UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO GIURISPRUDENZA CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI ED ESECUTIVE CICLO XXV TITOLO DELLA TESI LA TUTELA DEI TERZI NELLE SOLUZIONI NEGOZIATE DELLA CRISI D’IMPRESA TUTOR Chiar.mo Prof. Maurizio Sciuto DOTTORANDO Dott. Riccardo Fava COORDINATORE Chiar.mo Prof. Romolo Donzelli ANNO 2013 I INDICE Introduzione 1 CAPITOLO I GLI EFFETTI VERSO I TERZI NELLE SOLUZIONI NEGOZIALI DELLA CRISI D’IMPRESA. SEZIONE I - GLI EFFETTI VERSO TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO 1. Il principio di maggioranza e l’assoggettamento della minoranza assente o dissenziente alla proposta di concordato: dall’eterotutela agli oneri informativi per i creditori. 4 1.1 I limiti strutturali del procedimento deliberativo per un’esclusiva autotutela dei creditori. 2. 15 Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione: l’atipicità della proposta e i dubbi sulla determinabilità e liceità degli effetti 3. 21 Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologa: il pregiudizio alla garanzia patrimoniale e il limite di una interpretazione formale dell’art. 67, comma. 3°, lett. e) l. fall. Cenni e Rinvio. 28 SEZIONE II – GLI EFFETTI VERSO TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE 4. La conclusione dell’accordo con la maggioranza dei crediti e il requisito dell’idoneità a rimuovere l’insolvenza quale condizione di efficacia verso i terzi. 5. Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione: l’inapplicabilità dell’art. 184 l.fall. 6. 37 45 Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione: il limite soggettivo e oggettivo all’esenzione dalla revocatoria. 49 CAPITOLO II LA TUTELA DEI TERZI NEI GIUDIZI DI OMOLOGAZIONE. SEZIONE I - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO 1. Premessa e traiettoria dell’indagine. 57 II 2. La struttura del giudizio del giudizio di omologazione: il rinvio al procedimento in camera di consiglio. 59 2.1. I mezzi d’impugnazione del decreto: il reclamo alla Corte d’appello. 68 2.2. Le implicazioni sistematiche della cognizione sommaria: l’inidoneità al giudicato formale del decreto. 3. 73 L’oggetto del giudizio di omologazione: l’assenza di un accertamento giurisdizionale dei diritti soggettivi interessati dagli effetti del provvedimento di omologazione. 78 3.1. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla previgente disciplina delle opposizioni 81 3.2. Le conferme ricostruttive offerte dalla nuova disciplina delle opposizioni. 4. 89 La natura del giudizio di omologazione: le implicazioni sistematiche derivanti dalla struttura e dall’oggetto. Il problema della tutela dei terzi. 5. 93 Il sindacato giurisdizionale tra «regolarità della procedura» e «convenienza della proposta»: dicotomia e polarità. 102 5.1. I limiti posti alla libertà negoziale dell’imprenditore. 108 5.2. L’estensione degli effetti ultra partes: gli effetti favorevoli nell’interesse dei terzi. 112 5.3. Il negozio sulla crisi d’impresa con effetti favorevoli ai terzi: il vantaggio economico nella logica della c.d. privatizzazione della crisi d’impresa. 6. 118 Il «rifiuto» degli effetti favorevoli da parte dei c.d. terzi-creditori: gli strumenti di contestazione dell’«accertamento» giurisdizionale. 125 6.1. L’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso il decreto di omologazione: il limite dell’accertamento prognostico e dell’inidoneità al giudicato formale. 126 SEZIONE II - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI 7. La struttura del giudizio di omologazione: la ricostruzione della disciplina. 135 8. 7.1. Le opposizioni all’omologazione. L’oggetto e la natura del giudizio di omologazione. 139 140 9. Il sindacato giurisdizionale: l’«attuabilità» degli impegni assunti e l’«idoneità» a garantire l’adempimento dei terzi creditori. 10. Gli strumenti di tutela dei terzi incisi dal provvedimento di omologa: il problema della stabilità dell’accordo. 142 145 CAPITOLO III LA TUTELA DEI TERZI NELLA FASE ESECUTIVA. III SEZIONE I - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI DIRETTI: LE AZIONI NEGOZIALI 1. Premessa metodologica e traiettoria dell’indagine. 2. L’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa: il problema del coordinamento 3. delle nuove disposizioni positive e la necessità di una ricostruzione in chiave sistematica della relativa disciplina. 2.1. Il ruolo degli organi della procedura: il coordinamento delle disposizioni. 2.2. Il potere di segnalazione del commissario giudiziale: la spia semantica per una etero tutela dei creditori. L’autotutela delle parti. I c.d. «vizi funzionali» del negozio sulla crisi d’impresa: 161 4. l’inadempimento e l’azione di risoluzione. 3.1. I vizi genetici del negozio sulla crisi d’impresa: il dolo e l’azione di annullamento. Gli effetti sostanziali della risoluzione e dell’annullamento. 5. Il procedimento e la richiesta di fallimento: gli effetti riflessi. Cenni e rinvio. 172 148 148 156 159 170 171 SEZIONE II - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI RIFLESSI: L’INDIVIDUAZIONE DEL RIMEDIO 6. La deroga al principio (concorsuale) della ripartizione del ricavato nell’eguale proporzione e nell’uguale condizione tra i creditori: gli effetti riflessi e la loro giustificazione sistematica. 6.1. L’assenza di un controllo preventivo sugli atti esecutivi e il problema del 174 184 7. vantaggio informativo durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziate: il possibile «abuso» degli effetti riflessi. Le conseguenze dell’«abuso»: il pregiudizio per i c.d. «terzi - creditori» della 8. fase esecutiva. 194 La tutela dei c.d. «terzi - creditori» della fase esecutiva: la necessità di un preventivo giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi. L’oggetto del giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi: 197 9. le sopravvenienze fattuali nell’ottica degli effetti riflessi. 9.1. L’incapacità del piano a risolvere la crisi: l’impossibilità di giungere 200 ad una risoluzione anticipata a tutela dell’interesse dei creditori. 10. La struttura del giudizio: l’ammissibilità del revoca del decreto di omologazione. 205 211 10.1. I motivi che potrebbero condurre alla revoca del decreto di omologazione: il «difetto funzionale» del negozio. 214 10.2. La legittimazione ad agire del curatore fallimentare: la riaffermazione della possibilità giuridica di agire con l’azione revocatoria e la limitata efficacia del rimedio. 218 Bibliografia 222 IV Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’ inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla. Albert Einstein 5 Introduzione Con il decreto legge 35 del 2005 convertito con modificazioni dalla legge 80 del 2005, ha preso avvio la tormentata stagione di riforme della legge fallimentare. Nel corso del tempo, infatti, si sono succeduti diversi interventi legislativi, segnatamente e nell’ordine, il d.lgs. 5 del 2006 recante la c.d. riforma organica delle procedure concorsuali; il d. lgs. 169 del 2007, c.d. «decreto-correttivo della riforma organica»; il d.l. 78 del 2010 convertito con modificazioni nella legge 122 del 2010 che ha apportato modifiche in prevalenza alla disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 – bis l. fall. e alla c.d. «nuova finanza»; infine, il recente intervento ad opera del d.l. n. 83 del 2012 convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 con cui è stata ulteriormente modificata la disciplina del concordato preventivo. Tali interventi hanno ridisegnato profondamente la fisionomia del tradizionale sistema fallimentare - tradizionalmente connotato della c.d. eterotutela degli interessi dei creditori - attribuendo allo stesso una spiccata vocazione alla risoluzione negoziale della crisi d’impresa. Si è inteso fondare la ricerca della migliore soddisfazione dei creditori non più sulla logica del procedimento giurisdizional-pubblicistico, bensì sulla logica dell’accordo di matrice contrattual-privatistica, conservando, però, la tradizionale efficacia autoritativa erga omnes ricollegata provvedimento conclusivo del procedimento, il quale sancisce ora anche la nascita del c.d. «negozio sulla crisi d’impresa». In questa sede verrà pertanto affrontato il problema della tutela dei creditori non aderenti alla proposta di concordato preventivo o a quella di accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall. (ove poi omologati). 1 Ciò verrà compiuto innanzitutto nella consapevolezza della dialettica degli interessi in gioco e della portata degli effetti sui creditori delle predette soluzioni negoziate della crisi d’impresa. E ciò sia nei profili comuni che in quelli, più specifici, che si differenziano in relazione al concordato preventivo (obbligatorietà della proposta per i creditori dissenzienti, con i noti limiti all’invocabilità del giudizio di convenienza, c.d. best interest test) o agli accordi di ristrutturazione (effetti “riflessi” sui cd “creditori-terzi”, pur destinatari – ma solo in principio – di un pagamento integrale). L’approccio complessivo alla problematica e alla conseguente ricerca di soluzioni sarà affrontato con una particolare sensibilità dettata dall’esigenza di prevenire l’abuso degli strumenti concordatari previsti dalla legge fallimentare. In questa prospettiva mediante l’uso di metodologie che si avvalgono dell’integrazione sistematica, tendenti a valorizzare taluni profili della disciplina concorsuale, ricorrendo anche ad istituti tratti dal diritto generale dei contratti o del processo civile, si cercherà di superare le risultanze dei dati puramente letterali della legge fallimentare. Così, ad esempio, è la proposta di una ridefinizione dell’ampiezza del sindacato giurisdizionale, volto ad eccertare, al di là dei più noti ed indiscussi profili di ammissibilità della proposta e della sua successiva omologabilità, anche quello (invero non testualmente previsto dalla legge) di una sua intrinseca vantaggiosità per i creditori. Un sindacato che – senza polarizzarsi sui livelli estremi del controllo di mera regolarità o, sul versante opposto, del controllo di convenienza – dovrebbe piuttosto incaricarsi di valutare anche una complessiva vantaggiosità della ristrutturazione dei debiti proposta ai creditori: tale almeno dovendo ritenersi la funzione intriseca degli istituti esaminati, anche poi, in una prospettiva negozialistica, anche approssimandosi la proposta 2 approvata da una parte soltanto dei creditori a quella del contratto a favore di terzi (o, quantomeno, “nell’interesse dei terzi”). Similmente, ma con riferimento alla fase esecutiva del piano (concordatario o ex art. 182 – bis l. fall.) omologato, si avrà invece cura di portare in evidenza il problema nascente dal rischio di atti (pagamenti, impegni o costituzione di garanzie) preferenziali da parte del debitore che possano eventualmente godere, in un fallimento consecutivo, di un’ingiusta esenzione dalla revocatoria fallimentare (art. 67, comma 2, lett. e) l. fall.). Sempre nella ricerca di una tutela dei “creditori terzi” nell’ambito della fase esecutiva del piano omologato, infine, si cercherà di avanzare una soluzione interpretativa attingendo alla revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, nel senso di considerare revocabile anche il provvedimento di omologazione di concordato preventivo o di accordo ex art. 182 – bis l.fall. qualora emergesse – sulla base di circostanze non solo sopravvenute ma anche preesistenti e però note o apprezzate ex post – che il piano omologato non potesse ritenersi, ab origine, ammissibile. E ciò, allora, con efficacia ex tunc, precludendo gli effetti protettivi (soprattutto in punto di esenzione da azione revocatoria fallimentare) altrimenti connessi al piano omologato seppure annullato o risolto. Lo scopo ultimo dell’indagine sarà comunque quello risaltare la costante commistione fra i profili sostanziali e processuali del tradizionale diritto fallimentare che, a seguito delle recenti riforme, possono riscontrarsi nell’ambito delle nuove soluzioni negoziate della crisi d’impresa. Più precisamente, come da tale commistione sia possibile ricavare un autonomo e moderno «diritto della crisi d’impresa». 3 CAPITOLO I GLI EFFETTI VERSO I TERZI NELLE SOLUZIONI NEGOZIALI DELLA CRISI D’IMPRESA. SOMMARIO: SEZIONE I. – GLI EFFETTI VERSO TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO - 1. Il principio di maggioranza e l’assoggettamento della minoranza assente o dissenziente alla proposta di concordato: dall’eterotutela agli oneri informativi per i creditori. – 1.1. I limiti strutturali del procedimento deliberativo per un’esclusiva autotutela dei creditori. - 2. Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione: l’atipicità della proposta e i dubbi sulla determinatezza e liceità degli effetti – 3. Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologa: il pregiudizio alla garanzia patrimoniale e il limite all’esenzione dalla revocatoria. – SEZIONE II. – GLI EFFETTI VERSO TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE. – 4. La conclusione dell’accordo con la maggioranza dei crediti e il requisito dell’idoneità a rimuovere l’insolvenza quale condizione di efficacia verso i terzi. – 5. Gli effetti diretti ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione: l’inapplicabilità dell’art. 184 l.fall. – 6. Gli effetti riflessi ultra partes del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione: il limite soggettivo e oggettivo all’esenzione dalla revocatoria. SEZIONE I GLI EFFETTI VERSO I TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO 1.- L’imprenditore in «crisi», mediante ricorso al Tribunale del luogo in cui ha sede l’attività commerciale, può sottoporre all’approvazione dei propri creditori una «ristrutturazione dei debiti», al fine di giungere ad una risoluzione negoziale della crisi. Tale proposta, conformemente al disposto del nuovo art. 177 l. fall., dovrà raccogliere - almeno - il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto, ovvero, nel caso in cui il debitore si avvalga della facoltà di suddividere i creditori in classi, occorrerà 4 sia la maggioranza dei crediti ammessi al voto, sia delle classi stesse. L’approvazione del concordato preventivo, anche a seguito delle recenti riforme, resta quindi regolata dal principio maggioritario (1). La disciplina originaria prescriveva tuttavia una doppia maggioranza. Per l'approvazione del concordato, infatti, occorreva che la proposta ricevesse il voto favorevole dei creditori votanti, i quali avrebbero dovuto rappresentare i due terzi della totalità dei crediti ammessi al voto. Legittimati al voto erano (e in sostanza restano ancora oggi) tutti i creditori chirografari per titolo o causa anteriore al decreto di ammissione alla procedura indipendentemente dall’esigibilità del credito. L’applicazione del principio maggioritario nel concordato preventivo ha da sempre esercitato un fascino tutto particolare fra gli studiosi del diritto fallimentare (2). L’attenzione di questi si è concentrata sull’assoggettamento dei creditori assenti o dissenzienti alla volontà della maggioranza (3). Il fenomeno in questione è stato tradizionalmente ricondotto nelle ipotesi in cui l’ordinamento civile consente che una dichiarazione di volontà inter alios acta possa produrre effetti anche verso soggetti estranei e contrari ad 1 G. Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le maggioranze richieste dalla nuova disciplina, in Fall. 2005, 1215, il quale fa notare che l’eliminazione della maggioranza numerica costituisce un rafforzamento dei creditori più forti; v. anche: M. Sandulli, Sub art. 177, in A. Nigro – M- Sandulli, La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, 1061 ss. 2 R. Sacchi, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione controllata, Milano, 1984, passim ; E. Frascaroli Santi, L’adunanza dei creditori e la votazione nei procedimenti concorsuali (Aspetti sostanziali e processuali), Padova, 1989, passim; F. D’Alessandro, Sui poteri della maggioranza del ceto creditorio e su alcuni loro limiti, in Fall. 1990, 189. 3 In tema per tutti cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja – Branca. Legge fallimentare, Bologna – Roma, 1976, a cura di F. Bricola – F. Galgano – G. Santini, art. 160 – 186, 135; di recente, invece, in chiave fortemente critica v. A. Gentili, Autonomia privata ed effetti ultra vires nell’accettazione del concordato, in Giur. comm. 2007, I, 349, spec. 357 ove l’A. afferma che la ratio della norma sull’estensione degli effetti ai creditori di minoranza ‹‹appare piuttosto oscura››, dal momento che: ‹‹rischia di apparire eccezionale ed irrazionale in due opposti sensi: per un verso come forzatura della libertà ed autonomia dei creditori dissenzienti, e per l’opposto verso come inutile rafforzativo del criterio maggioranza e dei suoi naturali effetti estensivi sulla minoranza››. 5 essa (4). Più precisamente, il creditore assente o dissenziente alla proposta di concordato è stato annoverato nella categoria dei c.d. «terzi» [rispetto alla deliberazione] con posizione giuridica subordinata a quella delle parti [di tale deliberazione] che dispongono per loro (5). 4 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato Vassalli vol. XV, tomo 2, Roma, 1953, 264 ss. spec. 269 – 271. 5 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 261, e 265 e ss ove l’A. definisce il “terzo” non come colui che è estraneo rispetto all’atto, ma agli interessi dedotti nel rapporto, più precisamente: ‹‹Un negozio giuridico può, per sua destinazione oppure in via riflessa e accidentale, avere rilevanza giuridica e produrre effetti anche in capo a persona diversa dalle parti. [...] La problematica della posizione di terzo nella teoria del negozio può attingere lumi e direttive, qui come a proposito della legittimazione, alla più elaborata problematica della posizione dei terzi nella teoria del processo. È dato così di approfondire la nozione di “terzo” sulla scorta di un criterio che alla realtà degli interessi in gioco, che aderisce più strettamente del criterio formale, per cui si qualifica terzo a questa stregua chiunque sia estraneo al negozio in discussione. È da qualificare terzo a questa stregua chi sia estraneo non solo al negozio, ma anche al rapporto giuridico che da esso costituito, modificato, estinto. Chi, pur non avendo cooperato a porre in essere la fattispecie del negozio (neanche con preventiva autorizzazione o con conseguente adesione), è soggetto di codesto rapporto giuridico, e pertanto destinato a risentire direttamente gli effetti del negozio, non va qualificato terzo, ma parte. [...] Si possono, dunque, distinguere: a) le parti del rapporto (anche se estranee al negozio); b) terzi partecipi dell’interesse, ma estranei al negozio, la cui posizione giuridica è subordinata a quella della parte; c) terzi interessati, la cui posizione giuridica è indipendente e incompatibile con gli effetti del negozio; d) terzi normalmente indifferenti, la cui posizione giuridica è compatibile, ma che sono legittimati a reagire quando risentono un illecito pregiudizio dagli effetti del negozio››; l’A. citato riconduce nell’ipotesi a) la figura del contratto a favore di terzi ex art. 1411 c.c. dal momento che in tale figura contrattuale, secondo questo A. «gli effetti che il negozio produce pel terzo sono effetti essenziali e pertanto diretti, laddove in altre ipotesi il negozio produce in confronto di terzi effetti solo indiretti, non riferibili alla destinazione del negozio, e non necessariamente connessi alla normale previsione delle parti. Ciò significa che là il terzo avvantaggiato diviene in un certo modo parte del rapporto d’obbligazione costituito col negozio a suo favore»; l’ipotesi b), invece, si caratterizza perché si ha «Un trattamento che è, per così dire, l’inverso di questo, [e che] si ha quando il soggetto del rapporto è trattato come un terzo con posizione giuridica subordinata a quella della parte che dispone per lui. Questo fenomeno di subordinazione della posizione giuridica di chi ancorché estraneo al negozio o alla delibera di assemblea - è tuttavia parte del rapporto, o del complesso di rapporti in discussione, si verifica in una forma di notevole importanza nei casi in cui la legge organizza una posizione di competenza collettiva (dei partecipanti) per la tutela di una comunione d’interessi. In tali comunioni, la legge dispone che le deliberazioni prese dalla maggioranza degli interessati sono impegnative per gli altri interessati: questi, invero, pur essendo estranei alla deliberazione (assenti, o dissenzienti), non sono estranei rispetto all’interesse di cui si tratta (terzi indifferenti), ritenendosi la maggioranza fornita di legittimazione ad agire nell’interesse della totalità degli interessati» e tale fenomeno si realizzerebbe anche nella collettività dei creditori del concordato preventivo; la posizione è ripresa da A. M. Azzaro, Concordato preventivo, principio 6 I creditori di minoranza vengono infatti vincolati alla proposta del debitore e subiscono gli effetti pregiudizievoli nella loro situazione giuridica soggettiva, sia nel caso in cui non abbiano manifestato alcuna volontà, sia che abbiano manifestato una volontà in senso contrario. L’efficacia in parola ha costituito il principale ostacolo ad ogni riconduzione del concordato preventivo nell’alveo della categoria del contratto (6). Tutte le teorie sulla natura contrattual-privatistica del concordato preventivo, infatti, non sono mai stata in grado di spiegare appieno il motivo per cui i creditori di maggioranza potessero legittimamente disporre anche dei diritti patrimoniali della minoranza (7). maggioritario e classi di creditori, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2012, 556. 6 V. Roppo, Contratto, in Dig. sez. civ. IV, Torino, 1989, 96. 7 Sulla natura contrattuale del concordato preventivo prima della legge del ’42 e in particolare sul significato dell’intervento del giudice nella formazione dell’accordo tra debitore e creditore v. la classica trattazione di A. Rocco, Il concordato nel fallimento e prima del fallimento. Trattato teorico pratico. Torino, 1902, 36 ss; sulla difficoltà di argomentare l’estensione del concordato anche ai creditori dissenzienti e assenti v. F. Carnelutti, Sui poteri del tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo, in Riv. dir. proc. 1924, I, 65 secondo cui: ‹‹il concordato è sostanzialmente un contratto conchiuso tra il debitore e una determinata maggioranza dei creditori, con effetti obbligatori anche per i creditori dissenzienti. In vista di questa sua efficacia anomala e pericolosa, la legge vuole che codesti effetti non si dispieghino se alcuni requisiti non sono stati controllati dal Tribunale››; v. anche T. Ascarelli, Sulla natura dell’attività del giudice nell’omologazione del concordato, in Dir. proc. civ. 1928, I, 228 per il quale il giudice non è: ‹‹chiamato a dichiarare della obbligatorietà nei confronti di detta minoranza, ma è chiamato a riconoscere, ispirandosi ad un pubblico interesse, l’esistenza di determinate condizioni perché questa obbligatorietà sia operativa così nei confronti della minoranza come in quelli della maggioranza›; v. anche le considerazioni ed i paragoni con il concordato fallimentare e le società di: A. Candian, Il processo di concordato preventivo, Padova, 1937, secondo cui: ‹‹Aggiungevo che il voto dell’assemblea non può avere l’efficacia di deliberare la chiusura per concordato del processo di fallimento, perché questo vorrebbe dire che quel voto può disporre, contro la volontà della minoranza, del diritto di azione esecutiva pertinente a ciascuno dei creditori, diritto di azione esecutiva il cui esercizio ha potuto essere temporaneamente sospeso per virtù del provvedimento del giudice (sentenza dichiarativa del fallimento o di apertura del concordato) ma che in base al concordato sarebbe definitivamente limitato dal complesso delle clausole relative. Ora, una simile espansione del principio maggioritario, per cui la maggioranza potrebbe espropriare i componenti della minoranza del diritto d’azione, non è conforme al nostro diritto positivo: valga il pensare che in tema di comunione il potere della maggioranza non va oltre il limite segnato dall’art. 678 c.c. (amministrazione e migliore godimento della cosa comune); che in tema di società commerciali è bensì vero che maggioranze qualificate possono prendere deliberazioni contraddicenti le clausole dello statuto, cioè aventi, sotto l’aspetto della 7 Come noto, il diritto privato dei contratti si fonda su una rigorosa tutela dell’autonomia individuale. È principio fondamentale dell’autonomia privata che nessuno può essere pregiudicato da un contratto se non in forza della propria volontà liberamente manifestata (art. 1372 c.c.). Proprio la difficoltà di coniugare l’adozione del principio maggioritario con il diritto dei contratti ha indotto taluni studiosi ad affermare la natura processual-pubblicistica dell’istituto in questione. Si è, cioè, sostenuto che la procedura di concordato preventivo, per esigenze superindividuali, permetteva al c.d. «imprenditore meritevole» di regolare la propria crisi derogando ai principi del diritto contrattuale (8). Secondo tale ricostruzione, i creditori di minoranza (perché assenti o dissenzienti) venivao vincolati alla proposta approvata dalla maggioranza in forza del provvedimento di omologazione emesso dal giudice (9). La teoria in parola inizia a svilupparsi soprattutto a seguito della disciplina introdotta nella legge fallimentare del 1942 (10). limitazione del diritto soggettivo, affinità di struttura con la sentenza di concordato, ma i componenti della minoranza sono presidiati da quel meccanismo di compensazione che è il diritto di recesso; e via dicendo.››. 8 Per la natura del concordato preventivo come processo giurisdizionale contenzioso prima della legge del ’42 v. F. Bonelli, Fallimento, Milano, 1938, 434; G. Mussafia, Natura del processo di concordato preventivo, in Riv. dir. proc. civ. 1938, I, 235; per la natura del concordato preventivo come processo di esecuzione forzata v. invece: A. Candian, Il concordato preventivo come processo di esecuzione forzata, in Riv. dir. comm. 1936, I, 39; Id. Il processo di concordato preventivo, Padova, 1937, 21; M. Ghidini, Oggetto del concordato preventivo, contenuto e natura del decreto di ammissione e della sentenza di omologazione, in Riv. dir. proc. civ. 1940, I, 90 ss. 9 Anche di recente la tesi della natura pubblicistica del concordato preventivo è stata ribadita, in particolare si è affermato che la sentenza di omologazione del concordato produce l’espropriazione del diritto dei creditori a vantaggio della collettività in modo tale da dirimere il conflitto di interessi tra il debitore concordatario inadempiente e la pretesa dei creditori ad essere soddisfatti: G. Rago, Il concordato preventivo dalla domanda all’omologazione, Padova, 1998, 3 ss; G.U. Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 636 e spec. 719. 10 Dopo l’entrata in vigore della legge del ’42 gli orientamenti si sono, in realtà, ancor più differenziati: per la teoria pubblicistica e sugli interessi tutelati nel corso della procedura v. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, IV, 1974, 2210 ss; G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974 743 ss; mentre per un ampio riesame delle varie teorie processuali v. A. Bonsignori, Concordato fallimentare, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna – Roma 1977, 135; per i sostenitori della teoria 8 All’imprenditore meritevole ed insolvente era infatti accordata la possibilità di concludere un accordo con la maggioranza qualificata dei crediti e dei creditori, il quale, per effetto della sentenza di omologazione, sarebbe stato vincolante anche per la minoranza dei creditori assenti, dissenzienti e non a conoscenza del concordato (11). L’estensione del vincolo poteva avvenire anche nell’ipotesi in cui nel procedimento deliberativo fosse mancata un’effettiva collegialità dei creditori (i.e. non tutti i creditori dell’imprenditore erano stati portati a conoscenza del procedimento giurisdizionale) e fosse mancato un effettivo interesse comune fra gli stessi (12). Per “compensare” tale rischio il legislatore del ’42 aveva attribuito all’autorità giudiziaria ampi poteri di sindacato sulla proposta del debitore. Nella fase di ammissione, infatti, il Tribunale aveva il compito di verificare se la proposta presentasse le condizioni prescritte dalla previgente disciplina dell’art. 160 l. fall., vale a dire, oltre che provenire da un imprenditore in stato di insolvenza, che questi: 1) fosse stato iscritto nel contrattualistica v. invece F. Ferrara, Il Fallimento, 3a ed. Milano, 1974, 144; G. De Semo, Diritto fallimentare, Firenze, 1948, 533; S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, 4a ed. Roma, 1957, 311; Id. Diritto fallimentare, Padova, 1974, 295; A. De Martini, Il patrimonio del debitore nelle procedure concorsuali, Milano, 1956, 224 ss, spec. nota 278. Nella giurisprudenza, all’indomani dell’entrata in vigore della nuova legge fallimentare, ha continuato a prevalere la tesi della natura contrattualistica, cfr. Cass. 20 luglio 1954, n. 2593, in Giust. civ. 1954, 1798; Cass. 30 settembre 1954, n. 3173, in Giut. civ. 1954; App. Roma, 9 marzo 1959, in Dir. fall. 1959, II, 208; Trib. Pescara, 21 maggio 1959, in Dir. fall. II, 1034; tuttavia, poco tempo dopo ha invece avuto prevalenza la tesi pubblicistica, cfr. Cass. 1°aprile 1960 n. 723, in Giut. civ. 1960, I, 1142; Cass. 26 ottobre 1961, n. 2405, in Foro it. 1961, I, 1602; Cass. 10 giugno 1964, n. 1441, in Foro it. 1964, I, 1221; Cass. 2 luglio1965, n. 1373, in Dir. fall. 1965, II, 529; Cass. 8 gennaio 1980, n. 119, in Fall. 1980, 489; Cass. 19 gennaio 1984, n. 455, in Dir. fall. 1984, II, 448; Cass. 11 aprile 1991, n. 3822, in Fall. 1991, 1048. 11 In senso contrario a tale tesi si è però affermato che non poteva essere la sentenza di omologazione a determinare l’effetto espropriativo del diritto dei creditori a vantaggio della collettività, dal momento che in forza di essa sic et simpliciter non può operarsi alcuna espropriazione del credito: la sentenza si limita infatti ad omologare un accordo, rende cioè efficace il negozio compiuto tra debitore e creditori, e ciò perché non si può configurare come “lite” il conflitto tra il debitore ed i creditori, non venendo in giuoco un contestazione delle situazioni giuridiche soggettive vantate dai creditori, così: U. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, 1579. 12 L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino, 2010, 43. 9 registro delle imprese da almeno un biennio o almeno dall’inizio dell’impresa, se questa aveva avuto una minore durata, ed avesse tenuto una regolare contabilità per la stessa durata; 2) nei cinque anni precedenti non fosse stato dichiarato fallito o non fosse stato ammesso a una procedura di concordato preventivo; 3) non fosse stato condannato per bancarotta o per altro delitto contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria o il commercio; 4) potesse assicurare il pagamento integrale dei creditori privilegiati ed il pagamento nella misura di almeno il quaranta per cento i crediti chirografari tramite la concessione di garanzie reali o personali, ovvero, mediante la cessione di tutti i beni esistenti nel suo patrimonio. Nel giudizio di omologazione, invece, il Tribunale aveva il dovere di controllare la convenienza economica e la fattibilità del piano di concordato. Il Tribunale, precisamente, doveva valutare la convenienza del concordato preventivo per tutti i creditori, comparando quanto proposto dal debitore, con quello che tutti i creditori avrebbero potuto conseguire qualora si fosse perseguita la liquidazione fallimentare. Se il Tribunale riteneva che la sopravvenienza attiva conseguibile non avrebbe consentito il pagamento integrale dei creditori privilegiati e non avesse permesso ai creditori chirografari di conseguire la percentuale concordataria minima prescritta ex lege, avrebbe dovuto, in ogni caso, negare l’omologazione del concordato (13). L’incisivo intervento giurisdizionale si giustificava proprio in quanto: a) la collettività dei creditori nella fase deliberativa aveva una struttura ‹‹aperta››, vale a dire, alcuni creditori avrebbero potuto essere rimasti sconosciuti agli organi della procedura (commissario giudiziale e Tribunale) e, come ovvio, non chiamati ad esprimere il loro voto; b) poteva mancare un rapporto di strumentalità tra la collettività dei creditori votanti e l’oggetto 13 Tale profilo verrà approfondito nel Cap. 2 par. 5 10 della deliberazione; tale rapporto avrebbe potuto esistere solo se il debitore avesse dovuto accordare sempre ed inderogabilmente un trattamento uguale a tutti i creditori chirografari; ma già nel vigore della precedente disciplina la disparità di trattamento tra i creditori chirografari poteva essere ammessa (14); c) inoltre, il rapporto di strumentalità fra gli interessi dei creditori e l’oggetto delle deliberazioni poteva mancare in forza dell’eterogeneità delle caratteristiche giuridico-formali dei vari crediti e, soprattutto, per la differente liquidità, esigibilità e misura degli interessi dei crediti (15). Nella comunione involontaria originata a seguito dell’ammissione dell’imprenditore al concordato preventivo, ogni creditore chirografario aveva (ed ha tutt’ora) infatti interesse a realizzare egoisticamente il proprio credito nella misura più elevata possibile e nel tempo più breve. Tale interesse non si poneva affatto in rapporto di strumentalità con gli interessi degli altri creditori chirografari, bensì in rapporto antagonista (16). 14 R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 287-288, secondo questo A. «l’organizzazione su base maggioritaria dei creditori nel concordato non può essere qualificata come autorganizzazione, ossia come organizzazione riducibile alle regole del diritto dei contratti. La tutela degli interessi dei creditori in quanto tali nel concordato non può, quindi, essere lasciata alla libera disponibilità dei titolari di questi interessi, e cioè dei creditori. Mancano, infatti, le condizioni - struttura chiusa della collettività e necessaria presenza di un rapporto di strumentalità fra gli interessi degli appartenenti alla collettività in quanto tali rispetto alle materie in cui opera il principio maggioritario - che [...] devono sussistere in una collettività a garanzia della minoranza, perché la tutela degli interessi degli appartenenti alla collettività (in quanto tali) possa essere lasciata alla libera disponibilità degli stessi. La tutela degli interessi dei creditori (come tali) nel concordato, perciò, è sottratta alla libera disponibilità dei creditori stessi ed è affidata all’autorità giudiziaria, che provvede ad essa essenzialmente nel giudizio di omologazione attraverso il controllo sul concordato e, in particolare, sulla sua convenienza»; v. però F. D’Alessandro, Sui poteri della maggioranza del ceto creditorio e su alcuni loro limiti, cit. 189, il quale è favorevole alla rintracciabilità di una “comunione di interessi” legittimante l’applicabilità del principio maggioritario in costanza della disciplina del concordato preventivo del 1942. 15 R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 300; sul problema della comunione degli interessi nel concordato preventivo v. anche: L. A. Russo, Natura giuridica e finalità (Il concordato preventivo – Seminario di studi), in Fall. 1992, 228; F. D’Alessandro, Sui poteri della maggioranza del ceto creditorio e su alcuni loro limiti, cit. 189; di recente v. M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fall. 2009, 437. 16 Cfr. A.M. Azzaro, Concordato preventivo principio maggioritario e classi dei creditori,cit. 556 il quale osserva che il problema dell’applicazione del principio maggioritario al concordato preventivo risiede proprio nel fatto che i creditori partecipanti 11 Per tali ragioni il legislatore aveva quindi scelto di sottrarre ai singoli creditori la tutela dei loro interessi per affidarla collettivamente all’autorità giudiziaria. Le recenti riforme disegnano invece un sistema che sembrerebbe muoversi in senso opposto rispetto al passato. La Relazione al decreto correttivo n. 169 del 2007 parlando di ‹‹accentuata natura privatistica del concordato preventivo›› fornisce chiaramente il segno e la misura di una intentio legis protesa a valorizzare il carattere contrattuale del concordato preventivo (17). L’istituto in parola dovrebbe consentire al debitore di concludere un accordo destinato a prevalere su ogni forza contraria: minoranze dissenzienti e controllo giurisdizionale (18). alla massa – quale controparte del debitore non sono avvinti da una (effettiva) comunione di interessi, che non giustifica quindi l’applicazione del principio maggioritario; così anche sul versante processual-civilistico: M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fall. 2009, 437 e ss. 17 In chiave critica v. L. Abete, Il ruolo del giudice ed il principio maggioritario nel novello concordato preventivo: brevi note, in Fall. 2008, 253 ss, secondo cui: ‹‹è innegabile che la voluntas legislatoris rilevi nella misura in cui si è concretata nel testo normativo››, sicché per questo A. le ‹‹contraddizioni sistematiche dell’opzione “contrattualistica” sono inesorabilmente destinate a riaffiorare, si che l’opzione “processual-pubblicistica” finisce per prospettarsi in guisa non già di una possibile variante “ideologico-politica”, ma, piuttosto, alla stregua di una scelta ricostruttiva obbligata, imprescindibile, onde assicurare la “tenuta sistematica” della regolamentazione del concordato››; Id. Le vie negoziali per la soluzione della crisi dell’impresa, in Fall. 2007, 620 ss; Id. Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o privatistica?, in Fall. 2008, 991. 18 Cfr. A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del concordato preventivo, in Riv. dir. proc. 2009, 647; sul rapporto tra la volontà del legislatore e la nuova disciplina v. D. Galletti, Il nuovo concordato preventivo: contenuto del piano e sindacato del giudice, in Dir. fall. 2006, 907 per il quale è difficile affermare che la volontà del legislatore, volta ad aumentare il dilagante contrattualismo, si sia in realtà tradotta efficacemente in tal senso nelle norme riformate; in questo senso v. infatti: L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit. 142, per il quale la volontà del legislatore mirante alla c.d. privatizzazione del trattamento giuridico dell’insolvenza può rimanere una mera intenzione ‹‹contrastabile tramite una interpretazione costituzionalizzante in grado di mantenere questa volontà a livello di tentativo non risoltosi in piena realtà normativa››; contra A. Jorio, Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa tra “privatizzazione” e tutela giudiziaria, in Fall. 2005, 1457 il quale ritiene viceversa che l’indubbia intenzione del legislatore si sia tradotta in una fedele normativa sostanziale e processuale indiscutibile, giungendo ad affermare che ‹‹non è consentito far leva su alcune ambiguità delle nuove disposizioni per cercare di reintrodurre sul piano ermeneutico ciò che il legislatore ha mostrato invece di voler escludere››. 12 Venuti meno i vincoli imposti ex lege sul contenuto della proposta e la possibilità di sindacare la convenienza del concordato, il controllo giurisdizionale non rappresenterebbe più un presidio a tutela degli interessi della minoranza e non assolverebbe più al ruolo di garante degli interessi dei creditori in quanto tali e collettivamente considerati. Nella nuova disciplina la protezione dei creditori sarebbe stata invece affidata alla loro stessa autotutela (19). A tal precipuo fine il legislatore ha posto a carico del debitore particolari oneri informativi. Il debitore unitamente al ricorso e alla documentazione prescritta dall’art. 161, comma 2°, l. fall. deve depositare la relazione di un professionista (art. 161, comma 3, l. fall.) con un giudizio sulla fattibilità economica della proposta e sulle capacità di adempimento dell’imprenditore concordatario (20). Va subito rilevato che i predetti oneri informativi non possono ritenersi funzionalmente idonei a compensare l’esautorazione subita dal Tribunale (21). Gli ampi poteri di sindacato del giudice erano funzionali alla protezione dei creditori di minoranza e alla tutela degli interessi dei creditori collettivamente considerati (22). Le recenti riforme al sistema fallimentare impongono allora di individuare la «misura del rapporto» tra l’operatività del principio 19 R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori, cit. 32; Id. Dai soci di minoranza ai creditori di minoranza, cit. 1066. 20 Cfr. Trib. Torino, 17 novembre 2005, in Foro it. 2006, I, 911; in senso analogo Trib. Milano, 9 febbraio 2007, Fall. 2007, 1220; Trib. Pescara, 21 ottobre 2005, in Foro it. 2006, I, 912, Trib. Monza, 17 ottobre 2005, in Dir. prat. soc. 2005, 67; T. Ancona, 13 ottobre 2005, in Fall. 2005, 1405. 21 L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino, 2010,152, il quale rileva che: «gli obblighi e responsabilità del professionista autore della relazione dell’art. 160, comma 2°, l. fall. [sono] predicabili teoricamente, ma di difficile e sparuta applicazione pratica, comunque inidonea ad arginare le espropriazioni di diritti prodotte dagli abusi [della] maggioranza»; così anche: S. Fortunato, La responsabilità del professionista nei piani di sistemazione delle crisi d’impresa, in Fall. 2009, 889. 22 R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 325; N. Rocco di Torrepadula, Concordato preventivo (voce) in Dig. sez. comm. Torino, 1988, III, 276. 13 maggioritario, la necessità di tutela dei creditori assenti e dissenzienti e la permanenza di un controllo giurisdizionale sull’accordo concluso tra l’imprenditore e i suoi creditori per regolare la crisi (23). Occorre cioè verificare quali siano all’interno del nuovo sistema, proteso a favorire la soluzione negoziata della crisi d’impresa, i presupposti che possano giustificare il principio maggioritario e la regola dell’obbligatorietà del concordato preventivo per tutti i creditori (24). L’efficacia ultra partes del concordato preventivo è stata infatti conservata anche nel nuovo assetto c.d. ‹‹privatistico›› (25) ed è necessario verificare se la conservazione degli effetti verso i ‹‹terzi›› possa ancora ritenersi compatibile con i principi sostanziali, processuali e, soprattutto, 23 Sulla necessità di cogliere il punto di equilibrio tra soluzione negoziata, autotutela dei creditori, ed efficacia ultra partes del decreto di omologa v. I. Pagni, Il controllo del tribunale e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 1091; Ead. Il controllo sugli atti degli organi della procedura fallimentare (e le nuove regole della tutela giurisdizionale), ivi, 2007, 140; M. Fabiani, Autonomia ed eteronomia nella risoluzione dei conflitti nel nuovo diritto concorsuale, in Fall. 2008, 1098; v. anche: L. Stanghellini, Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall. 2008, 380 ss, per il quale: ‹‹Occorre dunque affrontare il nuovo sistema fallimentare partendo da un dato di fatto: la regola di maggioranza è basata sul presupposto, ormai non più messo in discussione da nessuno, che la maggioranza, almeno per quanto riguarda le decisioni sulla creazione di ricchezza (non sulla sua distribuzione, che richiede regole inderogabili a presidio della minoranza), abbia i corretti incentivi ad operare nell’interesse di tutto il gruppo››. 24 A. M. Azzaro, Concordato preventivo, principio maggioritario e classi dei creditori, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 555 il quale chiaramente afferma che: ‹‹se l’art. 184 l. fall. era coerente alla visione pubblicistica di una procedura concorsuale in cui – si diceva – era dalla sentenza di omologazione, avente natura di giudicato, che derivava l’espropriazione del diritto dei creditori a vantaggio della collettività, tale effetto deve nella nuova prospettiva trovare una spiegazione coerente con la supposta natura negoziale dell’istituto››. 25 La problematica è stata sollevata da I. Pagni, L’accentuazione privatistica del concordato preventivo e i riflessi sul giudizio di omologazione, in Foro it. 2006, I, 918; sull’argomento v. anche A. Gentili, Autonomia assistita ed effetti ultra vires nell’accettazione del concordato, in Giur. comm. I, 2007, 357 il quale riferendosi all’assoggettamento della minoranza dissenziente e dei creditori estranei ritiene che: ‹‹La ratio della peculiare disposizione sull’estensione dell’accettazione è e resta poco chiara perché rischia di apparire eccezionale ed irrazionale in due opposti sensi: per un verso come forzatura della libertà ed autonomia dei creditori dissenzienti, e per l’opposto verso come inutile rafforzativo del criterio di maggioranza e dei suoi naturali effetti estensivi sulla minoranza. È il momento di occuparsene››. 14 costituzionali che governano la crisi d’impresa (26). 1.1. – È opinione tanto diffusa, quanto controversa, che il nuovo concordato preventivo consenta di giungere ad una soluzione negoziale della crisi d’impresa, sebbene nell’istituto in questione operi il paradigma deliberativo a maggioranza (27). L’‹‹adunanza›› dei creditori e la ‹‹deliberazione›› rappresenterebbero, rispettivamente, il momento temporale e l’aspetto procedimentale attraverso cui la collettività dei creditori dovrebbe giungere alla formazione e alla manifestazione del consenso sulla proposta di concordato (28). Sennonché, il procedimento deliberativo continua ad essere caratterizzato 26 Cfr. F. D’Alessandro, La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, 330 ss secondo cui infatti: ‹‹il diritto di garanzia dei creditori sul patrimonio del debitore è assistito da tutela costituzionale, onde non può essere espropriato, neppure indirettamente, né a vantaggio dell’interesse pubblico (alla piena occupazione e simili), né, meno ancora, è ovvio, a vantaggio dell’interesse del debitore››; v. anche L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit., 8 ss. il quale, riprendendo l’A. appena citato, afferma chiaramente che: ‹‹in nessun modo il “principio di maggioranza” può farsi valere in via negoziale, non solo contro i principi fondamentali della nostra Costituzione, ma anche contro “la regola fondamentale di tutto il diritto privato, cioè l’autonomia, la legittimazione di ciascuno a disporre dei propri interessi”››, spec. 151, ove l’A. in riferimento all’intentio legislatoris chiaramente afferma che: ‹‹Non potendosi, tra l’altro, accertare l’inversione delle regole interpretative poste dall’art. 12 delle preleggi al c.c., proposta da chi fa prevalere l’intenzione del legislatore sullo stesso dato esegetico sostanzialmente chiaro e sui principi generali del sistema ordinario e costituzionale››. 27 Sulla distinzione tra autonomia contrattuale e autonomia negoziale v. F. Criscuolo, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, in Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato Vol. IV, 1, Napoli, 2008; v. però le osservazioni, che non paiono affatto potersi dire superate, formulate sotto il vigore dell’abrogata disciplina da: E. F. Santi, L’adunanza dei creditori e la votazione nei procedimenti concorsuali, cit., 45 per la quale il concordato preventivo avrebbe una natura giuridica mista e non soltanto processuale o sostanziale, ed afferma che: ‹‹l’accordo della maggioranza costituisce una atto necessario del procedimento di deliberazione del concordato, senza il quale non si può arrivare al giudizio di omologazione, ma non per questo il concordato può essere definito semplicemente un contratto, poiché per quel che concerne le forme, i vizi della volontà e le invalidità relative all’espressione del voto, si deve pur sempre ricorrere all’applicazione delle norme del processo civile. Quindi, non si può rinvenire alcuna organizzazione o volontà collegiale espressa in assemblea, ma solo una deliberazione come un atto complesso a formazione successiva, che, senza esercitare alcuna forza vincolante sul potere decisionale del tribunale in sede di omologazione, costituisce dall’altro canto un atto necessario all’omologazione stessa, nel senso che fra i suoi effetti c’è l’insorgere del potere-dovere del tribunale di pronunciare riguardo all’omologazione del concordato››. 28 F. Di Marzio, “Contratto” e “deliberazione” nella gestione della crisi d’impresa, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2010, 94. 15 per la struttura c.d. ‹‹aperta›› della collettività dei creditori e per l’assenza di un rapporto di strumentalità tra la collettività degli stessi e l’oggetto della deliberazione. Tali caratteristiche del procedimento deliberativo hanno tradizionalmente costituito i limiti all’operatività dell’autotutela dei creditori nel concordato preventivo. Entrambe non possono che continuare a rappresentarne tutt’oggi un ostacolo anche in virtù anche delle seguenti considerazioni. Innanzitutto, l’organizzazione dei creditori nel concordato preventivo non è assimilabile a quella delle associazioni privatistiche, né a quella delle società di capitali (29). In tali forme di organizzazione il diritto al voto trae origine da un contratto (o uno statuto) nel quale sono predeterminati e preventivamente conoscibili, rispetto all’oggetto della deliberazione, i legittimati al voto ed il loro relativo peso. La capacità di ogni legittimato al voto di influire sulla formazione della maggioranza è, dunque, accettata e conoscibile almeno erga omnens partes prima della formulazione dell’oggetto di ogni deliberazione, mentre ciò non è possibile nell’ambito del concordato preventivo. Nel concordato preventivo invece non è possibile avere contezza degli aventi diritto al voto fino al momento in cui debitore non depositi il ricorso per accedere alla procedura nel quale alleghi l’elenco nominativo dei suoi 29 Cfr. di R. Sacchi, Il principio di maggioranza, cit. 319 secondo cui: ‹‹l’organizzazione su base maggioritaria dei creditori nel concordato non può essere qualificata come autorganizzazione, ossia come organizzazione riducibile alle regole del diritto dei contratti. La tutela degli interessi dei creditori in quanto tali nel concordato non può, quindi, essere lasciata alla libera disponibilità dei titolari di questi interessi, e cioè dei creditori. Mancano, infatti, le condizioni – la struttura chiusa della collettività e necessaria presenza di un rapporto di strumentalità fra gli interessi degli appartenenti alla collettività in quanto tali rispetto alle materie in cui opera il principio maggioritario – che devono sussistere in una collettività, a garanzia della minoranza, perché la tutela degli interessi appartenenti alla collettività (in quanto tali) possa essere lasciata alla libera disponibilità degli stessi››; l’A. in questione ha infatti ribadito questa posizione anche dopo le recenti riforme, cfr. Id. Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato dell’autorità giudiziaria. in Fall. 2009, 30. 16 creditori. Di conseguenza, prima della fase di ammissione non è possibile conoscere chi siano i legittimati al voto, né la loro capacità di influire sulla formazione della maggioranza. Quindi, continua a sussistere tutt’ora il rischio che vi siano creditori non inclusi nell’elenco nominativo del debitore o che siano inclusi per un ammontare minore rispetto a quanto effettivamente vantato sulla base del rapporto obbligatorio sostanziale, oppure, che vi siano creditori inseriti in un rango inferiore (30). In secondo luogo, non sussiste l’omogeneità fra gli interessi dei creditori votanti e pertanto continua sussistere il pericolo di un loro conflitto di interessi, e ciò, soprattutto, perché in tutto l’arco della procedura non è possibile accertare - con efficacia di giudicato –l’entità e la natura dei crediti (31). Il legislatore della riforma, infatti, ha modificato le maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato, ma non ha modificato la disciplina prescritta in tema di accertamento dei crediti contestati (art. 176 l.fall.) (32). 30 Lo rileva infatti chiaramente G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 148 per il quale: ‹‹In ogni caso, il principio di maggioranza, mutuato per il concordato preventivo dalle associazioni privatistiche, non assumerebbe il contenuto di una volontà prevalente, né potrebbe avere l’effetto di un atto impositivo per la generalità di tutti i partecipanti perché non sarebbe la conseguenza di una decisione collegiale di tutti i creditori. In altri termini, non si potrebbero mai colmare gli inconvenienti di una mancata partecipazione di tutti i creditori, né quella concernente i creditori dissenzienti››; prima delle recenti riforme rilevarono tale problematicità: Id. L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1993, I, 2065; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1995, I, 2333; e dopo le riforme: G. B. Nardecchia, Esercizio del diritto di voto, poteri del g.d. e criteri di formazione delle maggioranze nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 348. 31 R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato dell’Autorità giudiziaria, in Fall. 2009, 30; Id. Dai soci di minoranza ai creditori di minoranza, in Fall. 2009, 1063; v. anche: M. Fabiani, Diritto e processo a confronto nel nuovo fallimento e lo spettro dei conflitti di classe, in Fall. 2008, 5 ss ove l’A. lamenta il complessivo arretramento della tutela giurisdizionale dei creditori. 