenere
limitati soltanto ai motivi di merito sopravvenuti, e ai fini della loro
determinazione si dovrà tener conto sopratutto delle motivazioni del decreto
conclusivo del provvedimento impugnato.
Secondo l’impostazione tradizionale, infatti, stante l’assenza di ogni
preclusione del dedotto e del deducibile ricollegabile al provvedimento
conclusivo del procedimento camerale e in mancanza di una disposizione
contraria, è preferibile ritenere che il provvedimento camerale possa essere
revocato anche sulla base delle medesime circostanze esaminate al momento
dell’emanazione (349).
Passando, quindi, ad esaminare il provvedimento di omolgazione del
negozio sulla crisi d’impresa, nell’ottica del c.d. «difetto funzionale»
347
C. M. Pratis, Autorizzazione di atti di disposizione patrimoniale nell’interesse di
incapaci e difetto sopravvenuto di necessità o utilità negli atti stessi, in Giur. compl. cass.
civ. 1952, III, 149; nello stesso senso: G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di
volontaria giurisdizione e sull’opposizione dei motivi di revoca al terzo acquirente, cit.,
209, il quale ritiene che alle parti è dato solo il reclamo per ottenere una «rivalutazione
degli elementi di giudizio disponibili all’atto della pronuncia del provvedimento»; G.A.
Micheli, Camera di Consiglio, (dir. proc. civ.), in Enc. Dir. Milano, 1959, 385.
348
Cfr. R. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, 11; già E. T.
Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, cit. 449.
349
Cfr. L. Mortara, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1905 vol.
V, 668; E. T. Liebman, Giurisdizione volontaria e competenza, in Riv. dir. proc. civ. 1925,
II, 282; E. Fazzalari, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, 115; in giurisprudenza:
Cass. sez. un. 23 ottobre 1986, n. 6220, in Giust. civ. 1987, I, 903; App. Roma, 26
novembre 1983, in Rep. Foro it. 1984 v. Società n. 305; contra V. Colesanti, Sulla
competenza ad omologare la separazione consensuale, in Foro it. 1957, I,2057.
217
dell’accordo, occorre verificare se tale vizio possa integrare un motivo
idoneo a giustificare la revoca del decreto e, di conseguenza, la caducazione
degli effetti riflessi.
Il «difetto funzionale» del negozio sulla crisi d’impresa potrebbe
derivare:
a) dall’insorgere di sopravvenienze fattuali idonee ad impedire la
prosecuzione dell’attività esecutiva e, quindi, idonee a contraddire
l’accertamento del vantaggio economico compiuto dal Tribunale nel
provvedimento odi omologazione;
b) dall’emersione di circostanze di fatto preesistenti ma non conosciute
dal giudice al momento della emanazione del provvedimento di
omologazione;
c) da una successiva valutazione dei medesimi fatti che, al banco di prova
dell’attività esecutiva, si sono rivelati inidonei a consentire il superamento
della crisi d’impresa.
Di fronte a tali circostanze l’accertamento compiuto dal Tribunale nel
giudizio di omologazione verrà ad essere contraddetto e perderebbe in
concreto di significato.
L’accertamento del Tribunale è, infatti, un giudizio prognostico,
compiuto sulla base delle circostanze di fatto note e dedotte nel giudizio
stesso.
Se così è, allora, il difetto funzionale del negozio sulla crisi d’impresa,
non sussistendo ostacoli dal punto di vista di sistematico (sia dal punto di
vista endofallimentare, che dal punto di vista extra-processuale), ben
potrebbe, allora, costituire un motivo idoneo per giustificare la revoca del
decreto di omologazione.
10.2 - Da un punto di vista generale, il procedimento di revoca
rappresenterebbe la continuazione del medesimo procedimento che si è
218
concluso con l’emanazione del provvediemento di cui si intende chiedere la
revoca (350).
In questa direzione, occorre innanzitutto rilevare la mancanza di una
previsione legislativa che regolamenti la fase di revoca; si ritiene, infatti,
che sia onere dell’interprete ricostruire il tessuto normativo sulla stessa
trama del procedimento che ha condotto all’emissione del provvediento da
revocarsi.
Si osserva, altresì, che la revoca non può consistere in un mero atto
unilaterale da parte del giudice legittimato a revocare il precedente
provvedimento, essendo invece richiesta a tal fine proprio la ripresa del
procedimento formativo dell’atto (351).
Nella nuova fase procedimentale si impone, sopratutto, il rispetto del
principio del contraddittorio, nel senso che il potere di ritornare sull’atto da
parte del giudice, proprio perché si realizza nella riapertura del medesimo
procedimento, richiede la omogeneità soggettiva, quindi la possibilità per i
soggetti già partecipi alla prima fase del procedimento di interloquire e
concorrere ancora alla formazione del provvedimento (352).
Ora, a seguito della dichiarazione di fallimento, tutti i creditori, come
noto, perdono la possibilità di agire individualmente a tutela dei loro crediti
e i loro interessi vengono tutelati collettivamente mediante la figura del
curatore fallimentae.
Alla luce di ciò, ove si ammettesse la possibilità di richiedere la revoca
del decreto di omologazione, questa dovrebbe essere richiesta al Tribunale
dal curatore fallimentare stesso, al fine di ottenere la possibilità giuridica
agire con l’azione revocatoria fallimentare.
350
Cfr. L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca, cit. 619- 620; La revoca
dell’omologazione nel sistema dei controlli sulla legittimità degli atti societari, Padova,
1990, Zaccarelli, 444.
351
Cfr. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 315.
352
L. Montesano – G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, 2002,
1225; A. Basilico, La revoca dei provvedimenti civili contenziosi, Padova, 2001, 391.
219
Il curatore fallimentare, in realtà, potrebbe ritenersi l’unico legittimato ad
agire, in quanto avrebbe interesse ad ottenere, appunto, la possibilità
giuridica di agire, che gli viene esclusa ad opera del provvedimento di
omologazione.
Il curatore agirebbe nell’interesse dei creditori per dedurre la
sopravvenuta incapacità dell’accordo e per ottenere la caduzione degli
effetti riflessi, al precipuo scopo di evitare che la concessione del beneficio
dell’esenzione si possa ripercuotere a danno dei c.d. «terzi-creditori» della
fase esecutiva.
Va, però, osservato che anche se il curatore riuscisse ad ottenere la
revoca del decreto e in forza di ciò potesse agire con l’azione revocatoria
fallimentare tale rimedio sconterebbe un deficit di efficacia, per via:
a) della riduzione del c.d. periodo «sospetto» previsto dall’alrt. 67,
comma 1° e 2°, l. fall.;
b)
della
necessità
di
accogliere
allo
stesso
tempo
anche
un’interpretazione evolutiva del presupposto soggettivo in forza del quale è
possibile ottenere la declaratoria di inefficacia degli atti, pagamenti e
garanzie concesse.
Occorrerà, invero, accogliere una diversa accezione dell’elemento
soggettivo che caratterizza la condotta del creditore, che potrebbe essere
espresso in termini di “conoscenza della sopravvenuta incapacità” della
soluzione negoziale ad essere integralmente eseguita.
Si tratterebbe, a ben vedere, di una soluzione volta a perseguire la
riduzione del rischio di abuso dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma
3°, lett. e) l. fall. e idonea a rafforzare nella fase esecutiva il perseguimento
degli interessi meritevoli di tutela secondo il moderno sistema di
regolamentazione negoziale della crisi d’impresa.
220
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