32 Sull’argomento v. A. Pavone la Rosa, La ‹‹verifica›› dei crediti nel concordato preventivo: deficienze dell’attuale disciplina, in Dir. fall. 1974, 5; G. Lo Cascio, Il 17 Una prima forma di “accertamento” delle pretese dei creditori continua a essere quella compiuta dal commissario giudiziale, che conserva il potere di compiere indagini e operare rettifiche all’elenco dei creditori, le quali potranno essere ricontrollate dal Tribunale nel giudizio di omologa (33). Ma tanto le rettifiche, quanto i controlli del Tribunale, costituiscono in realtà un mero accertamento ‹‹amministrativo›› finalizzato al calcolo delle maggioranze (34) e non producono alcuna incidenza, né alcuna preclusione su futuri giudizi aventi ad oggetto i medesimi crediti (35). concordato preventivo, VII ed. Milano, 2008, 643, il quale ritiene che qualsiasi controversia avente ad oggetto l’accertamento dell’esistenza e della natura delle obbligazioni concorsuali deve svolgersi in sede ordinaria nella quale il creditore, in contraddittorio con il debitore, può far valere le proprie difese; nella recente giurisprudenza v. Cass. 14 febbraio 2002, n. 2104 in Fall. 2003, 25 con nota di C. Trentini, Modalità di verifica dei crediti nel concordato preventivo; App. Genova, 14 aprile 2004 in Dir. fall. 2005, II, 486, con nota di A. Costa, Accertamento di un rango di un credito fra attività di verifica nel concordato preventivo per cessione dei beni e legittimazione passiva del liquidatore nel giudizio ordinario, il quale ritiene che il liquidatore sia litisconsorte necessario nel giudizio in sede extra-concorsuale tra il creditore ed il debitore concordatario volto all’accertamento delle obbligazioni concorsuali. 33 In chiave fortemente critica v. F. Santangeli, Auto ed etero tutela dei creditori nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, in Dir. fall. 2009, I, 617, secondo cui è possibile che: ‹‹il creditore sia chiamato a subire le scelte della maggioranza dei creditori, o addirittura di un singolo creditore se in possesso della maggioranza dei crediti, anche se non le condivida (e con le nuove regole, senza una percentuale minima di soddisfazione assicurata), o rimanga convinto che avrebbe potuto ottenere maggiori soddisfazioni agendo individualmente, o anche a seguito del fallimento del proprio debitore, e senza che esista un organo avanti al quale egli possa far valere una simile doglianza››. 34 S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, ed. VI, Roma, 1964, 430; Id. Diritto fallimentare, Padova, 1974, 404; A. Bonsignori, L’art. 111, comma secondo, Cost. e l’ammissione al voto nel concordato preventivo, in Dir. fall. 1972, II, 297; Id. Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare a cura di F. Bricola, F. Galgano, G. Santini, Bologna – Roma, 1974, 239; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2289; A. Pavone la Rosa, La ‹‹verifica›› dei crediti nel concordato preventivo: deficienze dell’attuale disciplina, in Dir. fall. 1974, 5; G. Lo Cascio, L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1993, I, 2065; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1995, I, 2333; G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, 1038; A. Ravazzoni, Commento sub artt. 176 e 178 l. fall. in G. U. Tedeschi (a cura di) Commentario alla legge fallimentare, Torino, 1997; e più di recente G. B. Nardecchia, Esercizio del diritto di voto, poteri del g.d. e criteri di formazione delle maggioranze nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 348. 35 v. Cass. 22 maggio 1958, n.1727, in Dir. fall. 1958, II, 380; Cass. 12 luglio 1958, n. 2540, in Dir fall. 1958, II, 625; Cass. 11 novembre 1970, n. 2346, Dir. fall. 1971, II, 445; Cass. 2 agosto 1975, n. 2961, in Mass. Giust. civ. 1975, 684; Cass. 12 marzo 1987, n. 2560, in Dir. fall. 1987, II, 636, e in Fall. 1987, 812, e in Giust. civ. 1987, I, 1408; Cass. 17 18 La mancanza di contestazioni non ha alcun valore di accertamento del credito e va considerata soltanto un mero indice della tendenziale corrispondenza tra la massa passiva sostanziale e quella processuale (36). Le eventuali contestazioni sono disciplinate dall’art. 176 l. fall., ai sensi del quale il giudice conosce dell’entità e del rango crediti ‹‹ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze››. La contestazione non estende la cognizione del g.d. sul rapporto sostanziale, il quale verrà accertato sempre e soltanto incidenter tantum (37). Il provvedimento con cui il creditore verrà ammesso al voto avrà solo efficacia endoconcorsuale: sarà, cioè, rilevante unicamente per il compimento delle operazioni di voto e non produrrà alcun effetto di accertamento del diritto sostanziale vincolante per altri e successivi giudici. Al creditore escluso dalla votazione viene concessa la possibilità di contestare il provvedimento del giudice delegato in sede di opposizione all’omologa. La legittimazione è attribuita solo ai creditori «esclusi», cioè a coloro che – nella logica dell’abrogata disciplina - non hanno avuto la possibilità di esprimere alcun voto sulla proposta e non hanno potuto incidere sulla maggioranza (numerica). Ai creditori ammessi al voto per un ammontare o rango inferiore rispetto a quello vantato, invece, non è espressamente riconosciuta alcuna legittimazione all’opposizione. A tal proposito occorre richiamare la precedente formulazione dell’art. 177 l.fall. sulle maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato. Nella previgente disciplina il creditore ammesso al voto per un ammontare o rango inferiore rispetto a quello da lui preteso avrebbe potuto giugno 1995, n. 6859, in Fall. 1996, 50; Cass. 22 settembre 2000, n. 12545, in Mass. Giust. civ. 2000, 1978; Cass. 14 febbraio 2002, n. 2104, in Fall. 2003, 25 e in Mass. Giust. civ. 2002, 241; Cass. 24 agosto 2004, n. 16729, in Giust. civ. 2005, I, 3060. 36 G. Lo Cascio, L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato preventivo, cit. 2066; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel concordato preventivo, 2333; 37 Cass. 25 novembre 1971, n. 3442, in Dir. fall. 1972, I, 297, con nota critica di A. Bonsignori, L’art. 111, comma secondo, Cost. e l’ammissione al voto nel concordato preventivo. 19 influire sulla formazione della maggioranza dei creditori (quella c.d. numerica) in modo paritetico agli altri creditori ammessi, ma avrebbe potuto influire sulla maggioranza dei crediti (quella c.d. quantitativa) solo parzialmente rispetto alla pretesa vantata. La lacunosità e contraddittorietà di tale sistema è stata sollevata in più occasioni (38); ma alle obiezioni si è sempre replicato, in modo assiomatico, che il legislatore ha preferito assicurare la speditezza e l’operatività della procedura, sacrificando la certezza degli atti (39). Nell’attuale disciplina tale sacrificio, in realtà, integra un’ulteriore diminuzione del rapporto di strumentalità fra gli interessi dei creditori e la deliberazione sulla proposta (40). Il rapporto di strumentalità tra gli interessi dei creditori e l’oggetto della deliberazione potrebbe non sussistere se il debitore decidesse di prevedere trattamenti differenziati tra i creditori mediante la suddivisione degli stessi in classi (41). La possibilità di creare classi di creditori e prevedere 38 R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2289. S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Milano, 1943, 299. 40 Cfr. L. Stanghellini, Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall. 2009, 1067 secondo cui sarebbe stato opportuno che il legislatore avesse utilizzato per la votazione sul concordato le categorie del diritto societario, nel quale la tutela della minoranza è, a differenza di quanto accade nel diritto fallimentare, un problema conosciuto ed approfondito; v. anche: F. Santangeli, Auto ed etero tutela dei creditori nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa (il piano di risanamento, l’accordo di ristrutturazione, il concordato preventivo). Le tutele giudiziali dei crediti nelle procedure ante crisi, cit. 608 il quale rileva che: ‹‹le nuove disposizioni che si occupano delle procedure concordate sembrano volutamente comprimere i diritti dei creditori all’accertamento ed alla soddisafazione dei loro crediti, elemento ormai quasi accidentale ed accessorio delle dinamiche concorsuali, peraltro in un limbo normativo quanto alle concrete possibilità di tutela del proprio credito, specialmente per i creditori “deboli”, ovvero coloro che non hanno capacità di interlocuzione paritaria con chi tenti un salvataggio››. 41 R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori, cit. 31; Id. Dai soci di minoranza ai creditori di minoranza, cit. 1064; v. però le osservazioni di: G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 148, per il quale: ‹‹Il principio della disomogeneità degli interessi dei creditori, che precluderebbe nel concordato la formazione di una maggioranza, potrebbe essere superato soltanto inserendo i creditori, a discrezione del debitore, in classi diverse nelle quali la loro collocazione dovrebbe avvenire in dipendenza dell’omogeneità dell’interesse rivestito››, quindi per questo A., ‹‹l’imposizione di decisioni assunte a maggioranza nell’ambito di un concordato preventivo privo di classi 39 20 trattamenti differenziati mostra chiaramente un trend legislativo volto alla progressiva erosione del principio formale della par condicio creditorum nelle procedure concorsuali, già ampiamente denunciato dalla dottrina negli anni ’80 (42). Il legislatore ha quindi fondato sul paradigma deliberativo l’autotutela dei creditori, pur conservandone tutti i predetti limiti strutturali. Ma vi è di più. Da un verso, ha ridotto il margine del controllo giurisdizionale in tutto l’arco della procedura; dall’altro verso, ha ampliato l’efficacia del concordato omologato su qualsiasi credito anteriore al decreto di apertura della procedura. Ci si riferisce all’effetto che il concordato preventivo può produrre nel successivo fallimento dell’impresa concordataria sulla garanzia patrimoniale del debitore, la quale viene modellata alla luce della previsione dell’art. 67, comma III, lett. e) l. fall., anche per coloro che, in quanto creditori successivi all’apertura della procedura, non hanno neppure avuto titolo per votare all’adunanza e discutere la proposta del debitore, rispetto ai quali neppure avrebbe senso parlare di autotutela e applicazione del principio maggioritario. Evidenziati gli aspetti problematici del nuovo sistema deliberativo è giunto il momento di concentrate l’attenzione proprio su quell’‹‹efficacia anomala e pericolosa›› (43) che continua ad essere attribuita al concordato preventivo. 2. – Ai sensi dell’art. 184 l.fall. il concordato preventivo omologato dal e, quindi, in presenza di interessi disomogenei, si tradurrebbe in una compressione ingiustificata dei creditori e pertanto in una disciplina costituzionalmente illegittima››. 42 Cfr. V. Colesanti, Mito e realtà della ‹‹par condicio creditorum››, in Fall. 1984, 32; P.G. Jaeger, ‹‹Par condicio creditorum››, in Giur. comm. 1984, I, 88 ss; G. Tarzia, Parità e discriminazioni tra i creditori nelle procedure concorsuali, in Fall. 1984, I, 153 ss; R. Sacchi, Gli obbligazionisti nel concordato di società, Milano, 1981, 14; più di recente: V. Buonocore, Principio di uguaglianza e diritto commerciale, in Giur. comm. 2008, I, 570. 43 F. Carnelutti, Sui poteri del tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo, cit. 65. 21 Tribunale è obbligatorio indistintamente per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura. Gli effetti del concordato preventivo si producono anche nei confronti di coloro che hanno espresso voto contrario, che non hanno votato, che sono stati esclusi dal voto, nonché verso coloro che non hanno partecipato al procedimento, perché non sono stati inclusi negli elenchi depositati dal debitore ex art. 161 e 171 l. fall. (44). L’efficacia ultra partes del concordato omologato viene solitamente giustificata sulla base del principio della par condicio creditorum (45). L’estensione dell’efficacia vincolante del concordato preventivo è limitata ai soli creditori dell’imprenditore e non è estesa agli eventuali fideiussori e coobbligati, verso i quali non sussiste alcun onere di convocazione al procedimento deliberativo. Prima delle recenti riforme il provvedimento di omologazione assolveva essenzialmente ad una duplice funzione: a) autorizzava gli effetti esdebitativi nei confronti dei creditori consenzienti; b) rendeva vincolante la proposta anche per i creditori dissenzienti e assenti alla deliberazione. In virtù di quanto disposto dal precedente testo dell’art. 160 l.fall. il debitore doveva garantire il soddisfacimento dei creditori chirografari almeno nella percentuale minima del quaranta per cento, mentre per il residuo sessanta per cento non era disposto nulla, per cui, argomentando a contrario senso ex art. 184 l. fall. si deduceva che il debitore venisse liberato per il residuo (46). 44 Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 777; S. Pacchi - L. D’Orazio – A. Coppola, Il concordato preventivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 1904; in giurisprudenza v. Cass. 15 aprile 1998, n. 3800, in Fall. 1999, 77; Cass. 13 giugno 1990, n. 5772, in Fall. 1990, 1212; Cass. 3 maggio 1967, n. 831, in Giust. civ. 1967, I, 1287. 45 La questione è stata trattata più che altro a livello giurisprudenziale v. ex plurimis Cass. 2 aprile 1987, n. 3202, in Fall. 1987, 1051. 46 Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja - Branca – Legge Fallimentare, a cura di F. Bricola – F. Galgano – G. Santini, Bologna, 1979, 484 ss; G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974, 834; P. Pajardi, Codice del 22 Nel concordato per cessione dei beni, invece, dove la percentuale attribuibile ai creditori non poteva costituire un dato certo, ma soltanto previsionale e dipendente in concreto dal risultato della liquidazione, la quantificazione concorsuali dell’effetto veniva estintivo/modificativo rimandato alla fase delle esecutiva, obbligazioni cioè, all’esito dell’individuazione dell’esatta percentuale distribuita ai creditori (47). Nel previgente sistema gli effetti ultra partes del concordato preventivo erano quindi effetti tipici e predeterminati ex lege. Si trattava, tanto nell’uno caso, quanto nell’altro, degli effetti remissori o dilatori previsti dall’art. 160 l.fall. La riforma, invece, ha liberalizzato il contenuto della proposta concordataria e, soprattutto, del piano posto a base della stessa. Il piano e la proposta di concordato possono prevedere la ‹‹soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma›› (art. 160 l. fall.), anche mediante operazioni straordinarie, con possibilità di attribuire ai creditori azioni, quote, obbligazioni, o altri strumenti finanziari anche di una nuova costituenda società (48). Nel piano si possono prevedere le modalità più varie per assicurare il soddisfacimento dei creditori; nella proposta di concordato il debitore non deve garantire una percentuale di soddisfacimento minima ai creditori chirografari, né il pagamento integrale dei creditori privilegiati. Il soddisfacimento dei creditori può avvenire attraverso ‹‹qualsiasi forma›› anche secondo modalità diverse da quelle espressamente indicate nel secondo comma, la cui elencazione assume carattere meramente esemplificativo e non tassativo (49). Le parti possono quindi scegliere di fallimento, Milano, 2001, 1003. 47 v. ex plurimis : Cass. 24 giugno 1995, n. 7169, in Fall. 1995, 1220. 48 Per tutti v. L. Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2006, 51 ss. 49 Per tutti v. G. Santoni, Contenuto del piano di concordato preventivo e modalità di soddisfacimento dei creditori, in Aa.Vv. Le soluzioni concordate della crisi d’impresa, 23 risolvere la crisi sia con modalità satisfattive in senso lato (pagamento in denaro, datio in solutum, accollo dei beni da parte di un terzo, etc.), sia con modalità non satisfattive, quali le operazioni societarie di fusione, scissione e trasformazione (50). Ora, per via della liberalizzazione del piano e della proposta sussiste il rischio che gli effetti del provvedimento di omologa e, di conseguenza, gli effetti ultra partes (compresi quelli verso i coobligati, fideiussori e obbligati in via di regresso) possano scontare tanto un deficit di determinatezza, quanto dubbi sulla liceità e meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito (51). Il deficit di determinabilità degli effetti potrebbe verificarsi qualora il piano di concordato preveda il conferimento ai creditori - o a una classe di creditori - di titoli azionari od obbligazionari. In tale ipotesi potrebbe essere difficoltoso determinare la percentuale del credito soddisfatta mediante il concordato ed, ex adverso, definire la residua responsabilità del coobligato. Questi potrebbe vedersi costretto ad adempiere l’intero ammontare del credito, per poi dover agire contro il debitore ed ottenere il pagamento della percentuale concordataria o il residuo rispetto a quanto previsto nella proposta (52). Potrebbe sussistere il rischio che l’imprenditore e i suoi creditori vogliano conseguire effetti non leciti o, ad ogni modo, non meritevoli di tutela. Senza volersi addentrare in approfondimenti, impossibili in questa sede, non ci si può esimere dal rilevare che ogni qualvolta l’ordinamento riconosce ai privati maggiori spazi di libertà negoziale, ne ha sempre consentito un controllo giurisdizionale sulla conformità degli effetti voluti Torino, 2007, 54 ss. 50 M. Sandulli, sub art. 160, 161, 162, in A. Nigro – M. Sandulli (a cura di) La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, II, 984 ss. 51 Cfr. E. Frascaroli Santi, Gli effetti del concordato preventivo per i creditori (art. 184 l. fall.), cit. 1044. 52 Cfr. S. Pacchi, Sub art. 184 l. fall. in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, 2592 24 dalle parti, tanto rispetto all’ordinamento (secondo le forme del giudizio di liceità e più ampiamente di validità), quanto rispetto agli interessi dei terzi (53). L’esercizio della libertà negoziale può essere sottoposta a un giudizio di conformità, vuoi sul piano astratto (nel quale l’atto può risultare lecito o illecito, valido o invalido) vuoi sul piano concreto, al fine di appurare che l’uso astrattamente lecito e legittimo della libertà non si traduca in concreto in forme negoziali abusive e immeritevoli di tutela perché in danno ai terzi. Il principio cardine dell’autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) riconosce ai privati: a) il potere di determinare il contenuto del contratto; b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare. Come noto, l’autonomia delle parti deve svolgersi ‹‹nei limiti imposti dalla legge›› (54) e il contenuto del contratto dev’essere diretto ‹‹a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico›› (55). 53 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 101: «L’autonomia privata, in quanto è chiamata a operare sul piano sociale, incontra innanzitutto limiti e obbedisce ad esigenze che discendono dalla sua stessa logica: limiti ed esigenze, antecedenti in questo senso allo stesso riconoscimento giuridico. In virtù poi, di tale riconoscimento, essa incontra altri limiti e obbedisce ad ulteriori esigenze da esso derivanti, in quanto è chiamata a operare sul piano del diritto e secondo la logica di questo. Il riconoscimento giuridico conferma, assume ed, occorrendo, modifica limiti ed esigenze naturali dell’autonomia privata». 54 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 102 che chiaramente afferma che: «I limiti consistono soprattutto nella indisponibilità dei requisiti e degli effetti del negozio [...]. Così gli elementi essenziali, come i presupposti (di validità) propriamente detti, e del pari il trattamento del negozio validamente compiuto si sottraggono alla disposizione privata, riservati come sono alla competenza normativa della legge. Il tentativo di superare i limiti dati dalla loro indisponibilità assume spesso la forma di clausola di rinunzia con cui la parte si obbliga a non far valere la conseguente invalidità del negozio: clausola da considerare priva di efficacia vincolante». 55 Sulla meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito con la conclusione dell’accordo v. di recente: Cass. sez. un. 13 settembre 2005, 18128, in Notariato, 2006, 13 con nota di M. Tatarano, C’era una volta l’intangibilità del contratto; anche in Danno e resp. 2006, 424, con nota di A. Riccio, Il generale intervento correttivo del giudice sugli atti di autonomia privata; v. anche: U. Perfetti, Riducibilità d’ufficio della clausola penale ed interesse oggettivo dell’ordinamento: un rapporto da chiarire, in Nuov. giur. civ. comm. 2006, 187; in tema già: A. Riccio, Il controllo giudiziale della libertà contrattuale: l’equità correttiva, in Contr. e impr. 1999, 939; Id. È dunque venuta meno l’intangibilità del 25 L’osservanza dei limiti imposti dalla legge è demandata al giudice, il quale non può riconoscere il diritto fatto valere quando esso si fondi su un contratto il cui contenuto non è conforme alla legge, ovvero, persegue interessi che non appaino meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Il controllo ufficioso del giudice sulla meritevolezza dell’accordo delle parti in sé, è sempre pregiudiziale a ogni altra e diversa richiesta proveniente dalle stesse (56). Ora, la nuova disciplina del concordato preventivo ha ampliato l’autonomia delle parti in un campo normalmente riservato alla disciplina positiva. L’imprenditore in crisi e i creditori hanno la possibilità concludere un negozio volto a regolare la crisi d’impresa derogando, sia alla disciplina positiva in materia di esecuzione individuale, sia alla regola della par condicio creditorum. La proposta di concordato preventivo può prevedere il pagamento non integrale del creditore assistito da causa di prelazione speciale e generale, come pure la suddivisione dei creditori in classi, con possibilità di trattamenti differenziati tra i creditori appartenenti a classi diverse, in palese violazione proprio del principio della parità di trattamento (57). L’obbligatorietà erga omnes del concordato verso tutti i creditori anteriori rischia di apparire sempre meno giustificabile sulla base del principio della contratto: il caso della penale manifestamente eccessiva, ivi, 2000, 95; più in generale v. M. Costanza, Meitevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. e impr. 1987, 432; F. Galgano, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, in Contr. e impr. europa, 2005, 509. 56 Cass. sez. un. 04 settembre 2012, n. 14828, in Dir. Giust. 2012, 765. 57 Sembrerebbe ammetterlo anche: M. Sciuto, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo, in Giur. comm., I, 2007, 586, per il quale: ‹‹La possibilità che un piano concordatario venga sottoposto all’approvazione di creditori ripartiti per classi destinatarie di un trattamento differenziato, apre inevitabilmente una complessa fase di negoziazioni: non solo fra creditori e debitore, ma anche fra le stesse classi di creditori (e nei casi di formazione “anomala” delle singole classi, al limite, anche fra creditori della stessa classe), i quali vedono così – anche se di pari grado – ulteriormente frammentato il loro fronte comune, ciascuna classe rincorrendo la soluzione concordataria più favorevole al proprio interesse particolare››. 26 par condicio (58). L’efficacia ultra partes del concordato preventivo costituisce un ostacolo - difficilmente trascurabile - per chiunque voglia sostenere l’effettiva evoluzione in senso privatistico dall’istituto in questione. E anche dopo le recenti riforme è stato ribadito che l’autonomia privata mal si concilia con regole che impongono la soggezione dei creditori dissenzienti o assenti alla volontà della maggioranza (59). Alla luce di quanto precede, al Tribunale non può essere inibita la possibilità di controllare il modo in cui le parti hanno fatto uso dell’autonomia loro concessa, e ciò affinché il concordato preventivo continui a perseguire gli scopi imposti dalle legge a tutela di tutti gli interessi coinvolti (60). 58 Cfr. M. Ferro, Il concordato preventivo, l’omologazione e le fasi successive, in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, Bologna, 2010, 1093. 59 Ritiene, infatti, che si sia in presenza di una sorta di ‹‹autonomia assistita››: A. Gentili, Autonomia privata ed effetti ultra vires nell’accettazione del concordato, cit. 357; in argomento v. L. Stanghellini, Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, cit. 378; M. Ferro, Il concordato preventivo, l’omologazione e le fasi successive, cit. 1098; v. anche: I. Pagni, L’accentuazione privatistica del concordato preventivo e i riflessi sul giudizio di omologazione, cit. 919, che sollecita una riflessione sul significato della stessa conservazione dell’art. 184 l. fall. ‹‹una volta che il concordato preventivo è stato riportato, più marcatamente che in passato, ad una concezione di stampo privatistico››; contra S. Scarafoni, La riforma del concordato preventivo, in Dir. fall. 2005, I, 839, secondo cui in forza della generale obbligatorietà del concordato, approvato dalla maggioranza ed omologato dal Tribunale, la tesi contrattuale dell’istituto in parola non è sostenibile e resta evidente il suo carattere di procedura concorsuale pubblica, ove il diritto dei creditori di alcuni creditori può essere sacrificato in vista degli interessi che il legislatore ritiene preminenti››; in questo senso, in chiave più dubitativa, v. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 150, secondo cui: ‹‹Questi interrogativi, nei quali si perpetua in questi primi anni di applicazione della novella legislativa fallimentare il dibattito di opinioni, hanno innescato notevoli dubbi sulla prevalenza dell’opzione negoziale del concordato rispetto a quella processual-pubblicistica, rimettendo in discussione gli stessi intendimenti della riforma››; Id. Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o pubblicistica, in Fall. 2008, 991; Id. Concordati, classi di creditori ed incertezze interpretative, in Fall. 2009, 1129. 60 In questi esatti termini: A. M. Azzaro, Concordato preventivo e autonomia privata, in Fall. 2007, 1270; v. anche: G. Minutoli, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezza), in Fall. 2008, 1047, spec. 1048; in questo senso sembrerebbe orientata anche: I. Pagni, Il controllo del tribunale e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in cit., 1093, secondo cui: ‹‹È il caso di anticipare fin d’ora che, a mio parere, le condizioni di legittimità della soluzione concordata 27 Sulle forme, sulle modalità e sui limiti del controllo giurisdizionale ci si soffermerà nel proseguo dell’indagine. 3. – Il provvedimento di omologazione costituisce poi la condicio iuris per la produzione di un particolare effetto verso tutti i creditori. Ci si riferisce - come facilmente intuibile – all’esonero dall’azione revocatoria per gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse in esecuzione del piano di concordato previsto dell’art. 67, comma III, lett. e) l.fall. (61). tra le parti sulle quali il tribunale può, e deve, indipendentemente dalle opposizione, portare il proprio esame sono essenzialmente l’assenza di un abuso della maggioranza sulla minoranza, il rispetto della par condicio sostanziale (il riconoscimento, cioè, di un’identità di trattamento ai creditori che rispondano a posizione giuridica e interessi economici davvero omogenei, ad evitare il formarsi di maggioranze squilibrate), e la validità dell’accordo secondo parametri analoghi, anche se non identici, a quelli della nullità e dell’annullabilità di cui al codice civile››; nello steso senso: A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del concordato preventivo, cit. 649; v. anche: C. Esposito, Il piano del concordato preventivo tra autonomia privata e limiti legali, in S. Ambrosini (a cura di) Le nuove procedure concorsuali, Bologna-Roma, 2008, 543, per il quale il concetto di autonomia nel concordato preventivo – per non trasformarsi in anarchia – necessita sia della fissazione di limiti ed entro cui può esercitarsi, in modo tale che l’istituto in parola possa comunque continuare ad assolvere alle funzioni che gli sono attribuite dalla legge, sia di un di controllo sull’esercizio della stessa; v. inoltre: Id. Omologazione del concordato fallimentare: verifica della regolarità, in Fall. 2009, 863, spec. 866, ove con riferimento alla proposta avanzata nel concordato fallimentare l’A. afferma: ‹‹l’avvicinamento del concordato ad ipotesi negoziali consente di inferire alla fattispecie concorsuale – con i dovuti adattamenti – i limiti all’esercizio dell’autonomia privata fissati nel quarto libro del codice civile e nelle altre ipotesi regolamentari che si occupano della patologia negoziale […] Ecco allora che – nell’interrogarsi entro quali ambiti debba essere espressa l’autonomia delle parti in seno al concordato fallimentare e con essa il controllo esercitabile dall’autorità giudiziaria – potrà farsi riferimento proprio a tali regole, sì da utilizzare le stesse onde indagare come debba presentarsi , in concreto, al proposta affinché sia legittima e quindi meritevole di tutela secondo le norme del nostro ordinamento, con inevitabili ricadute sul giudizio di omologazione, visto che una proposta irriverente ai limiti legali non è regolare››. 61 La disposizione supera finalmente la nota disputa in tema di consecuzione tra procedure, che ha visto contrapposti, da un lato, coloro che ritenevano che la serie procedimentale costituita dalla procedura minore e dal successivo fallimento doveva essere considerata come un’unica procedura senza soluzione di continuità iniziata dal momento dell’apertura della procedura miniore, per cui i crediti sorti durante la procedura minore in capo ai terzi dovevano essere considerati prededucibili nel successivo fallimento e gli atti posti in essere durante la procedura minore non erano soggetti a revocatoria, potendo la revocatoria avere ad oggetto soltanto gli atti antecedenti alla stessa procedura minore, in questo senso v. S. Pacchi, Concordato preventivo e prededuzione, in Giur. comm. 1980, I, 28 Tale effetto dovrebbe incentivare l’imprenditore e i suoi creditori a ricorrere alla procedura concordataria per la risolvere consensualmente la crisi dell'impresa. Come noto, prima delle recenti riforme, la soluzione negoziale della crisi d’impresa esponeva i creditori e l’imprenditore insolvente ad elevati rischi. Un negozio concluso con l’imprenditore commerciale insolvente può essere fonte di responsabilità patrimoniale o aquiliana nel caso in cui leda le ragioni dei terzi-creditori (62) . Fino a oggi, le regole che presiedevano la gestione dell’insolvenza nella disciplina civilistica delle obbligazioni hanno sempre dimostrato uno sfavore dell’ordinamento per l’attività negoziale nell’ambito della crisi d’impresa . Così, ad esempio, se l’imprenditore ha dissimulato alla controparte negoziale lo stato di insolvenza, quest’ultima può agire in giudizio per ottenere la declaratoria di nullità del contratto concluso, perché contrario a norma imperativa ai sensi del combinato disposto degli artt. 218 l.fall. e 1418, comma 1, c.c. ; se, invece, la controparte dell’imprenditore era consapevole dell’insolvenza e tramite il contratto le parti hanno voluto pregiudicare le ragioni dei terzi creditori, questi possono agire in giudizio 575; P. F. Censoni, Gli effetti del concordato preventivo sui rapporti giuridici preesistenti, Milano, 1988, 68 ss; V. Giorgi, Consecuzione di procedure concorsuali e prededucibilità dei crediti, Milano, 1996, passim; dall’altro lato, l’impostazione opposta alla consecuzione riteneva che vi fosse una netta cesura tra la procedura minore ed il successivo fallimento: di conseguenza, i crediti sorti durante la procedura minore non erano considerati prededucibili e gli atti posti in essere durante la procedura minore erano revocabili, in questo senso v. F. Verde, Trattamento, nel fallimento conseguente ad amministrazione controllata, dei debiti contratti ai fini dell’esercizio dell’impresa, in Riv. dir. comm. 1978, I, 79 ss. 62 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 104: «É parimenti possibile di fatto che un negozio venga concluso dalle parti in pregiudizio di legittime aspettative o interessi di terzi: sia che il pregiudizio risponda al consapevole intento delle parti - come accade, quando venga concluso un negozio in frode de’ creditori (art. 2901 c.c.), o si concluda un consorzio fra produttori a danno dei consumatori -, sia che il pregiudizio del terzo costituisca solo un risultato, del quale la parte può non essere consapevole: il che è possibile nella rinunzia all’eredità prevista dall’art. 524, o nella rinunzia all’ipoteca in pregiudizio di altro creditore nell’espropriazione forzata (secondo l’ipotesi dell’art. 2899), o nella che una un’impresa cooperativa faccia di proprie azioni senza prelevarne il prezzo dagli utili residui a mente dell’art. 2357». 29 con l’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.) al fine di ottenere la dichiarazione di inefficacia nei loro confronti dell’atto dispositivo compiuto dal debitore; se poi una delle parti contrattuali è un imprenditore commerciale insolvente, contro gli atti dispositivi compiuti prima della dichiarazione di fallimento possono trovare applicazione le speciali azioni revocatorie previste dalle legge fallimentare (art. 64 l.fall. ss). La nuova esenzione dall’azione revocatoria prevista dall’art. 67, comma III, lett. e) esprime, invece, l’attuale favor dell’ordinamento per la definizione negoziale della crisi d’impresa (63). La previsione di non revocabilità degli ‹‹atti esecutivi›› del concordato preventivo produce una riduzione della garanzia patrimoniale del debitore 63 Cfr. C. D’Ambrosio, sub art. 67, comma 3°, lett. d), e), g), in A. Jorio – M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, II, Bologna, 2007, 985 secondo cui: ‹‹Non vi è alcun dubbio che la disciplina delle esenzioni di cui all’art. 67, comma III, l. fall. che appare difficile ricondurre ad una logica unitaria, rappresenta uno degli aspetti di maggiore novità della riforma: in particolare, le fattispecie di cui alle lett. d), e), g) sono espressione dell’intento del legislatore di favorire, anche attraverso esenzioni dalla revocatoria, modelli di soluzione della crisi di impresa alternativi al fallimento e caratterizzati da profili negoziali››; in questo senso v. anche: Gior. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fall. 2005, 842; G. Schiano di Pepe, La nuova revocatoria fallimentare, in Dir. fall. I, 2005, 798; S. Vincre, Le nuove norme sulla revocatoria fallimentare, in C. Punzi – E. F. Ricci (a cura di), Le nuove norme processuali e fallimentari, Padova, 2005, 180; più in generale sull’azione revocatoria nel nuovo sistema fallimentare v. i commenti di: G. Minutoli, In difesa dell’istituto revocatorio (brevi riflessioni sulle nuove revocatorie fallimentari ex d.l. 14 marzo 2005, n. 35), in Dir. fall. 2005, I, 809; Gior. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, 842; B. Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm. 2006, I, 207, il quale osserva che, mentre le vecchie esenzioni configurano delle eccezioni al principio della par condicio creditorum, giustificate in ragione del credito esentato, le esenzioni di recente introduzione, invece, mirano a preservare il valore aziendale dell’impresa insolvente al fine di incentivare la soluzione concordataria della crisi per il risanamento dell’impresa; sul significato dell’azione revocatoria dopo le riforme v. L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in Riv. dir. comm. 2009, 95 secondo cui l’azione revocatoria nell’attuale sistema è comunque ‹‹un deterrente ancora potente, ma non più irragionevole, che per lo più si dirige contro comportamenti non virtuosi che non mirino a conservare l’attivo in vista di una migliore soddisfazione dei creditori: atti di aggravamento (effettivo o potenziale) del dissesto e atti lesivi della par condicio››; v. però i rilievi critici sollevati da G. Tarzia, La tutela dei creditori concorsuali dopo la riforma: ridotta o diversa, in Fall. 2007, 309 ss. che collega l’art. 67, comma III, l. fall., con la privatizzazione dell’insolvenza e con la scelta di conservare l’impresa e i suoi valori immateriali, perché ciò tutelerebbe meglio i creditori, pur ammettendo che ciò produca una palese violazione dell’art. 2741 c.c. alla luce di principi costituzionali. 30 che, altrimenti, avrebbe potuto diventare oggetto di esecuzione concorsuale. Tale effetto è pregiudizievole soprattutto per i creditori successivi all’apertura della procedura, i quali non hanno potuto partecipare all’adunanza ed esprimere il loro voto sulla proposta. I diritti patrimoniali dell’imprenditore costituiscono la garanzia del diritto del creditore (ex art. 2741 c.c.). Tra il diritto di garanzia del creditore e i diritti patrimoniali dell’imprenditore sussiste, come altresì noto, un rapporto di pregiudizialità – dipendenza di tipo permanente, per cui la situazione dipendente è condizionata dalla situazione giuridica pregiudiziale (i diritti patrimoniali del debitore) (64). Qualunque atto dispositivo (di diritto sostanziale: negozio; di diritto processuale: sentenza) che incide sulla situazione pregiudiziale (i diritti patrimoniali del debitore) ha inevitabilmente delle ricadute sulla situazione dipendente (il diritto di garanzia del creditore) (65). 64 La teoria sull’esistenza nell’ordinamento civile di rapporti di pregiudizialitàdipendenza di tipo permanente tra diritti è stata efficacemente avanzata da F.P. Luiso, Il principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi, Milano, 1981, 89 ss. per il quale nel caso dei ‹‹terzi›› con titolo anteriore all’instaurazione del processo, l’efficacia ultra partes del provvedimento giurisdizionale, diversamente dalle ipotesi in cui il diritto o l’obbligo sia acquistato durante o dopo il processo, non discende da una norma (processuale) come gli artt. 111 c.p.c. e 2909 c.c., bensì dal modo d’essere della situazione sostanziale che fa capo al terzo, dal momento che l’ordinamento la costruisce come sensibile a tutti i mutamenti, con qualsiasi mezzo provocati, del diritto o dell’obbligo altrui, ad essa pregiudiziale. Quindi, gli effetti ultra partes nei confronti dei terzi con titolo anteriore alla litispendenza derivano dal provvedimento, in quanto il terzo è avvantaggiato o pregiudicato solo in forza del diritto sostanziale: il terzo è cioè titolare di una situazione giuridica soggettiva dipendente da quella altrui, per cui sulla stessa si riflettono gli effetti di tutti gli atti o fatti che incidono sulla situazione pregiudiziale. Di conseguenza, come il terzo sarebbe esposto all’atto di disposizione di diritto sostanziale che abbia ad oggetto la situazione sostanziale (ad esempio, il sub-conduttore che subisce la risoluzione del proprio contratto in forza della mancata rinnovazione del contratto di locazione operata dal condutture, ovvero il creditore che si vede diminuire la propria garanzia patrimoniale per effetto dell’atto di alienazione di un bene immobile di proprietà del proprio debitore), lo stesso è esposto agli effetti ‹‹riflessi›› della sentenza che decida di quella stessa situazione. La sentenza quindi produce in capo al terzo, con titolo anteriore alla litispendenza, gli stessi effetti degli atti posti in essere dal titolare della situazione pregiudiziale. 65 Cfr. E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 91, il quale a proposito dei terzi che possono essere pregiudicati “di fatto” dalla sentenza, afferma 31 In altri termini, tutti gli atti dispositivi che hanno a oggetto i diritti patrimoniali del debitore producono, di riflesso, effetti anche sul diritto alla garanzia patrimoniale dei creditori ex art. 2741 c.c. (66). I creditori, rispetto agli atti dispositivi del patrimonio compiuti dal debitore, sono soggetti terzi, in quanto titolari di una situazione giuridica soggettiva (il diritto di garanzia) permanentemente dipendente dall’oggetto del negozio o del provvedimento giurisdizionale che opera il trasferimento del diritto patrimoniale. Il titolare di una situazione giuridica permanentemente dipendente non è tuttavia lasciato senza protezione. L’ordinamento prevede specifici rimedi contro gli atti dispositivi posti in essere al solo scopo di pregiudicarli: contro gli atti di diritto sostanziale è data l’azione revocatoria dell’art. 2901 c.c.; contro le sentenze è data l’opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, chiaramente che in tale categoria devono essere collocati : ‹‹il creditore (chirografario), il quale risente le conseguenze ( “di fatto”) della sentenza che disconosce al debitore la proprietà di determinati beni o la spettanza di dati crediti, o riconosce ad altre persone, verso il debitore, dei diritti di credito; il creditore, il quale invece, s’intende, s’avvantaggia della sentenza che riconosca al debitore la proprietà di beni o la spettanza di crediti, o disconosca ad altre persone dei diritti verso il debitore. Qui - si dice – il pregiudizio è meramente di fatto, non giuridico: il creditore non è menomato nei suoi diritti. Il credito non gli vien tolto: ne vien solo diminuita la garanzia: o pel fatto che diminuisce il patrimonio del debitore, o per la circostanza che questo deve servire al soddisfacimento di maggior numero di diritti creditorii. Carattere precipuo del diritto soggettivo, entità astratta, è – s’aggiunge – appunto questa: che la sua essenza rimane inalterata, quantunque ne possa mutare, e anche notevolmente, il valore economico››. 66 La teoria dell’efficacia riflessa fu elaborata per la prima volta nella dottrina d’oltralpe, con esclusivo riferimento al diritto sostanziale da: R. Jhering, Die Reflexwirkungen oder die Ruckwirkung rechtlicher Thatsachen auf dritte Personem, in Jahrbucher fur die Dogmatik des heutigen romischen und deutschen Privaterchts 1871, (Band X), 245-275, ed in Geist des romischen Rechts auf den verschiedenen Stufen senier Entwicklung, Iena, 1882, vol. II, 79-177. L’A. sviluppò la teoria in esame partendo dall’analisi del mondo biologico, ove egli osservò che la riflessione non è altro che una reazione immediata che presenta i caratteri della involontarietà. Passando dal mondo biologico al mondo giuridico, Jhering ritenne che anche in quest’ultimo gli effetti di un atto possano essere distinti a seconda che siano affetti prestabiliti e voluti (c.d. diretti), ovvero, effetti non voluti, ma che si verificano, per nessi di dipendenza esistenti tra i molteplici rapporti giuridici, su soggetti diversi da quelli direttamente interessati. Questa seconda tipologia di effetti costituisce l’efficacia riflessa, caratterizzata dalla involontarietà e dall’automatismo. Il concetto di efficacia riflessa enucleato da Jhering è stato poi ripreso E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 264; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli,1964, 238. 32 comma II, c.p.c. Ora, il patrimonio dell’imprenditore concordatario costituisce l’oggetto degli ‹‹atti esecutivi›› autorizzati dal provvedimento di omologa. Gli atti compiuti in esecuzione del concordato preventivo, secondo quanto previsto dall’art. 67, comma III, lett. e) l. fall., non sono soggetti all’azione revocatoria fallimentare se la soluzione negoziale si converte nella procedura fallimentare. L’esonero dall’azione revocatoria fallimentare sancisce un giudizio astratto sulla meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti con tali atti (67). Il concordato preventivo consente, ad esempio, di garantire: a) la prosecuzione dell’attività d’impresa; b) di consentire la sopravvivenza di un determinato numero di posti di lavoro; c) la tutela dell’avviamento dell’impresa in crisi; d) di realizzare perdite minori (sebbene certe) per i creditori; e) di sottrarre gli amministratori e il proprietario dell’impresa dal rischio penale. Tali interessi appaiono sicuramente meritevoli di tutela in quanto compatibili con l’ordinamento civile. Ma occorre verificare se gli atti esecutivi perseguano effettivamente tali interessi, soprattutto se siano stati posti in essere in conformità agli scopi dell’istituto concordatario. 67 Cfr. L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in Riv. dir. comm. 2009, I, 93 ss per il quale l’esonero dall’azione revocatoria è espressione della meritevolezza della contrattazione, purché basata su ragionevoli e fattibili strategie di superamento della crisi; v. anche: F. Di Marzio, Crisi d’impresa e contratto. Note sulla tutela dell’acquirente dell’immobile da costruire, in Dir. fall. 2006, I, 54 per il quale l’esenzione dall’azione revocatoria andrebbe limitata ‹‹non semplicemente agli atti esecutivi di un piano che risulti ragionevole nella predisposizione, ma – più limitatamente – agli atti anche negoziali esecutivi di un piano che risulti ancora ragionevole al momento in cui l’atto esecutivo è posto in essere››, tant’è che in caso contrario secondo questo A. ‹‹tale atto, in quanto realizzato nel contesto di un programma che già si rivela destinato all’insuccesso (benché all’inizio apparisse e fosse certificato come ragionevole), sarebbe immeritevole di tutela (nello specifico senso dell’art. 1322 c.c.) e dunque di esenzione››. 33 La libertà concessa all’imprenditore deve conciliarsi con la struttura (c.d. concorsuale) e la funzione del concordato preventivo (i.e. soddisfare i creditori nel rispetto della ‹‹tendenziale›› parità di trattamento tra i creditori dell’imprenditore commerciale) (68). Perciò, mentre il negozio concluso tra un imprenditore commerciale e alcuni suoi creditori è meritevole di tutela purché non pregiudichi i diritti dei c.d. «terzi-creditori», viceversa, il negozio concluso nelle forme della procedura di concordato preventivo, oltre a non arrecare un pregiudizio ai c.d. «terzi-creditori», deve anche, per quanto concretamente possibile, arrecare loro dei vantaggi (69). In altri e più precisi termini, il negozio concluso nelle forme della procedura di concordato preventivo, oltre a non ledere gli interessi dei c.d. «terzi-creditori», deve anche consentire l’adempimento delle obbligazioni di tutti creditori, in particolar modo di quelli che non hanno prestato il consenso alla soluzione negoziata. Nel concordato preventivo si ritrovano a convivere due finalità: a) la necessità di assicurare la protezione degli atti esecutivi, per indurre le parti alla ricerca di un risoluzione negoziale della crisi d’impresa; b) l’obbligo di reprimere gli atti esecutivi posti in essere in violazione degli scopi del concordato preventivo (70). 68 In questo senso chiaramente: A. M. Azzaro, Concordato preventivo e autonomia privata, cit. 1270; C. Esposito, Il piano di concordato preventivo tra autonomia privata e limiti legali, cit. 543; G. Minutoli, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito (o di meritevolezza), cit. 1052 ss; G. B. Nardecchia, Crisi d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, 2007, 302. 69 In generale sul tema della ‹‹immeritevolezza›› del contratto come condizione che rende l’accordo passibile di azione revocatoria esperibile da parte del terzo v. F. Di Marzio, Il contratto immeritevole nell’epoca del postmoderno, in Id. (a cura di) Illiceità, immeritevolezza, nullità. Aspetti problematici dell’invalidità contrattuale, Napoli, 2004, 121 ss. 70 Sui rapporti tra autonomia contrattuale, crisi d’impresa ed individuazione di specifiche forme di tutela sia per la stabilità del negozio che del diritto dei terzi creditori v. F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, in Riv. soc. 2008, 131 ss. spec. 137 ove l’A. afferma che: ‹‹È evidente, infatti, che ci si trova al cospetto di uno scenario normativo in cui non 34 Di primo acchito sembrerebbero due finalità in antitesi. L’antitesi, a ben vedere, è solo apparente ed è facilmente superabile. Il negozio concluso nelle forme della procedura di concordato preventivo deve assicurare, innanzitutto, un preciso risultato, pensabile anche in termini di causa stessa del negozio: la soddisfazione di tutti i creditori, anche se rimasti minoranza in sede di deliberazione, nella misura, concretamente possibile, più alta (71). Partendo da questa premessa, allora, gli atti esecutivi potranno ritenersi meritevoli di protezione a condizione che nel momento in cui sono stati compiuti: a) erano conformi al piano posto a base della proposta concordataria; b) dipendevano da un piano concretamente idoneo a realizzare il superamento della crisi d’impresa, tramite la via della liquidazione o della prosecuzione dell’attività aziendale; c) consentivano a tutti i creditori di conseguire, in conformità al piano, la soddisfazione dei loro crediti. La meritevolezza di tutela dell’atto esecutivo e, quindi, la sua non revocabilità, dipenderà dalle concrete modalità di esecuzione del piano e della proposta di concordato (72). soltanto il rapporto fra libertà contrattuale e crisi d’impresa è destinato ad acquisire un ruolo sempre più rilevante, avendo lo stesso legislatore disciplinato in maniera articolata gli accordi, senza eludere in alcun modo la creatività delle parti nel dar vita a combinazioni negoziali diverse, purché sia chiara l’esigenza di bilanciare la libertà delle parti contraenti (e il loro interesse alla stabilità dei vincoli) con il controllo e la funzione di garanzia degli interessi dei creditori e dei terzi in genere››. 71 Cfr. G. De Nova, Le convenzioni attuative del piano di ristrutturazione, in D. Masciandaro – F. Riolo (a cura di) Crisi d’impresa e risanamento. Ruolo delle banche e prospettive di riforma, Roma, 1997, 230; v. anche: F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, in Riv. soc. 2008, 139, secondo cui l’individuazione della causa nelle soluzioni negoziali della crisi d’impresa rappresenterebbe ‹‹la questione teorica più rilevante›› in materia, in ogni caso la causa del negozio sulla crisi d’impresa per tale A. andrebbe individuata, appunto, nella gestione della crisi ossia nell’interesse concreto a perseguirne il superamento. 72 P. Marano, Le ristrutturazioni dei debiti e la continuazione dell’impresa, in Fall. 2006, 101, il quale rileva che: ‹‹È sbagliato ritenere, però, che l’esenzione dalla revocatoria 35 Detto altrimenti, nel procedere concretamente alla distribuzione delle risorse economiche, il negozio sulla crisi d’impresa non deve ledere gli interessi dei c.d. «terzi-creditori» e deve arrecare, per quanto concretamente possibile, vantaggi economici a tutti i componenti del ceto creditorio (73). Sul profilo in questione si ritornerà più approfonditamente nel proseguo dell’indagine, in particolare, quando si affronteranno l’oggetto e l’ampiezza del sindacato giurisdizionale del giudizio di omologazione e i rimedi esperibili a tutela dei c.d. «terzi-creditori» nella fase esecutiva. Per il momento è sufficiente osservare che il negozio in esame, nell’ipotesi di conversione della soluzione negoziata nel procedimento fallimentare, avrà modo di mostrare la sua peculiarità normativa rispetto al negozio concluso fuori della procedura di concordato: gli atti, i pagamenti e le garanzie poste in essere durante la fase esecutiva saranno sottratti all’azione revocatoria. fallimentare sia una sorta di premio per ogni soluzione che permetta ai creditori di essere soddisfatti. Può verificarsi che il risultato auspicato non sia raggiunto››. 73 Cfr. le considerazioni svolte da V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti), in Riv. dir. priv. 2007, 293 ss, sulla problematica della diversa “giustizia” di distribuzione delle risorse prodotte tra i diversi modelli della gestione negoziale della crisi d’impresa, vale a dire, tra il modello degli accordi di ristrutturazione del debito ex art. 182 – bis l. fall. ed il modello del concordato preventivo ex art. 160 ss. Nell’accordo di ristrutturazione infatti la ripartizione delle risorse tra i creditori deve ritenersi sicuramente “giusta” sia con riferimento ai creditori aderenti, sia con riferimento ai creditori estranei: quanto ai primi la “giustizia” è rinvenibile nella “contrattualità” del trattamento loro stessi scelto, quanto ai secondo invece la “giustizia” sta nel fatto che per essi è normativamente garantita la prospettiva di poter ricevere il massimo di cioè che legittimamente possono pretendere. Nel concordato preventivo invece la “giustizia” della distribuzione per i creditori aderenti è, ovviamente, presidiata dalla garanzia formale/procedurale dal voto espresso nella deliberazione favorevole; mentre la questione delle “giusta” distribuzione non può rinvenirsi per i creditori che non hanno votato a favore della proposta di concordato, i quali – non risultando qui coperti dalla garanzia della soddisfazione integrale del loro credito – rischiano il più delle volte di subire un sacrificio in misura più o meno penalizzante, senza avere manifestato la volontà di accettare questo esito, anzi, avendo magari manifestato una volontà contraria. Per questo A. la problematica della questione relativa ad una “giusta” distribuzione del surplus creato dalla gestione concordataria della crisi è enfatizzato dalla possibilità che la proposta di concordato preveda la ‹‹suddivisione dei creditori in classi›› e, correlativamente, ‹‹trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse››, dato che la suddivisione dei creditori, a seconda di come sia applicato, può essere sia un fattore volto a perseguire la “giustizia”, ma anche un veicolo di “ingiustizia” della soluzione concordataria. 36 Si è già detto che tale effetto sembrerebbe, a una lettura meramente formale della disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall., tendenzialmente incondizionato. Ma se il negozio durante la fase esecutiva, eventualmente a fronte di nuove sopravvenienze, risultasse inidoneo a risolvere la crisi, ovvero, dopo la dichiarazione di fallimento, con il senno di poi, si scoprisse che non avrebbe meritato ab origine l’omologazione, gli atti esecutivi posti in essere al solo fine di beneficiare dell’esonero dall’azione revocatoria, in palese “abuso” dell’istituto in esame, potrebbero ritenersi meritevoli di tutela ed esonerati dall’azione revocatoria fallimentare? Emergono dunque chiaramente i limiti di un’interpretazione meramente letterale dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. senza che sia accordata alcuna considerazione alla cornice sistematica entro cui si inserisce tale disposizione. Trascurando il punto di vista sistematico, infatti, gli atti dispositivi del patrimonio del debitore, anche se compiuti non in esecuzione del piano, ovvero, in esecuzione di un piano ormai inidoneo a risolvere la crisi, dovrebbero ritenersi sottratti all’azione revocatoria fallimentare. Sui presupposti, sulle forme e sui limiti di tale interpretazione, che qui si accenna, si tornerà più approfonditamente nel proseguo dell’indagine. SEZIONE II GLI EFFETTI VERSO TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE 4. – Con il decreto legge 14 marzo 2005 n. 35 convertito con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 è stata introdotta all’art. 182 – bis l.fall. la disciplina degli ‹‹Accordi di ristrutturazione dei debiti›› (74). 74 Senza alcuna pretesa di esaustività, sull’argomento v. G. Fauceglia, Prime osservazioni sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. fall. 2005, I, 842; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa tit. cred. 2006, 16; Id. Rigore è 37 L’istituto in questione rappresenta una significativa novità del nuovo diritto delle procedure concorsuali, in quanto consente di regolare la crisi d’impresa (quasi) esclusivamente tramite l’autonomia negoziale dei singoli soggetti coinvolti (75). Il nuovo istituto rappresenta l’epilogo di un recente e vivace dibattito che si è svolto attorno agli strumenti alternativi al fallimento e alle procedure concorsuali minori per la gestione della crisi d’impresa (76). Come noto, la legge fallimentare del ’42 non accordava alcuna considerazione ai concordati stragiudiziali nell’ambito della disciplina del concorso. Per prevenire l’insolvenza e evitare il fallimento l’imprenditore doveva ricorrere, rispettivamente, all’amministrazione controllata e al concordato preventivo. Tali istituti costituivano i mezzi tipici ed esclusivi per risolvere la crisi d’impresa. La giurisprudenza di merito riteneva che ogni accordo finalizzato ad evitare l’apertura di una procedura concorsuale fosse affetto da nullità. I quando l’arbitro fischia? in Fall. 2009, 25; M. Arato, Gli accordi di salvataggio o di liquidazione dell’impresa in crisi, in Fall. 2008, 1237; V. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fall. 2006, 129; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa, in Riv. dir. priv. 2007, 277 ss.; E. Gabrielli, Accordi di ristrutturazione e tipicità dell’operazione economica, in Riv. dir. comm. 2009, 1071 ss; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, I, 337; A. Di Majo, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 – bis l. fall. in Corr. giur. 2010, 245 ss; A. Paluchowcki, L’accordo di ristrutturazione ed il controllo del tribunale nel giudizio di omologazione, in Fall. 2011, 98 ss; F. Rolfi, Gli accordi di ristrutturazione: profili processuali e ricadute sostanziali, in Fall. 2011, 106. 75 Cfr. V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 278, secondo cui per effetto della nuova disposizione dell’art. 182 – bis l. fall. sarebbe ormai caduto il ‹‹dogma›› dell’indisponibilità della gestione dell’insolvenza. 76 A. Petrucci, voce Concordato stragiudiziale, in Enc. Dir. VII, Milano, 1961, 521 ss; E. Frascaroli Santi, Il concordato stragiudiziale, Padova, 1984, passim; Ea. Effetti della composizione stragiudiziale dell’insolvenza, Padova, 1995, passim; Crisi dell’impresa e soluzioni stragiudiziali, in F. Galgano (diretto da) Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec. XXVII, Padova, 2005, 3; G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. soc. 1996, 321; F. Bonelli, Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi delle imprese, in Giur. comm. 1997, I, 488 ss; P. Schlesinger, Convenzioni bancarie di salvataggio, in Fall. 1997 893; S. Bonfatti – G. Falcone (a cura di), Le procedure stragiudiziali per la composizione delle crisi d’impresa. I ‹‹protagonisti››, Milano, 1999. 38 concordati stragiudiziali venivano dichiarati invalidi per frode alla legge ex art. 1344 c.c. in quanto considerati: a) strumenti volti ad eludere l’applicazione della disciplina delle procedure concorsuali; b) per violazione di norma imperativa ex art. 1418 c.c. a fronte dell’obbligo dell’imprenditore insolvente, ricavabile dall’art. 217, n. 4), l. fall. di richiedere il proprio fallimento (77). Erano quindi ritenute legittime le convenzioni sulla crisi d’impresa a condizione che: a) fossero stipulate dall’imprenditore non insolvente e finalizzate alla chiusura dell’attività (78); b) fossero concluse dall’imprenditore insolvente ma con l’adesione di tutti i creditori (79). La giurisprudenza di legittimità, al contrario, in alcune pronunce aveva affermato che il concordato stragiudiziale (o c.d. amichevole) poteva ritenersi ammissibile qualora avesse perseguito la medesima finalità del concordato preventivo, i.e. la rimozione dell’insolvenza. Il concordato stragiudiziale poteva consistere anche in una pluralità di singoli accordi, purché, nel loro complesso, fossero stati finalizzati e capaci di evitare il fallimento. Così, nell'ipotesi della sopravvenuta dichiarazione di fallimento 77 Cfr. ex plurimis Trib. Ferrara, 28 giugno 1980, in Giur. comm. 1981, II, 306, nella cui massima si legge che: ‹‹nell’ordinamento vigente – stante l’obbligo dell’imprenditore insolvente di richiedere il proprio fallimento e di non avventurarsi in un concordato stragiudiziale che costituisce di per sé colpa grave – non residua spazio alcuno per il concordato stragiudiziale dell’imprenditore che versi in stato di insolvenza, dovendosi riconoscere come lecito e consentito solo il concordato stragiudiziale proposto dall’imprenditore non insolvente››; per la tesi della inammissibilità del concordato stragiudiziale in quanto contrastante con i fini pubblicistici che si realizzano con il concordato preventivo v. invece: App. Roma 1° luglio 1985, in Fall. 1986, 971. 78 Cfr. Trib. Ferrara, 28 giugno 1980, in Giur. comm. 1981, 306, con nota di Menghi, Il concordato stragiudiziale: variazioni minime ad una voce per una grande fuga sul tema; nello stesso senso, v. anche: Trib. Torino, 7 aprile 1988, Giur. it. 1988, I, 2, 633. 79 Cfr. Trib. Parma, 4 marzo 1981, un Dir. fall. 1982, II, 741; v. tuttavia R. Provinciali, voce Concordato stragiudiziale, in Nuov. Dig. It. Torino, 1959, III, 987, il quale giustamente fa notare che l’adesione di tutti i creditori ‹‹se da un lato soddisfa le esigenze teoriche, non ha possibilità di applicazione pratica, dato che non esiste alcun procedimento per accertare quali e quanti siano i creditori. Nello stato attuale del nostro diritto, il concordato stragiudiziale, se non è originariamente invalido per la naturale fragilità delle sue basi, per certo si conclude sulla sola speranza che i creditori aderenti siano effettivamente tutti quelli esistenti, onde la stabilità dell’accordo è legata esclusivamente a questa aspettativa››. 39 fosse emerso che gli accordi non possedevano né la finalità, né la capacità di evitare il fallimento, questi avrebbero dovuto essere dichiarati nulli. In tal caso i creditori parti dell’accordo avrebbero riacquistato il diritto a conseguire l’intera prestazione dedotta nel rapporto obbligatorio in conformità al titolo originario vantato (80). L’orientamento di legittimità in questione operava dunque una distinzione tra il giudizio sull’astratta validità dell’accordo stragiudiziale (stipulato dall’imprenditore insolvente con alcuni soltanto dei creditori), rispetto a quello sulla concreta idoneità a rimuovere lo stato di insolvenza. L’accordo sulla crisi d’impresa concluso tra l’imprenditore insolvente e alcuni dei suoi creditori non poteva ritenersi sic et simpliciter invalido solo perché non vi avevano aderito tutti i creditori. Era invece compito del giudice fallimentare accertare se il negozio sulla crisi d’impresa, concluso solo con alcuni creditori, fosse ex ante in idoneo a rimuovere lo stato di insolvenza, nel senso che in concreto al momento della sua conclusione era capace di rimuovere lo stato di insolvenza (81). L’indagine sulla validità del concordato stragiudiziale si spostava dal piano generale ed astratto a quello particolare e concreto. La validità del concordato stragiudiziale era subordinata al riscontro di una ben precisa causa: la finalità e la capacità di evitare il fallimento (82). 80 Cfr. Cass. 16 marzo 1979, n. 1562, in Giur. It. 1980, I, 1088, la cui massima recita che: ‹Il concordato stragiudiziale è caratterizzato da un fascio di contratti remissori, accompagnati dalla rinunzia a chiedere la dichiarazione del fallimento del debitore. Ciascun contratto, mentre è collegato all'altro nella finalità - quella di evitare il fallimento - è immune dal vizio che eventualmente infici l’altro. Ciò comporta l'irrilevanza della mancata adesione di alcuni creditori all’iniziativa concordataria››; in questo senso v. anche Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. it. 1990, I, 713, anche in Fall. 1990, 495; Cass. 26 giugno 1992, n. 8012, in Fall. 1992, 1026; contra Cass. 28 ottobre 1992, n 11722, in Fall. 1993, 352; Cass. 19 novembre 1992, n. 12383, ivi, 1993, 310. 81 Cfr. Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, cit. 82 In questo senso già R. Provinciali, voce Concordato stragiudiziale, cit. 987, che chiaramente affermava : ‹‹Il concordato stragiudiziale è un rimedio di natura contrattuale contro l’insolvenza dell’imprenditore commerciale, tendendo alla sistemazione del dissesto senza impiego di procedimenti concorsuali, che hanno lo stesso scopo, ma con i quali, datane la natura, è in posizione di antitesi. Intento tipico del concordato stragiudiziale è 40 Sulla scia dell’orientamento in parola si andò sviluppando la prassi di stipulare con il ceto creditorio, in particolare quello bancario, sopratutto in presenza di insolvenze di un notevole dimensione, convenzioni finalizzate al superamento della crisi d’impresa (83). Le convenzioni bancarie stragiudiziali si manifestarono, però, inadeguate a risolvere le crisi d’impresa, sia per la carenza di una specifica disciplina sul contenuto e sugli effetti degli accordi, sia per i rischi a cui si potevano esporre le parti del negozio per via delle disposizioni dettate in tema di azione revocatoria e di bancarotta (84). La disposizione dell’art. 182 – bis l.fall. sugli ‹‹Accordi di ristrutturazione dei debiti›› consente invece di superare ogni dubbio sull’astratta validità degli accordi stragiudiziali conclusi soltanto con alcuni creditori (85). La disciplina introdotta dal legislatore risente comunque dell’esperienza maturata in tema di convenzioni bancarie di risanamento (86). Per l’ammissibilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti viene, d’evitare la dichiarazione di fallimento (o, in genere, l’apertura dei procedimenti concorsuali); tale intento costituisce la causa del contratto (art. 1325, n. 2, c.c.) e non va confuso con il motivo, che ne costituisce soltanto la finalità soggettiva, contingente e materiale››. 83 Cfr. G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. soc. 1996, 321 ss; N. Irti, Dal salvataggio statale all’intervento bancario, in Riv. soc. 1996, 1081 ss; F. Bonelli, Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi d’impresa, cit. 488; P. Schlesinger, Convenzioni bancarie di salvataggio, in Fall. 1997, 893. 84 Cfr. A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm. 1994, I, 492 ss; A. Bonsignori, Il fallimento sempre più inattuale, in Dir. fall. 1996, I, 697. 85 Cfr. E. Gabrielli, Autonomia privata e accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. esec. forz. 2006, 433 ss secondo cui, sebbene la figura dell’accordo omologato appaia volta alla valorizzazione dell’autonomia privata, appare tuttavia necessario ‹‹precisarne sia i limiti che il contenuto al fine di collocarla in un corretto quadro sistematico e di evitare che, per un verso, rimanga una enunciazione di principio priva di un concreto valore costruttivo; per un altro che divenga una sorta di schermo protettivo dietro il quale giustificare quelle costruzioni di c.d. ‹‹ingegnaria concorsuale›› che in realtà nascondono vere e proprie operazioni illecite o comunque poste in essere in frode ai creditori o ad alcune delle loro possibili classi››. 86 Cfr. S. Ambrosini, sub art. 182-bis l. fall., in A. Jorio – M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, II, 2537. 41 infatti, richiesta la sussistenza degli stessi requisiti richiesti dalla giurisprudenza di legittimità per la validità del c.d. concordato stragiudiziale. L’accordo di ristrutturazione dei debiti è ammissibile a condizione che: a) gli impegni assunti dalle parti appaiano, al momento della stipula del negozio, ‹‹attuabili›› nell’immediato futuro; b) che l’accordo, nel suo complesso, sia ‹‹idoneo›› ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. Tali condizioni, più precisamente, devono tradursi nello scopo pratico perseguito dall’imprenditore e dai creditori aderenti della soluzione negoziale della crisi d’impresa (87). L’accordo di ristrutturazione dei debiti, risultante dall’insieme dei singoli accordi, in altri e più concreti termini, deve avere una ben precisa causa: risolvere lo stato di crisi e generare risorse economiche da distribuire ai creditori (88). 87 Con riferimento al significato da attribuire ai requisiti della “attuabilità” e della “idoneità” cfr. G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 32 ss secondo cui: ‹‹il requisito dell’attuabilità non indica un fine ma uno scenario di concreta realizzabilità delle previsioni contenute nell’accordo››, mentre il regolare pagamento dei creditori estranei si atteggia ad essere ‹‹una precisa finalità dell’accordo››; in questo senso v. anche: F. Di Marzio, Profili sostanziali della fattispecie ‹‹accordi di ristrutturazione dei debiti››, in Id. (a cura di) La crisi d’impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2010, 307. 88 Cfr. E. Gabrielli, Accordi di ristrutturazione del debito e tipicità dell’operazione economica, in F. Di Marzio – F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 270, per il quale chiaramente: ‹‹La causa del contratto, intesa come funzione concreta, va quindi rinvenuta nella rimozione della situazione di crisi dell’impresa e nel pagamento regolare dei creditori aderenti››; in questo senso anche M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, I, 343, per il quale: ‹‹Il contenuto dell’accordo, inteso come l’insieme degli impegni assunti dalle parti per ristrutturare il debito, è infatti tendenzialmente libero. Solo occorre che esso si presti ad assicurare – non solo in termini di formale impegno, ma anche di concreta fattibilità – un certo risultato, pensabile allora in termini di causa : una ristrutturazione dei debiti tale da garantire il regolare pagamento dei creditori estranei e quindi scongiurare, in definitiva, l’insolvenza dell’imprenditore››; in questo senso anche: V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 291, il quale, però, effettua l’indagine sulla causa in un duplice approccio, vale a dire, sia nei termini più convenzionali che lo portano ad identificarla nel superamento della crisi d’impresa e nel regolare pagamento dei creditori estranei, sia nel senso meno 42 Negli accordi di ristrutturazione le parti possono ricorre a diverse tipologie contrattuali (ad esempio, remissioni del debito, patti di dilazione del debito, nuova apertura di credito etc.) le quali, nel loro complesso, devono essere funzionalmente indirizzate a rimuovere lo stato di crisi dell’impresa. Nel perseguire questa finalità il debitore deve assicurare ai creditori estranei - i c.d. terzi – l’integrale pagamento. La tutela del credito dei terzi è assunta dalla legge, a ben vedere, a presupposto logico dell’istituto in esame (89). La tutela dei terzi, più precisamente, è elevata a condizione di meritevolezza di tutela di un ‹‹contratto sulla crisi d’impresa›› (90). Se, in generale, un contratto deve ritenersi meritevole di tutela purché non arrechi pregiudizio ai terzi, il ‹‹contratto sulla crisi d’impresa››, viceversa, oltre a non arrecare pregiudizio ai c.d. terzi-creditori, deve arrecare loro dei vantaggi economici. Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti i vantaggi economici devono consistere nell’integrale pagamento dei crediti vantati dai non aderenti (91). convenzionale di produzione e distribuzione di risorse, destinate alla soddisfazione dei creditori, superiore a quella che si creerebbe con la classica liquidazione dell’attivo in sede concorsuale. 89 V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 387, secondo cui ‹‹superamento della crisi o eliminazione dell’insolvenza identificano la funzione economico-sociale ultima degli accordi di ristrutturazione dei debiti di impresa. E il loro modo di manifestarsi – comprovando che quella funzione è effettivamente attuata – il “regolare pagamento dei creditori” all’accordo, di cui parla l’art. 182- bis, comma 1, l. fall. ultimo inciso. L’ordinamento considera gli accordi di ristrutturazione “meritevoli di tutela”, in quanto garantiscano che tutti i creditori che non ne sono parte vengano regolarmente pagati. Per tal via, il pagamento dei creditori “estranei” – che sembrerebbe a prima vista un elemento del tutto estrinseco all’accordo, in quanto riferito a soggetti che per definizione non vi partecipano – si rivela in realtà un dato intrinsecamente essenziale e fondante dell’accordo stesso, diciamo pure un elemento significativo della sua causa (nell’accezione “oggettiva” e tipizzante di funzione economico-sociale)››. 90 La categoria è proposta da: G. Vettori, Il contratto sulla crisi d’impresa, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 233 ss. 91 Tale finalità consentirebbe di qualificare l’accordo di ristrutturazione dei debiti come contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.) per : V. Roppo, Profili funzionali e strutturali dei contratti di ‹‹salvataggio›› cit. 371; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di 43 L’obbligo di garantire il regolare pagamento dei c.d «terzi-creditori» dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, altro non è che una specificazione della finalità del diritto della crisi d’impresa: la tutela del diritto di credito. Il diritto della crisi d’impresa si caratterizza per la previsione di specifici presidi legali appositamente predisposti nell’interesse dei c.d. «terzicreditori» rispetto alle scelte negoziali compiute dal debitore. Gli strumenti in parola consistono in rimedi di natura conservativa (azioni di inefficacia o revocatorie previste nella legge fallimentare) o in rimedi di natura risarcitoria (azione di risarcimento danni per c.d. ‹‹abusiva›› concessione di credito). Ne segue quindi che un ‹‹negozio sulla crisi d’impresa›› non deve mai produrre né effetti diretti, né effetti riflessi pregiudizievoli per i terzi. Ciò è evidente ponendo l’attenzione sulle diverse finalità sottese agli strumenti negoziali di soluzione della crisi, nei quali è possibile ravvisare una duplicità di scopi. Da una verso, tali strumenti servono per veicolare il «mezzo», vale a dire le modalità con cui l’imprenditore e i suoi creditori possono regolare la crisi d’impresa. Tali modalità possono consistere nella liquidazione del patrimonio dell’impresa o nella ristrutturazione aziendale con prosecuzione dell’attività. Dall’altro verso, tutti gli strumenti di risoluzione negoziale delle crisi, a prescindere dal mezzo prescelto, in virtù della loro collocazione sistematica endo-fallimentare, devono perseguire il soddisfacimento di tutti creditori ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, I, 349; contra F. Ferro – Luzi, Prolegomeni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del paradosso del terzo creditore ‹‹estraneo…ma non troppo››, in Riv. dir. comm. 2008, I, 830, secondo cui, dal momento che il debitore non assumerebbe una posizione contrattuale assimilabile a quella del promittente descritta dall’art. 1411 c.c., sarebbe più appropriato ritenere che la fattispecie negoziale in questione si traduca in realtà un contratto con ‹‹effetti favorevoli›› per i terzi. Meglio ancora, tuttavia, sarebbe più opportuno discorrere (forse tecnicamente) di un contratto con effetti protettivi del diritto di credito dei terzi. La disposizione infatti richiede soltanto che l’accordo non pregiudichi i terzi, ma anzi mediante l’attuazione dell’accordo il terzo realizzi la soddisfazione del proprio credito. 44 coinvolti dalla crisi. Seguendo tale impostazione, allora, un negozio sulla crisi d’impresa che produca effetti diretti o effetti riflessi pregiudizievoli per alcuni creditori, in particolare per quelli che non hanno prestato il consenso alla soluzione negoziata proposta (rectius i terzi) integrerebbe un abuso dello strumento giuridico a messo a disposizione dei soggetti coinvolti dalla crisi. Alla luce di quanto precede un negozio sulla crisi d’impresa con effetti pregiudizievoli per i terzi, seppur lecito e vincolante tra le parti, non può ritenersi meritevole di tutela (92). Di qui l’opportunità di passare ad esaminare la posizione giuridica dei c.d. «terzi-creditori» rispetto all’accordo di ristrutturazione. Tale indagine verrà svolta su due distinti e successivi livelli di approfondimento: a) in un primo momento di sintesi volto ad individuare gli effetti diretti e riflessi che possono prodursi in capo a c.d. terzi-creditori; b) in un secondo momento di analisi degli strumenti di tutela spendibili dai c.d. «terzi-creditori» per tutelare i loro interessi, che verrà invece affrontato nel proseguo del lavoro. 5.- Gli effetti diretti nei confronti dei terzi è stato il profilo su cui si sono maggiormente confrontati i primi commentatori dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. La definizione dell’aspetto in questione rappresenta l’antecedente logico – giuridico da cui occorre necessariamente muovere al fine di poter prendere posizione sulla natura e sulla struttura del procedimento descritto dall’art. 182 – bis l. fall. 92 In altri termini, il contratto sulla ‹‹crisi d’impresa›› in danno dei terzi sebbene non sia illecito in quanto non è in contrasto né con l’ordine pubblico, né con una norma imperativa, tuttavia, determinando una lesione del credito dei terzi si ritiene immeritevole di tutela rispetto ad essi; in questo senso F. Di Marzio, Appunti sul contratto immeritevole, in Riv. dir. priv. 2005, I, 305, per il quale la clausole generale di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2° c.c., può rappresentare un presidio a tutela degli interessi dei terzi pregiudicati dal contratto. 45 Secondo alcuni tra i primi commentatori, gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono vincolanti anche per i terzi, nel senso che anche a questi si devono estendere le modalità di adempimento delle obbligazioni stabilite per i creditori aderenti. Per cui, il ‹‹pagamento›› dei creditori estranei deve avvenire secondo le modalità definite dalle parti aderenti all’accordo di ristrutturazione e non, invece, secondo quanto stato stabilito tra il debitore ed i terzi nel ‹‹titolo›› originario che ha dato origine al rapporto obbligatorio (93). Tale tesi si fondava su una vera e propria presupposizione: l’art. 182 - bis l. fall. disciplinerebbe un vero e proprio procedimento concorsuale, per cui, rispetto ai terzi avrebbero dovuto operare le stesse regole di efficacia del decreto di omologazione previste per il concordato preventivo (94). In senso contrario alla tesi appena richiamata, si è tuttavia posto in risalto che l’accordo di ristrutturazione dei debiti non ha la natura, né la struttura di procedimento concorsuale, in quanto è un atto di autonomia negoziale. Per tale ragione non possono applicarsi in via analogica le disposizioni che regolano l’efficacia verso terzi del concordato preventivo (art. 184 l. fall.) (95). 93 In questo senso: G. Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182 – bis l. fall. in Dir. fall. 2005, I, 870; M. R. Grossi, La riforma della legge fallimentare. Commenti e formule della nuova revocatoria fallimentare e del nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 337; G. Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art.182 – bis l. fall. : un’occasione da non perdere, in Dir. fall. 2006, II, 682; F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del paradosso del terzo creditore “estraneo…ma non troppo”, cit., 825; in giurisprudenza v. la isolata pronuncia del Trib. Milano, decr. 21 dicembre 2005, in Fall. 2006, 670, con critica di M. Fabiani, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 – bis l. fall., il tribunale milanese aveva omologato un accordo di ristrutturazione in cui si prevedeva che ai creditori estranei all’accordo venisse offerta la stessa percentuale negoziata con gli aderenti. 94 In questo senso: M. Ferro, Art. 182 – bis, la nuova ristrutturazione dei debiti, in Il nuovo diritto delle società, 2005, 56; G. Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182 – bis l. fall. cit. 871; G. Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art.182 – bis l. fall. : un’occasione da non perdere, cit. 674. 95 Così chiaramente: G. Canale, Le nuove norme sul concordato preventivo e sugli accordi di ristrutturazione, in Riv. dir. proc. 2005, 918; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa e tit. cred. 2006, 27 e ss; L. Stanghellini, 46 Ora, non può essere sottaciuto che il concordato preventivo e l’accordo di ristrutturazione dei debiti presentano caratteristiche affini. Entrambi sono strumenti negoziali per mezzo dei quali si può giungere a una soluzione della crisi d’impresa. In ciascuno sono presenti la ristrutturazione del debito, la necessità del consenso delle parti, la relazione dell’esperto e l’omologazione giurisdizionale. Ad una lettura più attenta emerge, però, che questi due istituti presentano notevoli differenze strutturali. Nell’accordo di ristrutturazione, innanzitutto, non opera la regola della maggioranza. La circostanza che l’accordo debba essere concluso con almeno tanti creditori rappresentanti il sessanta percento dell’esposizione debitoria, integra soltanto una mera condizione per l’omologazione (96). Creditori ‹‹forti›› e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall. 2006, 379; Id. Le crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 335, il quale, nel tracciare una distinzione tra soluzioni stragiudiziali e procedure di insolvenza, osserva che: ‹‹la definizione di soluzione stragiudiziale deve essere incentrata sul suo carattere non vincolante per chi non vi aderisca, anche quando il giudice vi intervenga come “facilitatore” o “stabilizzatore”, mentre non può in alcun modo essere definita “stragiudiziale” una soluzione che, ancorché negoziata con flessibilità dalle parti, si proponga di essere efficace per tutti››; M. Fabiani, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 – bis, in Foro it. 2006, I, 2564; M. Arato, Gli accordi di salvataggio o di liquidazione dell’impresa in crisi, in Fall. 2008, 1237; G. B. Nardecchia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed il procedimento per la dichiarazione di fallimento, nota a Trib. Udine, 22 giugno 2007, in Fall. 2008, 703; R. Proietti, I nuovi accordi di ristrutturazione dei debiti, nota a Trib. Milano, 11 gennaio 2007, in Dir. fall, II, 2008, 136 ss; in giurisprudenza v. Trib. Brescia, decr. 22 febbraio 2006, in Dir. prat. comm. 2006, 1001, in cui viene chiaramente specificato come per regolare pagamento dei creditori estranei debba intendersi “l’esatto pagamento” effettuato alla scadenza e non il pagamento compiuto sulla base di regole concordate tra il debitore e i creditori aderenti all’accordo; v. però le corrette osservazioni di V. Roppo Profili strutturali e funzionali dei contratti di ‹‹salvataggio››, cit. 379 secondo cui si può ritenere come ‹‹regolare pagamento›› anche un pagamento tardivo rispetto al titolo, perché sia compiuto non appena l’accordo abbia acquistato efficacia e perché il ritardo sia adeguatamente compensato con la corresponsione degli interessi. 96 Cfr. C. Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella crisi d’impresa e ruolo del giudice, in Fall. 2007, 193, il quale opera una efficace comparazione tra l’accordo di ristrutturazione ed il concordato preventivo, facendo notare che: ‹‹La diversa decorrenza dell’efficacia dell’accordo e dell’efficacia del concordato è significativa, ma come conferma di una sostanziale differenza: - l’accordo di ristrutturazione è in tutto e per tutto un contratto (a seconda dei casi un contratto 47 In secondo luogo, il concordato preventivo è concluso nell'ambito di un vero e proprio procedimento giurisdizionale, l’accordo di ristrutturazione invece è un negozio retto esclusivamente dalle regole dell’autonomia privata, che solo una volta perfezionato viene sottoposto ad una fase di verifica giurisdizionale (il giudizio di omologazione) (97). Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 - bis l. fall. non opera la regola della par condicio creditorum. Sulla scorta di tali considerazioni appariva, forse, preferibile interpretare plurilaterale o un complesso di contratti bilaterali) che si perfeziona secondo i criteri civilistici con le modalità previste dall’art. 1326 c.c., sostanzialmente riconducibili alla conoscenza dell’accettazione (in questo caso è l’accettazione dei creditori) da parte di chi ha fatto la proposta (in questo caso, il debitore); l’omologa non incide sul perfezionarsi del contratto, ma sul prodursi di un effetto ulteriore, che non incide sulle prestazioni dovute dai contraenti (salvo particolari pattuizioni che condizionino l’accordo all’omologa), ma, in senso lato, incide su terzi estranei determinando la perdita del vantaggio della revocatoria fallimentare in caso di fallimento per tutti gli atti e pagamenti compiuti dopo la pubblicazione e in esecuzione dell’accordo; - il concordato preventivo non è un contratto, ma una procedura (concorsuale), ancorché caratterizzata da un ampio prevalere dell’autonomia privata, e si perfeziona non per l’incontro dei consensi, ma con l’omologa del tribunale il quale verifica non già l’esistenza di un consenso, ma il raggiungimento di una maggioranza; in questa procedura [però] sono coinvolti tutti i creditori, i quali sono chiamati ad esprimere un voto; nell’accordo può essere coinvolto anche un solo creditore (se il suo credito rappresenti almeno il 60 % dell’ammontare totale dei crediti)››; in questo senso anche: G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 21 ss; G. Minutoli, L’autonomia privata nella crisi d’impresa tra giustizia contrattuale e controllo di merito (o meritevolezza), cit. 1054; M. Manente, Non omologabilità degli accordi ex art. 182 – bis l. fall. e procedimento per la dichiarazione di fallimento del debitore, in Dir. fall. II, 2008, 305. 97 Anche dopo il recente intervento ad opera del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 convertito nella successiva l. 30 luglio 2010 n. 122 mediante il quale: a) all’art. 182 – bis l. fall. sono stati aggiunti quattro nuovi commi (dal 6° al 9°) in cui viene disciplinata la procedura per conseguire, durante le trattative, il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive; b) si è introdotto l’art. 182 – quater l. fall. il quale prevede, al comma 1°, la prededucibilità dei crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati da banche e intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli artt. 106 e 107, d. lgs. 1°settembre 1993, n. 385, in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologato dal Tribunale, ed al comma 2°, l’estensione del beneficio della prededuzione ai crediti derivanti da finanziamenti effettuati (dai medesimi soggetti) in funzione della presentazione della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, qualora i finanziamenti siano previsti dall’accordo di ristrutturazione e purché quest’ultimo venga poi omologato; l’istituto in questione non può tuttavia ritenersi un procedimento concorsuale mancando le due caratteristiche tipiche per ammettere tale qualificazione: non è infatti previsto né il (tendenziale) coinvolgimento di tutti i creditori del debitore (la c.d. concorsualità), né che l’intero patrimonio del debitore debba essere destinato al soddisfacimento dei creditori (la c.d. universalità). 48 la formula impiegata originariamente dal legislatore ‹‹regolare pagamento dei creditori non aderenti›› come un chiaro limite all’estensione del contenuto degli accordi verso terzi (98). Tale interpretazione può dirsi ormai confermata, in quanto il primo comma dell’art. 182 – bis l. fall. è stato modificato dall’art. 33, comma 1, lett. e) n. 1) del 22 giugno 2012, n. 83 ed è stato espressamente previsto che l’accordo di ristrutturazione deve: ‹‹assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini: a) entro centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione››. Si è, cioè, previsto, da un verso, l’obbligo di garantire l’integrale pagamento dei terzi creditori e, dall'altro verso, la possibilità di beneficiare di una moratoria legale di centoventi giorni. Va tuttavia osservato che ciò integra, a ben vedere, un evidente effetto diretto del provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, che induce forse a propendere sempre di più verso la natura concorsuale dell’istituto, piuttosto di quella negoziale. 6. – Oltre al rilievo che precede, occorre notare come il principio della relatività degli effetti del contratto (art. 1372 c.c.) presenti in questo negozio una eccezionale deroga. In virtù del decreto di omologazione, infatti, l’accordo di ristrutturazione produrrà effetti riflessi sulla garanzia patrimoniale offerta dall’imprenditore, 98 In questo senso: L. Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 125; C. Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella crisi d’impresa e ruolo del giudice, cit. 192, spec. nota 14; M. Arato, Fallimento: le nuove norme introdotte con l. 80/2005, in Dir. fall. I, 173; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 – bis) e gli effetti per coobbligati e fideiussori del debitore, in Dir. fall. 2005, I, 857; M. Fabiani, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 – bis l. fall. in Foro it. 2006, I, 2564. 49 ciò in dipendenza della irrevocabilità degli atti esecutivi prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. L’ambito soggettivo dell’esonero dall’azione revocatoria non risulta, tuttavia, ancora ben definito. La disposizione dell’art. 67, comma 3, lett. e) parlando di atti, pagamenti e garanzie posti in essere ‹‹in esecuzione›› dell’accordo omologato è stata oggetto di una duplice lettura da parte dei primi commentatori della riforma. Secondo taluni a tale espressione dev’essere attribuito il significato più ampio possibile, nel senso che anche il pagamento dei creditori estranei – vuoi che sia stato espressamente previsto nell’accordo, vuoi che sia soltanto l’effetto dell’attuazione dell’accordo – deve ritenersi immune dall’azione revocatoria (99). Diversamente opinando si finirebbe per penalizzare proprio quei creditori che la norma vorrebbe tutelare (100). Secondo altri, invece, i creditori estranei non sarebbero sottratti al rischio revocatorio, in quanto non subiscono alcuna ristrutturazione dei debiti e restano liberi di agire per l’immediata realizzazione del loro credito (101). Il beneficio dell’esonero dall’azione revocatoria previsto dall’art. 67, comma 3, lett. e) l.fall. sarebbe limitato ai soli creditori aderenti all’accordo. 99 In questo senso: G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 38; S. Bonfatti – P. F. Censoni, La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, 282; G. Falcone, “La gestione privatistica dell’insolvenza” tra accordi di ristrutturazione e piani di risanamento, in G. Falcone – S. Bonfatti, (a cura di) Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione della crisi d’impresa, Milano, 2006, 281; E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Un nuovo procedimento concorsuale, Padova, 2009, 172;V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di ‹‹salvataggio››, cit. 386 per il quale il ‹‹regolare pagamento dei creditori estranei›› non può che avvenire ‹‹in esecuzione›› dell’accordo medesimo; M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 366. 100 Cfr. E. Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della cresi d’impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, in Banca borsa tit. cred. 2010, 295. 101 In questo senso: E. Gabrielli, Autonomia privata e accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 446; V. Proto Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella crisi d’impresa e ruolo del giudice, cit. 193. 50 Si tratterebbe di effetto “premiale” per coloro che hanno accettato una ristrutturazione dei loro crediti. La via interpretativa da ultimo richiamata appare preferibile per le seguenti ragioni. Innanzitutto, estendere l’area soggettiva dell’esenzione dall’azione revocatoria incoraggerebbe i creditori a non aderire a un accordo di ristrutturazione, piuttosto che aderirvi. In altri termini, se i creditori estranei potessero beneficiare dell’esonero dall’azione revocatoria fallimentare risulterebbe sempre più conveniente non aderire ad un accordo di ristrutturazione rispetto che aderirvi, in quanto: a) come creditore estraneo si conserverebbe il diritto ad essere pagati per l’intero ammontare del credito secondo quanto stabilito nel titolo originario; b) quanto conseguito dall’esecuzione dell’accordo, al pari del creditore aderente all’accordo che ha accettato una ristrutturazione del proprio credito, sarebbe sottratto dall’azione revocatoria fallimentare (102). Appare quindi preferibile limitare il beneficio dell’esonero dall’azione revocatoria previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. ai soli creditori aderenti, in quanto costoro accettano di subire una ristrutturazione del loro credito e, quindi, di liberare risorse economiche in favore di tutti i creditori (anche estranei) (103) e che potrebbero anche vedersi costretti ad insinuarsi al passivo solo per il credito convenzionalmente ristrutturato ed accettato (104). 102 V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di ‹‹salvataggio››, cit. 387 Per quanto attiene al significato da attribuire all’espressione “ristrutturazione” si rinvia G. Fauceglia, Prime osservazioni sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. fall. 2005, I, 842, per il quale la formula è di derivazione essenzialmente aziendalistica nel senso della rinegoziazione da parte dei debitori delle proprie esposizioni, al fine di operarne una novazione o un modificazione idonea a prevenire o a rimuovere lo stato di decozione, per attuare un piano di risanamento dell’impresa, sul presupposto che vi sia una ragionevole reversibilità della crisi. 104 Le clausole volte a condizionare risolutivamente l’efficacia dell’accordo in caso di successivo fallimento dovrebbero ritenersi inammissibili, ciò non tanto, o meglio, non solo, in applicazione dell’art. 72 l. fall. che, nel riferirsi agli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, stabilisce che ‹‹sono inefficaci le clausole negoziali che fanno 103 51 Ai creditori non aderenti viene garantito ex lege l’integrale pagamento delle loro obbligazioni, per cui, estendere a costoro il beneficio della non revocabilità, oltre a mettere seriamente in dubbio l’operatività dell’istituto, realizzerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra i creditori stessi. L’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrebbe consentire solo ai creditori aderenti, in un contesto negoziale in cui lo stato di crisi dell’impresa è ben noto a tutte parti, di acquisire posizioni di vantaggio da poter spendere nel successivo fallimento a pregiudizio dei creditori estranei. L’esonero dall’azione revocatoria non è tuttavia un effetto ope legis, bensì ope iudicis in quanto è subordinato all’emissione del provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione (105). In quella sede il Tribunale deve riscontrare - ovviamente con valutazione prognostica - che gli impegni assunti dalle parti nell’accordo siano: a) concretamente attuabili; b) idonei a prevenire o rimuovere lo stato di insolvenza (106). Alla luce di tali osservazioni risulta, allora, comprensibile il ruolo del sindacato giurisdizionale sull’accordo. dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento››, quanto per l’impossibilità di dedurre in condizione un fatto, la dichiarazione di fallimento, che in tal caso non può essere considerato programmaticamente incerto perché è proprio al verificarsi del fatto fallimento che è ancorato l’effetto (l’esenzione dalla revocatoria) programmato nel contratto, v. in questi precisi termini: E. Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi d’impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, in Banca borsa tit. cred. 2010, 295; nello stesso senso v. anche: G. Fauceglia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge 80/2005, in Fall. 2005, 1450; contra M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 361 per il quale, con la dichiarazione di fallimento si avrebbe la caducazione degli effetti negoziali dell’accordo omologato essendosi conclamata la preclusione della finalità alla quale l’accordo era preordinato, vale a dire, la caducazione degli effetti negoziali deriverebbe dall’emersione del “difetto funzionale” dell’atto negoziale, cioè della causa dell’accordo di ristrutturazione nel senso di effettiva possibilità di recupero dell’impresa coinvolta; lo stesso A. ritiene, però, preferibile ammettere la caducazione degli effetti negoziali con efficacia solo ex nunc al fine di evitare un problema della giustificazione causale della soluti retentio di quanto ricevuto. 105 Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 367 106 G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 27. 52 In assenza di ogni un controllo i creditori aderenti potrebbero, ad esempio, precostituirsi posizioni preferenziali a danno dei terzi, senza essere animanti da un effettivo interesse concreto a risolvere la crisi. Il controllo giurisdizionale viene però limitato alla fase genetica dell’accordo ed è circoscritto al riscontro dei requisiti di attuabilità degli impegni dell’accordo e d’idoneità ad adempiere le obbligazioni dei terzi creditori. La disposizione dell’art. 182 - bis l. fall. omette di disciplinare le sorti dell’accordo di ristrutturazione dopo l’omologazione. Rispetto ai concordati integralmente giudiziali (preventivo e fallimentare) non è previsto alcun rimedio per l’ipotesi di mancata esecuzione dell’accordo, né è prevista la presenza obbligatoria di soggetti deputati al controllo della fase esecutiva (107). La fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione non può, però, essere trascurata, alla luce delle rilevanti esternalità negative, che ai sensi dell’art. 67, comma 3°, l. fall. si possono ripercuotere in capo ai creditori in caso di fallimento (108). Così, ad esempio, durante la fase esecutiva il piano posto a base dell’accordo di ristrutturazione potrebbe diventare non più attuabile, ovvero, potrebbe diventare inidoneo a garantire il regolare pagamento dei creditori estranei. Dopo la dichiarazione di fallimento potrebbe emergere - con il senno di 107 Lo rilevano: M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 360; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 38; E. Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi d’impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, cit. 322 il quale stigmatizza tale lacuna: ‹‹Ed in effetti “al trionfo” dell’autonomia privata che si celebra col riconoscimento legislativo degli accordi non fa da contraltare la previsione di rimedi peculiari alla possibile loro inattuazione››. 108 G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 38; v. l’efficace rilievo di: F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del paradosso del terzo creditore “estraneo…ma non troppo”, cit. 828, per il quale la disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e), l. fall. ‹‹ha una sua evidente ragionevolezza ma si presta a non pochi abusi››. 53 poi - che l’accordo di ristrutturazione era stato stipulato al solo fine di frodare le ragioni dei creditori estranei (109). Di fronte a tali evenienze, gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in dipendenza dell’accordo potrebbero ancora ritenersi esenti da revoca ? (110). Anche rispetto all’accordo di ristrutturazione si pone un problema di meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti in concreto con gli atti esecutivi. La problematica attiene più che altro all’ipotesi del ‹‹difetto funzionale›› dell’accordo, nel senso di impossibilità di recupero dell’impresa tramite il programma di ristrutturazione (111). I tradizionali rimedi contrattuali, eventualmente esperibili contro gli accordi di ristrutturazione dei debiti affetti vizi strutturali o funzionali, non appaiono in grado di risolvere tale problema. 109 Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 365, per il quale potrebbe sussistere la frode se: ‹‹l’accordo sia stato stipulato, verosimilmente per fini di trattamento preferenziale, già sapendo della sua inidoneità a garantire il pagamento dei creditori estranei; ovvero a condizioni estremamente vantaggiose per alcuni degli stessi creditori partecipanti, ai quali l’imprenditore proponente, per la sua sola iniziativa o d’accordo con altri creditori, abbia occultato le sue reali condizioni economiche››. 110 L’interrogativo è posto da: G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 39; v. invece, con specifico riferimento all’emersione dei vizi genetici del negozio, l’interrogativo posto da: M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 367 per il quale: ‹‹Ci si potrebbe chiedere però se l’effetto previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. possa essere sopravanzato ed impedito dalla dimostrata natura fraudolenta dell’accordo – ed allora dalla sua dichiarata nullità per frode alla legge, ovvero dal suo annullamento per dolo – in ossequio al principio generale secondo il quale fraus ominia corrumpit››; a tale interrogativo, però, pare rispondere in senso negativo: F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore in stato di crisi: del paradosso del terzo creditore “estraneo…ma non troppo”, cit. 829, il quale tuttavia a p. 832, riferendosi alla mancanza ab origine dei presupposti per l’omologabilità dell’accordo afferma in merito alla disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) che : ‹‹La ratio della norma richiamata è, infatti a mio parere, da individuarsi nella tutela di un accordo di ristrutturazione valido ed efficace rivelatosi poi inidoneo al raggiungimento dello scopo economico e non alla tutela di un qualsivoglia “simulacro” di accordo, quale sarebbe quello invalido sin dall’inizio per carenza dei requisiti ma svelatosi come tale solo successivamente››. 111 Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 360, spec. 362 nota (68). 54 In conseguenza dell’apertura del fallimento (o in ogni modo della risoluzione o invalidazione dell’accordo) gli atti esecutivi resterebbero comunque non revocabili ex art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. anche se compiuti in assenza della giustificazione causale tipica degli accordi di ristrutturazione (112). È dunque evidente - anche in riferimento agli accordi di ristrutturazione il limite di un’interpretazione meramente letterale dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. senza alcuna considerazione della collocazione sistematica della disposizione in questione nell’ambito del sistema fallimentare, come già espresso in riferimento agli atti esecutivi del concordato preventivo (113). 112 Ritiene che la causa degli accordi sia tipica: V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti ‹‹di salvataggio›› (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 304. 113 F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, cit. 131 ss. 55 CAPITOLO II LA TUTELA DEI TERZI NEI GIUDIZI DI OMOLOGAZIONE. SOMMARIO: SEZIONE I. - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO - 1. Premessa e traiettoria dell’indagine. 2. La struttura del giudizio del giudizio di omologazione: il rinvio al procedimento in camera di consiglio. - 2.1. I mezzi d’impugnazione del decreto: il reclamo alla Corte d’appello. - 2.2 Le implicazioni sistematiche della cognizione sommaria: l’inidoneità al giudicato formale del decreto. - 3. L’oggetto del giudizio di omologazione: l’assenza di ogni accertamento giurisdizionale dei diritti soggettivi nell’arco della procedura. - 3.1. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla previgente disciplina delle opposizioni. - 3.2. Le conferme ricostruttive offerte dalla nuova disciplina delle opposizioni. - 3.3. Le conclusioni ricostruttive: il negozio sulla crisi d’impresa quale oggetto del sindacato giurisdizionale. 4. La natura del giudizio di omologazione: le implicazioni sistematiche derivanti dalla struttura e dall’oggetto. Il problema della tutela dei terzi. 5. Il sindacato giurisdizionale tra regolarità della procedura e convenienza della proposta: dicotomia e polarità. - 5.1. I limiti alla libertà negoziale dell’imprenditore. - 5.2. L’estensione degli effetti ultra partes: gli effetti favorevoli agli interessi dei terzi. - 5.3. Il negozio sulla crisi d’impresa con effetti favorevoli ai terzi: il vantaggio economico nella logica della c.d. privatizzazione della crisi d’impresa. - 6. Il «rifiuto» degli effetti favorevoli da parte dei c.d. «terzi-creditori»: gli strumenti di contestazione dell’«accertamento» giurisdizionale. 6.1 - L’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso il decreto di omologazione: il limite dell’accertamento prognostico e dell’inidoneità al giudicato formale. SEZIONE II - IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI - 7. La struttura del giudizio di omologazione: la ricostruzione della disciplina. - 7.1. Le opposizioni all’omologazione. - 8. L’oggetto e la natura del giudizio di omologazione.- 9. Il sindacato giurisdizionale: l’«attuabilità» degli impegni assunti e l’«idoneità» a garantire l’adempimento dei terzi creditori.- 10. Gli strumenti di tutela dei terzi incisi dal provvedimento di omologa: il problema della stabilità dell’accordo. SEZIONE I IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NEL CONCORDATO PREVENTIVO 56 1.- La produzione degli gli effetti diretti e riflessi del concordato preventivo nei confronti dei c.d. «terzi-creditori» è subordinata alla concessione del provvedimento di omologazione (114). Quando l’ordinamento subordina l’efficacia di un atto negoziale ad un provvedimento giurisdizionale di omologazione, viene solitamente demandato all’autorità giudiziaria un controllo, più o meno ampio, in ragione della natura non meramente individuale degli interessi coinvolti (115). Ora, il nuovo sistema di regolamentazione negoziale della crisi consente all’imprenditore di giungere alla conclusione di un accordo con i propri debitori per regolare la crisi. Ma l’incontro delle volontà del debitore e dei creditori non è sufficiente affinché tali accordi siano efficaci. Infatti, tanto l’efficacia della soluzione negoziata della crisi d’impresa, quanto la conclusione del rispettivo procedimento, sono subordinati alla concessione del provvedimento giurisdizionale di omologazione. Il provvedimento di omologazione sancisce la vincolatività del negozio sulla crisi d’impresa, concluso nelle forme della procedura di concordato preventivo, anche per i creditori che non hanno prestato il consenso alla soluzione negoziata e per i creditori che non sono stati portati a conoscenza dall’apertura del concordato. Il decreto di omologazione, inoltre, costituisce un presupposto in forza del quale, ai sensi dell'art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall., gli «atti esecutivi» del concordato omologato non potranno essere assoggettati all’azione 114 La distinzione effetti diretti ed effetti riflessi del provvedimento viene tradizionalmente impiegata tanto dalla dottrina sostanzialità, quanto dalla dottrina processual-civilista con differenti significati, per una approfondimento v. A. Proto - Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, 7 note 8 e 9. 115 L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ. 1986, I, 598; A. ProtoPisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 e ss c.p.c. (Appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi devoluta al giudice), in Riv. dir. civ. 1990, 421, spec. 431. 57 revocatoria fallimentare nell’ipotesi di conversione della soluzione negoziata in fallimento. Il provvedimento di omologazione del negozio sulla crisi d’impresa concluso, nelle forme del concordato preventivo, consente alla proposta avanzata dal debitore di incidere - in via diretta e riflessa - (cfr. artt. 184 e 67, comma 3°, lett. e) l. fall.) sulle situazioni giuridiche soggettive dei c.d. «terzi-creditori». L’estensione ultra partes del vincolo negoziale viene tradizionalmente giustificata in virtù del sistema di eterotutela degli interessi dei creditori che caratterizzava l’intero procedimento di formazione e conclusione del concordato preventivo. Sennonché, alla luce della mutata cornice legale entro cui avviene la conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, occorre rintracciare quali sono le condizioni che - in conformità all’accentuata natura contrattuale dell’istituto concordatario - possono giustificare l’emissione del decreto di omologazione. In altri e più precisi termini, occorre ricercare i presupposti che devono sussistere affinché sia possibile l’assoggettamento - ope judicis - dei creditori di minoranza (i.e. assenti, dissenzienti, astenuti) alla volontà della maggioranza. Tale indagine impone di riflettere, innanzitutto, sulla struttura e sulla funzione del procedimento di omologazione (rectius sul significato del controllo giurisdizionale) rispetto all’accordo tra debitore e creditori. Il percorso esplorativo non può che prendere le mosse dall’analisi della nuova struttura del procedimento di omologazione e deve arrivare fino all’oggetto del giudizio stesso. Tale percorso, nella sua apparente specificità, rappresenta un pertugio tramite il quale compiere una più ampia indagine sulla funzione del concordato preventivo nell’ordinamento civile. 58 2.- Nell’impostazione della legge fallimentare del ’42 il giudizio di omologazione veniva disciplinato congiuntamente dagli artt. 180 e 181 l.fall. Il primo definiva le forme del giudizio di omologazione; il secondo l’oggetto (116). A seguito delle recenti riforme, invece, la disciplina del procedimento e quella dell’oggetto sono stati inseriti nell’unica disposizione dell’art. 180 l.fall. La disciplina ivi prevista segna, innanzitutto, l’abbandono del rito ordinario, in favore del rito in camera di consiglio (117). 116 Il testo abrogato dell’art. 181 l.fall. prevedeva che: «Il tribunale, accertata la sussistenza delle condizioni di ammissibilità del concordato e la regolarità della procedura, [dovesse] valutare: 1) la convenienza economica del concordato per i creditori, in relazione alle attività esistenti e all’efficienza dell’impresa; 2) se sono state raggiunte le maggioranze prescritte dalla legge, anche in relazione agli eventuali creditori esclusi che abbiano fatto opposizione all’esclusione; 3) se le garanzie offerte danno la sicurezza dell’adempimento del concordato e, nel caso previsto dall’art. 160, comma secondo, n. 2, se i beni offerti sono sufficienti per il pagamento dei creditori nella misura indicata nell’articolo stesso; 4) se il debitore, in relazione alle cause che hanno provocato il dissenso e alla sua condotta, è meritevole del concordato [...]». 117 La disposizione dell’art. 180 l. fall. contiene l’intera regolamentazione del giudizio di omologazione fondata sul procedimento in camera di consiglio, caratterizzato dalla previsione in capo al Tribunale del potere di acquisire d’ufficio le informazioni e le prove necessari per la pronuncia del provvedimento finale. La riforma configura, quindi, un procedimento camerl-sommario sul modello della disciplina dettata dagli artt. 737 e ss c.p.c. nella convinzione che il rito camerale sia quel contenitore neutro idoneo ad essere utilizzato, con i dovuti adattamenti, anche per l’accertamento dei diritti soggettivi e status; in questo senso v. Cass. sez. un. 19 giugno 1996, n. 5629, in Giur. it. 1996, I, 1300 con nota di A. Carratta, La procedura camerale come «contenitore neutro» e l’accertamento dello status di figlio naturale dei minori; il precedente delle sez. un. si articolava in tre fondamentali passaggi argomentativi: a) in primo luogo, si valutava la procedura camerale alla stregua di un «contenitore neutro», vale a dire capace di accogliere al suo interno, tanto le cause aventi sostanza giurisdizional-volontaria, quanto quelle di natura contenziosa; b) in secondo luogo, si rilevava come la tutela giurisdizionale dei diritti comportasse, però, la garanzia costituzionale di un accertamento non sommario ai fini del giudicato, ovvero sia di un accertamento pieno ed esauriente che non poteva essere retto dal modello delineato dagli artt. 737; c) infine, si concludeva con la necessità di procedere ad una lettura costituzionalmente orientata dell’iter del procedimento in camera di consiglio in tema di facoltà di prova, sistema ordinario di impugnazione, immodificabilità della decisione assicurata al giudicato; prospettando, insomma, per la procedura camerale la necessità «di ammantarsi di forme tipiche del giudizio ordinario». 59 La formulazione originaria dell’art. 180 l.fall. conteneva un espresso richiamo al rito ordinario. Il giudizio di omologazione consentiva, quindi, di effettuare una cognizione piena ed esauriente sull’oggetto del processo. Prima di affrontare nello specifico la struttura del nuovo giudizio di omologazione è opportuno, in via preliminare, chiarire brevemente la nota dicotomia cognizione piena ed esauriente / cognizione sommaria. È insegnamento noto che la cognizione piena ed esauriente sussiste se è assicurata la «predeterminazione legale delle forme e dei termini dell’intero processo (e non solo la generica previsione della convocazione delle parti, della loro facoltà di prova, dell’obbligo di motivazione, della congruità del termine per impugnare; né tanto meno lo svolgimento in concreto secondo prassi rispettosa del contraddittorio)» (118). La cognizione piena ed esauriente sull’oggetto del giudizio sussiste essenzialmente - se sono predeterminate per legge le forme e i termini di esercizio dei poteri attribuiti alle parti e, soprattutto, al giudice (119). 118 A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss cpc (Appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi devoluta al giudice), in Riv. dir. proc. civ. 1990, 414, più precisamente, questo A., prima della riforma dell’art. 111 Cost. (ad opera della legge 23 novembre 1999, n. 2) e della introduzione del principio secondo cui «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» che: «A me sembra che il valore della cognizione piena sia dato dalla circostanza che le modalità di realizzazione del principio contraddittorio non sono rimesse alla determinazione discrezionale del giudice, bensì sono nella loro massima parte predeterminate dalla legge attraverso la previsione di forme e termini e la corrispondente attribuzione di poteri, doveri, facoltà processuali alle parti e al giudice. É il legislatore, cioè, e non il giudice che individua forme e termini del dovuto processo legale o, il che è lo stesso, le modalità di partecipazione delle parti al procedimento di formazione del provvedimento finale ovvero del convincimento del giudice». 119 A. Proto-Pisani, Garanzia del giusto processo e tutela dei minori, in Quest. giust. 2000, 470, spec. 471 ove l’A. afferma: «Solo quando le forme e i termini del processo sono predeterminati dal legislatore è possibile assicurare: a) che le parti siano titolari, anche nel corso dello svolgimento del processo e non solo in quello della sua messa in moto, di poteri processuali e non unicamente di soggezione; b) che il processo destinato a concludersi col provvedimento finale del giudice sia nella sua massima parte controllabile in iure e non rimesso alla discrezionalità del giudice con il solo obbligo di motivare in modo logicamente corretto il perché delle sue scelte»; dello stesso A. vedi anche: Il nuovo articolo 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it. 2000, V, 241; questo, dunque, è quanto la moderna scienza del diritto processuale civile è andata sempre più rigorizzando, in particolare mediante la teorizzazione del processo come concatenazione di predeterminati poteri- 60 L’essenza in sé della cognizione piena ed esauriente viene dunque ravvisata nella predeterminazione legale dello schema processuale, più che nel contenuto della predeterminazione stessa. Ciò significa che i poteri, i doveri e le facoltà processuali delle parti e del giudice devono essere disciplinate ex lege. In particolare, devono essere predeterminate ex lege: a) le modalità e i tempi di allegazione dei fatti che costituiscono il fondamento delle domande e delle eccezioni; b) i meccanismi di conoscenza del fatto, quali mezzi di prova (tipici o atipici), nonché in riferimento alle relative modalità di assunzione, con particolare attenzione alla individuazione dei soggetti su iniziativa dei quali le prove possono essere acquisite nel processo; c) i termini a difesa delle parti, sia nella fase introduttiva, sia nel corso dello svolgimento, che nella fase decisoria (120). obblighi delle parti e del giudice, in nessun modo riconducibili a qualsiasi discrezionalità del magistrato. In particolare, dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 111 Cost., l’attenzione si è concentrata nell’inciso «regolato dalla legge» e nella dottrina sono emerse posizioni che ritengono o meno conforme ai principi costituzionali procedimenti in cui la disciplina delle forme e dei termini di esercizio dei poteri processuali sia predeterminata dalla legge, anziché essere rimessa all’iniziativa discrezionale del giudice. Per l’orientamento favorevole v. L. Lanfranchi, «Pregiudizi illuministici» e «giusto processo» civile, in Id. (a cura di) Giusto processo civile e procedimenti sommari, Torino, 2001, spec. 4; E. Fazzalari, Il giusto processo e i «procedimenti speciali» civili, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 4 e ss; G. Costantino, Il processo civile tra riforme ordinamenti, organizzazione e prassi degli uffici (una questione di metodo), in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 84; Id. «Giusto processo» e procedure concorsuali, in Foro it. 2001, 3456; M. Bove, Art. 111 e «giusto processo civile», in Riv. dir. proc. 2002, 495; Id. Rito camerale e «giusto processo regolato dalla legge» (A proposito dell’ordinanza della Corte d’appello di Genova del 4 gennaio 2001), in Giust. civ. 2002, II, 404; in posizione critica: B. Capponi, Il giusto processo civile e la riforma dell’art. 111 Cost, in Il giudice di pace, 2000, 203. Ritengono, invece, costituzionalmente dovuta la predeterminazione dei poteri/doveri processuali corrispondenti alla c.d. «garanzie minime», ma non le forme o i termini di esercizio dei medesimi: S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 e il processo civile, in Riv. dir. proc. 2000, 1016; Id. Giusto processo e fallimento, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 499; L. P. Comoglio, Le garanzie fondamentali del «giusto processo», in Jus 2000, 350 e ss; N. Trocker, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo» in materia civile:profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2001, 392. 120 A. Proto-Pisani, Giusto processo e valore della cognizione piena, in Riv. dir. civ., 2002, I, 265; Id. Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V; L. Lanfranchi, Giusto processo: I) processo civile, in Enc. giur. XV, Roma, 2001; A. Carratta, Prova e convincimento del giudice, Riv. dir. proc 2003, 52; G. Costantino, Il processo civile tra riforme ordina mentali, organizzazione e prassi degli uffici (una questione di 61 L’intera disciplina dei doveri, delle facoltà delle parti e del giudice, in buona sostanza, deve essere predeterminata dal legislatore e non deve essere rimessa alla discrezionalità del magistrato. La disciplina del processo deve avere il fine ultimo di sottrarre le parti e il loro difensori dalla mera soggezione al giudice. L’essenza della cognizione sommaria è, invece, speculare (121). Se, infatti, il processo a cognizione piena ed esauriente è caratterizzato dalla predeterminazione legale della disciplina del processo, il processo a cognizione sommaria è invece segnato dall’ampia discrezionalità riconosciuta al magistrato nel definire la disciplina del giudizio (122). Ove manchi ogni predeterminazione legale delle regole processuali il giudice è libero di scegliere a sua discrezione l’ammissione e l’assunzione dei mezzi di prova richiesti dalle parti, ha la possibilità di ammettere mezzi di prova atipici e, ai fini della decisione, potrebbe anche accontentarsi della mera verosimiglianza delle allegazioni delle parti. metodo), Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 84; Id. Giusto processo e procedure concorsuali, in Foro it. 2001, 3456; M. Bove, Art. 111 e giusto processo civile, in Riv. dir. proc. 2002, 495; Id. Rito camerale e giusto processo regolato dalla legge a proposito dell’ordinanza della Corte d’appello di genova del 4 gennaio 2001), in Giust. civ. 2002, II, 404; dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 111 Cost. on è mancato chi ha sostenuto che l’introduzione dell’espressione «regolato dalla legge» non impedisce in alcun modo al legislatore di dettare una disciplina della cognizione piena nella quale le forme siano rimesse al potere discrezionale del giudice ovvero descritte attraverso c.d. “clausole elastiche”, come tali bisognose di una concretizzazione ed integrazione a livello interpretativo del giudice, così: S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Riv. dir. proc. 2000, 1010; Id. Giusto processo e fallimento, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 499; L. P. Comoglio, Le garanzie fondamentali del «giusto processo», in Jus 2000, 350 e ss; N. Trocker, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il «giusto processo» in materia civile:profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2001, 392; F. Tommaseo, Processo minorile, forme camerali e mista del “giusto processo”, in Fam. dir. 2001, 323; Id. Giudizi camerali de potestate e giusto processo, in Fam. e dir. 2002, 234; G. Vignera, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo” art. 111 cost. in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 1187, nota 7. 121 A. Carratta, Processo sommario, Enc. dir. Annali, vol. II, Tomo I, 877; A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ. 1987, 444; A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 393 e ss; Id. Giusto processo e valore della cognizione piena, cit. 279. 122 F. Tommaseo, Rito camerale e giudizio di merito nel reclamo di stato di figlio naturale davanti al tribunale minorile, in Fam. dir. 1996, 305. 62 Il processo a cognizione sommaria è, dunque, facilmente riconoscibile: le forme, i termini e le modalità della fase preparatoria, istruttoria e decisoria non sono in alcun modo predeterminate dal legislatore, ma sono rimesse alla discrezionalità del giudice. All’interno di tale categoria viene tradizionalmente annoverato il procedimento in camera di consiglio descritto dagli artt. 737 c.p.c. e ss (123). Le «Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio» non contemplano alcuna disciplina della fase preparatoria del procedimento (corrispondente a quella che nel rito ordinario è collocata negli artt. 163 183 c.p.c), né alcuna disciplina della fase decisoria (corrispondente a quella che nel rito ordinario è disciplinata dagli artt. 188-190, 275 c.p.c.). La disciplina di tali fasi è rimessa, di volta in volta, all’iniziativa e alla discrezione del giudice, il quale è tenuto a conformarsi solo al principio delle forme allo scopo, sancito in via generale per tutti gli atti del processo (delle parti e del giudice) dal combinato disposto degli artt. 121 e 156 c.p.c. (124). La fase istruttoria, invece, è unicamente disciplinata dalla laconica affermazione contenuta nell’art. 738, comma 3°, c.p.c.: il «giudice può assumere informazioni». Secondo la communis opinio, l’inciso poc’anzi richiamato consentirebbe al giudice di derogare ai principi e alle regole che reggono l’istruzione probatoria nel processo ordinario. Più precisamente, consentirebbe al giudice: a) di derogare al principio della disponibilità delle prove (art. 115 c.p.c.); b) di derogare alla regola della tipicità dei mezzi di 123 Seppure non si esprima in termini di sommarietà cfr: A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit. 444; A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 393 e ss; Id. Giusto processo e valore della cognizione piena, cit. 279 per il quale chiaramente: «Alla luce delle considerazioni svolte in questo articolo dovrebbe apparire chiara, infine la differenza abissale che separa i processi a cognizione piena dai processi in camera di consiglio ex art. 737. Là dove nei primi vige come regola la predeterminazione da parte del legislatore delle forme e dei termini tramite i quali esercitare il diritto di azione, il diritto di difesa e il potere giurisdizionale, nei secondi domina la discrezionalità del giudice» 124 A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 416. 63 prova e di superare i rispettivi limiti di ammissibilità; c) di derogare alle modalità tipiche di assunzione dei mezzi di prova così come disciplinati dagli artt. 191 a 266 c.p.c. (125). Sulla scorta di tali imprescindibili considerazioni è possibile passare ad esaminare nello specifico la nuova struttura del giudizio di omologazione del concordato preventivo descritta dagli artt. 180 l.fall. Innanzitutto, la nuova disciplina del giudizio di omologazione costituisce l’ennesima estensione delle forme del procedimento camerale in materie tradizionalmente riservate alle forme del rito ordinario, concluse con provvedimenti idonei a produrre effetti su diritti soggettivi perfetti (126). 125 L. Montesano, «Dovuto processo» su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc. 1988, 932, il quale rileva che: «É, certo, di immediata evidenza che le “informazioni”, di cui parla l’art. 738, comma 3°, c.p.c. [...] sono diverse dalle “sommarie informazioni” delle quali più volte dice il legislatore a proposito dei “procedimenti sommari”, giacché le prime sono atte ad esaurire l’indagine in fatto sull’oggetto della controversia, mentre le seconde o non lo sono mai, o lo sono condizionatamente alla loro non rimozione con azione ordinaria, di regola proponibile in termine perentorio decorrente dal provvedimento conclusivo del procedimento “speciale”. Tutto ciò è, peraltro, estraneo ai reali termini della questione, che è stata sempre chiaramente impostata in chiave non di intensità di contenuto o di stabilità degli effetti delle “informazioni” in discorso, ma della loro qualità, in specie in riguardo a ciò che la loro atipicità, non formalità, officiosità, non contraddittorietà o non piena contraddittorietà non sono compatibili con la garanzia delle difese delle parti che, in specie in materia istruttoria, deve valere anche nei confronti del giudice e degli altri organi giudiziari»; v. anche: A. Carratta, Prova e convincimento del giudice, cit. 54; contra L. P. Comoglio, Garanzie costituzionali e prove atipiche nel procedimento camerale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1976, 1162 per il quale vanno ricomprese nelle “informazioni”«eterogenee fonti di prova, accomunando fatti tipici (quali, le dichiarazioni delle parti interessate, e quelle di scienza dei terzi) a fatti propriamente atipici (per esempio, gli atti certificativi e le informazioni scritte della pubblica amministrazione, i verbali ed i rapporti della polizia giudiziaria le consulenze tecniche stragiudiziali, o le prove assunte ed acquisite in altro giudizio)»; in riferimento al concordato fallimentare v. P. Farina, La nuova disciplina della fase di omologazione e di esecuzione del concordato fallimentare, in U. Apice (diretto da), La procedura fallimentare, II, Torino, 564. In giurisprudenza: Cass. 28 luglio 2004, n. 14227, in Giust. civ. 2005, I, 1029; Cass. 8 marzo 1999, n. 1947, secondo cui il giudice, ai sensi dell’art. 738 c.p.c. «procede con i più ampi poteri inquisitori, i quali si estrinsecano attraverso l’assunzione di informazioni che, espressamente consentita dalla menzionata disposizione, non resta subordinata all’istanza di parte» 126 Risultano ancora attuali le riflessioni di A. Proto - Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 c.p.c. cit. il quale individua le «ragioni che hanno dato luogo ad un simile abnorme ricorso alla procedura camerale» sia nelle «incertezze del legislatore del 1942», sia nella «crisi profonda del processo ordinario di cognizione», sia, infine, in «una serie di cause di carattere più tecnico [...] quali, sopratutto: a) l’assenza nel 64 In secondo luogo, occorre soffermarsi sulla tecnica normativa impiegata dal legislatore per disciplinare il rito del giudizio in esame (127). Il rito è disciplinato essenzialmente tramite un mero richiamo alle c.d. «Disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio» a cui sono stati aggiunti meri oneri di pubblicazione dei provvedimenti. nostro ordinamento processuale di uno schema generale di procedimento sommario (in contraddittorio o senza) [...] destinato a sfociare in un provvedimento sommario con attitudine a dettare una disciplina definitiva del rapporto controverso [...]; b) l’assenza nel nostro ordinamento processuale di uno schema generale di procedimento sommario semplificato - esecutivo destinato a sfociare in un provvedimento avente solo efficacia esecutiva [...]; c) l’assenza, poi, [...] di uno schema generale di procedimento cautelare [...]; d) ancora, [...] assenza [...] di un processo a cognizione piena a trattazione collegiale in primo grado ed in appello»; v. anche: A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. secondo cui: «il successo applicativo del modello camerale ha la sua radice al di là delle nuove leggi e trae ulteriore linfa da interpretazioni ovvero ricostruzioni di interi settori dell’ordinamento nel senso più favorevole alla cameralizzazione del giudizio [...] ancor prima della loro fondatezza, esse meritano di essere valutate quale espressione di questo convincimento: che il rito camerale costituisca una sorta di modello alternativo adottabile senza limiti di materia ed in forza di mere ragioni di urgenza che caratterizzano la procedura»; per un ampio panorama giurisprudenziale v. anche: M.G. Civinini Taffini, Procedimento camerale: orientamenti giurisprudenziali in tema di ricorribilità in cassazione ex art. 111, comma 2°, Cost. in Foro it. 1984, I, 2844; E. Pazzi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. avverso provvedimenti camerali (1984-1989), ivi, 1990, 1959. L’estensione ad opera del legislatore delle forme del procedimento in camera di consiglio in materie tradizionalmente attratte nell’alveo del rito ordinario deriva anche da una certa disinvoltura e poca accortezza della giurisprudenza costituzionale, cfr. A. Carratta, I procedimenti cameral-sommari in recenti sentenze della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1992, 1049; e della giurisprudenza di legittimità cfr. Cass. sez. un. 19 giugno 1996, 5629, in Giur. It 1996, I, 1300, con nota di A. Carratta, La procedura camerale come “contenitore neutro” e l’accertamento dello status di figlio minore; anche in Foro it. 1996, I, 3070, con nota di M.G. Civinini, Dichiarazione giudiziale di genitore naturale e rito applicabile innanzi al tribunale per i minorenni. 127 Si condivide l’opinione espressa da: G. Costantino, La gestione della crisi d’impresa tra contratto e processo, in F. Di Marzio – F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano, 2010, 209: «Quale che sia l’obiettivo perseguito, sono incompatibili con il quadro costituzionale i tentativi di fuga dalla giurisdizione e dalla giurisdizione ordinaria, dal processo e dalla cognizione piena. Non solo non è possibile prescindere dalla applicazione degli strumenti giurisdizionali, ms non è neppure possibile prescindere dalla applicazione di quelli ordinari: la sommarizzazione e la cameralizzazione dei procedimenti non sono risposte adeguate, perché anche prescindendo dalla implicita rinuncia ad un processo “regolato dalla legge” ai sensi dell’art. 111 Cost. il problema dell’efficienza della giustizia si pone più che in riferimento alla disciplina, alla concreta prassi applicativa della stessa, e, quindi, appare ragionevole dubitare che una soluzione possa consistere nell’affidarsi totalmente ai poteri discrezionali del giudice» 65 Rispetto alla disciplina del procedimento in camera di consiglio è stato aggiunto: a) l’onere di pubblicare nel registro delle imprese, ex art. 17 l.fall., il provvedimento del giudice delegato che fissa l’udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti e del commissario giudiziale; b) l’onere per il debitore di notificare il provvedimento in questione al commissario giudiziale e agli eventuali creditori dissenzienti; c) l’onere del debitore, del commissario giudiziale e degli eventuali creditori dissenzienti e di qualsiasi altro interessato di costituirsi almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata; d) la comunicazione del decreto motivato del Tribunale al debitore e al commissario giudiziale, il quale provvede a darne notizia ai creditori; e) la pubblicazione del decreto in parola nel registro delle imprese ex art.17 l.fall. (128). La disciplina del giudizio di omologazione può essere così sintetizzata: a) il procedimento prende avvio ex officio; b) il provvedimento di apertura è pubblicato nel registro delle imprese ex art. 17 l.fall. c) le parti devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza; d) nello stesso termine (anche se ciò non è chiarito) devono essere proposte le opposizioni da parte degli eventuali legittimati; in tal caso il tribunale deve assumere i mezzi di prova richiesti dalle parti o disposti d’ufficio; f) la trattazione è collegiale; g) non è previsto alcuno scambio di comparse conclusionali; h) l’udienza per la discussione non è pubblica; i) il tribunale provvede con decreto motivato; l) tale decreto è pubblicato nel registro delle imprese ex art. 17 l.fall. Non sono, quindi, disciplinate le modalità di costituzione delle parti in giudizio, le facoltà e i termini per esercitare i poteri di allegazione e di prova; non è disciplinata l’attività istruttoria ed i mezzi di prova utilizzabili 128 Cfr. M. Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo, in Giust. proc. civ. 2009, 726; A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del concordato preventivo, in Riv. dir. proc. 2008, 647. 66 (tipici o atipici) dalle stesse; non sono, inoltre, disciplinati i poteri del giudice in sede di trattazione, istruzione e decisione. Per quanto attiene a quest’ultimo profilo, l’art. 180 l.fall. prescrivere soltanto che in mancanza di opposizioni il Tribunale deve verificare «la regolarità della procedura e l’esito della votazione»; se, invece, sono state proposte opposizioni, il Tribunale «assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio». In conclusione, rispetto allo schema processuale deformalizzato del procedimento in camera di consiglio (129), l’art. 180 l.fall. prevede soltanto alcuni elementi d’indubbio tenore formalistico, quali: i) la previsione dei termini per la costituzione in giudizio delle parti, con l’aggancio a tali termini della facoltà di proporre l’opposizione da parte dei creditori dissenzienti, assenti, astenuti o qualunque altro; ii) la previsione che l’attività istruttoria, nell’ipotesi in cui siano proposte opposizioni, non si esaurisce, come tipicamente accade nella procedura camerale, nella raccolta di «informazioni» da parte del giudice, ma può consistere nell’assunzione, nel contraddittorio tra le parti, di veri e propri mezzi di prova richiesti dalle parti o disposti d’ufficio. L’istruzione probatoria, ai sensi dell’art. 180, comma 4°, l.fall. dovrebbe svolgersi solo nel caso in cui siano state proposte opposizioni e soltanto in tale evenienza al Tribunale è riconosciuta la possibilità di disporre anche d’ufficio l’assunzione di mezzi istruttori. Tale potere, se calato nella logica inquisitoria e deformalizzata del procedimento in camera di consiglio, potrebbe intendersi come una generale autorizzazione del Tribunale ad ammettere mezzi di prova atipici, ad assumere mezzi di prova tipici in via atipica e superare i limiti di ammissibilità fissati dalla disciplina sostanziale per le prove tipiche. 129 E. Allorio, Saggio polemico sulla giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, 487 e ss, il quale a p. 513 definisce il procedimento in camera di consiglio «a basso titolo formale» in contrapposizione con la solennità e la gradualità del rito ordinario. 67 Se non sono proposte opposizioni, invece, la cognizione del Tribunale dovrebbe limitarsi ai fatti allegati negli atti del fascicolo della procedura, integrati, semmai, con i risultati delle indagini compiute dal commissario giudiziale (130). In conclusione, la nuova disciplina del giudizio di omologazione non prevede alcuna predeterminazione legale delle forme, dei poteri, dei termini per le parti e per il giudice nella fase preparatoria, istruttoria e decisoria. Il giudizio di omologazione del concordato preventivo deve essere, quindi, annoverato nell’ambito della categoria dei procedimenti a cognizione sommaria (131). Ciò non significa, però, che nel giudizio di omologazione vi sia un minor grado di razionalità dell’accertamento logico compiuto dal giudice. Significa solo che quest’accertamento è frutto di un processo che si svolge secondo forme e termini rimessi in massima parte alla discrezionalità del giudice e non predeterminate dal legislatore (132). 2.1. Il provvedimento del Tribunale può essere impugnato con il reclamo avanti la Corte d’appello (art. 183 l.fall.). 130 V. però, Trib. Locri 2 ottobre 2008, Fall. 2009, 862 con commento di C. Esposito, Omologazione del concordato fallimentare: verifica della regolarità. Nel caso di specie – seppure in assenza della suddivisione dei creditori in classi e della proposta di opposizioni il Tribunale non aveva omologato il concordato perché ai creditori era offerta una percentuale inferiore a quella che si sarebbe potuto ripartire all’esito della procedura fallimentare. 131 Cfr. anche se non pienamente condivisa: M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Padova, 271 il quale afferma che nel giudizio di omologazione si è di fronte ad un processo sommario nelle forme ma con struttura contigua a quella del processo a cognizione piena. 132 Su questo rapporto tra cognizione sommaria e grado dell’accertamento v. A. Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 c.p.c cit. 415. 68 Se non sono proposte opposizioni, il provvedimento di omologazione del Tribunale, per espressa previsione di legge (art. 180, comma 3°, l.fall.), non è impugnabile (133). Anche per quanto attiene alla disciplina del giudizio avanti alla Corte d’appello occorre rilevare l’ulteriore omissione da parte del legislatore della concreta regolamentazione delle fasi del procedimento. La disposizione dell’art. 183 l.fall. prescrive soltanto che la Corte d’appello deve pronunciarsi ‹‹in camera di consiglio››. Di fronte al lacunoso dato positivo sorge inevitabilmente l’esigenza di colmare il vuoto lasciato dal legislatore, mutuando la disciplina prevista per altre ipotesi simili, quali: a) la generale figura del reclamo contro i provvedimenti in camera di consiglio ex art. 739 c.p.c.; b) il reclamo contro i provvedimenti del giudice delegato e del tribunale ex art. 26 l. fall.; c) il reclamo previsto per l’omologazione del concordato fallimentare ex art. 131 l. fall.; d) ed infine il reclamo avverso la sentenza di fallimento previsto dall’art. 18 l.fall. (134) Tra le diverse scelte, poc’anzi dette, appare preferibile quella in ultimo prospettata (135). Il secondo comma dell’art. 183 l.fall. dispone che con ‹‹lo stesso reclamo›› deve essere impugnata la sentenza di fallimento emessa 133 v. però I. Pagni, sub art. 183 l.fall. in C. Cavalli (diretto da) Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 862, la quale rileva che: «[...] non vi è dubbio che il Tribunale non possa modificare la proposta approvata dai creditori, ma possa soltanto omologare o non omologare l’accordo, ricorrendo le condizioni previste dalla legge fallimentare. Orbene, qualora il decreto di omologa si distacchi da quanto contenuto nella proposta (violando, da un lato, il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; dall’altro lato, sovrapponendosi alla volontà delle parti espressa dall’accordo), deve essere possibile per il debitore e per i creditori, ricorrere ad uno strumento che consenta di rimettere in discussione il provvedimento giudiziale, nonostante la previsione dell’art. 180, comma 3°, l. fall. apparentemente non permetta». 134 Per una approfondita panoramica v. F. S. Flicorno, sub art. 183 l. fall. in M. Ferro, (a cura di) La legge fallimentare, Padova, 2008, 378. 135 M. Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo, in Gius. proc. civ. 2009, 730. 69 contestualmente al decreto di rigetto dell’omologazione del concordato preventivo. Il reclamo per impugnare la sentenza di fallimento è quindi ‹‹lo stesso›› con cui si deve impugnare il decreto che ha negato l’omologazione del concordato. Ora, siccome non è pensabile che la sentenza di fallimento possa essere impugnata con due strumenti diversi a seconda che venga pronunciata in via principale ed autonoma (ex art. 15 l.fall.), ovvero, contestualmente al rigetto dell’omologazione del concordato preventivo (ex art. 180 ult. co.). Pertanto, occorre ritenere che l’impugnazione della sentenza di fallimento emessa all’esito del concordato preventivo venga regolata dalla disciplina del reclamo dell’art. 18 l.fall. (136). Quindi, se è stata pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento il reclamo avanti la Corte d’appello deve assumere le forme previste dall’art. 18 l.fall. Poiché ai sensi dell’art. 183, comma 2° l.fall. tale reclamo è ‹‹lo stesso›› di quello previsto al 1° comma della medesima disposizione, ne segue che, il reclamo dell’art. 183 l.fall. sarà regolato dalla disciplina dell’art. 18 l.fall. anche in mancanza della dichiarazione di fallimento. Il richiamo alla disciplina contenuta nella disposizione dell’art. 18 l.fall. richiede, però, degli adattamenti: a) la forma del provvedimento finale, almeno dove l’impugnativa sia rivolta contro il mero decreto di omologa, dovrà essere quella del decreto e non, come prevede l’art. 18, comma 11°, l.fall. quella della sentenza; b) la legittimazione ad impugnare spetterà alle sole parti della precedente istanza di giudizio e non anche, come previsto dallo stesso art. 18, all’indistinta platea dei terzi interessati; c) il termine perentorio di trenta giorni fissato dall’art. 18, comma 1°, l. fall. per la proposizione del gravame non può che farsi decorrere dalla notifica del 136 L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino, 2010, 161. 70 provvedimento, appositamente sollecitata da una delle parti, non potendosi in questa sede ritenersi applicabile la pubblicazione a norma dell’art. 17 l.fall. in quanto non sussiste l’esigenza di notiziare i terzi (137). La Corte d’appello deve pronunciarsi «in camera di consiglio», per cui, oltre alla disciplina dettata dall’art. 18 l.fall., occorrerà tenere conto delle regole e dei principi sottesi agli artt. 737 e ss del c.p.c. La disciplina del reclamo, pertanto, risentirà dei principi informatori dell’attività istruttoria del procedimento camerale: informalità, ufficiosità, atipicità (138). In sintesi: il reclamo dovrà essere proposto con ricorso alla Corte d'appello e dovrà contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda l'impugnazione; inoltre, dovrà essere data menzione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intenderà avvalersi e dei documenti che offre in comunicazione. Il ricorso, unitamente al decreto che fissa l’udienza di comparizione, dovrà essere notificato - a cura del reclamante - al commissario giudiziale e alle altre parti costituite nel giudizio di omologazione. Tra la data della notificazione e quella dell’udienza dovrà intercorrere un termine non minore di trenta giorni. Le parti che intendono resistere dovranno costituirsi depositando in cancelleria, almeno dieci giorni 137 In questo senso: M. Montanari, Profili processuali del nuovo concordato preventivo, cit. 731; M. Fabiani, sub art. 183 l. fall. in G. Lo Cascio, (diretto da), Codice commentato del fallimento, 2008, 1646. 138 L. Montesano, «Dovuto processo» su diritti incisi da giudizi camerali, in Atti del convegno nazionale (Palermo, 6-7 ottobre 1989), I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, 226 e ss, spec. 228, il quale afferma: «Da una lato quel generale e generico potere di “assumere informazioni” o di “verificare” consente al magistrato di ricercare e di far ricercare autonomamente, in via inquisitoria, con tutti i mezzi che egli ritenga opportuni e senza alcuna previa notizia alle parti, e così acquisire e usare per la decisione, ogni fonte di cognizione sul materiale di causa; d’altro lato non basta, a rimediare tale carenza d’ogni garanzia difensiva nei riguardi del magistrato inquisitore, che egli sottoponga poi al contraddittorio con le parti e tra le parti i risultati delle dette informazioni o verifiche, e neppure che le stesse parti siano genericamente invitate a cooperare alle indagini informali e atipiche, di cui si è detto, né che a tutto ciò segua una istruzione “tipica” o meglio modellata, sia pure con qualche differenza, su quella della cognizione ordinaria»; v. anche: R. Capponi, Le “informazioni” del giudice civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1990, 911. 71 prima dell’udienza, una memoria contenente l’esposizione delle difese in fatto e diritto, con l’indicazione dei mezzi di prova. La fase istruttoria e la fase decisoria, per contro, non risultano, affatto disciplinate. Quanto allo svolgimento della fase istruttoria, l’art. 18, comma 10, l.fall. prescrive solo che potranno essere ‹‹sentite le parti» e che il collegio potrà disporre l’assunzione ‹‹anche d'ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari». Non sono, quindi, disciplinate le modalità di assunzione dei mezzi di prova e, men che meno, sono indicati i mezzi di prova di cui il collegio potrà disporre l’assunzione ex officio. Il collegio, quindi, potrebbe disporre l’assunzione, anche d’ufficio, di tutti i mezzi di prova tipici; potrebbe disporre l’ingresso di prove atipiche; nonché potrebbe disporre l’assunzione con modalità atipiche di tutti i mezzi di prova tipici (139). La disciplina della fase istruttoria, in conclusione, anche nella fase del reclamo sarà interamente rimessa alla discrezionalità del magistrato. Unico limite al potere del giudice, posto a garanzia delle parti, è costituito dal richiamo, peraltro generico, al ‹‹rispetto del contraddittorio». 139 L. Montesano, «Dovuto processo» su diritti incisi da giudizi camerali, in Atti del convegno nazionale (Palermo, 6-7 ottobre 1989), I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, cit. 228, il quale ritiene che al fine di “costituzionalizzare” le istruttorie ufficiose e atipiche dei giudizi camerali che decidono o incidono - occasionalmente o incidentalmente - su diritti soggettivi: «Occorre invece, che - senza sacrificare le esigenze di urgente tutela perseguite dal legislatore con le “cameralizzazioni” in discorso - la decisione finale sulla domanda non si possa mai fondare, come su elemento preponderante o comunque determinante, su materiale istruttorio che il giudice abbia raccolto senza la contraddittoria partecipazione dei privati contendenti o che, pure in contraddittorio, sia stato assunto “atipicamente”, senza cioè che le parti abbiano avuto il modo di predisporre le proprie adeguate difese a strumenti istruttori “tipicamente” o “formalmente” loro preannunciati negli aspetti essenziali del materiale da acquisire al processo e dei modi di tale acquisizione. Tutto ciò significa - per riassumere e concludere - che le giudiziarie ed inquisitorie “informazioni” e “verifiche”, di cui si è detto, possono essere usate, nella decisione finale, non mai come “prove” di per sé sufficienti, ma solo come “argomenti di prova”, cioè come strumenti per valutare l’attendibilità delle prove tipicamente, formalmente e contraddittoriamente preannunciate, disposte ed assunte». 72 Il ‹‹rispetto del contraddittorio» costituisce una clausola generale, la cui «concretizzazione» è rimessa al potere discrezionale del collegio, pertanto, le parti continueranno comunque a versare in una condizione di soggezione rispetto al giudice (140). Quanto alla fase decisoria, l’art. 18, comma 11, l.fall. afferma che la ‹‹corte provvede sul ricorso con decreto». Non sono, quindi, definite le modalità con cui deve avvenire la rimessione in decisione della causa, né i poteri delle parti di svolgere le proprie difese conclusionali, né le eventuali repliche alla luce dei risultati dell’attività processuale svolta (corrispondenti alle analoghe previsioni del rito ordinario degli artt. 188-190, 275 ss c.p.c.). 2.2. - Alla luce di quanto sopra, risulta evidente che il reclamo descritto dall’art. 183 l.fall. presenta, a ben vedere, notevoli differenze rispetto agli ordinari mezzi di impugnazione elencati dagli artt. 323 e 324 c.p.c. Tali differenze non possono non ripercuotersi sulla natura del giudizio di omologazione. Le ricadute riguardano principalmente il tipo, melius la qualità, dell’efficacia del provvedimento conclusivo del concordato preventivo. Le differenze, in estrema sintesi, sono: a) il reclamo non è annoverato tra i mezzi di impugnazione idonei a condizionare il passaggio in giudicato (formale) della sentenza ex 324 c.p.c. (141); b) il provvedimento conclusivo 140 Il generico richiamo al rispetto del «contraddittorio» e alle «facoltà delle parti di chiedere mezzi di prova» operato da C. Cost. 1° luglio 1975, n. 202, in Foro it. 1975, I, 1574, non è stato ritenuto sufficiente, cfr: L. P. Comoglio, Garanzie costituzionali e prove atipiche nel procedimento camerale, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1976, 1150, spec. 1166; E. Fazzalari, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc. 1988, 909 e ss; L. Lanfranchi, La cameralizzazione del giudizio sui diritti, in Giur. it. 1989, IV, 33 ss; contra V. Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1987, 33 e ss; riteneva superfluo ogni intervento costituzionalizzatrice: F. Cipriani, Procedimento camerale e diritto di difesa, in Riv. dir. proc. 1974, 189; ribadito poi in F. Cipriani, Ostracismo per il procedimento camerale di divorzio?, in Giur. it. 1989, I, 53, spec. 57. 141 Cfr. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, 186, che fa notare che: «Se si passa all’esame della nozione accolta dal nostro 73 del concordato preventivo non è sempre impugnabile, in quanto, per espressa previsione di legge, non è soggetto a gravame il decreto di omologazione del concordato preventivo in assenza di opposizioni; c) contro il decreto della Corte d’Appello non è prevista la possibilità di proporre il ricorso ordinario in cassazione (142). Come noto, l’elencazione dei mezzi di impugnazione effettuata dall’art. 323 c.p.c. è sviluppata in funzione della successiva disposizione sul giudicato formale. Se in una sequela procedimentale non è possibile avviare il tipico sistema di gravami contro il provvedimento giurisdizionale, non sussiste la condizione – sistematica - per applicare il disposto dell’art. 324 c.p.c. Di conseguenza, al provvedimento conclusivo non è possibile attribuire il vincolo (per le parti e per il giudice) del giudicato formale (143). legislatore della codificazione del 1942, non può non percepirsi come anche per il nostro diritto positivo, art. 324 c.p.c., il concetto stesso di cosa giudicata formale sia più ristretto rispetto a quello di impugnabilità», in particolare l’A. in esame prosegue chiarendo che:«Si conferma in questo modo l’esclusione del giudicato materiale dalla esperienza della volontaria giurisdizione: se il reclamo è certo una impugnazione, non di meno questa forma gravame non è stata ritenuta idonea a delineare i presupposti strutturali per la cosa giudicata formale, come parimenti in Germania quando si è alla presenza di un gravame temporalmente illimitato. La posizione di base è sempre la medesima: non ogni impugnazione appronta lo sviluppo procedimentale utile a produrre un provvedimento idoneo alla cosa giudicata formale». 142 La possibilità di impugnare il provvedimento di omologazione del concordato preventivo emesso dalla Corte d’appello in sede di reclamo tramite il ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost. è stata, tuttavia, ammessa per via giurisprudenziale dalla Cass. 12 ottobre 2011, n. 22931, inedita, ma reperibile su www.ilcaso.it, secondo cui: «Il decreto con il quale la corte d’appello decide in ordine al reclamo nei confronti del decreto con il quale il tribunale ha omologato la proposta di concordato preventivo ha natura di sentenza, in quanto ha l’attitudine alla definitività ed incide su diritti soggettivi; esso è pertanto ricorribile per cassazione, ai sensi dell’articolo 111 Cost., nel termine ordinario di 60 giorni previsto per il rito camerale»; non può, però, essere trascurato che la dottrina ha evidenziato come non possa dirsi affatto sufficiente giustapporre al termine di un procedimento qualsiasi la possibilità di adire la Cassazione ex art. 111 Cost. per far sì che il diritto soggettivo sia tutelato da un «giusto processo», cfr. L. Lanfranchi, Profili sistematici dei procedimenti decisori sommari, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1987, p. 55 e ss. 143 A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ. 1987, 449, il quale afferma che: «Il giudicato formale si congiunge indissolubilmente ad un certo articolato sistema di impugnazioni ed anzi è la matrice ispirativa che gli dà ragione: come risulta dalla stessa legge e cioè dal fatto che l’elencazione dei gravami, puntualmente effettuata nell’art. 323 c.p.c., è subito 74 Più precisamente, si afferma che il giudicato formale dipende tanto alla struttura del processo, quanto dai mezzi di impugnazione del rispettivo provvedimento (144). Quanto alla struttura, l’art. 324 c.p.c. postula la possibilità (non la necessità) di consumare almeno una fase a cognizione piena nell’ambito della sequela procedimentale all’esito della quale è emesso il provvedimento (145). Quanto ai mezzi d’impugnazione, invece, l’art. 324 c.p.c., non contemplando la figura del reclamo, esclude implicitamente l’idoneità dello sviluppata in funzione del giudicato dal precetto immediatamente posteriore. Dove quell’insieme di gravami non è applicabile e tutto si riduce ad un solo, atrofizzato mezzo di controllo, difettano le premesse essenziali del giudicato formale e la ratio legis di questo esclude ogni riferimento ad esso». 144 A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 185, il quale osserva in via preliminare che: «non sembra del tutto preciso ricondurre la cosa giudicata formale alla mera inoppugnabilità del provvedimento. Il concetto, infatti, si presenta in termini ben più modulati, e rigorosamente definito dal legislatore: la impossibilità (relativa) per le parti di promuovere una fase impugnatoria esprime con una certa genericità solo una conseguenza della cosa giudicata formale, ma non definisce la figura sul piano normativo», infatti, in primo luogo, l’A. rileva come dall’esegesi dell’art. 324 c.p.c. «il concetto steso di cosa giudicata formale sia più ristretto rispetto a quello della non impugnabilità», in secondo luogo, che: «il concetto del giudicato formale prospetta la conclusione procedimentale cui si perviene ai fini della produzione di quel peculiare effetto che è la cosa giudicata materiale» e che sussiste una «stretta correlazione, pertanto, tra giudicato materiale e presupposto individuato da una sequela che si conclude nella cosa giudicata formale per il diritto positivo», la tesi di fondo, infatti, è che: «non ogni impugnazione appronta lo sviluppo procedimentale utile a produrre un provvedimento idoneo alla cosa giudicata formale»; in questo senso cfr. A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 449. 145 Cfr. L. Lanfranchi, La verificazione del passivo nel fallimento. Contributo allo studio dei procedimenti sommari, cit. 93 ss, per il quale risulta del tutto inutile definire con i termini della non sempre univoca nozione di preclusione pro judicato l’effetto finale del procedimento sommario non seguito dall’eventuale e potenziale fase a cognizione piena, in quanto, alla consapevole mancata instaurazione della fase a cognizione piena ed esauriente per volontà delle parti segue, invece, l’effetto del giudicato formale ex art. 324 e sostanziale art. 2909 c.c.; Id. Profili sistematici dei procedimenti decisori sommari, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1987, 88; A. Proto-Pisani, Usi e abusi, cit. 402; M. Montanari, Fallimento e giudizi ordinari pendenti sui crediti, Padova, 1991, 93; contra V. Androidi, Volontà e giudizio nel processo civile, in Annali Facoltà di Giurisprudenza Università di Genova, I, Milano, 1962, 115 per il quale il giudicato può conseguire solo all’espletamento effettivo della cognizione ordinaria. 75 stesso a condizionare il passaggio in giudicato formale del provvedimento che vi è assoggettato (146). Passando, quindi, ad analizzare la specifica disciplina del procedimento di omologazione, preme osservare che la struttura di entrambi i due gradi di giudizio è fondata sullo schema del procedimento in camera di consiglio. Quest’ultimo non prevede la possibilità di trasformare il rito nella cognizione ordinaria o, comunque, non sommaria (in senso lato) (147); mentre il decreto emesso all’esito del procedimento camerale è impugnabile solo con lo strumento del reclamo ex art. 739 c.p.c. La disciplina del procedimento in camera di consiglio non contempla le condizioni - sistematiche - affinché il provvedimento finale possa acquisire l’efficacia del giudicato formale ex art. 324 c.p.c. in quanto: a) non sussiste la possibilità di consumare almeno un grado a cognizione piena; b) non sussiste la possibilità di avviare l’iter dei mezzi di gravame previsto dall’art. 323 c.p.c. (148). 146 Cfr. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 188, il quale rileva che:«Infatti, proprio con riferimento al dato esegetico, non si è dimenticato di evidenziare che il regime della impugnazione camerale si differenzia in accentuata misura dal sistema dei mezzi di gravame di cui agli artt. 323 c.p.c. e seguenti e che il procedimento camerale manca di un complesso coordinato di controlli sequenziali tali da assicurare una tendenziale riparazione a ogni vizio del provvedimento». 147 A. Proto-Pisani, Usi e abusi, cit. 419, il quale però rileva che in materia si «sommarietà» della cognizione vi sia in dottrina molta incertezza tanto che: «così che ciò che è sommario per gli uni, integra invece per gli altri gli estremi della cognizione piena»; L. Montesano, Giurisdizione volontaria, in En. giur. XV, Roma, 1989, 11; A. Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, in Dir. e giur. 1989, 68; V. Denti, I procedimenti camerali come giudizi sommari di cognizione: problemi di costituzionalità ed effettività della tutela, in I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, Atti del XVII convegno nazionale, nei Quaderni dell’associazione fra gli studiosi del processo civile XLV, Milano, 1991, 41 148 Possono, infatti, richiamarsi le opinioni di quegli A. che hanno approfondito l’applicabilità dell’art. 161, comma 1, c.p.c. al rito camerale: cfr. R. Donzelli, La tutela dei diritti processuali violati nei procedimenti ablativi e limitativi della potestà parentale, in Fam. e dir. 2004, 168, spec. 172, il quale rileva che in via preliminare ad ogni analisi «è da verificare il se ed in che limiti operi il generale principio di assorbimento disciplinato all’art. 161, comma 1, c.p.c. all’interno dei procedimenti di volontaria giurisdizione»; secondo una parte della dottrina infatti le nullità del provvedimento camerale possono essere fatte valere anche oltre ed indipendentemente lo strumento del reclamo, e tale convincimento trae origine dall’esegesi del combinato disposto degli artt. 739 e 742 c.p.c., 76 Tali condizioni non sussistono, a ben vedere, neanche nella speciale disciplina del giudizio di omologazione del concordato preventivo. La struttura portante del giudizio di omologazione è rappresentata dal tradizionale modello deformalizzato del procedimento camerale, a cui è stata aggiunta unicamente la predeterminazione dei tempi, tra la fissazione dell’udienza e la data dell’udienza medesima e la previsione del termine di dieci giorni prima dell’udienza concesso alle parti per costituirsi. La disciplina dell’impugnazione del provvedimento di omologazione (i.e. il reclamo ex art. 183 l. fall.) non riproduce la fisionomia di alcun tipico gravame contro la sentenza (art. 323 c.p.c.). Il decreto di omologazione del concordato preventivo è contestabile solo con un unico mezzo di impugnazione, che non è, tuttavia, proponibile in ogni caso e che, né nel nome, né nella sua regolamentazione, può essere accostato alla tipologia dei gravami per impugnare la sentenza (149). così: A. Proto – Pisani, Usi e abusi, cit. 419, L. Montesano, Giurisdizione volontaria, cit., 1989, 11; A. Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, in Dir. e giur. 1989, 68; A. Cerino – Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 67; A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 341-342; v. anche: E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, in Foro it. 1948, I, 328 il quale rilevava che «la mancata proposizione del reclamo od il suo rigetto non rendono definitivo il decreto se non nel senso tutto formale di esaurire l’iter processuale stabilito dalla legge»; altra parte della dottrina che ritiene che i vizi che le parti avrebbero potuto far valere con l’esercizio del reclamo si sanano a seguito del decorso del termine per impugnare previsto dall’art. 739 c.p.c., così: M.G. Civinini, I procedimenti in camera di consiglio, Torino, 1994, 294 la quale ritiene che la sanatoria operi solo per i vizi rilevabili ad istanza di parte e che sopravvivano alla conversione i vizi di legittimità verificatesi in primo grado ma rilevabili d’ufficio, i vizi verificatesi in secondo grado e i vizi della decisione emanata in sede di reclamo sulle nullità dedotte quali motivi di reclamo; E. Grasso, I procedimenti camerali e l’oggetto della tutela, in Riv. dir. proc. 1990, 66; L. Montesano, Giudizi camerali su atti di società e tutela giurisdizionale di diritti e interessi, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 827; G. Monteleone, Camera di consiglio (diritto processuale civile), in Noviss. dig. it. Appendice, I, Torino, 1980 che attribuisce espressamente al reclamo la funzione di rimediare ai vizi di legittimità dell’atto; G. A. Micheli, Camera di consiglio (dir. proc. civ.) in, Enc. dir. V, Milano,1956, 995; G. Franchi, Sull’efficacia dei procedimenti di giurisdizione volontaria e sull’opponibilità dei motivi di revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. civ. 1960, II, 209. 149 P. Pajardi – A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Torino, 2008, 881, in cui sostiene che il decreto di omologazione può essere impugnato in cassazione ex art. 111 Cost. ma è “appropriato” affermare che non si formi il giudicato sostanziale. 77 Alla luce di quanto precede, occorre quindi concludere che nella nuova disciplina del procedimento di omologazione del concordato preventivo non è possibile ravvisare i presupposti squisitamente formali individuati dalla dottrina necessari per ricollegare al decreto del Tribunale e a quello della Corte d’appello l’efficacia del giudicato formale (150). 3.- Dopo aver affrontato la nuova cornice processuale e aver individuato le implicazioni dal punto di vista sistematico delle scelte compiute dal legislatore, seguendo il criterio metodologico dichiarato in apertura, è dunque giunto il momento di dedicarsi all’oggetto del giudizio di omologazione. Il profilo in parola rappresenta la questione giuridica più delicata che la nuova disciplina del concordato preventivo impone di risolvere. Da esso dipende la determinazione della natura dell’istituto e la risoluzione dei diversi profili problematici che la nuova cornice processuale sottopone all’attenzione dell’interprete. Tra questi, ad esempio, i limiti del sindacato giurisdizionale nel procedimento di omologazione, il contenuto e l’efficacia del decreto emesso dal Tribunale, la vincolatività della decisione per i successivi giudici e per i creditori di minoranza. Tuttavia, chiarire la questione poc’anzi indicata non appare affatto agevole, dal momento che i profili strutturali del procedimento di omologazione si presentano a tratti incerti e talora propriamente assenti. 150 Propende, invece, per l’efficacia di giudicato: L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit. e 47 il quale muove però dalla premessa che l’oggetto del giudizio di omologazione sia integrato anche dai crediti eventualmente contestati ex art. 176 l.fall. e ciò, trattandosi di diritti soggettivi, evoca – secondo la nota ricostruzione sistematica dell’A. – la correlazione necessaria tra la possibilità di esperire almeno un accertamento a cognizione ordinaria (o, comunque, non sommaria) e l’idoneità al giudicato formale e sostanziale dell’accertamento. Condividendo la tesi poc’anzi espressa, tuttavia, nel proseguo dell’indagine si cercherà di dimostrare che, in realtà, l’oggetto del giudizio di omologazione non è (e non può essere mai) rappresentato da diritti soggettivi e il provvedimento di omologazione non contiene mai un accertamento dei fatti costitutivi dei diritti di credito (neppure di quelli contestati). 78 Per tale motivo, oltre al momento esegetico-analitico volto a definire l’oggetto del giudizio, sarà necessario compiere un successivo sforzo ricostruttivo di sintesi per definire - in chiave sistematica - la natura e la struttura del giudizio di omologazione. Ciò posto, la determinazione dell’oggetto del giudizio di omologazione richiede innanzitutto di prendere le mosse dall’unico dato positivo certo rintracciabile nella disciplina del giudizio di omologazione. Il dato positivo in questione è costituito dalla disposizione dell’art.184 l.fall. secondo la quale: «il concordato preventivo omologato è vincolante per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura». Come ormai assodato, alla concessione del provvedimento di omologazione si ricollega la produzione degli effetti diretti e riflessi verso i c.d. «terzi-creditori» del concordato preventivo. Tali effetti possono essere i più vari, essendo il contenuto della proposta è retto dal principio dell’atipicità. Il primo interrogativo da porsi è se i diritti sostanziali interessati dagli effetti diretti e riflessi del provvedimento sono nel accertati procedimento di omologazione con efficacia di giudicato sostanziale. Il concordato preventivo è stato appositamente ideato per produrre effetti sui diritti dei creditori, ma ciò di per sé non esclude che l’oggetto del giudizio possa non essere costituito dai diritti soggettivi dei creditori coinvolti. Nel concordato preventivo diversamente da quanto avviene nel concordato fallimentare, non sussiste una fase giurisdizionale destinata all’accertamento dei diritti sostanziali dei creditori (151). 151 Il concordato fallimentare rappresenta una delle possibili modalità di chiusura del procedimento fallimentare che - prima delle recenti riforme - poteva essere richiesta da uno o più creditori dopo che si fosse conclusa la fase di verificazione del passivo. A seguito delle recenti riforme, invece, la proposta di concordato fallimentare può essere formulata e avanzata anche da una «terzo» e può essere presentata prima dell’emissione del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, purché sia stata tenuta la contabilità dell’impresa ed i dati 79 Il diritto di voto sulla proposta, invero, non trae origine da alcun accertamento giurisdizionale dei diritti sostanziali dei creditori, ma si fonda su: a) un atto di riconoscimento unilaterale, lato senso sostanziale, che il debitore compie nel momento in cui propone la domanda per l’ammissione al concordato preventivo, vale a dire, il deposito dell’elenco nominativo dei creditori e dei titolari dei diritti reali e personali sui beni di sua proprietà o in suo possesso; b) le rettifiche operate dal commissario giudiziale sulla base delle indagini da lui compiute, nel caso in cui riscontrerà delle divergenze rispetto a quanto affermato dal debitore; c) le modifiche apportate dal giudice delegato ai sensi dell’art. 176 l.fall. a seguito delle contestazioni sollevate dai creditori o dal debitore durante l’adunanza dei creditori. Le rettifiche compiute dal commissario giudiziale non possono reputarsi un accertamento giurisdizionale dei diritti dei creditori, in quanto tali modifiche vengono compiute da un organo investito soltanto di funzioni lato senso amministrative. Inoltre, sebbene il giudice delegato possa ammettere e, ovviamente, possa anche escludere, in tutto o in parte i crediti contestati, la cognizione del giudice delegato sui fatti costitutivi affermati dal creditore è espressamente limitata e finalizzata al calcolo delle maggioranze (152). da essa risultanti, unitamente alle altre notizie disponibili, consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all’approvazione del giudice delegato. Il diritto di voto sulla proposta e il diritto al riparto della fase esecutiva del concordato fallimentare, sebbene abbiano natura meramente processuale, traggono origine da un accertamento giurisdizionale dei diritti sostanziali dei creditori. In altri termini ed in buona sostanza, il diritto al voto e il diritto al riparto riflettono l’accertamento delle situazioni compiuto nella fase di verificazione del passivo fallimentare; v. M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, cit. 256. 152 S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1943, 303, il quale chiaramente afferma che lo: «Spirito della procedura di concordato non è quello di fissare posizioni giuridiche da valere al di fuori di essa e oltre i suoi brevissimi termini, ma di giungere il più rapidamente possibile a una decisione sulla proposta del debitore, nell’interesse di tutti. S’intende che in questo modo c’è la possibilità di pregiudicare il rispetto dovuto alle prescrizioni della legge, raggirando la sua volontà, e creando artificiose maggioranze con creditori fittizi. Ma anche a questo è stato trovato un rimedi, che concilia le esigenze della giustizia con la sollecitudine dovuta: e il rimedio è nella contestazione che ciascun creditore può sollevare sui crediti aspiranti a partecipare alla deliberazione. Tale contestazione però 80 Il provvedimento del giudice delegato non precluderà al creditore soccombente la possibilità di agire contro il debitore in via ordinaria con una nuova e autonoma azione per accertare i fatti costitutivi del diritto vantato. L’accertamento dei fatti costitutivi affermati dal creditore non è idoneo ad acquisire l’efficacia di giudicato formale, né tanto meno quella di giudicato sostanziale. Quindi, diversamente da quanto previsto nel concordato fallimentare, prima del giudizio di omologazione, nel concordato preventivo non avviene (e nemmeno può avvenire) alcun accertamento dei diritti sostanziali interessati dagli effetti del provvedimento di omologazione; di conseguenza, per risolvere il quesito poc’anzi posto, non resta che volgere lo sguardo proprio all’interno del giudizio in esame. 3.1. - Preziose e forse risolutive indicazioni possono ricavarsi dalla disciplina dell’opposizione all’omologazione. non ha alcun carattere formale: essa fa parte della discussione che si svolge nell’adunanza, è puramente orale, e può essere immediatamente ribattuta sia dai creditori contestati, sia dal debitore, il quale a sua volta può sollevare le contestazioni che crede. La decisione spetta al giudice delegato: ed è anche questa una decisione non formale, perché il giudice non fa altro che emettere un giudizio provvisorio, di ammissione o di esclusione del credito dalla deliberazione, senza che ciò pregiudichi definitive sulla sussistenza del credito stesso (art. 176 l. fall.). Un giudizio più approfondito si può avere in sede di omologazione, se i creditori esclusi facciano opposizione (nelle forme dell’art. 129 l. fall.) contro la loro esclusione; ma anche qui siamo ben lontani, e anci agli antipodi, da un giudizio vero e proprio: essi infatti possono fare opposizione solo se la loro ammissione avrebbe avuto influenza sulla formazione delle maggioranze, e il tribunale li prende in considerazione solo sotto questo punto di vista. Pertanto, sen riterrà che dovevano essere ammessi, rifiuterà l’omologazione, perché li considererà come votanti in senso contrario alla proposta del debitore; se riterrà che giustamente erano stati esclusi, omologherà il concordato; e in entrmbe le ipotesi il giudizio definitivo sul credito, da compiersi dalle autorità competenti, resterà impregiudicato»; cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2310; G. Ragusa – Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova 1994, 1038; G. Lo Cascio, L’accertamento e l’adempimento delle obbligazioni nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1993, 2065; Id. Ipotesi di competenza giurisdizionale ordinaria nel concordato preventivo, in Giust. civ. 1995, 2353; in giurisprudenza, assolutamente consolidata, v. Cass. 22 settembre 2000, n. 12545, inedita; Cass. 14 febbario 2002, n. 2104, in Fall. 2003, 25; Cass. 22 dicembre 2006, n. 27489, in Fall. 2007, 466. 81 Nella disciplina originaria della legge fallimentare l’opposizione si proponeva con un autonomo atto di citazione, che doveva essere notificato sia al debitore, che al commissario giudiziale (153). Legittimati all’opposizione erano i creditori dissenzienti e qualunque altro interessato (154). L’opposizione - già per la sua denominazione - evocava l’esistenza di un conflitto tra il debitore e i creditori sulla proposta approvata dalla maggioranza. Per via di tale apparente conflittualità impressa in seno al giudizio di omologazione, l’opposizione era qualificata alla stregua di un atto d’intervento, pur non sussistendone, in realtà, i presupposti (155). L’intervento, come noto, costituisce il veicolo per proporre una domanda volta a ottenere - almeno - l’accertamento di un diritto soggettivo nell’ambito di un giudizio già pendente tra altre parti. Il principale effetto dell’intervento è quello di produrre un cumulo oggettivo nel giudizio e aumentare il grado di conflittualità tra le parti originarie (156). 153 R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, IV, 1974, Milano, 2313; G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, 1974, 1052; A. Bonsignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – M. Branca, Commentario della legge fallimentare, Bologna - Roma, 1979, sub art. 180, 402 e ss. 154 S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 307; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 2310; G. Ragusa – Maggiore, Diritto fallimentare, Napoli, 1974, 1053. 155 G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, 1974, Napoli, 1052 che rileva come: «L’interesse all’opposizione legittima la partecipazione al giudizio di omologazione anche nella forma dell’intervento, sempre che non si tratti (come i dissenzienti) di soggetti che avrebbero dovuto proporre opposizione e costituirsi prima dell’udienza di comparizione, nel qual caso essendo decaduti dall’opposizione, non potrebbero aggirare l’ostacolo mediante l’intervento. Può quindi intervenire chi abbia un interesse diverso da quello che legittimerebbe l’opposizione, come per esempio il garante del concordato»; in senso analogo cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 1874 che incidentalmente fa notare che «Le parti del giudizio sono: il fallito (e il fallito soltanto), se al concordato non è mossa alcuna opposizione. Non è ammissibile l’intervento dei creditori: se dissenzienti, debbono fare opposizione nelle forme prescritte; se assenzienti, non vi hanno interesse». 156 Sulla distinzione tra litisconsorzio necessario e facoltativo v. A. Proto- Pisani, Appunti sul litisconsorzio facoltativo, in Scritti in onore di Raselli, Milano, 1971, pp. 1217 ss.; in particolare v. E. Redenti, Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1960 (ristampa dell’edizione del 1911), p. 6 ss, il quale, oltre ad individuare nella doverosità o meno del litisconsorzio la principale e più evidente divergenza tra le suddette fattispecie, osserva che nell’ipotesi di litisconsorzio necessario il provvedimento richiesto all’organo giurisdizionale da più o contro più soggetti risulta essere logicamente e giuridicamente 82 Ora, osservando con attenzione l’abrogata disciplina delle forme dell’opposizione, senza lasciarsi suggestionare dal nomen juris attribuito allo strumento in esame, risulta evidente che i creditori e gli altri interessati non potevano chiedere al giudice la tutela dei loro diritti soggettivi in sé. L’opponente, in altri termini, non poteva richiedere l’accertamento di un proprio diritto sostanziale nei confronti del debitore concordatario e degli altri creditori. Se ciò fosse stato possibile la richiesta dell’opponente avrebbe potuto: a) integrare l’oggetto di un autonomo e distinto giudizio; b) essere proposta, in alternativa e successivamente al giudizio di omologazione, con l’opposizione di terzo ordinaria (art. 404 c.p.c.). Le due possibilità, invece, non avrebbero mai potuto verificarsi (157). unico. Per cui la peculiarità del rapporto tra le istanze delle parti e la pronuncia dell’organo giurisdizionale è rintracciabile nel fatto che tutte le istanze tendono a determinare la pronuncia di un provvedimento non solo formalmente, ma soprattutto sostanzialmente unico. Differentemente, nell’ipotesi di processo cumulativo, si osserva che la pronuncia richiesta all’organo giurisdizionale, mediante domande simultanee e congiunte nello svolgimento, risulta essere costituita dalla sommatoria di altrettanti provvedimenti ontologicamente distinti, di tale natura, però, da poter essere sommati in una pronuncia formalmente unica. In argomento v anche: M.G. Civinini, Note per uno studio sul litisconsorzio unitario, con particolare riferimento al giudizio di primo grado, in Riv. Trim. proc. Civ., 1983, 429 ss.; G. Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, p. 7 ss.; S. Fabbrini, Contributo alla dottrina dell’intervento adesivo, Milano, 1964, p. 171; S. Menchini, Il processo litisconsortile, Milano, 1993, p. 14 ss., che contrappone il litisconsorzio unitario a quello semplice , in cui il simultaneus processus è determinato da ragioni di opportunità, ed a quello reciproco, in cui la trattazione congiunta discende da interferenze tra i rapporti sostanziali, come l’incompatibilità e la pegiudizialità. Differentemente, la giurisprudenza suole definire il fenomeno in cui si rende necessaria un decisione unitaria, ma non anche la partecipazione al processo, come litisconsorzio necessario processuale, come evidenziato in G. Costantino, voce Litisconsorzio, in Enc. Giur., 2 , l’a. infatti al fine di evitare pericolose confusioni, in considerazione delle diverse accezioni del termine litisconsorzio, ritiene opportuno riferire i termini “litisconsorzio necessario” e “litisconsorzio facoltativo” soltanto alla necessità o alla possibilità che più persone agiscano o siano convenute nello stesso processo, circoscrivendone l’impiego soltanto alla fase introduttiva del giudizio. Per quanto riguarda, invece, le modalità di svolgimento e decisione dei giudizi con pluralità di parti, l’a. preferisce rifarsi all’antica formulazione di cumulo facoltativo o necessario, a seconda che sia o meno ammissibile il frazionamento della decisione rispetto alla pluralità di parti presenti in giudizio, impiegando, dunque, la locuzione di litisconsorzio facoltativo con cumulo necessario per definire la fattispecie predetta. 157 Per l’inammissibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404, comma 1°, c.p.c. si rinvia al par. 6.1. 83 L’opposizione doveva essere proposta con atto di citazione a comparire all’udienza fissata dal giudice delegato e l’opponente aveva l’onere di costituirsi almeno cinque giorni prima di quella data. La disciplina prevista dall’abrogato art. 180, comma 2°, l. fall. imprimeva, pertanto, un chiaro vincolo di «inscindibilità» tra la domanda di opposizione e quella di omologazione (158). Il legame di inscindibilità tra le due domande emerge ulteriormente considerando che la domanda di omologazione del concordato preventivo e quella di opposizione non potevano essere decise l’una indipendentemente dall’altra. Quindi, sebbene il giudizio di omologazione prendeva avvio a impulso ufficioso, tale giudizio veniva, in realtà, promosso mediante l’atto iniziale dell’imprenditore, il quale consentiva di dare impulso a tutte le fasi della procedura, fino alla richiesta di omologazione, per cui l’affissione del provvedimento di fissazione dell’udienza collegiale all’albo del tribunale costituiva soltanto una mera forma di pubblicità, volta a far conoscere ad ogni interessato la data dell’udienza del procedimento già in corso (159). Con il ricorso introduttivo veniva dunque formulata sia la proposta di concordato da sottoporre all’approvazione del ceto creditorio, sia la richiesta di omologazione della stessa. L’imprenditore era quindi onerato ad allegare e provare fin dalla fase introduttiva, oltre che la sussistenza delle condizioni di ammissibilità alla procedura ex art. 160 l.fall., le condizioni prescritte dall’art. 180 l.fall. L’imprenditore doveva allegare e provare che: a) il concordato era conveniente economicamente per i creditori (n. 1, abrogato art. 181 l.fall.) rispetto all’alternativa fallimentare; b) le garanzie offerte assicuravano, in 158 A. Bosignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – M. Branca, Commentario alla legge fallimentare, Bologna – Roma, 1979, sub art. 180, 399 e ss; Trib. Catania, 29 settembre 1989, Dir. fall. 1990, II, 310 159 Cass. 19 ottobre 1992, n. 11439, in Foro it. 1993, I, 3329. 84 ogni caso, l’adempimento del concordato, ovvero, che nel caso di concordato per cessione, i beni offerti erano sufficienti per pagare i crediti almeno nella percentuale minima prescritta ex lege (n. 3, abrogato art. 181 l.fall.). Ciò posto, al fine di individuare l’oggetto dell’opposizione è, innanzitutto, opportuno chiarire chi erano i soggetti legittimati ad avvalersi dello strumento in esame. È noto che la proposizione di una domanda in giudizio è subordinata alla sussistenza dell’interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c.). Tale interesse sussiste quando risulta necessario ricorrere al giudice per evitare la lesione di un proprio diritto. Precisamente, per rimuovere (o evitare) un pregiudizio derivante da un danno (o pericolo di danno) concreto e attuale (o imminente e irreparabile), ovvero per conseguire una concreta utilità (160). Al concetto d’interesse ad agire occorre necessariamente rinviare per individuare i soggetti legittimati a proporre opposizione in conformità all’art. 180, comma 2°, l.fall. in quanto rientranti nella nozione di qualunque interessato. Ora, dal momento che il concordato preventivo omologato era (e come tale resta) obbligatorio verso qualsiasi credito sorto prima del decreto di ammissione (ex art. 184 l.fall.) e ai fini dell’omologazione era necessaria la 160 F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, I, Introduzione (1920), Padova, rist. 1930, p. 5; Id., Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e composizione del processo, Padova, 1936, p. 8, affermi – tra l’altro impiegando (per le ragioni spiegate infra, § 3.) il termine «bisogno» al posto di quello di «interesse » – che «tutti i bisogni sono individuali. Il bisogno è attitudine dell’uomo singolo; non vi sono bisogni della collettività come tale; quando si parla di bisogni collettivi si usa un’espressione traslata per significare che sono sentiti da tutti gli individui appartenenti a un dato gruppo»; A. Proto - Pisani, Dell’esercizio dell’azione, Art. 100, Interesse a agire, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1066, osserva che la formula prevista dall’art. 100 c.p.c., deriva dall’art. 36 c.p.c. del 1865 in cui si «elevò a dignità di norma giuridica la corrente di idee particolarmente diffusa nella dottrina e giurisprudenza francese espressa dagli aforismi “point d’intérêt, point d’action”, ovvero “l’intérêt est la mesure des actions”»; v. anche R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi colletivi, Napoli, 2008, 277, per il quale probabilmente l’origine della formulazione dell’art. 100 c.p.c., in cui parla di «azione», deriverebbe intesa dall’attività materiale umana, che sarebbe poi divenuta l’«azione» come concetto giuridico processuale. 85 sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 181 l.fall., legittimato a proporre l’opposizione, oltre al creditore chirografario ammesso al voto e dissenziente (o escluso al voto ex art. 176 l.fall.), si riteneva fosse qualunque titolare di una situazione giuridica soggettiva che avrebbe potuto essere soddisfatta in modo più favorevole seguendo la via della liquidazione fallimentare (161). L’opposizione costituiva uno strumento volto a richiedere l’accertamento negativo delle condizioni prescritte dall’art. 181 l.fall. (162). 161 Cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit.1882, per il quale la legittimazione a proporre opposizione si ricollega a quella specifica funzione che la legge demanda ai creditori e ai terzi per operare quali organi di controllo, allo scopo di garantire la legittimità di determinati atti del procedimento fallimentare. Per tale ragione il creditore è legittimato perché non rappresenta soltanto l’interesse proprio, ma allo stesso tempo quello dell’intera categoria dei creditori, più precisamente l’opponente: «è legittimato a farsi gestore dell’interesse generale e della pubblica convenienza, finalità a cui si informano gli istituti di concordato, preventivo e fallimentare, a che non sia concesso o sia revocato il provvedimento che non risponda alle suddette finalità»; v. anche: G. Ragusa - Maggiore, Diritto fallimentare, cit. 1053 che osserva come: «L’interesse che sta al fondo dell’opposizione inerisce alla situazione giuridica dell’opponente, il quale però si rende partecipe di un più ampio interesse quale quello di tutti i creditori, poiché il concordato concerne tutti costoro. Praticamente, si tratta di una posizione analoga a quella che può profilarsi come interesse legittimo nel diritto privato, che spetta al singolo come membro di un gruppo o di una categoria. Ora, o si tratta di un interesse particolare pur sempre con in prospettiva quello generale, o invece l’interesse è di tutti i creditori fatto valere dal singolo. In tal caso, ove sussista una miglior tutela di tutti i creditori attraverso il concordato, può obiettarsi che il singolo manchi di un interesse specifico. Può all’opponente, per esempio, eccepirsi che i creditori ricaverebbero dalla liquidazione fallimentare una percentuale minore di quella del 40% offerta dal debitore. Questa eccezione è relativa infatti alla convenienza del concordato, la cui valutazione va fatta dal tribunale per la concessione del beneficio, ma essa si contrappone anche all’interesse che giustifica l’opposizione» 162 A. Bonsignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – G. Branca, Commentario alla legge fallimentare, Bologna – Roma, 1979, sub art. 180, 399 e ss il quel osserva che le opposizioni non possono costituire alcun cumulo obiettivo perché non hanno un oggetto distinto da quest’ultimo, ma sempre lo stesso: legittimità e convenienza del concordato. Per tale autore l’unitarietà del processo, che già emerge indubbiamente dall’analisi della struttura formale, dipende dall’unitarietà dell’oggetto, sia pure prospettato dall’opponente con segno negativo, proprio perché le opposizioni concernono quella stessa illegittimità o dannosità del concordato, che è considerata sia pure con segno positivo nell’omologazione. In termini, in parte diversi, G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, II, 804 per il quale invece: «il giudizio di omologazione ha carattere unitario, anche se coesistono due aspetti diversi nel giudizio stesso e cioè: quello relativo all’omologazione e quello relativo al contraddittorio eventuale. Solo per motivi di ordine processuale i due giudizi sono unificati e unica risulta l’udienza di comparizione»; v. anche R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. IV, 2300, per il quale il carattere unitario deriva dal fatto che l’opposizione “nasce” dall’omologazione. 86 In altri e più concreti termini, l’opponente, diversamente dal debitore, aveva l’onere di allegare e provare che non sussistevano le condizioni di legittimità o di merito per omologare la proposta di concordato approvata dalla maggioranza. Le domande del debitore e quella dell’opponente non avevano a oggetto due distinti diritti sostanziali generati da un medesimo fatto costitutivo. Le domande di omologazione e quella di opposizione non erano neppure legate da alcun rapporto di connessione (163). Ora, alla luce delle considerazioni sin qui svolte è possibile ricavare un ulteriore e prezioso dato per rispondere all’interrogativo posto sopra: il giudizio di omologazione era finalizzato unicamente ad accertare la correttezza formale dell’iter procedimentale e a valutare la sussistenza della convenienza della proposta e la fattibilità del piano. L’opposizione non dava luogo ad alcun cumulo obiettivo all’interno al giudizio di omologazione, in quanto la richiesta di opposizione non aveva un oggetto distinto dalla richiesta di omologazione, ma sempre lo stesso: l’accertamento (negativo) delle condizioni di legittimità e convenienza del concordato (164). La ratio della trattazione congiunta non risiedeva quindi nell’opportunità di esaminare una pluralità di domande connesse tra loro (165) e, men che 163 A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit., 401 il quale ritiene che mediante l’opposizione gli interessati possono richiamare l’attenzione Tribunale sui singoli fatti di illegittimità e sconvenienza, con il solito effetto proprio di ogni domanda giudiziale, in quanto, riguardo gli eventi in questione e nei limiti delle relative allegazioni, il tribunale fallimentare ha il potere-dovere di provvedere, che si sovrappone a quello d’ufficio sullo stesso oggetto. 164 Cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 1882; A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 399, che affrontando il profilo dell’oggetto e della legittimazione rileva subito come per il concordato preventivo sia possibile operare un richiamo a quanto detto in riferimento al concordato fallimentare: «Ciò specie per quel che concerne il rapporto fra opposizioni e omologazione, perché si tratta non soltanto di un processo che ha un oggetto unitario, dato dalla legittimità e dalla convenienza del concordato preventivo, con la peculiarità, però, che quest’ultimo è presentato dagli eventuali opponenti con segno negativo, nel senso appunto che le opposizioni stesse concernono l’illegittimità o la dannosità del concordato preventivo stesso». 165 Cfr. G. Ragusa - Maggiore, Diritto fallimentare, II, cit. 1052 per il quale: «L’istruttoria per la concessione del concordato si svolge in unico contesto e in via parallela 87 meno, nell’esistenza di un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra la domanda di omologazione e quella di opposizione (166). La ragione dell’unitarietà in parola risiedeva, invece, nell’identità dell’oggetto delle antagoniste richieste di accertamento avanzate tanto dal debitore, quanto dagli opponenti (167). La richiesta di omologazione e la richiesta di opposizione avevano lo stesso oggetto: la proposta avanzata dal debitore e approvata dalla maggioranza dei creditori. Tra le due richieste sussisteva un rapporto analogo a quello che nel giudizio ordinario sussiste, da un punto di vista generale, tra azione ed eccezione (168). Ma l’opposizione non poteva essere considerata un’eccezione in senso tecnico, vale a dire, uno strumento per veicolare all’interno del processo fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del fatto costitutivo affermato con l’altra relativa alle opposizioni all’omologazione, secondo gli stessi criteri già indicati a proposito del concordato fallimentare. É infatti giusto che il tribunale abbia una visione completa di tutti gli interessi incidenti nel concordato e poiché la concessione di esso risulta da una comparazione di tali interessi, giudizio di omologazione e di opposizione all’omologazione si svolgono contestualmente». 166 R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, III, 1875, il quale trattando della fase introduttiva del concordato fallimentare rileva che: «Si è dubitato se, in difetto di opposizione, occorra iscrizione a ruolo (del c.d. giudizio di omologazione). Dato che questo procede con le forme del processo ordinario di cognizione, non vedo come, altrimenti, si potrebbe portare all’udienza la causa a cognizione del collegio. Costituito che sia il curatore in questo giudizio, tale costituzione si estende anche a quello di opposizione; analogamente, costituitosi il curatore nella causa di opposizione al concordato, tale costituzione vale anche per il giudizio di omologazione; ciò per la unitarietà del processo sulla c.d. «omologazione» del concordato, di cui l’opposizione non rappresenta che uno sviluppo, che può anche non effettuarsi, ma che, se sussiste, si inerisce senza soluzione di continuità nel procedimento, di carattere necessario, sulla c.d. “omologazione” (rectius concessione)». 167 Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 411, per il quale nel concordato preventivo in fondo: «vi è un processo con pluralità soltanto eventuale di parti: il debitore, e il commissario giudiziale, devono sempre parteciparvi, mentre la presenza di opponenti dipende dalle circostanze; peraltro, se opposizioni vi siano, il giudizio resta sempre unico, data l’unitarietà dell’oggetto, puntualmente rappresentata dalla disposizione in esame, unitarietà che sfocia, infine, nella già menzionata unicità della sentenza, tanto se sia di omologazione del concordato preventivo, quanto se, invece, risulti di conversione in fallimento. Con la non indifferente conseguenza pratica, sempre nell’ipotesi di opposizione, dell’applicabilità sia in primo grado, sia in fase di impugnazione, della disciplina del litisconsorzio necessario». 168 In questo senso: Trib. Catania, 29 settembre 1989, in Dir. fall. II, 1990, 310 e ss 88 dall’attore. Ciò dal momento che nel processo di concordato preventivo, non era (e non è tutt’ora) possibile individuare un diritto soggettivo di natura sostanziale fatto valere dall’imprenditore con il ricorso (169). L’opposizione invece serviva soltanto per richiamare l’attenzione del Tribunale sui singoli presupposti di legittimità, convenienza e fattibilità, che avrebbero potuto, comunque, essere oggetto d’indagine in sede di omologazione, anche su stessa iniziativa ufficiosa (170). 3.2 - La disposizione dell’art. 180 l.fall. è stata modificata una prima volta ad opera del decreto legge del 14 marzo 2005, n. 35. Nella previgente disciplina dopo la fase di approvazione, il giudice delegato doveva fissare una nuova udienza avanti a sé, rispetto alla quale chi voleva opporsi all’omologazione doveva notificare l’atto di citazione e costituirsi almeno cinque giorni prima. Dopodiché, il giudice delegato doveva fissare l’udienza innanzi al collegio e il procedimento sarebbe proseguito con le forme della disciplina dettata dagli artt. 183 c.p.c. e seguenti del codice di rito. Il c.d. «Decreto competitività» aveva previsto che dopo la chiusura della fase deliberativa il Tribunale doveva fissare un’udienza in camera di consiglio per la comparizione del debitore e del commissario giudiziale. Il 169 V. però: S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 290, secondo cui: «Il concordato preventivo è una misura di favore accordata dalla legge al debitore insolvente: come tale, il ricorso al concordato costituisce un suo diritto che si oppone a quello dei creditori di chiedere sia l’esecuzione singolare sui beni, sia l’esecuzione collettiva, e prevale su di esso. Con l’esecuzione ha comune il fine, che è la soddisfazione dei creditori, e con la esecuzione collettiva ha comune il mezzo, che è la destinazione di tutto il patrimonio a questa soddisfazione. Ciò che lo distingue nettamente è il modo col quale questa destinazione è realizzata: perché mentre nell’esecuzione collettiva ciò si raggiunge attraverso la liquidazione del patrimonio e la distribuzione del ricavato fra i creditori, nel concordato preventivo si ha una attribuzione convenzionale di valore al patrimonio medesimo»; la ricostruzione dell’A. poc’anzi citato è stata ripresa dopo la riforma da M. Fabiani, Contratto e processo nel concordato fallimentare, Padova, 271 il quale afferma che nel giudizio di omologazione si è di fronte ad un processo sommario nelle forme la l’oggetto è alquanto attiguo alla cognizione piena: «perché lì si tratta di accertare se esiste il potere del debitore di veder modificata la regolazione delle proprie obbligazioni». 170 A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 403 e più approfonditamente 411. 89 relativo provvedimento doveva essere affisso all’albo del Tribunale e notificato al commissario giudiziale e agli eventuali creditori dissenzienti a cura del debitore. Quest’ultimo, il commissario giudiziale, gli eventuali creditori dissenzienti e qualsiasi altro interessato dovevano costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata, depositando una «memoria difensiva» contenente le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio e l’indicazione dei mezzi di prova. La nuova disposizione dell’art. 180 l.fall. riconduceva il rapporto intercorrente tra il debitore e i creditori al tipico schema della dialettica azione-eccezioni. La modifica dell’art. 180 l.fall. consentiva di superare ogni dubbio sulla tipologia del rapporto intercorrente tra le richiesta di omologazione e quella di opposizione. Successivamente, però, l’art. 180 l.fall. è stato modificato ad opera del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169. L’attuale formulazione prevede che i creditori dissenzienti e qualsiasi altro interessato devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata dal Tribunale per la comparizione delle parti. Non è più prevista alcuna disciplina del contenuto dell’atto. L’opposizione dovrà essere proposta, almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata dal Tribunale, tramite una memoria di costituzione contenente le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio. L’impiego del termine «eccezione», in realtà, risulta improprio e necessità di essere chiarito. Nel ricorso per accedere al concordato preventivo non può essere effettuata alcuna allegazione di fatti costitutivi di un diritto soggettivo, in quanto non sussiste e non può essere vantato un “diritto soggettivo alla regolazione del dissesto secondo nelle forme del concordato preventivo” (171), per cui non possono neanche esistere fatti impeditivi, estintivi e 171 V. però nota 53. 90 modificativi della pretesa dell’attore. Le disposizioni degli artt. 160 l.fall. e ss. hanno natura eminentemente processuale e disciplinano la modalità (i.e. lo strumento) per giungere alla conclusione di un negozio sulla crisi d’impresa. Ciò non toglie che si possa continuare ad utilizzare l’espressione «eccezioni processuali e di merito» per definire il contenuto dell’atto di opposizione anche dopo il decreto correttivo, ma occorre essere consapevoli che tale dicitura non implica l’esistenza di fatti idonei a contestare un fatto costitutivo posto a fondamento della pretesa di omologazione del concordato. Il significato dell’espressione «eccezioni sollevabili dall’opponente» va quindi ricavato con precipuo riferimento all’oggetto della domanda di omologazione, tenuto conto, altresì, che questa non assume i connotati di un’azione di accertamento di un diritto soggettivo vantato dall’imprenditore in crisi. Le nuove disposizioni non chiariscono, per vero, quale sia l’oggetto del giudizio di omologazione. Di contro, possono essere rinvenuti una serie di dati, dai quali occorre muovere, precisamente: a) dall’indubbia conflittualità che caratterizza il procedimento in presenza di opposizioni non si può far discendere sic et simpliciter l’esistenza di un cumulo (oggettivo) di diritti contrapposti, posto che esistono settori della giurisdizione civile in cui la conflittualità può anche vertere su interessi ontologicamente diversi dai diritti (172); b) 172 Cfr. art. 82 c.c e art. 181 c.c. e la classificazione operata da A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 421, il quale osserva che in tali ipotesi l’intervento del giudice interviene: «in una situazione di conflitto d’interessi virtuali, quale ad esempio nell’ipotesi di autorizzazione del matrimonio del minore che abbia compiuto il sedicesimo anno (art. 82 c.c.), o di conflitto reale di interessi, quale ad esempio l’autorizzazione con cui si supplisce al rifiuto di consenso di un coniuge in regime di comunione legale al compimento di un atto di straordinaria amministrazione la cui stipulazione sia “necessaria nell’interesse della famiglia o dell’azienda” (art. 181 c.c.). In queste ipotesi si è in presenza di procedimenti bi o plurilaterali, in situazione di conflitti virtuali o reali d’interessi, tramite i quali si chiedono sempre al giudice valutazioni di opportunità a “negozi” da compiere. Il 91 l’esame della disciplina legale (abrogata e in vigore) riservata allo strumento dell’opposizione - per le ragioni addietro svolte - mostra come né con la richiesta di omologazione, né con le opposizioni le parti richiedono (e, men che meno, possano richiedere) l’accertamento dei loro diritti soggettivi di natura sostanziale; c) tra la richiesta di omologazione e quella di opposizione sussiste un rapporto lato senso analogo a quello che nel giudizio ordinario s’instaura tra azione ed eccezione, per cui la proposizione delle opposizioni non è idonea a mutare l’oggetto del giudizio di omologazione. Va poi aggiunto che: i) quanto previsto dal terzo comma dell’art. 180 l.fall. laddove si attribuisce al Tribunale il compito di verificare la regolarità della procedura e l’esito della votazione non costituisce, a ben vedere, un dato esegetico risolutivo, in quanto l’ampiezza o la profondità del sindacato che il giudice può operare, non sono affatto indici decisivi per la determinazione dell’oggetto del giudizio di omologazione; ii) il concordato incide senz’altro sui diritti di tutti creditori e degli altri interessati ma solo se omologato, in forza di quanto dall’art. 184 l.fall. Occorre, poi, osservare che: a) l’incisione dei diritti soggettivi dei creditori e degli altri interessati avviene sempre conformemente alla proposta formulata dal debitore e approvata dalla maggioranza; b) l’efficacia intra ed ultra partes dell’accordo è sempre subordinata alla concessione del provvedimento di omologazione. Alla luce delle considerazioni che precedono è possibile concludere agevolmente nel senso che l’unico l’oggetto sul quale deve concentrarsi il sindacato giurisdizionale è l’accordo raggiunto tra il debitore e i suoi creditori. provvedimento del giudice è destinato, poi, ad integrare uno degli elementi costitutivi di atti negoziali. 92 4.- Dopo aver compiuto l’esame della nuova struttura e aver tentato di portare in luce l’oggetto del giudizio di omologazione, è giunto il momento di arrestare il percorso esplorativo e riflettere sulle implicazioni sistematiche che derivano dai risultati conseguiti. Occorre, cioè, interrogarsi sulla fenomenologia del giudizio di omologazione, la cui natura è notoriamente controversa. L’uso del sostantivo «natura» viene, però, impiegato nel significato meno entificante possibile: per natura dell’istituto si intende quel micro-sistema di regole che caratterizzano l’istituto, di volta in volta, in via normativamente tipica. L’indagine sulla natura del giudizio di omologazione consente di individuare i tratti normativi salienti in virtù dei quali è possibile accostare l’istituto in questione a un ben preciso micro-sistema già presente nell’ordinamento. Lo scopo ultimo dell’indagine è proprio quello di individuare quale sia tale micro-sistema, al fine di poter procedere poi, per via di ortopedia ermeneutica, al completamento delle disposizioni di legge incomplete o contraddittorie del giudizio di omologazione, proprio come si trattasse di procedere ad integrare le parti mancanti di una veste alla luce della tipica e nota trama che tale veste deve avere per essere ricondotta al genus. Sulla scorta dei risultati conseguiti, gli elementi normativi a cui dare rilievo ai fini qualificatori sembrerebbero i seguenti: a) né con la richiesta di omologazione, né con le opposizioni, le parti esercitano un’azione di cognizione con la quale richiedono l’accertamento dei loro diritti soggettivi; b) la conflittualità che si origina per effetto delle opposizioni sull’oggetto del giudizio non può, di per sé sola, far propendere per la natura contenziosa del procedimento, posto che, pacificamente, anche l’attività giurisdizionalvolontaria può essere svolta in presenza di un conflitto di interessi tra le parti; 93 c) il concordato omologato in forza dell’art. 184 l. fall. incide sui diritti dei creditori e dei terzi; d) non è prevista la possibilità di proporre il ricorso ordinario in cassazione avverso il decreto della Corte d’appello emesso in sede di reclamo; e) la struttura del giudizio di omologazione non presenta i presupposti sistematici per ricollegare al decreto di omologazione l’efficacia di giudicato formale; A questi rilievi deve essere aggiunta una ulteriore considerazione di carattere sistematico: la tradizionale dicotomia tra giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria (173), fondata su: a) i diversi oggetti delle due 173 L’esigenza di procedere ad una netta demarcazione tra giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria sorse a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile, ove, diversamente quanto previsto nell’abrogato codice di rito, l’espressione «giurisdizione volontaria» fu sganciata dal procedimento camerale, e fu ricondotta esclusivamente: a) nell’art. 801 c.p.c. - oggi abrogato - che prevedeva che «Agli atti dei giudici stranieri in maniera di volontaria giurisdizione, quando si vuole farli valere in Italia, è attribuita efficacia nella Repubblica a norma degli artt. 796 e 797 in quanto applicabili; b) nell’art. 32 disp. att. c.c. ove si prevede che: «Il pubblico ministero deve essere sempre sentito nei procedimenti di volontaria giurisdizione riguardanti il fondo patrimoniale» e negli artt. 35 e 36 D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200. La scelta del legislatore ha poi dato origine alla nota “disputa” dottrinale sorta negli anni ’40 sulla “natura” della giurisdizione volontaria, cfr. G.A. Micheli, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc. civ. 1947, I, 18; Forma e sostanza della giurisdizione volontaria, ivi, 101, e ss, secondo il quale la giurisdizione ha come caratteristica peculiare l’imparzialità del giudice e ciò può essere riscontrato anche nella giurisdizione volontaria; contra E. Allorio, Giudizio divisorio e sentenza parziale con pluralità di parti, in Giur. it 1946, I, 79 (anche in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 475); Id. Saggio polemico sulla «giurisdizione» volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, 486, per il quale invece: «La “giurisdizione” volontaria è attività amministrativa, ossia sprovvista di cosa giudicata, perché risultato d’un procedimento inidoneo a giustificare quest’ultimo effetto, assegnata però per competenza a organi abitualmente giurisdizionali, che cioè normalmente adempiono un’attività giurisdizionale in senso proprio, produttrice della cosa giudicata». La disputa può dirsi ormai superata non residuando più dubbi sul carattere giurisdizionale della giurisdizione volontaria v. V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 55 sia per la «etraneità del giudice e dell’attività sua all’interesse o agli interessi, la cui tutela costituisce l’oggetto del provvedimento (art. 101, comma 2°, cost.)», sia per il «principio della domanda, nel quale si è constatato sussistere la caratteristica differenziale della giurisdizione da altre forme di garanzia dell’ordinamento costituito»; v. anche: L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, in F. Vassalli, Trattato di diritto civile italiano, Torino, 1985, 17; A. Proto-Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 e ss. c.p.c. cit. 396 che preferiscono distinguere tra «funzioni giurisdizionali costituzionalmente necessarie» e 94 attività giurisdizionali (diritti soggettivi, da un lato, e meri interessi, dall’altro lato) (174); b) nonché sui rispettivi e diversi risultati (certezza giuridica dell’accertamento in forma di autorità di cosa giudicata, da un lato, e massima convenienza/opportunità dell’accertamento garantita da provvedimenti revocabili in ogni tempo, dall’altro) (175); non consente una corretta sistemazione delle ipotesi in cui: «funzioni giurisdizionali costituzionalmente non necessarie»; contra: E. Fazzalari, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc. civ. 1988, 909 e ss spec. 914 che: «il solo riferimento al soggetto delle due attività non può certo colmare il vallo che le divide, e che è scavato proprio in punto di garanzie»; Id. Uno sguardo storico e sistematico, relazione al convegno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile (Palermo, 6-7 ottobre 1989), sul tema I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti, in Atti del XVII Convegno nazionale, Milano, 1991. 174 Nel vigore del codice di rito abrogato v. G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, 316, per il quale «gli atti di giurisdizione volontaria tendono sempre alla costituzione di stati giuridici nuovi, e cooperano allo svolgimento di rapporti esistenti», precisamente, «la costituzione o svolgimento di stati giuridici che avviene nella giurisdizione volontaria non attua un diritto che spetti a Tizio contro Caio», in quanto gli atti di giurisdizione volontaria possono essere divisi in quattro categorie: a) gli atti di intervento dello Stato nella formazione dei soggetti giuridici, segnatamente il riconoscimento delle persone giuridiche; b) gli atti di integrazione della capacità giuridica, in cui sono inseriti gli atti a tutela delle persone fisiche incapaci; c) gli atti di intervento nella formazione dello stato delle persone, in cui sono inseriti l’adozione, il matrimonio, la tenuta dei registri dello stato civile; d) gli atti di partecipazione al commercio giuridico, vale a dire registrazioni ed omologazioni di contratti già stipulati fra privati; nella dottrina pubblicistica v. infatti: E. Zanobini, L’amministrazione pubblica del diritto privato, in Riv. dir. publ. 1918, I, 169 secondo cui gli atti di volontaria giurisdizione sono atti in buona parte discrezionali, la cui adozione competeva all’autorità giudiziaria perché quello che viene perseguito è un interesse essenzialmente privato, ma che per le implicazioni di carattere pubblicistico, viene affidato alla cura di un soggetto, il giudice, normalmente deputato alla cura degli interessi privati; nella dottrina processual-civilistica: E. T. Liebman, Giurisdizione volontaria e competenza, in Riv. dir. proc. 1924, II, 274; nello stesso senso: F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 239 con la nota definizione secondo cui l’intervento dell’autorità giudiziaria opera nelle materie di giurisdizione volontaria per realizzare «l’interesse in conflitto», mentre nella giurisdizione contenziosa avviene per comporre «un conflitto di interessi». Dopo l’entrata in vigore del codice del ’42 v. E. Fazzalari, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, 167, per il quale l’assenza di un diritto soggettivo è assunta ad elemento discretivo, anzi a primo elemento discretivo, della giurisdizione volontaria; E. Allorio, Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e di giudicato, Padova, 1957, 97 e 114 il quale chiaramente afferma che la dichiarazione di un diritto o di uno status è deferita alla giurisdizione e alle forme del processo ordinario; così anche: De Marini, Considerazioni sulla natura della giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc. 1954, I, 275; L. Monteleone, voce Camera di consiglio (dir. proc. civ.), in Nuoviss. Digesto it. Appendice, I, Torino, 1980, 986. 175 Nel vigore del codice abrogato: G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, 319 il quale riteneva che il provvedimento di volontaria giurisdizione fosse 95 i) l’attività giurisdizionale, sebbene si compia nelle forme del rito a cognizione piena ed esauriente e i rispettivi provvedimenti possano acquisire l’idoneità al giudicato formale, si sostanzia in verifiche, controlli e valutazioni di opportunità su atti tra privati (176); ii) l’attività giurisdizionale, sebbene non sia svolta nelle forme del rito ordinario e non sia direttamente rivolta all’accertamento di diritti soggettivi, sempre revocabile dal giudice nella gestione dell’interesse pubblico affidatogli. Tale impostazione ha avuto forte eco in sede di redazione del codice di procedura del ’42, cfr. S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, IV, 2 Milano, 1969, 47, il quale sostiene che l’art. 742 c.p.c. «deriva direttamente da Chiovenda e dalla sua concezione della giurisdizione volontaria»; v. poi: E. T. Liebman, Impugnazione in sede contenziosa del provvedimento di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc. 1953, II, 95; E. Allorio, Saggio polemico sulla giurisdizione volontaria, cit. 510 ha individuato la caratteristica essenziale della giurisdizione nel giudicato, che non è invece ravvisabile nel processo volontario; E. Fazzalari, La giurisdizione volontaria, cit. 115; più di recente v. A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ. 1987, 447 il quale a definito il reclamo previsto dall’art. 739 c.p.c un «atrofizzato mezzo di controllo» da cui discende che «Il regime dell’impugnazione camerale regge due implicazioni di tenore negativo: da un lato, esclude ogni possibilità di sussunzione nello schema del giudicato, sia formale sia sostanziale; dall’altro, rende inapplicabile la regola di assorbimento delle nullità»; nello stesso senso: A. Proto - Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 c.p.c, cit. 419 il quale osservare che: «Revocabilità e modificabilità in ogni tempo significa niente altro che assenza del giudicato formale (e della operatività del principio dell’assorbimento delle nullità ex art. 161, comma 1°, c.p.c.) e del giudicato sostanziale (ed in specie della preclusione del dedotto e del deducibile)», in particolare preme richiamare che per l’A. «L’assenza del giudicato formale è una conseguenza sia della discrezionalità cui è improntata la quasi totalità della disciplina del procedimento e quindi della sua non controllabilità in iure della (coerente) non ricorribilità in cassazione. Ancora, l’assenza del giudicato sostanziale è una conseguenza sia dell’assenza del giudicato formale, sia della mancata previsione della possibilità di svolgimento in via di opposizione eventuale di un processo a cognizione piena»; così: L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ. 1986, I, 618; per un completo approfondimento v. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, Padova, 1994, passim. 176 Cfr. A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 483: «invero il legislatore è tenuto a rispettare un minimo di garanzie, ma è libero nel dispensarle in maggior copia e misura di quanto è comunque necessario. In ispecie può estendere le forme, dovute per materie che si soggettivano in diritto e status, anche alla giurisdizione volontaria. E sarà indotto a farlo in relazione a più puntuali esigenze che, a grandi linee, si rifondono in un comune denominatore: la gravità di essenza, estensione, persistenza dell’effetto giudizialmente statuito [...] Si disegna, così, il fenomeno dei processi “a contenuto oggettivo”»; per la definizione in chiave sistematica di maggior respiro v. F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, 81, ed in Riv. dir. civ. 1988, I, 495 96 i rispettivi provvedimenti giudiziali finiscono con incidere su situazioni giuridiche soggettive sostanziali perfette (177). Sulla scorta delle osservazioni poc’anzi formulate è dunque possibile passare ad indagare la natura del procedimento di omologazione del concordato preventivo. Al riguardo le posizioni rintracciabili sia prima, che dopo le recenti riforme sono piuttosto variegate. 177 Le predette ipotesi sono state ricondotte nell’ambito di un tertium genus di giurisdizione, c.d. «oggettiva», elaborata da: E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prima dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, Vol. I, Milano, 1957, 116; tale categoria è stata ripresa ed sviluppata da: L. Montesano, La tutela giurisdizionale del diritti, cit. 17; Id. Sull’efficacia, sulla revoca, cit. 598, il quale osserva che: «Non pochi provvedimenti conclusivi di procedimenti in camera di consiglio o comunque di procedimenti più affini a questi che ad altri hanno efficacia ben diversa da quella dei provvedimenti la cui assegnazione ala giurisdizione volontaria si è tratta dalla esegesi e dalla estensione sistematica di espliciti discorsi legislativi, cioè non predispongono o realizzano elementi di una fattispecie il cui elemento finali o principale è un atto di diritto sostanziale, ma integrano di per sé soli una compiuta fattispecie di per sé sola produttiva di effetti sostanziale (si pensi alla nomina o alla destituzione del tutore; alle revoche di amministratori; alla fissazione di termini per il compimento di atti o l’emissione di dichiarazioni ex art. 749 c.p.c.; ai provvedimenti camerali che vincolano pubblici funzionari a documentazioni o iscrizioni in registri, per alcuni dei quali si suole parlare di “omologazione” nel senso di approvazione giudiziaria dell’atto di diritto sostanziale da iscrivere e quindi di giurisdizione volontaria non dissimile da quella dei provvedimenti di autorizzazione già richiamati ma, a mio avviso, erroneamente perché la fattispecie complessa, di cui l’atto di diritto sostanziale è elemento principale, è integrata non dal provvedimento che ordina la documentazione o iscrizione, ma da questa documentazione o iscrizione, mentre il provvedimento giudiziario è di per sé compiuta fattispecie costitutiva o meglio cognitiva-costitutiva del dovere di documentare o di iscrivere: così è, ad esempio, per la cosiddetta omologazione degli atti costitutivi delle società per azioni: art. 2330, commi 3° e 4°, c.c.)»; Id. “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc. 1988, 915 e ss; contra E. Fazzalari, Profili della giurisdizione volontaria, in La volontaria giurisdizione - casi e materiali - a cura della Scuola di notariato A. Anselmi di Roma, Milano, 1997, 12 e ss. ma v. spec. 13 in cui l’A. afferma come inutili i tentativi di «definire la giurisdizione volontaria attraverso metafore» riferendosi appunto a chi «definisce la giurisdizione volontaria come giurisdizione in senso oggettivo [...] con ciò [...] espropria[ndo] la giurisdizione volontaria di una grossa provincia, per spostarla sul terreno della giurisdizione; però lasciando ferme le regole di cui disponiamo, cioè quelle che ci vengono somministrate dal codice e da altre fonti normative. Cosicché, dal punto di vista delle linee generali, le cose restano come stanno», le critiche ricevute hanno sollecitato un pronta risposta, v. L. Montesano, Giudizi camerali su atti e gestioni di società e tutela giurisdizionale di diritti e di interessi, relazione introduttiva al Convegno organizzato dal Centro di ricerca per il diritto di impresa della LUISS (Roma, 5 febbraio 1999) su “La denunzia al tribunale per gravi irregolarità (art. 2409 c.c.)” Rapporti tra volontaria giurisdizione e autonomia privata -”, consultabile su archivioceradi.luiss.it. e pubblicata in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, 819. 97 Secondo una prima lettura, il procedimento di omologazione del concordato dovrebbe essere ascritto nella giurisdizione volontaria (178). Di contro, secondo altra impostazione, il procedimento avrebbe natura contenziosa e decisoria (179). Secondo altra opinione, occorrerebbe distingue tra il caso in cui vi siano opposizioni e quello in cui - al contrario - queste manchino: solo nella prima ipotesi il procedimento avrebbe carattere decisorio (180). 178 I. Pagni, Sub art. 179-180-181, in C. Cavallini, (diretto da) Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 704 e ss. spec. 722; Ea. Sub art. 183, ivi, 861; Ea. Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, in V. Buonocore - A. Bassi, (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, I, Padova, 2010, 558. 179 A. Carratta, Procedure concorsuali (riforma delle), II) profili processuali, in Enc. giur. Roma, 2006, 6, per il quale nel giudizio di omologazione: «si è senza dubbio in presenza di esercizio di funzioni propriamente giurisdizional-contenziose del tribunale, perché si tratta di accertare se sussistono i presupposti per ammettere l’imprenditore al trattamento “privilegiato” del concordato preventivo, dopo avere esaminato le eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti», per l’A., inoltre, «L’assunzione delle “informazioni” e delle “prove” in tanto si giustifica, in quanto si individui l’oggetto del giudizio di omologazione non nel solo controllo della regolarità formale della procedura ed il raggiungimento delle maggioranza, ma anche nella valutazione di effettiva fattibilità del piano presentato dal debitore, a tutela della situazione giuridica dei creditori dissenzienti e di qualsiasi interessato», per tale A., infatti, alla luce di questa considerazione, «il procedimento diretto all’omologazione del concordato preventivo va improntato alle forme del giudizio a cognizione piena ed esauriente»; sebbene riferito alla formulazione anteriore al c.d. “decreto correttivo” d. lgs. 169/07 v. anche: M. Fabiani, L’impugnazione del decreto di omologazione nel concordato preventivo, in Fall. 2006, 1085; Id. Contratto e processo nel concordato fallimentare, Padova, 2009, 271 per il quale la struttura e l’oggetto del giudizio di omologazione del concordato preventivo si differenziano da quelli del concordato fallimentare perché «Nel primo caso ci troveremmo di fronte ad un processo sommario nelle forme - ma con una struttura contigua a quella del processo a cognizione piena, perché lì si tratta di accertare se esiste il potere del debitore di veder modificata la regolazione delle proprie obbligazioni; nel secondo caso, invece, saremmo al cospetto del più classico dei procedimenti di volontaria giurisdizione, secondo quella nozione più restiva che vi vede sicuramente compresi tutti quei provvedimenti del giudice che esprimono la cooperazione giudiziaria alla formazione della volontà dei soggetti privati»; L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit. 246. 180 G. Bozza, L’omologazione della proposta (i limiti della valutazione del giudice), in Fall. 2006, 1067; La tesi in questione è riscontrabile anche con riferimento al sistema previgente nel quale l’omologazione del concordato preventivo, in assenza di opposizioni, veniva inteso come un procedimento (non camerale) di volontaria giurisdizione, pur essendo svolto nelle forme del rito ordinario e con la peculiarità della sua conclusione con sentenza assoggettata agli ordinari mezzi di gravame (Cfr. Cass. 15 gennaio 1985, n. 67, in Fall. 1985, 640), per assumere invece, in presenza di opposizioni, natura mista, di giurisdizione volontaria e contenziosa (Cfr. Trib. Isernia, 2 maggio 1990, i Giust. civ. 1991, I, 761) 98 La ricostruzione da ultimo proposta non convince. Dai risultati conseguiti emerge che, tanto nel sistema abrogato, quanto nel sistema in vigore, l’opposizione, pur evocando certamente profili di conflittualità tra i creditori e il debitore, non mutava, né attualmente muta, l’oggetto del giudizio di omologazione. Sia in presenza di opposizioni, sia in assenza, l’oggetto del giudizio di omologazione non può che rimanere, in ogni caso, ancorato all’accordo concluso tra il debitore e i creditori (181). Le opposizioni, infatti, conservano la tradizionale funzione di allargare la base fattuale utilizzabile dal Tribunale per formare il proprio convincimento (182). Dopo le recenti riforme la funzione delle opposizioni è ancora più marcatamente chiara: il rimedio in parola serve a introdurre questioni di fatto che l’opponente ritiene utili al fine di rimettere in discussione ciò che stato oggetto di discussione e votazione in seno all’adunanza dei creditori. L’opponente può allegare questioni di fatto identiche a quelle che il commissario giudiziale può sottoporre all’attenzione del giudice nel proprio parere motivato, ex art. 180, comma 2°, l. fall. (o tramite la segnalazione al Tribunale del venir meno delle condizioni di ammissibilità del concordato, come gli impone l’art. 173 l.fall.) 181 Cfr. I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, in V. Buonocore - A. Bassi (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, 2010, Padova, 583; P. Pajardi – A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. ove si afferma espressamente: «Quanto alla natura del giudizio non pare onestamente che ne cambi la sostanza a seconda che vi siano o meno opposizioni, cambia la sua complessità e la possibilità di assumere prove, il cui ingresso pare limitato alla sola ipotesi che vi siano opposizioni, ma non pare che il contenuto del giudizio del tribunale possa sensatamente variare nel suo contenuto proprio, in quanto non è teso strutturalmente alla tutela diretta dei diritti violati, quanto a garantire un controllo di legittimità che è suscettibile di incidere su diritti soggettivi perfetti». 182 Nella disciplina originaria le opposizioni consentivano di veicolare questioni di fatto da sottoporre all’attenzione del Tribunale al fine di impedire l’omologazione dell’accordo concluso tra il debitore e la maggioranza dei creditori. Esse, quindi, non mutavano l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale, non consentivano di sottoporre alla cognizione del Tribunale i fatti costitutivi dei diritti vantati dagli opponenti. 99 Volgendo, quindi, lo sguardo verso altri procedimenti di omologazione, è possibile osservare che, in generale, la caratteristica principale di tali giudizi risiede nel fatto che: a) il legislatore ha attribuito al giudice un controllo su un atto negoziale o, ad ogni buon conto, sul contenuto di un atto che è tendenzialmente frutto dell’autonomia privata; b) tale controllo si effettua in un processo di natura non contenziosa, cioè il giudice non è chiamato a dirimere una controversia e a dichiarare diritti soggettivi e obblighi correlativi; c) il giudizio, di regola, si conclude con un provvedimento emanato nelle forme camerali ed è privo di attitudine al giudicato formale e sostanziale, in quanto è impugnabile soltanto con lo strumento del reclamo alla Corte d’appello ai sensi degli art 739 c.p.c., contro il cui relativo provvedimento non è data la possibilità di proporre il ricorso ordinario in cassazione (183). 183 Possono essere collocati in tale categoria, ad esempio, il giudizio di omologazione dell’accordo dei coniugi che decidono di separarsi, ovvero, quello della transazione sulla falsità del documento oggetto del giudizio di falso, prevista dall’art. 1968 c.c.; rientrava, inevece, in tale tipologia di giudizi il controllo del Tribunale sugli atti costitutivi delle società prima che venisse abrogato a norma della legge 24 novembre 2000, n. 340. V. anche A. Proto – Pisani, Usi e abusi della procedura camerale, cit. 423, il quale osserva che in tali ipotesi: «il giudice non è chiamato ad assicurare la tutela giurisdizionale di diritti o status violati (o anche meramente contestati), non a risolvere controversie relative a diritti o status, bensì a gestire interessi di minori, incapaci, patrimoni separati, gruppi collettivi. Al giudice non si chiede di accertare una fattispecie concreta legislativamente disciplinata, non si chiede di accertare – se del caso in via di accertamento costitutivo – una concreta e preesistente volontà concreta di legge, bensì si chiede qualcosa di radicalmente diverso: effettuare valutazioni di opportunità in ordine alla gestione di interessi a lui eccezionalmente devoluta. Questo tanto in ipotesi di procedimenti unilaterali, quanto in ipotesi di procedimenti bilaterali; tanto allorché la gestione di interessi può entrare in conflitto solo con meri interessi altrui, quanto allorché essa incide su diritti o status altrui. In casi di specie, situazioni di diritto soggettivo o status possono venire in considerazione o perché costituiscono il presupposto dell’attività di gestione (es. qualità di coniuge, di genitore, di socio etc.), o perché su di esse incide l’attività di gestione (es. revoca per giusta causa dell’amministratore di condominio o di società, di sindaci etc.). Il proprium delle funzioni esercitate dal giudice nelle fattispecie in esame non è però mai l’accertamento previo o tantomeno l’incisione dei diritti soggettivi o status, bensì è la gestione di interessi»; v. però L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, cit. 597, per il quale a tal proposito afferma che i: «provvedimenti [che] concludono procedimenti che non sono messi in moto da richieste di tutela di diritti soggettivi o solo di diritti soggettivi, ma insieme avvertendo che le loro incidenza su diritti soggettivi comporta la necessità sistematica, anzi, di legittimità costituzionale, che quei procedimenti o abbiano in sé le caratteristiche 100 Tornando al concordato preventivo, alla luce di quanto richiamato, appare, quindi, evidente come la natura del giudizio di omologazione non possa cambiare in dipendenza della proposizione delle opposizioni (184). Il Tribunale, infatti, non è mai chiamato ad accertare i fatti costitutivi dei diritti soggettivi delle parti del procedimento. Anche se sono proposte opposizioni, il giudizio di omologazione continua ad avere come oggetto il negozio concluso tra il debitore e i creditori (185). Ciò non significa che l’ampiezza del controllo giurisdizionale deve essere limitata al mero riscontro della regolarità formale del procedimento e della documentazione prodotta. Il nuovo dato positivo, invece, se letto adeguatamente in chiave sistematica, induce a ritenere che il Tribunale abbia, in realtà, il compito di effettuare una valutazione più penetrante sulla soluzione proposta. Il concordato preventivo una volta omologato «incide» sui diritti soggettivi dei creditori di minoranza e di coloro che non hanno partecipato alla votazione (c.d. «terzi-creditori» all’accordo), rispetto ai quali non è possibile giustificare l’incisione della loro situazione giuridica soggettiva in virtù del principio dell’autonomia privata (186). sufficienti a farne “dovuti processi legali” a tutela dei diritti incisi o che questa tutela sia assicurata in via di ordinaria azione civile contenziosa atta a rimuovere le lesioni dei diritti inerenti al provvedimento di giurisdizione “oggettiva”»; su quest’ultima categoria, in senso contrario v. E. Fazzalari, Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc. 1988, 915. 184 In questo senso: I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, in V. Buonocore - A. Bassi (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, Padova, 2010, 558 ss per la quale: «L’opposizione, insomma, evoca certamente profili di conflittualità con i creditori, ma non trasforma la natura del procedimento da “volontaria”, nel senso precisato a contenziosa (a meno che non si voglia intendere la giurisdizione non contenziosa come una giurisdizione che si svolge in assenza di conflitto: il che non è, sol che si pensi all’ipotesi dell’art. 2409 c.c). Non ne muta, infatti, l’oggetto, che rimane saldamente individuato nell’accordo raggiunto tra debitore e creditori, cui l’omologa si propone di attribuire efficacia». 185 Così, I. Pagni, Il procedimento di omologa (profili processuali), in Fall. 2006, 1078. 186 Cfr. L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit. 16; Id. Sull’efficacia, sulla revoca, e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, cit. 599, che riconduce tali provvedimenti nell’alveo della c.d. giurisdizione “oggettiva”, intendendo con tale qualifica porre l’accento su ciò che i provvedimenti in 101 Ma avuto riguardo alla situazione giuridica soggettiva sostanziale e processuale dei c.d. «terzi-creditori» qualunque natura e struttura che si voglia ricollegare al procedimento - anche per via di ortopedia ermeneutica rischia di risultare erronea e inadeguata alla tutela dei loro interessi. L’incisione della situazione giuridica soggettiva dei c.d. «terzi-creditori» non dipende, infatti, dall’accertamento del diritto soggettivo (lato senso potestativo) vantato dall’imprenditore nei confronti di costoro, né, come ovvio, dalla loro adesione alla proposta del debitore, ma è direttamente imputabile alla volontà legislativa, che intende espropriare una parte del loro credito (ex art. 184 l.fall.). In altri termini, l’incisione dei diritti dei c.d. «terzi-creditori» avviene per mezzo del provvedimento di omologazione, che rende unicamente concreta, nel caso di specie, la volontà del legislatore, il quale vuole vincolati al concordato preventivo anche coloro che non hanno dato il consenso alla soluzione negoziata. Stando così le cose, allora, occorre orientare la traiettoria dell’indagine proprio alla ricerca dei presupposti che devono sussistere affinché il Tribunale possa emettere il decreto di omologazione e sancire, così, l’assoggettamento dei c.d. «terzi-creditori» al vincolo negoziale. 5. - Dopo aver affrontato l’oggetto, aver definito il ruolo delle opposizioni e la natura del giudizio di omologazione, possono ormai ritenersi maturi i tempi per avviarsi alla trattazione dello spinoso tema dell’ampiezza del sindacato giurisdizionale. discorso concludono procedimenti che non sono messi in moto da richieste di tutela di diritti soggettivi o solo di diritti soggettivi, ma la loro incidenza su diritti soggettivi comporta la necessità sistematica, anzi, di legittimità costituzionale, che quei procedimenti o abbiano in sé le caratteristiche sufficienti a farne «dovuti processi legali» a tutela dei diritti incisi o che questa tutela sia assicurata in via di ordinaria azione civile contenziosa atta rimuovere le lesioni dei diritti inerenti al provvedimento di giurisdizione “oggettiva”. 102 Tema sul quale, anche solo a volerlo esporre in termini descrittivi, si avverte subito un certo sconforto, in quanto ci si trova di fronte, nuovamente, ad uno scarno testo di legge. Il legislatore infatti si è limitato a prescrivere che «se non sono proposte opposizioni, il Tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame». Nel caso in cui siano proposte opposizioni occorre distinguere a seconda che i creditori siano stati o meno suddivisi in classi. Se i creditori non sono stati suddivisi in classi e l’opposizione proviene da tanti creditori che rappresentano il venti per cento (20%) dei crediti ammessi al voto, costoro potranno contestare la convenienza della proposta. Mentre nell’ipotesi in cui vi sia la suddivisione dei creditori in classi, l’opposizione e la contestazione della convenienza è ammissibile se proviene anche da un solo creditore, ma appartenente a una classe dissenziente. In tale ipotesi il Tribunale dovrà valutare se il creditore opponente potrà essere soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (rectius la liquidazione fallimentare). La previgente disciplina nel giudizio di omologazione, invece, imponeva al Tribunale di accertare la permanenza delle condizioni di ammissibilità, la regolarità della procedura e l’effettivo raggiungimento delle maggioranze, anche in relazione alle eventuali opposizioni proposte dai creditori esclusi; in secondo luogo, imponeva di valutare il contenuto della proposta approvata dai creditori alla luce dei criteri forniti dall’art. 181, n. 1) e 3) l.fall. Il giudice doveva verificare la convenienza economica del concordato per tutti i creditori. La valutazione in parola poteva fondarsi, oltre che sulle attività esistenti e sull’efficienza dell’impresa, anche sul presumibile esito delle azioni revocatorie, delle azioni di responsabilità degli amministratori e dei giudizi pendenti. Il Tribunale, 103 pertanto, poteva concedere l’omologazione solo se avesse riscontrato una - presumibile - maggiore utilità del concordato preventivo rispetto al fallimento (187). In conformità a quanto prescritto dal n. 3) dell’art. 181 l. fall. il Tribunale doveva verificare se le garanzie offerte avessero assicurato l’adempimento del concordato, ovvero, se nel caso del concordato per cessione, i beni offerti fossero stati sufficienti al pagamento dei crediti nelle percentuali prescritte dalla legge. Questo secondo profilo di indagine costituiva, in realtà, una mera specificazione del giudizio di convenienza già descritto poc’anzi (188). Una soluzione concordata avrebbe, quindi, potuto ritenersi conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare solo se le garanzie offerte ne avessero assicurato l’adempimento delle obbligazioni, ovvero, mediante un giudizio prognostico si fosse stimato che la liquidazione dei beni ceduti avesse permesso il pagamento dei creditori almeno nelle percentuali di legge (189). 187 Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 420. In questo senso A. Bosignori, Concordato preventivo, cit. 425, per il quale, tuttavia: «[...] si tratta di una ultroneità, in un testo normativo così scarno come quello qui in esame, che non nuoce, date che serve all’interprete per tenere presenti alcuni temi già dibattuti in passato, come, ad esempio, quello secondo il quale anche un deliberazione favorevole delle garanzie, effettuata all’inizio del procedimento, può non escludere ora una diversa pronuncia, non soltanto perché, come si scrisse esattamente, siano emerse nuove passività, insorte senza dolo o colpa grave del debitore, in quanto gli elementi del patrimonio del debitore subirono una svalutazione, evidentemente dovuta a elementi congiunturali, ovvero per la necessità di prendere in considerazione passività inerenti a rapporti preesistenti, non toccati dal procedimento, e in genere al concorso dei nuovi creditori, ma anche qualora, a seguito di un’istruttoria più approfondita, la consistenza economica di un certo bene si sia dimostrata inferiore alle risultanze precedenti. Inoltre, la sovrabbondante dizione è utile a richiamare l’esegeta al controllo dell’identità fra le garanzie offerte effettivamente prestate e alla necessità che tale calcolo concerna il pagamento integrale dei diritti a collocazione preferenziale, dei crediti privilegiati e della percentuale spettante ai creditori chirografari e degli interessi sulle somme di cui all’art. 160, comma 2°, l.fall». 189 S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 307, per il quale: «L’indagine del tribunale nella omologazione è di legalità e di merito»; G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, cit. 1055; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. 2316. 188 104 Il controllo sulla convenienza, svolto in termini esclusivamente economici, costituiva un giudizio connotato da un’ampia discrezionalità tecnica e di mero fatto, quindi, insidacabile in cassazione (190). Il Tribunale doveva verificare se il concordato avesse permesso a tutti i creditori - non soltanto ad alcuni - di conseguire un vantaggio economico (191). Se il Tribunale riteneva che i creditori avessero potuto conseguire una maggiore soddisfazione dalla liquidazione fallimentare, ad esempio, per effetto dell’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari, senza ritenersi in alcun modo vincolato dal consenso espresso dai creditori, ancorché unanime, avrebbe dovuto negare l’omologazione del concordato (192). Si trattava, come ovvio, di una valutazione di natura prognostica, di ardua difficoltà, rispetto alla quale l’organo giurisdizionale non possedeva certo le necessarie competenze (193). Tuttavia, il controllo economico sulla proposta approvata dai creditori, pur con tutta l’aleatorietà insita nella prognosi poc’anzi descritta, rappresentava un presidio giurisdizionale, caratterizzato dalla imparzialità, volto a controllare le valutazioni già svolte dai creditori singolarmente interessati, potenzialmente non dipendenti solo da un asettico calcolo economico a vantaggio di tutti i creditori (194). 190 Così, giustamente: R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit., 2318, il quale citando, ex plurimis, il precedente di Cass. 15 luglio 1968, n. 2526, in Dir. fall. 196, II, 248, osserva, tuttavia, se in tale giudizio non possano comunque influire più o meno profondamente l’applicazione di norme giuridiche. 191 Parlava, appunto, di vantaggio economico della soluzione concordataria rispetto alla liquidazione fallimentare: R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit, 2318. 192 G. Ragusa - Maggiore, Diritto fallimentare, II, Napoli, 1974, 1057. 193 S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 308, il quale in relazione al giudizio di merito sulla convenienza, osserva, giustamente che: «Ed è, a dir vero, un punto alquanto platonico, perché non si vede su quali elementi il giudizio del tribunale possa essere fondato. Si tratta di una valutazione teorica estremamente complessa, che forse nessuno, tranne la prova dei fatti, e cioè a posteriori, è in grado di dare». 194 A. Bosignori, Concordato preventivo, cit. 420, secondo cui: «[...] la prospettiva di questo giudizio, come per il concordato fallimentare, è sempre quella dell’interesse alla tutela dei creditori, e non già di garantire non meglio identificati interessi pubblici, come quelli volti alla conservazione di una impresa, collocata in un determinato ambito territoriale, per i suoi riflessi sull’occupazione, e, quindi, sull’ordine pubblico, ovvero quelli 105 Quanto appena richiamato impone di verificare se la funzione e il ruolo del giudice nel giudizio di omologazione è mutato per effetto delle recenti riforme. Alla luce di quanto sopra, attualmente, il sindacato giurisdizionale sembrerebbe oscillare tra due opposte sponde: da un lato, in assenza di opposizioni o di opposizioni provenienti da creditori che non rappresentino il venti per cento (20%), secondo l’interpretazione attualmente prevalente, il giudice dovrebbe limitarsi a verificare la regolarità formale della procedura e l’esito delle votazioni; dall’altro lato, nel caso in cui l’opposizione provenga da tanti creditori che rappresentino il venti per cento (20%), ovvero, da un creditore appartenente ad una classe dissenziente che contesti la convenienza della proposta, il giudice dovrebbe compiere, ex officio, il giudizio sulla convenienza economica del concordato. Queste le uniche indicazioni poste dal nuovo art. 180 l.fall. Di fronte alla nuova disposizione dell’art. 180 l.fall. si avverte la sensazione di trovarsi di fronte ad un «diaframma», la cui estensione sembra cambiare in dipendenza della complessità delle questioni sottoposte all’attenzione del Tribunale. L’ipotesi di minore ampiezza coincide con quella di minore complessità delle questioni da risolvere: è il caso in cui non siano proposte opposizioni. Se accade ciò, il legislatore prescrive al Tribunale di verificare la regolarità della procedura e l’esito della votazione. L’ipotesi di maggiore estensione coincide, invece, con quella di maggiore complessità delle questioni sottoposte all’attenzione del Tribunale: è quella in cui un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesti la convenienza della proposta. già legati alle necessità di produrre o commerciare beni reputati di preminente interesse nazionale, etc. etc. É indubbio che si tratti di una prospettiva alquanto miope, ma è l’intero istituto fallimentare che è stato disciplinato legislativamente in questa ristretta dimensione, sicché l’interprete non può mutarlo, a pena di alterare la norma di legge». 106 In tal caso il Tribunale deve verificare se il creditore opponente potrà essere soddisfatto dal concordato - in termini economici - in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili (rectius liquidazione fallimentare). L’intensità del controllo giurisdizionale - a stretto rigore del dato positivo - conoscerebbe quindi soltanto due distinte gradazioni. La disciplina del sindacato giurisdizionale appare, in altri termini, fondata su una opposizione di tipo dicotomico. Al grado inferiore vi sarebbe la verifica della regolarità della procedura e l’esito della votazione. Al grado superiore, invece, andrebbe collocata, oltre alla verifica delle regolarità della procedura e all’esito della votazione, anche la verifica della convenienza del concordato. Tra l’ipotesi riferita al grado inferiore (mancanza di opposizioni) e l’ipotesi riferita il grado superiore (opposizione proveniente da un creditore appartenente ad una classe dissenziente) possono rinvenirsi due ulteriori ipotesi intermedie: a) la proposizione di opposizioni in assenza della suddivisione dei creditori in classi; b) la proposizione di opposizioni provenienti da creditori dissenzienti ma appartenenti a classi consenzienti. Quanto appena osservato rende evidente che la complessità delle questioni sottoponibili all’attenzione Tribunale può essere ricondotta più ad una opposizione di tipo polare. Come noto, l’opposizione dicotomica si fonda sulla logica binaria e dà luogo ad un’alternativa dove tertium non datur, né vi sono sfumature o passaggi di grado da una delle due possibilità all’altra. L’opposizione polare, al contrario, pone in contrapposizione due estremi che ammettono sfumature intermedie di passaggio (195). 195 La distinzione fra l’opposizione dicotomica e l’opposizione polare viene oggi impiegata per spiegare la trasformazione del diritto alla luce delle problematiche insite nella c.d. società post-moderna da G. Zanetti, Individui situati e trasformazioni del diritto, in Patrick Nerhot (a cura di), L’identità plurale della filosofia del diritto. Atti del XXVI Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia del Diritto. Prefazioni di Vincenzo Ferrari e Enrico Pattaro. Napoli, ESI, 2009, 99-111. Ora in Massimo La Torre - 107 Orbene, i poteri di controllo del Tribunale sembrano appiattiti proprio su una opposizione dicotomica (regolarità della procedura/convenienza della proposta), mentre la complessità delle questioni sottoponibili all’attenzione del Tribunale sembra, in realtà, riconducibile più ad una opposizione polare (mancata proposizione classi/opposizioni di provenienti opposizioni/opposizioni da creditori e assenza appartenenti a di classi consenzienti/opposizioni provenienti da creditori appartenenti a classi consenzienti). Stando così le cose, occorre interrogarsi se la ricostruzione in termini dicotomici dell’ampiezza del sindacato giurisdizionale - caldeggiata dall’impostazione oggi prevalente - possa effettivamente reggere alla luce della polarità delle questioni sottoponibili alla cognizione del Tribunale. Detto altrimenti, posto che la complessità delle questioni da risolvere si presenta in termini polari, nel senso di una complessità crescente da un minimo ad un massimo, strettamente dipendente dalla presenza o meno delle classi dei creditori e delle opposizioni, è necessario verificare se la dicotomia del sindacato giurisdizionale possa reggere di fronte alla polare complessità insita al giudizio di omologazione. 5.1. - Il tema del sindacato giurisdizionale richiede di prendere le mosse alcuni dati costanti del giudizio di omologazione. Tali costanti sono l’oggetto del giudizio e gli effetti del provvedimento di omologazione. Come ormai assodato, l’oggetto del giudizio di omologazione non risente della proposizione delle opposizioni e resta - in ogni caso - saldamente ancorato al negozio concluso tra il debitore e i suoi creditori. Allo stesso modo, anche gli effetti del provvedimento di omologazione possono ritenersi, da un punto di vista generale, del tutto indipendenti dalla Gianfrancesco Zanetti, Altri seminari di filosofia Ruberanno, 2010. 108 del diritto, Soveria Mannelli (CT), proposizione delle opposizioni. Il provvedimento di omologazione rende vincolante la proposta del debitore verso tutti i creditori, vuoi consenzienti, vuoi dissenzienti o astenuti e terzi (in senso stretto), a condizione che il titolo sia sorto anteriormente al decreto di ammissione al concordato preventivo. Occorre quindi indagare quali siano le questioni che il Tribunale deve risolvere ai fini dell’omologazione del concordato preventivo. Tali questioni vanno ricavate con esclusivo riguardo all’oggetto del giudizio di omologazione, nel senso che potranno ritenersi conoscibili dal giudice solo le questioni afferenti agli elementi costitutivi del negozio concluso tra il debitore e i suoi creditori. Sia pure in relazione a un diverso contesto normativo, ma sempre con riferimento all’ampiezza del sindacato giurisdizionale, la traiettoria dell’indagine è stata tradizionalmente orientata proprio in tale direzione, in quanto si è detto che: ‹‹il concordato è sostanzialmente un contratto conchiuso tra il debitore e una determinata maggioranza di creditori, con effetti obbligatori anche per i creditori dissenzienti. In vista di questa sua efficacia anomala e pericolosa, la legge vuole che codesti effetti non si dispieghino se alcuni requisiti non sono stati controllati dal Tribunale›› (196). Ai fini dell’indagine sulla tutela dei c.d. «terzi - creditori» è dunque necessario far luce sui requisiti costitutivi del negozio sulla crisi d’impresa. Una volta individuati tali requisiti del negozio in esame risulterà agevole ricavare poi quali sono le questioni ostative all’omologazione. Il negozio sulla crisi d’impresa costituisce, innanzitutto, una fattispecie a formazione progressiva e complessa. 196 F. Carnelutti, Sui poteri del Tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo, in Riv. dir. proc. civ. 1924, I, 65; in senso quasi analogo v. T. Ascarelli, Sulla natura dell’attività del giudice nell’omologazione del concordato, in Riv. dir. proc. civ. 1928, I, 228, per il quale: «[...] non è il giudice chiamato a dichiarare dell’obbligatorietà nei confronti di detta minoranza, ma è chiamato a riconoscere ispirandosi ad un pubblico interesse l’esistenza di determinate condizioni perché questa obbligatorietà sia operativa così nei confronti della minoranza come in quelli della maggioranza». 109 Si tratta di una fattispecie a formazione progressiva in quanto tale negozio verrà ad esistenza e produrrà i suoi effetti solo all’esito del lungo iter in cui si articola la procedura di concordato preventivo (197). Allo stesso tempo il negozio in parola costituisce anche una fattispecie complessa, in quanto il contenuto può articolarsi in una pluralità di elementi, alcuni necessari, altri facoltativi, diversi tra loro, ma tutti uniti da un particolare vincolo teleologico, pensabile anche in termini di causa stessa del negozio: la risoluzione della crisi d’impresa (198). Ora, gli elementi costitutivi del negozio vanno individuati nella ristrutturazione dei debiti e nelle modalità di soddisfazione dei creditori. Entrambi i requisiti devono sussistere congiuntamente, dato che non è pensabile un utilizzo dello strumento concordatario che non miri a procurare una qualche ristrutturazione dei debiti e una - anche parziale - soddisfazione dei creditori (199). La soddisfazione dei crediti costituisce lo scopo-fine di ogni procedura di concordato preventivo. L’elenco delle opzioni dell’art. 160 l.fall. integra lo 197 A. M. Azzaro, Concordato preventivo, principio maggioritario e classi dei creditori, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 552, il quale afferma che: «la proposta del debitore si colloca in una procedura concorsuale»; v. anche prima della riforma: L. A. Russo, Natura giuridica e finalità, in Fall. 1992, 228 secondo cui il concordato preventivo sarebbe un contratto “speciale” di diritto concorsuale, perché: «destinato a formarsi nell’ambito delle procedure concorsuali e suscettibile di omologazione da parte del Tribunale sia per i riflessi sulla procedura in corso sia per gli effetti ricadenti sulle parti»; così anche già: G. De Semo, Diritto fallimentare, Padova, 1959, 467 e 551; F. Ferrara, Fallimento, Milano, 1995, 432; P. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, che parla di «recezione del contratto nel processo» e di «una impronta processuale che non è, ripeto ancora, una impronta pubblicistica»; contra R. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1955, 875. 198 F. Guerrera, Soluzioni concordatarie delle crisi e riorganizzazioni societarie, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 575; M. Santoni, Contenuto del piano di concordato preventivo e modalità di soddisfacimento dei creditori, in Banca borsa e tit. cred. 2006, I, 517; A. Nigro, La riforma “organica” delle procedure concorsuali e le società, in Dir. fall. 2006, I, 78. 199 E. Norelli, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo, in Riv. esec. forz. 319; 110 scopo-mezzo, vale a dire le «modalità» che l’imprenditore può scegliere per soddisfare i creditori tramite il concordato preventivo (200). L’imprenditore inoltre può predisporre un trattamento differenziato tra le varie classi, ma ha l’obbligo di ripartire i creditori secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei senza alterare in alcun modo l’ordine della cause legittime di prelazione (cfr. art. 160, comma 2°, ultimo alinea). Ciò significa che l’imprenditore deve garantire ai creditori di grado poziore trattamenti (sia pure falcidiati) non deteriori rispetto a quelli riservati ai privilegiati di grado inferiore (201). Il vincolo in parola, sebbene riferito all’ipotesi della suddivisione in classi, esprime tuttavia un principio generale immanente alla procedura. Il controllo del Tribunale sulla formazione delle classi costituisce infatti un presidio giurisdizionale volto a garantire - in via immediata - il rispetto della par condicio creditorum e delle cause legittime di prelazione, nonché a tutelare - in via mediata - gli interessi dei creditori. In termini più sintetici: il controllo del Tribunale sulla formazione delle classi è volto ad impedire che il debitore pregiudichi arbitrariamente le ragioni sostanziali dei creditori (202). Appare, dunque, evidente che la libertà concessa all’imprenditore incontri precisi ed inderogabili limiti, volti ad evitare un «abuso» dello strumento concordatario. I limiti entro cui si può l’imprenditore deve esercitare l’autonomia negoziale sono: a) il dovere di perseguire il 200 A. Nigro, Privatizzazione delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in Banca borsa tit. cred., 2006, I, 359; E. Norelli, Il concordato fallimentare “riformato” e “corretto”, in Riv. esec. forz. 2008, 81. 201 M. Sciuto, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (un’analisi comparatistica), in Giur. comm. 2007, I, p. 566 e ss; C. Ferri, Classi di creditori e poteri del giudice nel giudizio di omologazione del “nuovo” concordato preventive, in Giur. comm. 2006, I, 553; Id. La suddivisione dei creditori in classi, in Fall. 2006, 1026. 202 G. Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le maggioranze richieste dalla nuova disciplina, in Fall. 2005, 1214; S. Ambrosini, Il controllo giudiziale sull’ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, in F. Di Marzio – F. Macario, Autonomia negoziale e crisi d’impresa, cit. 525 111 soddisfacimento di tutti i creditori; b) l’obbligo di ripartire i creditori secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; c) il divieto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione; d) l’onere di prevedere per i creditori privilegiati un trattamento non inferiore rispetto a quello realizzabile dalla liquidazione fallimentare (203). Ma non possono, tuttavia, ritenersi gli unici. L’adesione di tanti creditori che rappresentano congiuntamente la maggioranza dei crediti non può costituire, di per sé sola, la ragione giustificatrice dell’estensione verso i c.d. «terzi-creditori» degli effetti del negozio sulla crisi d’impresa, soprattutto, alla luce del nuovo assetto di stampo privatistico. Nei confronti dei terzi non opera il principio dell’autonomia negoziale, né può sostenersi che la libertà dell’imprenditore è stata limitata in modo tale da tutelare anche i loro interessi, che vengono lesi in assenza del consenso. Quei limiti, infatti, costituiscono un presidio legale a garanzia della par condicio creditorum e delle cause legittime di prelazione a tutela di tutto il ceto creditorio, in quanto tale. Il presupposto dell’efficacia ultra partes dev’essere, invece, ricercato all’interno della nuova impostazione di stampo c.d. privatistico. Solo dopo aver affrontato tale aspetto potranno dirsi individuati tutti i requisiti costitutivi del negozio sulla crisi d’impresa, nonché le effettive questioni da risolvere ai fini dell’omologazione. Solo così sarà possibile comprendere la reale latitudine del sindacato giurisdizionale. 5.2. - Come dichiarato fin dall’inizio, lo scopo ultimo dell’indagine è verificare se all’interno di un sistema proteso a favorire la soluzione negoziata della crisi d’impresa possa trovare applicazione il principio 203 C. Esposito, Il piano del concordato preventivo tra autonomia privata e limiti legali, in A. Ambrosini, Le nuove procedure concorsuali. Dalla riforma “organica” al decreto “correttivo”, Bologna, 2010, 543; 112 maggioritario e l’obbligatorietà indistinta del concordato preventivo verso tutti i creditori. Interrogarsi sulle condizioni necessarie per l’assoggettamento dei c.d. «terzi-creditori» alla volontà della maggioranza significa, in realtà, definire le condizioni affinché il Tribunale possa concedere l’omologazione di un concordato preventivo. Nella disciplina originaria l’estensione ultra partes trovava la propria giustificazione nel rigido sistema di etero tutela degli interessi dei creditori. Il Tribunale poteva emettere il provvedimento di omologazione solo se aveva accertato che il concordato preventivo fosse stato più conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare. Proprio il vantaggio economico che il ceto creditorio poteva conseguire dall’esecuzione del concordato preventivo giustificava l’estensione ultra partes del vincolo della proposta approvata dalla maggioranza (204). Venuto meno, però, il sistema di etero tutela degli interessi dei creditori, in particolare, essendo mutata la cornice normativa di riferimento, la conservazione dell’efficacia ultra partes potrebbe esporsi a seri dubbi di legittimità costituzionale (205). 204 R. Sacchi, Il principio di maggioranza nel concordato e nell’amministrazione controllata, cit. 319 ; v. anche; M. Sandulli, Commento sub art. 184, in A. Nigro – M. Sandulli, La riforma della legge fallimentare, II, Torino, 2006, 1124 205 L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit. 151 il quale chiaramente afferma: «appaiono del tutto ingiustificate le affermazioni, secondo le quali il nuovo concordato preventivo prevederebbe che un certo tipo di maggioranza, formata eventualmente da uno o pochi creditori con interessi non omogenei rispetto a quelli di molti creditori in minoranza di somma, possa sacrificare i creditori più deboli a tutela dei creditori più forti a causa – si badi – dell’esigenza di far partecipare il debitore “al processo di emersione della crisi e di liquidazione e distribuzione dei beni ai creditori”, per potergli “riconoscere la libertà di agire nuovamente sul mercato in modo indipendente”. Con il paradossale risultato ultimo che questo sacrificio dei creditori deboli non si risolve neppure “con il bonum del salvataggio dell’impresa, già di per sé incostituzionale innanzi tutto per violazione degli artt. 24 e 42 Cost., ma addirittura solo “con quello del salvataggio dell’imprenditore” (sovente – giova insistere – né onesto, né sfortunato); v. anche: A. Nigro – D. Vattermoli, Il diritto delle crisi delle imprese, Bologna, 2009, 293; P. Farina, La nuova disciplina della fase di omologazione e di esecuzione del concordato fallimentare, in U. Apice (diretto da), La procedura fallimentare, II, Torino, 2010, 566, che, sebbene riferito al concordato fallimentare, e richiamando gli autori poc’anzi citati, afferma: «Anche se per 113 Per evitare tale epilogo occorre definire i presupposti che devono sussistere per concedere l’estensione dell’efficacia ultra partes, muovendosi all’interno della nuova impostazione c.d. «privatistica» che sorregge l’istituto in esame. A tal precipuo fine risulta opportuno operare una distinzione tra ciò che il Tribunale può conoscere e quello che invece deve accertare nel giudizio di omologazione, tanto in presenza, quanto in assenza, di opposizioni. Per quanto attiene all’ambito della cognizione, il materiale di fatto utilizzabile dal Tribunale ai fini della decisione è agevolmente individuabile: a) nella proposta di concordato; b) nella relazione del professionista; c) in quella del commissario e nel suo motivato parere; d) nelle opposizioni. Per quanto riguarda, invece, il profilo dell’accertamento, il negozio concluso in conformità alle forme della procedura di concordato preventivo, oltre a non ledere gli interessi dei c.d. «terzi-creditori», deve perseguire la soddisfazione di tutti creditori, compresi quelli che non hanno prestato il consenso alla soluzione negoziata (206). Il negozio in parola viene concluso nell’ambito di una procedura giurisdizionale avente struttura concorsuale (i.e. coinvolge tutti i creditori), dotata d’efficacia universale (i.e. interessa tutto il patrimonio del debitore) (207) e tramite esso dovranno essere perseguiti gli scopi dell’istituto sopra richiamati. ottenere l’approvazione della proposta concordataria la legge prescrive la sola maggioranza dei crediti ammessi al voto, senza richiedere l’unanimità, ciò non consente affatto di imporre ai creditori “una soluzione economicamente non conveniente rispetto alla soluzione comune del fallimento, quella data cioè dalla liquidazione e successiva ripartizione del ricavato»; v. anche: A. Tedoldi, Appunti in tema di omologazione del concordato preventivo, cit. 663. 206 V. Cap. 1 par. 2 207 Per un’analisi dei tratti caratteristici dei procedimenti concorsuali v. A. Bonsignori, Il fallimento, Padova, 1986, 83 e ss; v. anche: P. G. Jaeger, Par condicio crediotorum, in Fall. 1984, 58-60. 114 Il negozio in questione deve tendere a realizzare un preciso risultato, pensabile anche in termini di causa stessa del negozio: la risoluzione della crisi d’impresa, senza pregiudizio per coloro che si sono opposti alla soluzione negoziata. Viene, così, in risalto il nodo da sciogliere: a quali condizioni il Tribunale può emettere il provvedimento di omologazione, rendendo vincolante il negozio sulla crisi d’impresa anche per i c.d. «terzi-creditori»? L’interrogativo da risolvere viene a specificarsi nei seguenti termini: quali condizioni possono giustificare la produzione di un pregiudizio in nei confronti dei c.d. «terzi-creditori» che non hanno prestato il consenso alla soluzione negoziale? Nella disciplina abrogata la protezione dei creditori di minoranza era fornita dagli ampi spazi di intervento lasciati al giudice, mentre oggi è affidata alla loro stessa autotutela. Tale scelta legislativa comporta due distinti tipi di rischi. Da un lato, l’efficienza delle nuove soluzioni negoziate, le quali presuppongono una partecipazione attiva dei creditori, potrebbe essere fortemente compromessa per via dell’inerzia dei creditori. Dall’altro lato, il potere decisionale a favore dei creditori potrebbe dare luogo a un abuso dei nuovi istituti da parte dei creditori forti a danno di quelli deboli (208). Per superare i pericoli poc’anzi segnalati si è cercato di conservare - per via interpretativa - un ruolo incisivo al controllo giurisdizionale sulla proposta di concordato. Questa reazione si è tradotta nella prospettazione di argomentazioni sfornite di ogni supporto positivo e, non di meno, assai pericolose. Ci si riferisce, in primo luogo, all’opinione di chi ritiene che non sia ammissibile una proposta di concordato che preveda un soddisfacimento 208 Segnala il duplice rischio: A. Nigro, Privatizzazione delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in Banca borsa tit. credito 2006, I, 368 e ss. 115 meramente simbolico per i creditori (209); in secondo luogo, all’opinione di chi ritiene che il Tribunale, a seguito del D. Lgs. 169 del 2007, possa sindacare la fattibilità del piano che accompagna la proposta di concordato preventivo (210). Tale reazione non può essere accolta, in quanto, sebbene siano animate dall’apprezzabile intento di evitare il rischio di comportamenti opportunistici a vantaggio dei creditori forti e a danno dei creditori deboli, si pone in senso contrario al dato positivo. In entrambe le ipotesi si segue lo stesso itinerario logico: l’interprete costruisce innanzitutto un modello ideale, che costituisce il presupposto per l’applicazione della normativa da lui non condivisa e, in assenza di uno dei requisiti che compongono il modello ideale, costruito dallo stesso interprete, egli arriva fino a disapplicare la normativa (211). Così, per il concordato preventivo si giunge ad affermare che la proposta non è una proposta se il livello di soddisfacimento dei creditori è molto scarso, ovvero, che il piano non è un piano se non è fattibile. Una simile argomentazione costituisce un’evidente forzatura delle scelte legislative. Ma vi è di più. 209 Cfr. Trib. Roma, 16 aprile 2008, in Banca borsa tir. cred. 2008, 732, con nota adesiva di F. Macario, Nuovo concordato preventivo e (antiche) tecniche di controllo degli atti di autonomia: l’inammissibilità della proposta per mancanza di causa. Secondo il Tribunale di Roma la domanda di concordato, da un lato, ripete la natura di atto processuale (nelle forme del ricorso), dall’altro lato, manifesta natura sostanziale di atto unilaterale tra vivi a contenuto patrimoniale disciplinato, nei limiti della compatibilità, dalle regole generali sui contratti. Quindi, come atto di autonomia, esso deve essere fornito di causa, deve cioè assolvere ad una funzione oggettivamente apprezzabile sotto il profilo della ragionevolezza economica. Ne segue che, offrire quasi nulla ai creditori chirografari (nel caso di specie nella misura dello 0,03%) significa non offrire alcunché. Per cui, la domanda di concordato non offre alcun soddisfacimento ai creditori chirografari. 210 I. Pagni, Il controllo del Tribunale e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Fall. 2008, 1091. 211 Così R. Sacchi, Concordato preventivo, conflitti di interessi fra creditori e sindacato dell’Autorità giudiziaria, in Fall. 2009, 30; 116 Tali ricostruzioni fomentano il rischio che ogni decisione possa finire, in realtà, per dipendere essenzialmente dall’idea che il singolo interprete (i.e. il giudice, prima di tutto) abbia maturato in ordine ai requisiti che devono sussistere affinché si possa ravvisare una proposta o un piano di concordato preventivo. Requisiti, come ovvio, ulteriori rispetto a quelli già predeterminati dalla legge e definiti, di volta in volta, dalla libera discrezionalità dell’interprete (212). Per questa ragione, ogni ricostruzione sull’ampiezza del sindacato giurisdizionale che non sia sorretta da alcun dato positivo e sistematico rischia di porsi in una prospettiva eversiva. Al fine di evitare tale rischio occorre, allora, sviluppare coerentemente tutte le implicazioni sistematiche connesse alla nuova impostazione giusprivatistica. I dati di partenza da cui muovere sono: a) il controllo giurisdizionale ha ad oggetto esclusivamente il negozio della crisi d’impresa, quale espressione dell’autonomia negoziale concessa all’imprenditore e ai suoi creditori; b) il provvedimento di omologazione ha l’unico effetto di rendere vincolante la proposta di concordato preventivo nei confronti di tutti i creditori. L’emissione del provvedimento di omologazione non può non essere subordinata al riscontro delle condizioni minime, in forza delle quali l’autonomia negoziale tra privati può produrre effetti sul piano ordinario anche nei confronti dei c.d. terzi. 212 Cfr. R. Sacchi, Dai soci di minoranza ai creditori di minoranza, in Fall. 2009, 1065, il quale rileva che tale fenomeno è per certi versi simile a quello che, prima della riforma della disciplina delle società di capitali, si registrava in relazione alla figura dell’inesistenza delle deliberazioni assembleari. 117 Come noto, il principio della relatività degli effetti del contratto, sancito dall’art. 1372 c.c., è logica conseguenza del principio di libertà su cui poggia l’autonomia privata, almeno in materia patrimoniale. Il principio poc’anzi richiamato - proprio perché opera in relazione ai diritti patrimoniali – deve essere contemperato alla luce del divieto di intromettersi nell’altrui sfera giuridico-economica. Ora, il divieto in parola impedisce che all’attività di produrre effetti pregiudizievoli nella sfera giuridico-patrimoniale dei terzi, ma – implicitamente - consente l’intromissione nell’altrui sfera giuridicoeconomica qualora ciò sia produttivo di effetti incrementativi del patrimonio (213). Di qui la liceità e idoneità del negozio a produrre effetti verso terzi, purché: a) si tratti di effetti favorevoli, nel senso di effetti incrementativi della situazione patrimoniale; b) sussista la facoltà di evitare la produzione di tale effetto. Alla luce della virata in senso privatistico impressa al concordato preventivo, affinché i c.d. «terzi-creditori» possano essere vincolati ex lege al negozio sulla crisi d’impresa è necessario che l’accordo produca verso costoro effetti favorevoli. 5.3. – Stando così le cose, non sarebbe forse del tutto improponibile accostare, ovviamente con le dovute cautele e accorgimenti, il negozio sulla crisi d’impresa alla figura del contratto a favore dei terzi (art. 1411 c.c.), quantomeno ai fini dell’estensione degli effetti diretti e riflessi. Per verificare se può sussistere concretamente tale condizione è opportuno volgere lo sguardo al contesto in cui si compie l’attività negoziale in esame. 213 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIV, Napoli, 2009, 947. 118 Il negozio in parola è concluso all’interno della procedura del concordato preventivo. Per accedere al concordato preventivo l’imprenditore deve trovarsi almeno in stato di crisi (art. 160 ult. co.). La crisi d’impresa viene quindi assunta dalla legge come causa della contrattazione. La sopravvenuta incapacità patrimoniale consente all’imprenditore di richiedere una ristrutturazione dei debiti e modificare le modalità satisfattive delle obbligazioni. Ma il negozio concluso nelle forme della procedura di concordato preventivo deve perseguire un particolare scopo: distribuire risorse economiche tra tutti i creditori. La produzione e ripartizione delle risorse economiche rappresenta il profilo di maggiore criticità di tutte le soluzioni negoziate della crisi d’impresa. La problematica non si pone solo con riferimento al concordato preventivo, ma - come si avrà modo di vedere nel proseguo dell’indagine sussiste anche in relazione all’accordo di ristrutturazione dei debiti. Occorre, quindi, prendere le mosse dal contesto economico in cui avviene la conclusione del negozio in questione. Per accedere alla procedura di concordato preventivo l’imprenditore deve dimostrare l’esistenza dello stato di crisi. Tale stato integra un requisito ulteriore e alternativo rispetto a quello tradizionale dell’insolvenza. Diversamente da quest’ultima, però, il legislatore non ne ha fornito la nozione. Il discrimen tra lo stato di crisi e lo stato d’insolvenza viene individuato non tanto nella maggiore o minore incapacità a adempiere regolarmente le obbligazioni assunte, quanto, piuttosto, nella conoscibilità della precarietà economica in cui versa l’impresa (214). L’impresa verserebbe in stato di insolvenza quando l’incapacità patrimoniale è nota a una pluralità di soggetti, che possono agire per 214 In questi termini: G. Presti, Rigore è quando l’arbitro fischia?, in Fall. 2009, 26. 119 ottenere la dichiarazione di fallimento; quando, invece, l’incapacità patrimoniale è nota solo all’imprenditore l’impresa verserebbe in stato di crisi. Tale distinzione avrebbe una precisa ratio: quando l’incapacità patrimoniale non si è ancora manifestata all’esterno dell’impresa soltanto al debitore è concessa la possibilità di rendere, lato senso, “pubblico” tale stato. Il legislatore avrebbe accordato al debitore la possibilità di sfruttare il vantaggio informativo a sua disposizione, al fine di poterlo tradurre in una conveniente, per lui stesso e i suoi creditori, proposta di concordato preventivo. All’imprenditore in crisi sarebbe, pertanto, concessa la possibilità: a) di ideare tempestivamente una proposta negoziale da sottoporre ai creditori per risolvere la crisi; b) di beneficiare della regola della maggioranza ai fini della conclusione del negozio; c) di conseguire, tramite l’omologazione dello stesso, l’efficacia ultra partes. Ecco, allora, che viene in luce un primo dato utile: l’efficacia ultra partes non è rimessa alla sola iniziativa del debitore, ma è collegata alla particolare situazione del patrimonio dell’impresa, che si concretizza nell’insolvenza (quindi, l’incapacità a tutti nota di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni) o, quanto meno, in una situazione ad essa prossima (la crisi). Tenuto quindi conto del contesto economico in cui versa l’impresa la garanzia di conseguire un adempimento (seppure, parziale) potrebbe rappresentare - con i dovuti accorgimenti - proprio quell’effetto favorevole per giustificare, sul piano ordinario, l’estensione ope judicis del vincolo negoziale (215). 215 Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, 350, che sebbene riferito agli accordi di ristrutturazione fa notare che: «come noto, se ho il 50% delle probabilità che il mio credito di 80 non sarà pagato, questo, in termini di valore “di mercato”, al momento varrà 40; se quindi si realizzano le condizioni 120 La soluzione negoziale della crisi d’impresa dovrebbe rappresentare l’opportunità per i creditori di conseguire l’adempimento delle obbligazioni - sebbene, ristrutturate - in un contesto in cui l’incapacità patrimoniale dell’impresa espone l’intero ceto creditorio - privilegiati inclusi - al rischio d’inadempimento. È necessario, però, verificare se tale effetto sia sufficiente anche per tollerare la conservazione dell’efficacia ultra partes alla luce dei richiamati principi costituzionali che devono informare i rapporti economici. Il concordato preventivo costituisce, infatti, una chance per conseguire la soddisfazione delle obbligazioni – ristrutturate - con tempi e modalità di adempimento predeterminate Ora, il vantaggio economico per i c.d. «terzi-creditori» potrebbe risiedere proprio nella possibilità di conseguire l’adempimento secondo tempi predeterminati e - stando alla prassi - inferiori rispetto a quelli della liquidazione fallimentare. Il vantaggio economico per i c.d. «terzi-creditori» andrebbe, quindi, valutato dal Tribunale nei termini di concreta utilità marginale: nel senso che l’esecuzione del concordato preventivo dovrebbe costituire la chance di conseguire un adempimento, sebbene parziale, in tempi certi e inferiori rispetto alla via della liquidazione fallimentare (216). per un pagamento integrale, avrò un beneficio stimabile in misura pari a 40»; allo stesso modo, in relazione al concordato preventivo può dirsi che se ho il rischio che il mio credito di 80 rimanga integralmente inadempiuto, ovvero, che potrò conseguire l’adempimento parziale e solo dopo un considerevole lasso di tempo rispetto alla scadenza, ma si realizzano le condizioni per ottenere un pagamento parziale e in tempi inferiori, avrò un beneficio economico stimabile nella misura pari alla minore perdita subita. 216 Si vedano in proposito le Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi – Prima edizione – 2010 realizzate dall’Unità di ricerca coordinata dal Prof. L. Stanghellini – Università di Firenze, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e ASSONIME, in particolare: «Raccomandazione n. 5 (Arco temporale del piano): L’arco temporale del piano, entro il quale l’impresa deve raggiungere una condizione di equilibrio economicofinanziario, non deve estendersi oltre i 3/5 anni. Fermo che il raggiungimento dell’equilibrio non dovrebbe avvenire in un termine maggiore, il piano può avere durata più lunga, nel qual caso è però necessario motivare adeguatamente la scelta e porre particolare attenzione nel giustificare le ipotesi e le stime 121 Seguendo tale ricostruzione, l’oggetto (necessario) dell’accertamento giurisdizionale, viene ad essere sempre del tutto indipendente rispetto alla complessità delle questioni di fatto sottoposte alla cognizione del Tribunale. Sia in assenza, quanto in presenza di opposizioni e tanto in mancanza, quanto in concomitanza della suddivisione dei creditori in classi, il Tribunale dovrebbe accertare che la risoluzione della crisi d’impresa concordata a maggioranza - sia in grado di consentire ai c.d. «terzi creditori» di conseguire il vantaggio economico nel senso poc’anzi espresso (217). previsionali utilizzate; occorre comunque inserire nel piano alcune cautele o misure di salvaguardia aggiuntive, tali da poter compensare o quanto meno attenuare i possibili effetti negativi di eventi originariamente imprevedibili.L’orizzonte temporale del piano costituisce un elemento centrale nel condizionare le possibilità di raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario. In termini generali, maggiore è la durata del piano e maggiore è la possibilità di evidenziare l’esistenza di condizioni fisiologiche al termine del periodo. Esiste però un trade-off tra orizzonte temporale e capacità di previsione delle tendenze future di lungo periodo, che induce a ritenere opportuno non estendere l’orizzonte temporale necessario al raggiungimento delle condizioni fisiologiche oltre i 3/5 anni, periodo giudicato dalla prassi aziendale sufficiente per mostrare gli effetti economico finanziari di interventi strutturali. L’estensione a periodi superiori deve pertanto ritenersi un’eccezione che indebolisce la qualità del piano, rende inevitabilmente più incerto l’oggetto dell’attestazione e necessita pertanto delle ulteriori accortezze sopra indicate. È opportuno chiarire che il raggiungimento di condizioni di equilibrio non implica il rimborso di tutto il debito, che può essere consolidato anche con date di rimborso successive, ma solo il ripristino della piena capacità di sostenere l’onere di quello che gravi a tale data. Il termine di 3/5 anni deve quindi essere riferito alle sole misure “straordinarie” (quali la cessione di cespiti, la dismissione o razionalizzazione di linee produttive, la messa in mobilità di dipendenti, ecc.), mentre non implica che in quel termine siano estinte tutte le passività esistenti al momento della stesura del piano, che possono anzi essere riscadenzate a termini più lunghi. Parimenti, è del tutto legittimo che il piano preveda, anche in termini lunghi, rinunzie a crediti o nuovi finanziamenti da effettuarsi a scadenze molto differite, nell’eventualità che l’impresa risulti averne necessità e al fine di prevenire, ora per allora, il riemergere di una crisi». Il piano deve infine consentire sia all’attestatore, sia ai creditori cui il debitore chieda sacrifici, di verificare se esso sia volto alla creazione di significativo valore, in modo da escludere che esso si limiti ad assicurare la mera sopravvivenza dell’impresa senza risolvere i suoi problemi in modo definitivo. 217 D. Galletti, Il nuovo concordato preventivo: contenuto del piano e sindacato del giudice, in Giur. comm. 2006, II, 918, il quale, fortemente critico nei confronti dell’applicazione nel concordato preventivo del principio di maggioranza, denuncia il rischio di un “abuso della maggioranza” in assenza di ogni controllo giurisdizionale in proposito e solleva il dubbio della costituzionalità della esclusione della valutazione della convenienza (salva, ovviamente, l’eccezione dell’art. 180, comma 4°, l. fall.); nello stesso senso sembrerebbero orientati anche: E. Norelli, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo, cit. 345; A. Carratta, Procedure concorsuali, cit. 8; la soluzione avanzata nel 122 Il Tribunale, innanzitutto, dovrà verificare che il trattamento economico previsto per i c.d «terzi-creditori» non sia inferiore rispetto a quello accordato ai creditori consenzienti che hanno posizione giuridica e interessi economici omogenei. Il Tribunale, segnatamente, dovrà accertare che la soluzione negoziata non preveda trattamenti arbitrari e discriminatori tra creditori. Il combinato disposto dell’art. 160, comma 1°, lett. c) e d) pone un chiaro divieto per il debitore: l’imprenditore non può prevedere trattamenti differenziati tra creditori che vantano posizione giuridica e interessi economici omogenei. L’obbligo per il debitore di prevedere un trattamento identico per i creditori titolari di posizioni giuridiche soggettive e interessi economici testo non sembra, tuttavia, in conflitto con quella di chi ritiene che - per non annullare del tutto la diversità tra il terzo e il quarto comma dell’art. 180 l. fall. con una interpretazione pur possibile, ma non indispensabile per la costituzionalità delle disposizioni in questione se la volontà di tutti i creditori e di qualsiasi altro interessato è quella di non contestare il concordato, ciò esonera il Tribunale da una nuova e più approfondita valutazione in sede contenziosa di quanto nel merito delibato positivamente nel giudizio d’ammissione, ma non può dirsi che l’oggetto sia limitato ai meri profili “procedurali” in senso stretto, in quanto residua l’operatività della disposizione dell’art. 173 l. fall. così: L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, cit. 172, v. anche 168: «A livello esegetico non è certo ovvia la generalizzabilità dal caso esplicitamente oggi previsto dall’art. 180, comma 4°, II periodo, l. fall. del creditore dissenziente in una classe [...]. Ma la necessità di questa generalizzazione appare comunque indispensabile per evitare un’aberrante disparità di trattamento, inconciliabile con qualsiasi principio di equità e di diritto ordinario e costituzionale. Anche e sopratutto nella delicatissima materia in esame le “le regole del gioco” non possono essere lasciate nelle mani del debitore decotto e della maggioranza di somma, ma devono rimanere garantite dalla eterotutela giurisdizionale e dalla eterotutela giurisdizionale non esclusivamente risarcitoria. [...] Orbene, secondo quanto si è già anticipato nel caso delle analoghe contestazioni indubbiamente rintracciabili dietro il silenzio appena richiamato, anche ed (ormai si può dire) innanzi tutto in riferimento al concordato preventivo è illogico, ingiusto, contrario ad ogni principio costituzionale ed ordinario pensare che quel che può ottenere un creditore di una classe a maggioranza di somma dissenziente, che contesta la convenienza, non possa essere ottenuto da un creditore, che propone la medesima contestazione in una classe a maggioranza assenziente, o da un creditore parimenti orientato contro la medesima maggioranza in un concordato privo di classi. La mancanza di specificazione dei contenuti delle opposizioni previste dall’art. 180 l.fall. (non meno sia della già ricordata vastità della cognizione nel merito evocata dal pur eccessivamente sintetico “assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio” del 4° comma dello stesso articolo, sia dell’egualmente già rilevata attitudine al giudicato anche del complessivo giudizio in questione), agevola - ripeto - questa conclusione e corrobora quella analoga già proposta per il concordato Marzano». 123 omogenei non può ritenersi vincolante solo nell’ipotesi che la proposta preveda la suddivisione dei creditori in classi. Il criterio in parola costituisce un limite alla libertà negoziale dell’imprenditore. Il vincolo in questione rappresenta, in realtà, l’unico presidio legale a garanzia del principio della par condicio creditorum. La regola della parità di trattamento può essere derogata all’interno delle procedure concorsuali, ma al fine di evitare un «abuso» dello strumento concordatario il legislatore ha posto un limite alla libertà dell’imprenditore, così sintetizzabile: il debitore non può effettuare trattamenti arbitrari tra i creditori, ma deve garantire trattamenti identici tra creditori che vantano posizione giuridica e interessi economici omogenei. Il Tribunale, pertanto, deve accertare che ogni soluzione negoziata non preveda per i c.d. «terzicreditori» trattamenti deteriori rispetto a quelli accordati a creditori consenzienti che vantano posizione giuridica e interessi economici omogenei. Inoltre, dopo aver escluso che vi sia un pregiudizio nel senso poc’anzi detto, il Tribunale dovrà accertare l’esistenza di un requisito positivo: la soluzione negoziata deve consentire ai c.d. «terzi-creditori» di conseguire l’adempimento delle obbligazioni - sebbene, ristrutturate - secondo modalità predefinite e tempi inferiori rispetto alla liquidazione fallimentare (218). La valutazione del Tribunale dovrà essere compiuta considerando tutto il materiale di fatto sottoposto alla sua cognizione da parte del debitore (i.e. il ricorso e la relazione del professionista), da parte del commissario (i.e. la relazione dell’art. 172 l.fall. e il parere motivato dell’art. 180, comma 4°, l.fall.) e, eventualmente, dai creditori stessi mediante le opposizioni. 218 L’art. 33, comma 1, lett. b), n.1 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134 ha introdotto all’art. 160, comma 2, l. fall. la nuova lettera e) la quale prescrive che nella domanda di concordato deve essere inserito «un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta». 124 L’accertamento del vantaggio economico sarà dunque l’esito di un giudizio di fatto e chiaramente prognostico. 6. - Al fine di ricondurre l’efficacia ultra partes del negozio sulla crisi d’impresa all’interno della clausola di riserva prevista dall’art. 1372, comma 2°, c.c. è necessario che i c.d. «terzi-creditori» possano impedire, melius, rifiutare, la produzione degli effetti diretti che si producono nei loro confronti (219). Come ormai assodato, il pregiudizio che si verifica nei confronti dei c.d. «terzi-creditori» non si produce sic et simpliciter a seguito della conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, ma l’estensione del vincolo negoziale avviene per il tramite del provvedimento di omologazione (220). Il Tribunale, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, ha dunque il compito di: a) controllare le modalità di formazione e manifestazione del consenso espresso dai creditori aderenti alla proposta del debitore (i.e. la regolarità della procedura e il raggiungimento delle maggioranze); b) controllare la sussistenza delle condizioni per l’«estendibilità» degli effetti dell’accordo verso i terzi (i.e. l’assenza di un trattamento discriminatorio e il vantaggio economico nel senso poc’anzi espresso). 219 Cfr. M. Fabiani, Diritto fallimentare, cit. 675. Sulla possibilità che un negozio pregiudichi situazioni giuridiche soggettive non in iure ma in facto i terzi rispetto all’accordo delle parti cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 273, il quale nell’illustrare le categorie dei terzi afferma che sussiste anche una categoria di terzi, che sebbene normalmente siano indifferenti, perché titolari di una posizione giuridica compatibile con quella delle parti del negozio, sono tuttavia legittimati a reagire contro lo stesso quando risentono di un illecito pregiudizio dagli effetti del negozio, ciò sussiste quando: «il negozio sia tale da recare un pregiudizio di fatto a terzi, la cui posizione giuridica non sia né ricompera nel regolamento d’interessi dettato dalle parti, né incompatibile con esso: terzi che, per l’appunto in ragione di tale compatibilità del loro rapporto giuridico, si è convenuto di qualificare normalmente indifferenti. A scanso di equivoci e di troppo facili “confutazioni”, giova chiarire ancora che la differenza di questa categoria di terzi (fra i quali primeggiano i creditori) è puramente giuridica e si contrappone concettualmente a un interesse di fatto, che essi possono benissimo avere: interesse all’inefficacia del negozio altrui, in presenza del quale si pone per l’appunto il problema della loro soggezione ai suoi effetti; interesse, senza il quale il problema non si porrebbe neppure». 220 125 Appare, quindi, evidente che la possibilità di «rifiutare» gli effetti del negozio sulla crisi d’impresa da parte dei c.d. «terzi-creditori» non possa prescindere dalla contestazione dell’«accertamento» compiuto dal Tribunale nel giudizio di omologazione. 6.1. - La possibilità di contestare l’«accertamento» contenuto nel giudizio di omologazione è strettamente connessa con la vexata quaestio dei mezzi di impugnazione del provvedimento di omologazione, in particolare di quelli c.d. straordinari, tra cui l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. Tale ultimo profilo è dibattuto fin dall’entrata in vigore della legge fallimentare del ’42. I fautori della concezione «contrattualistica» negavano l’ammissibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di omologazione, in quanto ritenevano che gli effetti pregiudizievoli nei confronti dei terzi derivassero direttamente dal contratto di concordato (221). Dal lato opposto i sostenitori della concezione «processualistica» e la stessa giurisprudenza di legittimità, ammettevano la proponibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di omologazione del concordato, ritenendo sufficiente, ai fini della 221 F. Ferrara, Il fallimento, Milano, 1959, 458 secondo cui: «non sembra ipotizzabile l’opposizione di terzo contro la sentenza di omologazione, perché essa costituisce una condizione di efficacia del contratto, del quale si limita a controllare la regolare stipulazione e la convenienza, e gli eventuali effetti pregiudizievoli per il terzo si ricollegherebbero al contratto»; Id. Concordato fallimentare, in Enc. dir. XIII, Milano, 1961, 498 che aggiunge alla precedente argomentazione che l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. non sarebbe ammissibile dal momento che l’opposizione all’omologazione sarebbe assorbente ed esclusiva di ogni altra impugnazione, sicché, ammettendo anche l’opposizione di terzo, si ostacolerebbe la funzione del concordato fallimentare di estinguere il processo di fallimento, mentre quella del concordato preventivo era, appunto, quella di evitalo e la riprova di ciò risiederebbe proprio nel fatto che l’opposizione all’omologazione viene concessa non solo ai creditori dissenzienti, ma anche a qualunque terzo interessato. Si pongono poi in senso contrario all’ammissione dell’opposizione di terzo anche: U. Azzolina, Il fallimento, Torino, 1953, II, 445; F. Ughi, Della opposizione di terzo alla sentenza omologativa di concordato fallimentare, in Dir. fall. 1948, II, 72. 126 legittimazione, che l’opponente si fosse trovato in una situazione tale, relativamente all’oggetto, da poter intervenire nel giudizio (222). L’ammissibilità dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. - anche prima delle recenti riforme - è sta affrontata più volte dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha precisato che il creditore estraneo al giudizio di omologazione del concordato preventivo non poteva proporre appello avverso la sentenza di omologazione, né poteva proporre ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost. - dal momento che non aveva assunto la qualità di parte nel procedimento - ma poteva promuovere soltanto l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. purché: a) non fosse stato a conoscenza della procedura di concordato preventivo a causa del mancato ricevimento da parte del commissario giudiziale della comunicazione 222 Il primo precedente noto risulta: Trib. Roma, 7 agosto 1946, in Dir. fall. 1947, II, 65 che è stato confermato da Cass. 21 luglio 1960, n. 2069 in Dir. fall. 1960, II, 830, la quale precisa ulteriormente però che: «Ciò non significa, peraltro, che tutti coloro che potevano intervenire nel giudizio di omologazione, possano anche proporre opposizione di terzo; poiché occorre che questa sia fondata sulla pretesa lesione di un diritto, è escluso che dell’impugnazione possano avvalersi coloro che possono addurre soltanto motivi di mancanza di convenienza del concordato, anche se, per avventura, essi possono, in pari tempo, prospettare vizi concernenti la forma e la sostanza, senza tuttavia essere in grado di stabilire un rapporto di connessione tra quel vizio e un preciso pregiudizio di un loro diritto» anche in Giust. civ. 1960, I, 1554 con nota adesiva di L. Bianchi d’Espinosa, Opposizione di terzo contro la sentenza di omologazione del concordato; v. anche successivamente: App. Roma, 13 marzo 1967, in Dir. fall. II, 490, secondo cui: «condizione necessaria per la proponibilità dell’opposizione è che la sentenza, inter alias, pregiudichi, come espressamente è detto nel primo comma dell’art. 404 c.p.c. un diritto del terzo che peraltro deve preesistere alla sentenza impugnata»; nello stesso senso v. anche: Cass. 4 gennaio 1978, n. 24, Giur. comm. 1979, II, 27, la quale, escludendo la legittimazione del creditore pretermesso al ricorso (ordinario) in cassazione per non essere stato parte del giudizio di opposizione, ha ammesso l’opposizione di terzo avverso la sentenza di omologazione del concordato fallimentare e ha riconosciuto la legittimazione in favore dei creditori che non abbiano proposto opposizione al concordato ai sensi dell’art. 129 l. fall. Le sentenze richiamate accolgono la tesi sostenuta da R. Provinciali, L’opposizione di terzo contro la sentenza omologativa del concordato, in Dir. fall. 1939, 330 e successivamente ripresa e sviluppata in Manuale di diritto fallimentare, II, Milano, 1974, 1934; la maggior parte della dottrina tradizionale riteneva ammissibile l’opposizione di terzo da parte dei creditori non insinuati, anche se esclusi dal voto nel concordato: A. Pazzaglia, Opposizione di terzo e sentenza omologativa di concordato, in Dir. fall., 1947, II, 65; A. Minoli, Considerazioni sull’opposizione di terzo alla sentenza di omologazione del concordato fallimentare, in Studi per Carnelutti, II, 157 e ss; V. Andrioli, Sentenza di omologazione di concordato e opposizione di terzi, in Temi, 1948, 328; S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, 1966, 345. 127 prescritta dall’art. 171 l.fall. (223); b) il provvedimento di omologazione del concordato preventivo avesse determinato una lesione di un suo diritto soggettivo (224). La soluzione della giurisprudenza di legittimità accordava un rimedio soltanto a favore del creditore che fosse stato integralmente pretermesso dalla procedura di concordato. Tuttavia, le argomentazioni spese a sostegno dell’ammissibilità dell’opposizione di terzo appaiono pressoché prive di supporto logico sistematico e pertanto non possono essere sottaciuti alcuni rilievi critici nei confronti delle stesse. Innanzitutto, nella previgente disciplina l’avviso ai creditori previsto dall’art. 171 l. fall. era (ed è tutt’ora) unicamente funzionale alla partecipazione dei creditori al voto; mentre, semmai, soltanto con riferimento all’ordinanza emessa dal giudice delegato ai sensi del previgente art. 180 l. fall. - con cui veniva fissata l’udienza avanti al giudice delegato, successiva all’approvazione - si poteva sostenere che la stessa avesse avuto 223 Nei termini della specifica questione in esame, v. A. Bonsignori: Concordato preventivo, cit., 379, 401, 468, secondo cui l’omissione dell’avviso ex art. 171 l. fall. e la conseguente mancata partecipazione all’adunanza del creditore a causa di tale omissione, comportano comunque invalidità della deliberazione (e, quindi, della sentenza di omologazione), anche se non risultino modificate le necessarie maggioranze. Ciò posto, per tale A. l’opposizione di terzo avverso la sentenza di omologazione è ammissibile perché «un soggetto che avrebbe dovuto e potuto essere parte nell’omologazione-opposizione, e invece parte non fu, dal che discende la legittimazione attivai all’opposizione di terzi»; contra G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 393, per il quale, invece, la soluzione dell’invalidità dell’assemblea votante in mancanza dell’avviso appare discutibile, specie se la mancata espressione del voto non abbia prodotto alcuna influenza sul risultato delle votazioni, alla luce, sopratutto, della regola sancita dall’art. 176 l. fall. che attribuisce ai creditori esclusi la legittimazione all’opposizione all’omologazione. 224 Cfr. Cass. 19 maggio 1983, n. 3451, in Fall. 1983, 1068 secondo cui l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. sarebbe ammissibile sulla base delle seguenti argomentazioni: a) nella legge non si rinviene alcuna eccezione all’operatività dell’istituto processuale dell’opposizione di terzo nell’ambito del sistema fallimentare; b) nella fattispecie esaminata i creditori non avvertiti ai sensi dell’art. 171 l.fall. rimangono estranei al giudizio e non vi assumono la qualità di parte; c) in difetto della comunicazione predetta di cui al citato art. 171 l.fall., secondo comma, non si può far derivare alcuna decadenza dall’esercizio dell’azione di cui all’art. 404 c.p.c.; nello stesso senso v. App. Bari 31 ottobre 1985, in Fall. 1986, 527 128 la funzione di una generale provocatio ad opponendum rivolta ai creditori dissenzienti, astenuti e assenti. In secondo luogo, preme rilevare che il provvedimento di omologazione produceva (e produce tutt’ora) sempre un pregiudizio alle situazioni giuridiche «terzi» ai sensi dell’art. 184 l. fall. Diversamente dall’ordinaria sentenza, rispetto alla quale vige il (tendenziale) principio res inter alias iudicata tertio non nocet, che trova unica (apparente) eccezione negli artt. 108 e 111 c.p.c. (225), il provvedimento di omologazione del concordato preventivo, al contrario, produce sempre - per volontà di legge - effetti diretti lesivi del diritto soggettivo dei terzi. Il provvedimento di omologazione integra, infatti, la condicio iuris a cui è subordinata 225 Cfr. F.P. Luiso, Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso terzi, Milano, 1981, 57, per il quale, tuttavia: «il successore nel diritto controverso non viene normalmente, pregiudicato dall’emanando provvedimento più di quanto lo sia da un atto di disposizione del suo dante causa che s’ipotizzi avere le stesse caratteristiche - data certa, trascrizione etc. - della domanda giudiziale»; v. anche: A. Proto-Pisani: Opposizione di terzo ordinaria, cit., 204; sotto il vigore del codice di procedura civile abrogato, il tema dell’estensione degli effetti della sentenza verso terzi è stato affrontato compiutamente dalla dottrina con risultati che possono ritenersi tutt’oggi validi, v. infatti: E. T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, Milano, 1935, 97 per il quale: «Il processo non è dunque un affare combinato in famiglia e produttivo di effetti per le sole persone iniziate ai misteri del singolo processo, ma un’attività pubblica compiuta per garantire l’osservanza della legge; e poiché a questa sono tutti indistintamente soggetti, tutti debbono ugualmente sottostare all’atto che dall’ordinamento giuridico è destinato a valere come sua imparziale applicazione», tuttavia, «mentre astrattamente tutte le persone sono sottoposte all’efficacia della sentenza, praticamente ne subiscono gli effetti [solo] quelli nella sfera giuridica dei quali rientra più o meno direttamente l’oggetto della sentenza: quindi anzitutto e necessariamente le parti, titolari del rapporto affermato e dedotto in giudizio, e poi gradatamente tutti gli altri, i cui diritti siano in qualunque modo con esso in relazione di connessione, dipendenza o interferenza giuridica o pratica, sia quanto alla loro esistenza, sia quanto alla possibilità della loro effettiva realizzazione», quindi, «La natura di questa soggezione è per tutti, parti o terzi, la medesima; la misura della soggezione è determinata invece dalla relazione di ciascuno con l’oggetto della decisione», ne segue, pertanto, che secondo l’A. «bisogna distinguere gli effetti della sentenza dalla cosa giudicata: se questa è limitata alle parti, non così è per quelli, che invece possono prodursi e naturalmente si producono anche per i terzi, ed è quindi appunto in vista di essi che il terzo può avere interesse ad intervenire nel processo pendente per impedire che la sentenza contenga una decisione per lui dannosa»; v. anche: E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 113, il quale chiarisce, però, che: «Per il terzo che deve riconoscere l’altrui cosa giudicata, non ha semplicemente importanza l’esistenza, ma il contenuto della decisione. Non il fatto della sentenza deve il terzo riconoscere; ma il regolamento contenuto nella sentenza è, per lui, normativo». 129 l’estensione degli effetti anche nei confronti dei creditori che non hanno dato il consenso. L’effetto lesivo che si produce nei confronti dei c.d. «terzicreditori» è sì mediato dal provvedimento di omologazione, ma è un effetto che si produce per espressa dalla volontà di legge (art. 184 l.fall.). Ogni provvedimento di omologazione del concordato preventivo è dunque astrattamente idoneo a ledere le situazioni giuridiche soggettive dei c.d. «terzi-creditori»; gli effetti pregiudizievoli che si producono in concreto, invece, dipendono dal contenuto della proposta avanzata dall’imprenditore. L’efficacia (sostanziale) ultra partes del provvedimento di omologazione è, dunque, un effetto predeterminato dal legislatore: la sentenza di omologazione vale sempre erga omnes creditoris come «formulazione della concreta volontà dello Stato per il caso deciso» (226). Tale effetto, diversamente da quanto previsto rispetto alla sentenza emessa nel giudizio ordinario, diviene «immutabile» tanto per le parti, quanto per i terzi, nel momento in cui il provvedimento non è più soggetto ad alcun mezzo di gravame (227). Ciò chiarito, è evidente che le argomentazioni spese dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità per fondare la legittimazione ad agire con l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. non possono avere alcun 226 L’espressione è riferita alla sentenza del giudizio ordinario: E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, cit. 112, ma la sentenza di omologazione del concordato preventivo differisce dall’ordinaria sentenza, quanto agli effetti nei confronti delle parti e dei terzi, per le ragioni subito esposte nel testo. 227 Cfr. E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, cit. 112, il quale afferma che: «la sentenza vale per tutti come formulazione della concreta volontà dello Stato per il caso deciso: questo effetto per le parti è reso immutabile quando si forma la autorità della cosa giudicata, mentre per i terzi si produce con una intensità minore, perché può essere caso per caso respinto con la dimostrazione che la volontà dello Stato è in realtà diversa da quella dichiarata. Per quanto questa affermazione possa sembrare ardita, essa è tuttavia giustificata nel modo più semplice e facile dalla posizione e dal carattere pubblico, universalmente riconosciuti al processo nello Stato moderno, e a rilevarne l’evidenza è bastato dissociare la nozione dell’efficacia della sentenza da quella della autorità della cosa giudicata, che nel pensiero comune sono state da tempo immemorabile commiste e confuse»; contra A. Proto – Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, cit. 416, in particolare ove afferma: «Circa il modo in cui i terzi in esame possono sottrarsi all’efficacia della sentenza, il Liebman non è chiaro». 130 fondamento, dal momento che: a) dal punto di vista sostanziale, il concordato preventivo omologato è sempre vincolante (rectius il provvedimento di omologazione è sempre lesivo) nei confronti di tutti coloro che non hanno partecipato al giudizio di omologazione e di coloro che non erano a conoscenza dell’apertura della procedura stessa per mancato invio della comunicazione ex art. 171 l. fall. ; b) dal punto di vista processuale, non sussiste la necessità di garantire il rispetto del diritto al contraddittorio, né, men che meno, l’esigenza di introdurre un rimedio con cui ex post il terzo possa contestare l’ingiustizia dell’accertamento (228), in quanto, ogni creditore e qualunque interessato potevano proporre opposizione all’omologazione ex art. 180 l. fall. Nella previgente disciplina, quindi, contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo l’opposizione di terzo dell’art. 404, comma 1°, c.p.c. non poteva ritenersi ammissibile, in quanto: a) la lesione del diritto soggettivo dei terzi creditori è un effetto diretto della sentenza di omologazione, che deriva, però, indistintamente dalla stessa volontà della legge (art. 184 l.fall.); b) ogni creditore poteva prevenire e contestare la sussistenza delle condizioni legali necessarie per l’omologazione preventivamente all’emissione della sentenza - mediante l’opposizione all’omologazione prevista dall’art. 180 l.fall.; c) la mancata conoscenza del procedimento per omesso avviso del commissario giudiziale ai sensi dell’art 228 Cfr. E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, cit. 113, il quale in riferimento alla sentenza emessa nel giudizio ordinario afferma che: «L’ingiustizia riguarda invece la sentenza come giudizio e può dipendere tanto da un errore di diritto, quanto da un errore di fatto: in ogni caso la concreta volontà dello Stato è diversa da quella dichiarata e la sentenza può quindi pregiudicare ingiustamente il terzo, il cui diritto sia in qualche modo connesso col rapporto deciso. Quando ciò si verifica, spetta al terzo la facoltà di far valere e dimostrare l’errore che vizia la decisione, allo scopo di respingere l’effetto dannoso per lui»; contra E. Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit. 315, secondo cui il pregiudizio che poteva legittimare il terzo a promuovere l’opposizione avverso la sentenza pronunciata tra altre parti era, in realtà, un pregiudizio ipotetico, nel senso del pregiudizio che sarebbe derivato al terzo se l’accertamento normativo compiuto tra le parti valesse anche nei suoi confronti, dunque, il pregiudizio, che poteva legittimare il terzo ad agire consisteva nello stato di contestazione in cui la sentenza poneva il suo diritto. 131 171 l. fall., ovvero, in ipotesi, per mancata affissione dell’ordinanza di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 180 l.fall. – che nell’abrogata disciplina segnava l’apertura del giudizio di omologazione - poteva legittimare, semmai, la richiesta di rimessione in termini, a fronte dell’intervenuta decadenza dalla possibilità di promuovere l’opposizione all’omologazione (229). In sintesi: dal momento che legittimato ad opporsi all’omologazione del concordato preventivo erano qualunque creditore e interessato, ciò doveva indurre ad escludere la sussistenza di una concorrente legittimazione 229 Cfr. in termini generali, A. Proto-Pisani, Opposizione di terzo ordinaria, cit. 679, il quale chiaramente afferma che la legittimazione all’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. spetta ai terzi soggetti all’efficacia diretta della sentenza, ma non legittimati alla proposizione delle impugnazioni c.d. proprie delle parti, ed essi sono: a) il falso rappresentato; b) il litisconsorte necessario pretermesso, quando il l.c.n. trovi il suo fondamento in un rapporto giuridico sostanziale unico con più parti, o nella legittimazione straordinaria. Viceversa, pur essendo soggetti all’efficacia diretta della sentenza e pur non avendo partecipato al processo(ma ne subiscono l’autorità), non sono legittimati alla proposizione dell’opposizione di terzo ordinaria: a) il successore nel diritto controverso ed il garantito estromesso, in quanto legittimati alla proposizione delle impugnazioni c.d. proprie delle parti; b) il contumace involontario, perché legittimato ex art. 327, comma 2°, alle impugnazioni c.d. proprie delle parti, anche se non soggetto ai termini ordinari di decadenza; c) il pubblico ministero quando il suo intervento era obbligatorio e la sentenza sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito, in quanto legittimato alla proposizione della revocazione ex art. 397, n.1: in questa ipotesi non si è però alla presenza di una soggezione all’efficacia diretta della sentenza. Inoltre, non sono legittimati all’opposizione ordinaria di terzo coloro che, pur non rivestendo la qualità di parte e non potendo avvalersi delle impugnazioni c.d. proprie delle parti: a) siano titolari di rapporti giuridicamente dipendenti da quello deciso, e pertanto sono soggetti all’efficacia riflessa (e non diretta) della sentenza, e legittimati alla proposizione della sola opposizione di terzo revocatoria se la sentenza sia l’effetto di dolo o collusione delle parti a danno di essi terzi; b) non sono soggetti al alcuna efficacia della sentenza, ed allora tutt’al più saranno legittimati alla proposizione dell’opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c. se, essendo titolari di diritti autonomi ed incompatibili con quello deciso (e, quindi, non terzi estranei in senso assoluto), siano (o si pretendano) lesi dalla esecuzione); contra G. Fabbrini, L’opposizione di terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano, 1968, 111, per il quale la domanda fondamentale da cui muove tutta l’indagine è se: «la titolarità di un diritto incompatibile con la situazione che si creerebbe in fatto, ove la sentenza emessa inter alios ricevesse concreta attuazione, abilita il terzo a sperimentare l’opposizione ordinaria del primo comma dell’art. 404 c.p.c? La nostra risposta è positiva; e la dimostrazione più convincente si ottiene considerando che, in capo a quel terzo, si realizzano puntualmente tutte le condizioni volute dall’art. 404 c.p.c. : non solo, infatti, egli è terzo rispetto alla sentenza emanata, ma è anche titolare di un diritto soggettivo perfetto che risulterebbe leso, ove la sentenza venisse attuata inter partes». 132 all’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso il provvedimento di omologazione del concordato preventivo (230). La tesi poc’anzi espressa, tenuto conto della nuova cornice processuale entro cui deve avvenire la conclusione del concordato preventivo, può ritenersi, a ben considerare, tutt’oggi valida, in quanto: a) a norma dell’art. 166 l. fall. il decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo è pubblicato mediante iscrizione nel registro delle imprese ex art. 17 l. fall. b) dopo che il concordato è stato approvato, il giudice delegato deve riferire al Tribunale, il quale deve fissare un’udienza in camera di consiglio per la comparizione delle parti; c) il provvedimento che fissa l’udienza di comparizione è anch’esso pubblicato mediante iscrizione nel registro delle imprese a norma dell’art. 17 l. fall.; inoltre, tale provvedimento deve essere notificato a cura del debitore agli eventuali creditori dissenzienti; d) se il commissario giudiziale rilevi che, dopo l’approvazione del concordato, sono mutate le condizioni di fattibilità del piano - oltre che darne menzione nel proprio parere ex art. 180, comma 2°, l. fall. - deve darne pronto avviso a tutti i creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione per 230 Cfr. Trib. Monza, 16 dicembre 1989, in Fall. 1990, 644, con nota di C. M. Ruggeri, Può il creditore pretermesso proporre opposizione di terzo contro la sentenza che omologa il concordato preventivo?; sul tema v. anche: A. Ceccherini, Il procedimento di omologazione del concordato fallimentare. Natura del giudizio e problemi di legittimazione, in Fall. 1989, 190, il quale ha escluso che il creditore insinuato nel concordato fallimentare sia legittimato all’opposizione di terzo per non aver avuto notizia per un vizio di procedura della proposta o dell’ordinanza ex art. 129 l. fall. L’A. riconosceva che il procedimento di concordato preventivo presentava seri profili di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 24 Cost. ed ha suggerito, al fine di ricondurre la disciplina nell’orbita delle garanzie costituzionali, di ampliare i casi di legittimazione all’appello avverso la sentenza di omologazione, facendovi rientrare anche coloro che non erano stati parte nel giudizio di primo grado; in altri termini, secondo l’A. la legittimazione ad impugnare con l’appello la sentenza di omologazione dovrebbe essere estesa, a prescindere dalla partecipazione al giudizio di omologazione avanti al Tribunale, «a tutti coloro che siano stati lesi nei loro interessi qualificati (e non solo nei loro diritti autonomi) dal provvedimento di omologazione», compresi, quindi, i creditori non avvisati. Tale soluzione, tuttavia, non avrebbe potuto comunque eliminare completamente il vuoto di tutela a cui erano (ed in sostanza sono rimasti) esposti tutti i creditori, in quanto l’effettiva possibilità di proporre appello nei termini previsti era subordinata alla conoscibilità, da parte del creditore che non avesse partecipato al giudizio, del deposito della sentenza di omologazione. 133 modificare la propria dichiarazione di voto; e) gli eventuali creditori dissenzienti e qualsiasi altro interessato che intendano proporre opposizione devono costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata; f) se non sono state proposte opposizioni il decreto di omologazione non è soggetto al reclamo ai sensi dell’art. 183 l. fall. Tutto ciò, quindi, esclude che il decreto di omologazione del concordato preventivo possa essere impugnato con un strumento diverso dal reclamo previsto dall’art. 183 l. fall. Inoltre, anche se il concordato preventivo continua ad essere caratterizzato dalla c.d. «struttura aperta» della fase deliberativa ( 231), in quanto sussiste il rischio che alcuni creditori non sono stati portati a conoscenza dell’apertura della procedura da parte del commissario giudiziale, è anche pur vero che: a) il decreto di ammissione è pubblicato nel registro delle imprese, e ogni creditore che ne sia venuto a conoscenza può intervenire nel procedimento deliberativo; b) il provvedimento che dispone l’apertura del giudizio di omologazione è anch’esso pubblicato nel registro delle imprese, e «ogni interessato» può, per ciò solo, proporre opposizione all’omologazione. La disciplina dell’opposizione all’omologazione ex art. 180, comma 2°, l.fall, è dunque idonea ad «assorbire» in sé qualunque tipo di gravame (di primo grado) utile per dedurre, tanto i pregiudizi derivanti dalla (pressoché ormai esclusa) impossibilità di conoscere l’apertura del procedimento, quanto i pregiudizi che potrebbero derivare alle situazioni giuridiche soggettive a seguito di una illegittima concessione dell’omologazione. Quanto precede rende ancor più evidenti i limiti strutturali dell’intero arco procedimentale per l’operatività esclusiva dell’autotutela dei creditori, e conferma la necessità dell’«accertamento» del vantaggio economico a 231 v. Cap. I, sez. I, par. 1. 134 tutela dei c.d. «terzi-creditori» - nei termini sopra espressi - anche e, soprattutto, in assenza di opposizioni. SEZIONE II IL SINDACATO GIURISDIZIONALE A TUTELA DEI TERZI NELL’ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI 7. - Il giudizio di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti è disciplinato nell’art. 182 - bis, comma IV, l. fall. Va subito rilevato che la collocazione della disposizione in esame non consente di far assumere alla procedura ivi descritta la natura concorsuale (232). Sussistono chiari indici positivi che inducono a propendere che il procedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti non possa essere considerato una procedura concorsuale, dal momento che: a) alla conclusione dell’accordo non si perviene tramite una scandita sequela procedimentale di natura giurisdizionale; b) il debitore non subisce alcuno spossessamento, neppure attenuato come avviene, invece, nell’ambito del concordato preventivo, in quanto l’imprenditore continua ad avere la piena gestione dell’impresa e gli atti negoziali non subiscono alcun vincolo, né sono sottoposti ad alcun controllo; c) la fase delle trattative non è assistita 232 L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 361; F. Guerrera, Le soluzioni concordatarie della crisi d’impresa, Aa.Vv. Diritto fallimentare, Manuale breve, Milano, 2007, 40; M. Fabiani, Accordi di ristrutturazione dei debiti: l’incerta via italiana alla “reorganization”, in Foro it. 2006, I, 264; Id. Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 - bis l. fall., in Foro it. I, 2564; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in S. Ambrosini (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Bologna, 2006, 384; per la natura concorsuale: E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Un nuovo procedimento concorsuale, Padova, 2009, 81; A. Di Majo, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 - bis l. fall. in Corr. giur. 2010, 241 per una posizione intermedia v. P. Pajardi – A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. 907; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, 2008, 345, per il quale l’accordo omologato: «costituisce una via ibrida tra quella privatistica della composizione stragiudiziale e quella pubblica del concordato preventivo». 135 alcun organo (c.d. «della procedura»), quale il commissario giudiziale o il giudice delegato; d) non è possibile conseguire una regolazione concorsuale del dissesto in quanto non devono essere convocati nel procedimento tutti i creditori dell’imprenditore; e) quest’ultimi non sono organizzati come “collettività”, ma rilevano unicamente per il valore nominale del loro credito; f) il debitore non deve sottoporre l’intero patrimonio a garanzia degli impegni assunti. Alla luce delle considerazioni che precedono, appare quindi preferibile propendere per la natura prettamente negoziale dell’accordo di ristrutturazione dei debiti concluso con le forme e modalità dell’art. 182 bis l.fall. Tale accordo, però, si distingue da ogni altro negozio concluso tra l’imprenditore e alcuni dei suoi creditori. L’accordo di ristrutturazione dei debiti, infatti, verrà normalmente concepito non come fine a sé stesso, ma in quanto preordinato ad essere omologato dal Tribunale. Tramite la concessione del provvedimento giurisdizionale di omologazione potranno essere conseguiti anche gli ulteriori effetti - c.d. legali - i quali potranno anche essere assunti dalle parti a presupposizione della loro stipulazione (233). Gli effetti in questione consistono, da un verso, nella esenzione dall’azione revocatoria degli atti di disposizione posti in essere in esecuzione dell’accordo di ristrutturazione (ex art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall.) e dall’esenzione dal rischio di integrare la fattispecie penale dei reati di bancarotta (ex art. 217 - bis l.fall.). Le modalità per conseguire tali risultati, vale a dire, le forme del procedimento giurisdizionale non sono state definite dal legislatore. La disciplina contenuta nella disposizione dell’art. 182 - bis l. fall. contiene soltanto l’indicazione che: a) entro trenta giorni dalla 233 M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 355; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” ( o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 301. 136 pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese i creditori e ogni altro interessato possono proporre opposizione; b) il Tribunale, decise le opposizioni, deve procedere all’omologazione in camera di consiglio con decreto motivato; c) il decreto è reclinabile alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 183 l.fall. - in quanto applicabile - entro quindici giorni dalla pubblicazione nel registro delle imprese. Non risulta, dunque, disciplinata la fase introduttiva del giudizio, né la fase istruttoria, né quella del procedimento. La determinazione della disciplina che governa le singole fasi è, pertanto, lasciata all’attività ermeneutica dell’interprete. Per ricostruire tale disciplina occorre, innanzitutto, prendere le mosse dai dati forniti dalla disposizione in esame. Il comma IV opera un espresso richiamo al procedimento in camera di consiglio, le prescrizioni contemplate dall’art. 182 - bis l.fall. dovranno essere lette alla luce della disciplina degli artt. 737 e ss c.p.c. Per cui, dopo aver concluso l’accordo di ristrutturazione dei debiti, l’imprenditore in crisi ne dovrà richiedere la pubblicazione nel registro delle imprese. Da tale momento, ai sensi dell’art. 182 - bis l.fall., l’accordo «acquista efficacia». Gli effetti in parola non possono che essere quelli c.d. legali poc’anzi richiamati, in quanto quelli negoziali si producono, in linea di principio, alla conclusione del negozio (234). 234 Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 342 secondo cui «la pubblicazione nel registro delle imprese» a cui genericamente si riferisce l’art. 182 -bis l.fall. deve intendersi tecnicamente come iscrizione avente efficacia costitutiva, nel senso che “costitutiva” si riferisce: «innanzitutto rispetto agli effetti legali che produce (immediato blocco delle azioni esecutive e cautelari e del maturare di termini prescrizionali e decadenziali; nonché poi esenzione da revocatoria degli atti compiuti in esecuzione del piano dal momento dell’iscrizione, subordinatamente però alla sua omologazione e, ovviamente, alla successiva apertura di una procedura fallimentare); e quindi - come anche conviene dire, più specificamente - «normativa», in quanto quegli effetti non costituiscono materia negoziale, non appartengono cioè al regolamento pattizio, essendo piuttosto una conseguenza legale della iscrizione-omologazione». 137 Quanto alla modalità di introduzione del procedimento, è chiaro che l’atto introduttivo del procedimento avrà la forma del ricorso, posto che si devono seguire le forme del rito in camera di consiglio. La struttura del giudizio già in questa fase presenta una particolarità: il procedimento potrà essere indistintamente instaurato tanto per iniziativa dell’imprenditore con il deposito del ricorso per chiedere l’omologazione, quanto dei creditori, precisamente, i creditori opponenti, con il deposito del ricorso contenente la richiesta di opposizione all’omologazione. I creditori e ogni altro interessato, infatti, entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese, potranno opporsi all’omologazione dell’accordo (235). Quindi - di regola - il debitore dovrà iscrivere nel registro delle imprese l’accordo di ristrutturazione dei debiti e contestualmente depositare in Tribunale il ricorso per chiederne l’omologazione. In tal caso, il procedimento giurisdizionale prenderà avvio per iniziativa stessa del debitore. Tuttavia, il debitore potrebbe limitarsi a depositare l’accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese chiedendone l’iscrizione e attendere il decorso dei trenta giorni - termine entro cui i creditori potrebbero avanzare l’opposizione - per depositare la richiesta omologazione dell’accordo stesso. In tal caso, il procedimento giurisdizionale potrebbe essere incardinato presso il Tribunale per iniziativa di un creditore o di ogni altro interessato 235 Cfr. M. Fabiani, Diritto fallimentare, cit. 704, che interrogandosi sulla nozione di “qualunque interessato” giunge a ritenere che: «Per ciò che concerne gli altri interessati l’opzione del legislatore è stata (come tante volte nella legge fallimentare) quella di lasciare campo libero alla legittimazione alla luce di una “evidenza pubblica” degli interessi che si agitano attorno all’impresa in crisi. E tuttavia, questa massima latitudine non deve essere enfatizzata sino a ricomprendere ogni portatore di un interesse concreto e attuale in conformità ai principi in tema di impugnazioni civili e ciò per la semplice ma decisiva osservazione che l’opposizione all’omologazione non è un’impugnazione (che come ben noto è la richiesta di riesame di un provvedimento dell’autorità giudiziaria), ma la sollecitazione rivolta al tribunale a che la richiesta di omologazione non venga accolta». 138 che, venuto a conoscenza dell’accordo tramite il registro delle imprese, intende proporre opposizione. 7.1. - Se si accoglie la ricostruzione da ultimo prospettata occorre tuttavia ritenere che l’opposizione non potrà proseguire finché il debitore non avrà depositato il ricorso per l’omologazione. Nel silenzio della legge, infatti, appare logico ritenere che la domanda di opposizione potrà essere decisa dal Tribunale solo se il debitore avrà avanzato la richiesta di omologazione, che - in tesi - potrebbe anche non essere mai proposta. Tra la domanda di omologazione e l’opposizione sussiste un rapporto analogo a quello che intercorre nel giudizio di cognizione tra un’azione ed un’eccezione di merito. L’opposizione, per vero, al pari di quanto avviene nel concordato preventivo, non rappresenta uno strumento per proporre una domanda giudiziale volta all’accertamento di un diritto soggettivo, ma rappresenta lo strumento per veicolare questioni di fatto da sottoporre all’attenzione del Tribunale al fine di impedire l’omologazione dell’accordo. Secondo alcuni tra i primi commentatori del nuovo istituto, la legittimazione all’opposizione andrebbe riconosciuta anche a coloro che hanno aderito all’accordo di ristrutturazione, i quali potrebbero avere interesse a dedurre vizi genetici dell’accordo (ad esempio, un vizio di nullità, ovvero, di annullabilità del contratto) (236). Se si ammettesse questa possibilità l’opposizione potrebbe essere decisa dal Tribunale anche in assenza della richiesta di omologazione, in tale ipotesi non sussiste il rapporto azione-eccezione, in quanto l’opposizione avrebbe tutti i connotati di una vera e propria autonoma domanda giudiziale. 236 Con riferimento alla possibilità di impugnare il contenuto delle condizioni pattuite nella separazione consensuale dei coniugi omologata dal Tribunale cfr. I. Pagni, Vizi del consenso e annullabilità della separazione consensuale omologata: lo sfuggente rapporto tra autonomia negoziale e controllo giudiziale, in Fam. e dir. 2005, 511, nota di commento a Cass. 4 settembre 2004, n. 17902. 139 É pur vero che ove si volesse riconoscere agli aderenti all’accordo di ristrutturazione la possibilità di esperire - sotto la veste di opposizione - le impugnative negoziali delle pattuizioni, si dovrà ritenere, di conseguenza, che il provvedimento emesso dalla Corte d’appello sarà, altresì, suscettibile di essere impugnato tramite il ricorso ordinario in cassazione (o straordinario). 8. - L’oggetto delle domande di omologazione e di opposizione è costituito unicamente dall’accordo di ristrutturazione concluso dall’imprenditore con i suoi creditori. Il debitore nella richiesta di omologazione dovrà allegare e provare l’esistenza di requisiti prescritti dalla legge per la concessione del provvedimento di omologazione. Tali requisiti sono: a) la partecipazione di tanti creditori che rappresentino il sessanta per cento dei crediti non adempiuti; b) l’«attuabilità» degli impegni assunti con i creditori aderenti; c) l’«idoneità» dell’accordo a liberare risorse sufficienti per consentire il pagamento integrale dei creditori estranei (237). Il Tribunale per l’omologare l’accordo dovrà accertare l’esistenza dei requisiti predetti; non dovrà accertare, invece, l’esistenza dei fatti costitutivi delle pretese vantate dai creditori aderenti, né, men che meno, dei non aderenti (c.d. terzi). La cognizione e l’accertamento del Tribunale sui diritti dei creditori sarà, in ogni caso, svolto in via incidentale e finalizzato al riscontro della condizione richiesta per l’emissione del provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione. Per tale ragione, al provvedimento di omologazione non può ricollegarsi alcun «accertamento» idoneo ad 237 Cfr. Trib. Milano, decr. 10 novembre 2009, in Foro it. I, 2010, 297; Trib. Roma, 5 novembre 2009, in Corr. giur. 2010, 241; App. Firenze, 4 settembre 2007, in Dir. fall. 2008, II, 297; Trib. Roma, 16 ottobre 2006, in Fall. 2007, 187 con nota di C. Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella crisi di impresa e ruolo del giudice. 140 acquisire l’efficacia di giudicato sostanziale sui fatti costitutivi dei diritti dei creditori. L’accertamento contenuto nel decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, inoltre, non può acquisire l’efficacia di giudicato sostanziale, in quanto il procedimento non presenta le condizioni affinché il provvedimento conclusivo sia suscettibile di acquisire l’efficacia di giudicato formale (ex ex art. 324 c.p.c.) (238). L’opponente, dal canto suo, dovrà allegare e provare che non sussistono le condizioni per concedere l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. In altri termini ed in buona sostanza, il creditore opponente nell’accordo di ristrutturazione richiederà l’accertamento negativo degli stessi requisiti che vengono affermati esistenti dal debitore nella richiesta di omologazione. Più precisamente, l’opponente dovrà allegare e provare che gli impegni assunti dai contraenti non sono attuabili e che l’esecuzione dell’accordo non garantisce l’adempimento delle obbligazioni dei c.d. «terzi-creditori». L’oggetto del giudizio di omologazione resta, pertanto, sempre ancorato all’accordo concluso tra l’imprenditore e i suoi creditori, anche in presenza delle opposizioni. Il giudizio di omologazione, quindi, alla luce delle considerazioni che precedono sulla struttura e sull’oggetto non può che essere annoverato 238 Cfr. A. Cerino – Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 450, il quale a proposito del procedimento camerale osserva che: «il regime di ridotta impugnabilità, del decreto costituisce un sicuro elemento distintivo dello schema camerale, almeno nell’ambito in cui opera. La previsione di un rimedio, pur con tutti i suoi limiti, discrimina lo schema descritto dall’art. 737 ss nella multiforme congerie dei procedimenti speciali, ove normalmente difetta la concessione di un gravame oppure la tutela avverso il provvedimento si snoda nelle forme del processo ordinario. D’altra parte, la differenza con questo processo è netta proprio nella disciplina dell’impugnazione e comporta, in via di immediata implicazione, l’irriferibilità del decreto camerale al combinato disposto degli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c. Alla luce di queste norme il provvedimento suscettibile di mero reclamo non fa giudicato: come del resto la concezione più classica del tema qui studiato ha sempre insegnato con ferma convinzione»; così anche: A. Proto - Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss codice procedura civile (Appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi al giudice), cit. 419 ss. 141 nell’ambito della c.d. «giurisdizione volontaria», in particolare, nell’alveo della categoria dei c.d. «controlli preventivi di legittimità» (239). 9. - «Controllo preventivo di legittimità» non significa che il Tribunale deve limitarsi a una mero riscontro della regolarità formale della procedura e della documentazione prodotta. Di certo, nel giudizio di omologazione il Tribunale non è tenuto ad effettuare un controllo di opportunità dell’accordo (e neppure le parti possono richiederlo), come può avvenire invece nelle ipotesi in cui la disciplina del procedimento in camera di consiglio è impiegata per l’attività di gestione degli interessi (ad esempio: di minori, di incapaci, di società) equivalente al c.d. merito della potestà amministrativa o dei poteri privati (240). Il Tribunale, invece, deve verificare soltanto se sussistono le condizioni per concedere l’omologazione e, quindi, concedere alle parti dell’accordo la possibilità di beneficiare della sottrazione degli atti esecutivi dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dall’azione revocatoria fallimentare. Tali condizioni sono: a) l’attuabilità degli impegni assunti; b) l’idoneità a garantire il regolare pagamento dei c.d. «terzi-creditori». I c.d. «terzi-creditori» non sono formalmente parti dell’accordo di ristrutturazione, ma l’accordo dovrà contemplare anch’essi quali beneficiari degli effetti favorevoli derivanti dall’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa (241). Tali effetti non devono consistere in un semplice ed eventuale «effetto indiretto» conseguente alla fase esecutiva, ma devono integrare un elemento della causa negoziale dell’accordo di ristrutturazione. 239 Sulla natura di giurisdizione volontaria (perché costituzionalmente non necessaria) dei controlli preventivi di legittimità e sul significato che ha l’applicazione ad essi della procedura camerale: v. A. Proto - Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss codice procedura civile (Appunti sulla tutela giurisdizionale dei diritti e sulla gestione di interessi al giudice), cit. 393 ss. 240 Cfr. A. Proto - Pisani, op. loc. ult. cit. 241 Cfr. Trib. Roma, 16 ottobre 2006, in Fall. 2007, 187. 142 L’effetto in questione è assunto dalla legge come vera e propria condizione per l’omologazione dell’accordo e deve esprimersi in termini di garanzia dell’integrale pagamento del credito vantato dai c.d. «terzi-creditori» (242). Tale garanzia può essere ottenuta mediante l’incremento delle risorse economiche disponibili dall’imprenditore, che si originano per via delle rinunce (i.e. ristrutturazioni) compiute dagli altri creditori. La ristrutturazione dei debiti invero dovrebbe dar luogo a una sopravvenienza economica (243). La sopravvenienza economica può avere origine per via dell’effetto di risparmio di spesa, il quale produce un incremento della garanzia patrimoniale del debitore a favore dei terzi creditori estranei all’accordo, i quali possono vedersi aumentare le chance di realizzo dell’intero credito vantato (244). Inoltre, nel valutare la sussistenza della predetta garanzia il Tribunale potrebbe tenere conto eventualmente della c.d. nuova finanza che, ai sensi dell’art. 182 - quater l. fall., deve essere dichiarata nel ricorso per 242 Tale conclusione appare ancor più sostenibile alla luce delle recenti modifiche introdotte dall’ art. 33, comma 1, lett. e), n.1) del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 che ha introdotto nel primo comma dell’art. 182 - bis l. fall. la condizione che l’accordo di ristrutturazione dei debiti deve «assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini: a) entro centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione». 243 L’art. 55, comma 4, DPR 917/86 (Testo unico delle imposte sui redditi), prevede che non si considera sopravvenienza attiva la riduzione dei debiti dell’impresa in sede di concordato preventivo. Si tratta, però, di una agevolazione ai soli fini fiscali, in quanto dal punto di vista economico l’effetto revisori produce comunque un risparmio di spesa e un aumento di ricchezza. Tant’è che, non essendo ancora prevista analoga disposizione esimente per l’accordo di ristrutturazione dei debiti, l’effetto revisori è oggetto di tassazione da parte dell’agenzia delle entrate. 244 Cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 350, secondo cui l’accordo di ristrutturazione dei debiti costituisce: «Un contratto [...] la cui causa si lascia individuare nel rafforzamento del credito altrui (ma in fondo poi almeno negli auspici - anche dello stesso credito dei creditori stipulanti, commisurando il valore di realizzo di tale credito attraverso l’accordo, con quello altrimenti ottenibile in sede fallimentare; ché altrimenti - se anche per i creditori stipulanti un vantaggio, almeno auspicato, non vi fosse - dovrebbe arrivare a parlarsi addirittura di contratto senza causa ovvero a titolo gratuito». 143 l’omologazione se si vuole far beneficiare il finanziatore della c.d. prededucibilità nell’ipotesi di successiva conversione in fallimento. L’accertamento delle condizioni prescritte ex lege per la concessione del provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione, al pari di quanto accade nel concordato preventivo, integra, quindi, un giudizio prognostico e di fatto. Tuttavia, non si può reputare sufficiente che l’accordo di ristrutturazione appaia ex ante attuabile, in quanto ai fini del giudizio di meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti mediante gli atti esecutivi dell’accordo di ristrutturazione deve ritenersi imprescindibile che tale attuabilità sia riscontrabile ex post e in concreto. La fase di attuazione degli accordi di ristrutturazione rappresenta un aspetto piuttosto rilevante a causa dell’elevato tasso di esternalità negative che l’accordo è in grado di produrre sulla garanzia patrimoniale del debitore (245). La disposizione dell’art. 182 - bis l.fall. si disinteressa però di regolamentare le sopravvenienze fattuali che potrebbero sorgere dopo che l’accordo sia stato omologato. In particolare, non risulta disciplinata l’ipotesi - certamente pronosticabile - in cui l’accordo, da un certo momento in poi, risulti non più attuabile, ovvero, che sebbene ancora eseguibile, non garantisca più la possibilità di adempiere integralmente i c.d. terzi-creditori. Il legislatore ha omesso di disciplinare gli strumenti di tutela per l’ipotesi in cui ex post (i.e. a seguito della sopravvenuta dichiarazione di fallimento) emerga, ad esempio, che ab origine non sussistevano le condizioni per la concessione del provvedimento di omologazione, ovvero, per l’ipotesi di sopravvenienza di fatti tali da rendere l’accordo non più attuabile e, quindi, inidoneo a garantire l’integrale adempimento dei c.d.«terzi-creditori». 245 Cfr. G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca borsa e tit. credito, 2006, 27; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” ( o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), cit. 300; 144 É dunque compito dell’interprete indagare quali sono i rimedi spendibili dai c.d. «terzi-creditori» contro le c.d. «esternalità negative» abusivamente prodotte nella fase esecutiva. 10. - Il decreto emesso dal Tribunale può essere reclamato avanti la Corte d’appello entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese. Non è prevista, invece, la possibilità di proporre avverso il decreto emesso dalla Corte d’appello il ricorso in cassazione, che del resto non è contemplata neppure, come si è visto, per il concordato preventivo. Come per il concordato preventivo, anche in riferimento all’accordo di ristrutturazione dei debiti la possibilità di proporre il ricorso in cassazione riceve soluzioni opposte a seconda che si privilegi o meno la natura non decisoria dell’omologazione. Così, da un verso, al pari di ipotesi analoghe - quali il decreto che attribuisce efficacia alla separazione personale concordata tra i coniugi - il giudizio di omologazione dell’accordo di ristrutturazione si può considerare un procedimento giurisdizionale nell’ambito del quale non si accertano diritti soggettivi e la cui struttura non presenti le condizioni sistematiche per ricollegare al provvedimento finale l’efficacia del giudicato formale. Oppure, dall’altro verso, si può ritenere che, sebbene il provvedimento di omologazione non incida sui diritti soggettivi dei creditori coinvolti, consentire che la decisione sia suscettibile di essere rimessa in discussione si scontra con il fatto che la soluzione negoziata della crisi esplica effetto verso un elevato numero di soggetti (246). Quest’ultima soluzione incontra però un limite: la stabilità del provvedimento di omologazione può essere travolta se si ammettono le 246 Vi è, infatti, chi propone di accogliere l’idea di un provvedimento avente natura omologatoria e tuttavia stabile, diversamente da quel che avviene nella materia della separazione consensuale dei coniugi, in questo senso sembrerebbe esprimersi I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, cit. 609. 145 impugnative negoziali da parte di ciascun creditore; l’accordo potrebbe essere impugnato oltre che per «vizi funzionali», legati all’inattuazione degli accordi, anche per «vizi genetici» del singolo contratto. All’orizzonte dell’interprete si prospettano, allora, due strade. Se si ritiene ammissibile la proponibilità del ricorso in cassazione si privilegerebbe l’esigenza di stabilità del provvedimento giurisdizionale; ma così opinando occorrerebbe considerare assorbite le azioni negoziali di nullità e di annullamento nella previsione del ricorso in cassazione, perché, se così non fosse, sarebbe inutile invocare l’art. 111 Cost. per conferire stabilità all’accordo (247). Se, invece, come pare preferibile, contro l’accordo si ritengono ammissibili le azioni negoziali, sia per vizi funzionali (ad esempio, l’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c.), sia per vizi genetici (ad esempio, l’azione di nullità/annullamento ex art. 1418 c.c e 1427 c.c.), allora, non sussistono ostacoli a conservare l’operatività dell’istituto della revoca ex art. 737 c.p.c. in luogo dell’intervento del giudice di legittimità. Sugli strumenti di tutela utilizzabili dai creditori, in particolare dai c.d. «terzi-creditori» non aderenti all’accordo che ritengano di essere lesi dalle «esternalità negative» prodotte durante la fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione (quindi, per via di una abuso dello strumento in esame), saranno approfondite nel proseguo dell’indagine. 247 Cfr. I. Pagni, Contratto e processo nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti: analogie e differenze, cit. 609. 146 CAPITOLO III LA TUTELA DEI TERZI NELLA FASE ESECUTIVA. SOMMARIO: SEZIONE I. - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI DIRETTI: LE AZIONI NEGOZIALI. - 1. Premessa metodologica e traiettoria dell’indagine. - 2. L’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa: il coordinamento tra le disposizioni e la ricostruzione in chiave sistematica della relativa disciplina. - 2.1. Il ruolo degli organi della procedura: il coordinamento delle disposizioni. - 2.2. Il potere di segnalazione del commissario giudiziale: la spia di un etero tutela per i creditori - 3. L’autotutela delle parti. I vizi funzionali del negozio sulla crisi d’impresa: l’inadempimento e l’azione di risoluzione. - 3.1. I vizi genetici del negozio sulla crisi d’impresa: il dolo e l’azione di annullamento. - 4. Gli effetti sostanziali della risoluzione e dell’annullamento. - 5. Il procedimento e la richiesta di fallimento: gli effetti riflessi. Cenni e rinvio. - SEZIONE II. - LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI RIFLESSI: L’INDIVIDUAZIONE DEL RIMEDIO - 6. La deroga alla ripartizione del ricavato nell’eguale proporzione e nell’uguale condizione tra i creditori: gli effetti riflessi e la loro giustificazione sistematica. - 6.1. L’assenza di un controllo preventivo sugli atti esecutivi e il problema del vantaggio informativo durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziate: il possibile abuso degli effetti riflessi. - 7. Le conseguenze dell’abuso: il pregiudizio per i c.d. «terzi creditori» della fase esecutiva. - 8. La tutela dei c.d. «terzi - creditori» della fase esecutiva: la necessità di un preventivo giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi. - 9. L’oggetto del giudizio sulla meritevolezza di protezione degli atti esecutivi: le sopravvenienze fattuali nell’ottica degli effetti riflessi. 9.1- L’incapacità del piano a risolvere la crisi: l’impossibilità di giungere ad una risoluzione anticipata a tutela dell’interesse dei creditori. - 10 La struttura del giudizio: l’ammissibilità del revoca del decreto di omologazione. - 10.1 I motivi che potrebbero condurre alla revoca del decreto di omologazione: il difetto funzionale del negozio - 10.2 La legittimazione ad agire del curatore fallimentare: la riaffermazione della possibilità giuridica di agire con l’azione revocatoria e la limitata efficacia del rimedio. SEZIONE I LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI DIRETTI: LE AZIONI NEGOZIALI 147 1. - La fase esecutiva del concordato preventivo è stata riformata dal D. Lgs. 12 settembre 2007, 169 - c.d «decreto correttivo» - cercando di coordinare le disposizioni originarie con la nuova impostazione c.d. «privatistica» della procedura. L’accordo di ristrutturazione dei debiti non prevede invece alcuna disciplina della fase esecutiva, pertanto, alla luce della natura negoziale di tale istituto, la predisposizione di una eventuale disciplina ad hoc sarà rimessa integralmente all’autonomia delle parti. Occorre, tuttavia, soffermarsi compiutamente sulla disciplina della fase esecutiva, delle soluzioni negoziali, al fine di definire le modalità con cui può avvenire la produzione degli effetti diretti e riflessi. Tale indagine mira, segnatamente, ad individuare quali sono (o potrebbero essere, se non previsti) i rimedi utilizzabili per tutelare le situazioni giuridiche soggettive dei creditori, illegittimamente lesi durante l’esecuzione della soluzione negoziale. La problematica in questione attiene tanto al concordato preventivo, quanto all’accordo di ristrutturazione dei debiti, ragion per cui, il profilo in questione verrà affrontato in parallelo tra i due istituti. 2.- La fase esecutiva delle soluzioni negoziali prende avvio a seguito dell’emissione del provvedimento di omologazione (248). Il provvedimento di omologazione del concordato preventivo è provvisoriamente esecutivo e dev’essere pubblicato nel registro delle imprese; il provvedimento di omologazione dell’accordo di ristrutturazione 248 R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2354; M. Macchia, L’esecuzione del concordato preventivo, in Fall. 1992, 297; A. Bonsignori, Del concordato, in V. Scialoja - G. Branca, Commentario alla legge fallimentare, Bologna Roma, 1977, 498; P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 887; Cass. 17 novembre 1965, n. 2380, in Rep. Foro it. 1965 609; Cass. 27 aprile 1978, n. 6083, in Rep. Foro it. 1978, 1992; App. Firenze, 7 dicembre 1966, in Dir. fall. 1967, II, 644; contro Trib. Macerata, 1 giugno 1976, in Riv. it. prev. soc. 1977, 122; Trib. Parma, 26 settembre 1964, in Dir. fall. 1964, II, 463. 148 dei debiti, invece, non risulta beneficiare della provvisoria esecutorietà, per cui la fase esecutiva potrà avviarsi solo dopo che siano decorsi i termini per proporre reclamo, ovvero, dopo che si sia svolto il relativo giudizio avanti la Corte d’appello (249). Il decreto di omologazione segna, pertanto, la chiusura del procedimento di omologazione e l’inizio dell’attività esecutiva del negozio sulla crisi d’impresa. Dal punto di vista sostanziale, il provvedimento in parola produce: a) la modifica delle obbligazioni in conformità a quanto previsto nel negozio sulla crisi d’impresa (250); b) consente al debitore di riacquistare la disponibilità del proprio patrimonio, se il piano posto a base della ristrutturazione sia stato predisposto in una forma diversa dalla cessione dei beni o con una cessione soltanto parziale dei beni stessi ( 251); c) consente al debitore, nelle ipotesi in cui il piano preveda la prosecuzione dell’attività d’impresa, di gestire l’azienda senza il controllo dell’organo di vigilanza 249 G. U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 569; P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 887; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 329; A. Maffei-Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, V. Zanichelli, Concordati giudiziali, Torino, Padova, 2010, 309. 250 P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. 885, secondo cui: «La diversa tipologia che ora la proposta di concordato può assumere, con particolare riferimento proprio alle ipotesi nelle quali non venga specificata la percentuale di soddisfazione assicurata od addirittura non venga proprio prevista una soddisfazione in termini monetari, ma con mezzi alternativi, contemplati dalla norma, ha posto delle problematiche non di scarso momento in relazione alla posizione dei fideiussori e dei coobbligati per la difficoltà di commisurare il debito pagato e quello residuo al termine del concordato»; F. Audino, Commento sub art. 184 l. fall. in A. Maffei-Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2000, 736; A. Bonsignori, Del concordato, cit. 468. 251 V. però Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345, in Fall. 2011, 533 secondo cui ove in deroga all’art. 182 l. fall. nella proposta di concordato preventivo approvata dai creditori ed omologata sia stato attribuito direttamente al debitore (nella specie amministratore/liquidatore) un ampio potere discrezionale sulle modalità esecutive da adottare, senza nomina del liquidatore giudiziario e senza imposizione di regole alle quali è necessario conformarsi, il tribunale non può stabilire ulteriori modalità ad integrazione di quanto previsto e, in particolare, quelle concernenti l’autorizzazione del giudice delegato degli atti di straordinaria amministrazione e la nomina da parte di quest’ultimo organo dei coadiutori e professionisti. 149 (i.e. il commissario giudiziale) e senza il condizionamento degli atti di amministrazione straordinaria all’autorizzazione del giudice delegato (252). Va, innanzitutto, osservato che alla fase esecutiva del concordato preventivo è dedicata soltanto un’unica disposizione: l’art. 185 l.fall. (253). Il d.l. n. 35 del 2005 aveva modificato soltanto alcune disposizioni del concordato preventivo, lasciando inalterate proprio quelle riguardanti la fase esecutiva. Per tale ragione, si era posto il problema di comprendere se ed in che termini le norme contenute nell’art. 185 l.fall. fossero compatibili con la nuove disposizioni che accentuavano il carattere negoziale impresso al concordato preventivo (254). Successivamente con il c.d. «decreto correttivo» - d. lgs. 169 del 2007 - il legislatore ha modificato la disciplina di rimedi (la risoluzione e l’annullamento del concordato) cercando di eliminare le incongruenze determinate dalla frettolosa riforma del marzo del 2005 lasciando, tuttavia, invariata la disposizione dell’art. 185 l.fall. L’art. 185 l.fall. continua, infatti, a riportare la dicitura di «sentenza» per indicare la forma del provvedimento di omologazione, in luogo dell’attuale forma prescritta del «decreto motivato» e continua, altresì, ad operare un richiamo all’art. 136, 2° comma, l. fall. creando così una incompatibilità tra 252 L’art. 33, comma 1, lett. h), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni nella l. 7 agosto 2012, n. 134 ha introdotto il nuovo art. 186 - bis che disciplina il concordato preventivo con prosecuzione di attività. Si noti in particolare l’ultimo comma della nuova disposizione che introduce un penetrante controllo ad opera del Tribunale nella fase esecutiva: «Se nel corso della procedura iniziata ai sensi del presente articolo l’esercizio dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori, il tribunale provvede ai sensi dell’art. 173 l. fall. Resta salva la facoltà del debitore di modificare la proposta di concordato». 253 P. Giammaria, Commento art. 185, in C. Cavallini, (diretto da) Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 873; M. Vitiello, Commento all’art. 185, in G. Lo Cascio, (diretto da) Codice commentato del fallimento, 2008, 1658; T. E. Cassandro, L’esecuzione del concordato preventivo, in U. Apice (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, III, 406; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011, 647. 254 P. Marano, Sub art. 185 l. fall. in A. Jorio - M. Fabiani, (diretto e coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, 2601; G. Rago, L’esecuzione del concordato preventivo, in Fall. 2006, 1098; M. R. Grossi, La riforma della legge fallimentare, Torino, 2005, 358. 150 la disposizione in esame con quella introdotta al penultimo comma dell’art. 180 l.fall. Appare, dunque, evidente la necessità di compiere uno sforzo sinteticoricostruttivo della disciplina della fase esecutiva, al fine di coordinare le scarne disposizioni dettate in materia di esecuzione alla luce della nuova impostazione assunta dall’istituto concordatario. Tale attività ermeneutica dev’essere compiuta tenendo in considerazione due distinti profili Il primo, come ovvio, è quello dell’accentuazione della natura contrattuale impressa all’istituto del concordato. Al debitore, infatti, è stata accordata la possibilità di costruire il piano di ristrutturazione svincolandosi dalle tradizionali soluzioni della cessio bonorum e del concordato c.d. per garanzia (255). Il secondo, invece, attiene alla disciplina della fase esecutiva, che è definita, in realtà, tramite una costellazione di disposizioni, quali: a) la disposizione nell’art. 185 l.fall., espressamente dedicata all’esecuzione del concordato; b) alcune norme contenute nell’art. 181 l.fall; c) le disposizioni contenute nell’art. 182 l.fall. relative ai casi in cui l’esecuzione si svolga nell’ambito di un concordato per cessione dei beni; d) quelle contenute nell’art. 186 l.fall. che regolano la particolare azione di risoluzione e annullamento del concordato; e) la nuova disciplina del concordato con prosecuzione dell’attività ex art. 186 - bis l.fall. Alla luce di quanto precede, occorre preliminarmente definire le prerogative degli organi della procedura (Tribunale e commissario giudiziale) in conformità al principio dell’autonomia contrattuale che governa il nuovo concordato (256). 255 P. Pajardi - A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit. 887; S. Pacchi, L’omologazione. La risoluzione e l’annullamento. La chiusura del concordato preventivo, in S. Pacchi (a cura di), Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 252. 256 S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, 2008, 150; F. S. Filocamo, Commento art. 185 l. fall. in M. Ferro, (a cura di), La legge fallimentare, Padova, 2007; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011, 653. 151 In particolare, le funzioni del Tribunale e del commissario giudiziale devono essere definite alla luce: a) del principio dell’atipicità che governa il contenuto del piano concordatario; b) dell’abrogazione della norma contenuta nell’art. 181, comma 3°, nella sua formulazione anteriore alla riforma (257); c) dell’attribuzione della legittimazione ad agire per la risoluzione del concordato esclusivamente al singolo creditore rimasto insoddisfatto, o parzialmente insoddisfatto (art. 186 l. fall.). Le disposizioni appena richiamate permettono di ricavare un primo dato rilevante: l’esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa non contempla una ingerenza attiva da parte di organi esterni all’imprenditore. Dopo l’emissione del decreto di omologazione il debitore riacquista il potere di gestire - senza alcun vincolo - l’impresa e può provvedere direttamente alla fase esecutiva e adempiere agli impegni assunti nella proposta concordataria. Ciò potrebbe accadere, in realtà, anche nel caso in cui la proposta prevedesse la cessione dei beni ai creditori (258). 257 Si trattava dell’unica disposizione che, consentendo al Tribunale di determinare le modalità di versamento delle somme dovute in esecuzione del concordato, prevedeva l’ingerenza attiva dell’organo giurisdizionale nell’esecuzione del concordato per garanzia. 258 Sotto il vigore della disciplina originaria del ’42 si è cercato di accostare la disciplina della cessione dei beni del concordato preventivo alla cessio bonorum di cui all’art. 1977 c.c. ma la specifica fisionomia dell’istituto concorsuale impediva però di giungere ad una automatica estensione delle regole civilistiche, cfr. F. Ferrara - A. Brogiotti, Il fallimento, Milano, 1995, 210; E. Frascaroli - Santi, Il concordato preventivo, in L. Panzani (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Padova, 2000, 199; G. Rago, L’esecuzione del concordato preventivo, Padova, 1996, 97; Id. L’esecuzione del concordato preventivo, in Fall. 2006, 1094; per una completa analisi sulla natura giuridica della cessione concordataria cfr. A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1979, 64 e ss in cui vengono prospettati i diversi tentativi di ricondurre la cessione dei beni concordataria alla figura del mandato, al negozio satisfattorio, al pactum de non petendo ; v. anche: U. Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, 1590 secondo cui la cessione dei beni operava di una datio in solutum in favore dei creditori pro solendo o pro soluto con liberazione del debitore; alla riconduzione della cessione concordataria in un trasferimento della proprietà dei beni del debitore ai creditori si era replicato che tale eventualità non potesse realizzarsi, in quanto il decreto di omologazione non opera, in realtà, nessun trasferimento di proprietà a favore dei creditori, nei quali permane soltanto l’aspettativa di ottenere il pagamento di una percentuale, così A. Patti, La legittimazione processuale del debitore nel concordato preventivo con cessione dei beni tra titolarità (mantenuta) e disponibilità (trasferita del patrimonio), in Fall. 2001, 781. La giurisprudenza, dal canto suo, si era orientata per una 152 La disposizione dell’art. 182 l. fall. - alla luce della mutata cornice di riferimento - potrebbe assumere un ruolo lato senso sussidiario e, quindi, trovare applicazione solo nel caso in cui il debitore ometta di disciplinare interamente nella sua proposta concordataria la fase esecutiva (259). qualificazione giuridica della cessione dei beni del concordato preventivo nell’ambito della cessione dei beni civilistica, ai sensi degli artt. 1977 e ss c.c. affermando che sia nel caso in cui al debitore spetti l’eventuale sopravanzo (pro solvendo), sia nel caso in cui fosse riconosciuto il diritto dei creditori all’eventuale ricavo superiore alla percentuale offerta (pro soluto), non sarebbe stato configurabile un trasferimento della proprietà dei beni ceduti con immediata liberazione del debitore; secondo la giurisprudenza nel decreto di omologazione occorreva ravvisare il conferimento agli organi della procedura concordataria di una legittimazione a disporre dei beni, identificando tale conferimento in un mandato irrevocabile, perché rilasciato anche nell’interesse dei terzi, a gestire e liquidare il patrimonio, con liberazione del debitore, ai sensi dell’art. 1984 c.c., allorché i creditori avessero conseguito con il ricavato della liquidazione le somme loro spettante, così: Trib. Modena, 27 luglio 1990, in Giur. comm. 1992, II, 126; Cass. 18 dicembre 1991, n. 13626, in Fall. 1992, 470; Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Fall. 1993, 807; Cass. 13 aprile 2005, n. 7661, in Fall. 2005, 1435. 259 Cfr. Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345, in Fall. 2011, 533; in dottrina: M. Fabiani, Concordato preventivo per cessione dei beni e predeterminazione delle modalità della liquidazione, in Fall. 2010, 593, nota a Trib. Lodi 1° marzo 2010. Già nella vigenza della precedente disciplina si riteneva che il Tribunale poteva soltanto scegliere se omologare il concordato, ovvero, rigettare la richiesta di omologazione, ma non poteva per certo modificare la proposta, in questo senso: A. Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1977, 335; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 1894; in giurisprudenza: Cass. 12 giugno 1964, n. 1492, in Dir. fall. 1964, II, 149, la quale ha affermato che a motivo dell’opportunità di evitare ingerenze nella sfera di autonomia dei privati resta giustificato il divieto di modificazioni giudiziali della proposta. Inoltre, nel caso in cui la sentenza avesse omesso di citare talune clausole contenute nella proposta, vi era chi riteneva che tali clausole fossero comunque efficaci, in quanto, essendo la sentenza di accoglimento, essa non poteva che concernere l’intero novero delle clausole proposte dal debitore, così A. Bonsignori, Il fallimento, in F. Galgano (diretto da), Trattato diritto commerciale e diritto pubblico, IX, Padova, 1986, 845; in giurisprudenza cfr. Cass. 28 marzo 1983, n. 2213 in Fall. 1983, 1037; contra R. Provinciali, op. cit. 1895, che riteneva che in tal caso le clausole non riscritte fossero da ritenersi escluse o abbandonate. In senso parzialmente difforme si riteneva che il Tribunale potesse inserire precisazioni idonee a ricondurre il concordato nell’orbita della legge, senza alterare la volontà delle parti e che, comunque, la sentenza di omologa, sovrapponendosi agli accordi delle parti, fosse vincolante anche se difforme dalla proposta, così: S. Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 413; in giurisprudenza, con riferimento al concordato fallimentare: App. Torino, 26 maggio 1999, in Giur. mer. 2001, 679 secondo cui con la sentenza di omologazione, in quanto decisione «a contenuto vincolato», il tribunale non può apportare modifiche o aggiunte alla proposta di concordato, se non quelle destinate a ricondurre la stessa nell’orbita della legge. Il carattere c.d. vincolante della sentenza secondo alcuni avrebbe consentito l’esperibilità del rimedio di correzione materiale di cui all’art. 287 c.p.c. limitato però alle sole ipotesi in cui la difformità fra sentenza di omologazione e proposta fosse dovuta ad un mero errore materiale o di calcolo; qualora, al contrario, la difformità fosse sostanziale, si riteneva che fosse necessario proporre appello 153 Per cui, ove l’imprenditore abbia dettagliatamente previsto nel piano di concordato le modalità della liquidazione, la disciplina ideata dall’imprenditore potrebbe prevale rispetto a quella del nuovo testo dell’art. 182 l.fall. (260) L’autonomia del debitore non potrà però arrivare fino al punto di escludere la sorveglianza del commissario giudiziale e la possibilità per perché il vizio della sentenza era sintomatico del fatto che il tribunale non avesse esattamente vagliato la domanda del debitore, così: A. Bonsignori, Il fallimento, cit. 845, in conformità con quanto sostenuto dall’Autore in tema di immodificabilità della proposta. 260 Nella vigenza della precedente disciplina vi erano contrastanti orientamenti tra la dottrina e la giurisprudenza. Nella dottrina vi era chi riteneva prevalente gli aspetti pubblicistici e, di conseguenza, accomunava la figura del liquidatore giudiziale al curatore, e chi, al contrario, escludeva la possibilità di accostare la fase della liquidazione concordataria a quella fallimentare, cfr. per una ampia disamina G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 805 e ss; nella giurisprudenza, invece, era nettamente prevalente l’opinione per la quale il concordato con cessione dei beni dovesse essere ricondotto all’istituto privatistico disciplinato dall’art. 1977 e ss c.c., così: Cass. 13 aprile 2005, n. 7661, in Fall. 2005, 1435; Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, ivi, 1993, 807; Cass. 18 dicembre 1991, n. 13626, ivi, 1992, 470; contra Trib. Milano 10 luglio 1987, in Fall. 1988, 247 secondo cui il richiamo alle norme dettate dagli artt. 1977 ss c.c. non poteva comunque snaturare la natura pubblicistica della cessione dei beni, caratterizzata da un intervento diretto degli organi della procedura. Con il decreto correttivo del 2007 il legislatore ha profondamente mutato il quadro normativo di riferimento, equiparando la figura del liquidatore giudiziale a quella del curatore attraverso il richiamo espresso agli artt. 28, 29, 37, 38, 39 e 116 l. fall. Nella relazione accompagnatoria al D. Lgs. n. 169/2007, con riferimento alle modalità di liquidazione, si legge che con decreto correttivo si è voluto «dettare una più completa e razionale disciplina della liquidazione dei beni ceduti ai creditori, oggi rimessa alla discrezionalità del liquidatore e alle modalità non meglio individuate che dovrebbero essere stabilite dal tribunale allo scopo di garantire che le operazioni liquidatorie si svolgano correttamente ed efficacemente nell’interesse dei creditori». Il legislatore ha, quindi, voluto limitare il potere conformativo del Tribunale: quest’ultimo quando è chiamato a dettare o comunque ad integrare le modalità della liquidazione non è più libero di dettare discrezionalmente tali modalità, ma è vincolato all’adozione di quelle prescritte dalla norma, sia con riferimento alla nomina degli organi ed alle loro funzioni, sia con riferimento alle forme della liquidazione, che devono essere conformate a quanto previsto per la liquidazione fallimentare. Tuttavia, già prima della riforma la giurisprudenza di merito aveva ritenuto ammissibile che la liquidazione giudiziale fosse affidata allo stesso debitore. In particolare, si era ritenuto che nel caso in cui la proposta di concordato contemplasse l’indicazione del debitore quale soggetto deputato alla fase liquidatoria, il tribunale non avrebbe potuto nominare una persona diversa modificando tale clausola, potendo, semmai, negare l’emissione del provvedimento di omologazione, in questo senso: Trib. Milano, 2 luglio 1979, in Fall. 1980, 532 con nota di M. Lugaro, Concordato preventivo per cessione dei beni e liquidazione giudiziale ad opera dello stesso debitore; Trib. Milano, 15 marzo 1984, in Fall. 1984, 1050; Trib. Como, 15 dicembre 1988, in Fall. 1989, 759; Trib. Milano 11 gennaio 1993, in Fall. 1993, 443; contra Trib. Milano 4 luglio 1985, in Fall. 1986, 201. 154 quest’ultimo di sollecitare il controllo del giudice delegato (261). La permanenza degli organi della procedura nelle loro funzioni - sebbene in via di gestione non attiva - ma quanto meno di controllo indiretto, induce a ritenere che il legislatore non ha voluto lasciare lo svolgimento della fase esecutiva solo all’autonoma iniziativa del debitore. Anzi, proprio la permanenza degli organi della procedura nella fase esecutiva induce a ritenere che tale fase presenti ancora una forte connotazione pubblicistica, sebbene il carattere in parola sia attualmente configurabile in una forma notevolmente più attenuata (262). Quanto all’accordo di ristrutturazione, invece, anche dopo il c.d. decreto «correttivo» la disciplina positiva continua a tacere in ordine agli aspetti relativi alla fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione. La dottrina si è 261 Anche dopo la riforma è possibile però riconoscere una natura altamente «pubblicistica» alla fase di liquidazione del concordato con cessione dei beni, infatti, secondo parte della dottrina, nel caso di indicazione proveniente dal debitore della persona che dovrà svolgere le mansioni di liquidatore «costui non potrà definirsi liquidatore giudiziale, proprio perché la nomina non profanerà dal Tribunale, egli sarà, ragionevolmente un mandatario del debitore, ove non coincida con quest’ultimo», così A. Paluchowski, Sub art. 182, in P. Pajardi, (a cura di M. Bocchiola - A. Paluchowski) Codice commentato del fallimento, Milano, 2009, 1774. La giurisprudenza di legittimità ha comunque affermato che il liquidatore, tanto di nomina giudiziale, quanto di nomina del debitore, deve assolvere sempre ad una «funzione di tutela degli interessi dei creditori in vista della migliore riuscita della liquidazione dei beni ceduti», così: Cass. 16 luglio 2008, n. 19506, in Fall. 2008, 1397 con nota di commento G. Lo Cascio, Natura giuridica della liquidazione postconcordataria; in particolare, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il liquidatore deve compiere tutti quegli atti: «che il medesimo debitore non sarebbe più ormai libero di non compiere, per finalità satisfattorie dei creditori del tutto analoghe a quelle della procedura esecutiva fallimentare ed in un ambito di controlli pubblici del pari destinati a garantirei raggiungimento di tale finalità», così: Cass. 16 luglio 2008, n. 19506 cit. Alla luce del quadro che precede emerge, quindi, che la fase di liquidazione dovrebbe comunque svolgersi in un contesto procedimentalizzato, caratterizzato dal controllo pubblico in cui potrà essere sindacato l’operato del liquidatore. Così, ad esempio, il Tribunale, in forza del richiamo all’art. 37 l.fall. potrà revocare il liquidatore anche se nominato dal debitore o coincidente con lo stesso. Diversamente opinando la fase esecutiva non conoscerebbe, per vero, alcun potere di reazione dell’organo giudiziario pure ove emerga una sostanziale incapacità dello stesso ad esercitare la propria funzione, ovvero, una scarsa diligenza con la quale questa funzione venisse svolta. Si finirebbe, così, per consentire che il liquidatore possa porre in essere atti esecutivi difformi dalla proposta o dalle modalità di liquidazione indicate dal Tribunale, ovvero non proceda affatto all’esecuzione del concordato. 262 S.Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, cit. 150. 155 sforzata di colmare questa lacuna, interrogandosi sulle forme di controllo dell’operato dell’impresa debitrice, che senza alcuno ostacolo può procedere in solitudine ad eseguire il piano di ristrutturazione, il quale può essere votato tanto alla continuazione dell’attività, quanto alla liquidazione integrale degli assett (263). 2.1 – Ciò posto, seguendo il criterio metodologico poc’anzi dichiarato, occorre soffermarsi, in via preliminare, sulla disciplina degli organi della procedura: Tribunale e Commissario giudiziale. Il decreto di omologazione del concordato preventivo determina la conclusione dell’ingerenza attiva del commissario giudiziale e del giudice delegato nella gestione dell’impresa in crisi. Le loro funzioni, però, non si esauriscono, ma si trasformano (264). Entrambi gli organi continuano ad esercitare un controllo sulla condotta del debitore e sul rispetto degli impegni assunti nella proposta di 263 Cfr. E. Rovelli, Il ruolo del trust nella composizione negoziale dell’insolvenza di cui all’art. 182 - bis l.fall., in Fall. 2007, 597 il quale afferma che: «il piano di ristrutturazione non necessariamente mira - come invece mira il piano di risanamento attestato - alla prosecuzione dell’impresa, al ripristino della sua capacità di restare sul mercato, potendo, anche la soluzione privatistica della crisi, risolversi in una completa liquidazione dell’impresa». 264 T. E. Cassandro, L’esecuzione del concordato preventivo, cit. 409: «Le funzioni di ingerenza attiva attribuite, fino al decreto di omologa, al commissario giudiziale ed al giudice delegato - quanto al primo volte all’attività di vigilanza e quanto al secondo, ancorché oggi privato del potere direttivo, ancora titolare del potere autorizzativo degli atti di straordinaria amministrazione - cessano infatti con il deposito del decreto di omologazione, provvisoriamente esecutivo, e si trasformano in funzioni di controllo sull’adempimento del concordato»; A. Maffei - Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, cit. 1103; G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, cit. 653, per il quale: «Oggi l’attività di vigilanza del commissario giudiziale è divenuta molto più impegnativa perché non si tratta di sovrintendere al soddisfacimento dei creditori, secondo le modalità indicate nella proposta o di sorvegliare l’espletamento della liquidazione giudiziale, ma di svolgere operazioni che possono anche risultare di particolare complessità economica e giuridica. Pertanto è anche difficile tracciare un quadro esauriente dei compiti in cui debba esplicarsi non soltanto l’incarico del commissario e del liquidatore giudiziale, ma anche di ogni altro mandatario al quale è attribuito l’adempimento delle modalità di esecuzione del concordato». 156 concordato. Tale controllo è svolto nell’interesse dei creditori e, in generale, di tutti coloro che sono interessati all’adempimento del concordato (265). Quanto alle forme del controllo, occorre muovere innanzitutto dall’analisi dell’art. 185 l.fall. secondo cui il Tribunale deve stabilire le «modalità» di esecuzione e di adempimento degli impegni assunti nella proposta. Ora, le «modalità» a cui genericamente si riferisce l’art.185 l.fall. non potranno, a ben vedere, riguardare l’adempimento della proposta, che in conformità all’accentuato carattere privatistico dell’istituto concordatario devono restare in tutto e per tutto quelle definita dal debitore (266). 265 Cfr. ult. co. art. 186- bis l. fall. in cui viene attribuito al tribunale il potere ufficioso di attivarsi ai sensi dell’art. 173 l. fall. per interrompere la prosecuzione dell’attività impresa qualora questi risulti «manifestamente dannosa per i creditori». 266 Già nel vigore della precedente disciplina si riteneva che il commissario giudiziale sarebbe rimasto comunque preposto all’esclusiva sorveglianza dell’adempimento degli obblighi assunti dal debitore, in particolare, nel caso in cui le funzioni del liquidatore sarebbero state svolte dal debitore stesso; il liquidatore avrebbe, cioè, assunto un ufficio di diritto privato, assimilabile a quello del tutore, svolto sotto il controllo di soggetti pubblici e senza necessità di autorizzazione, così: G. Landolfi, Il liquidatore giudiziale nel concordato preventivo mediante cessione dei beni, in Dir. fall. 1991, I, 911. Nella relazione al decreto correttivo d. lgs. 169/2007 è affermato che: «l’ampliamento dell’uso degli strumenti negoziali e la maggiore scioltezza che caratterizzano la nuova disciplina della liquidazione dell’attivo nel fallimento inducono ad estendere tale disciplina alla fase liquidatoria del concordato preventivo la quale allo stato è rimessa alla discrezionalità del liquidatore ed alle modalità non meglio individuate che dovrebbero essere stabilite dal Tribunale ai sensi dell’art. 182 l. fall.» Nel caso in cui la proposta e il piano di concordato prevedano la regolamentazione negoziale dell’esecuzione, tale regolamentazione debba prevalere rispetto a quella pubblicistica, tuttavia, alla luce del richiamo all’art. 28 il liquidatore del concordato preventivo dovrebbe possedere i requisiti per la nomina a curatore fallimentare, per cui non potrebbe coincidere con il proponente, né con lo stesso commissario giudiziale, il quale non verrebbe ad assumere sia le funzioni di sorveglianza che gestoria della procedura, così: G. Lo Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 537; va, però, osservato che la giurisprudenza di legittimità Cass. sez. un. 16 luglio 2008, n. 19506 in Fall. 2008, 1394 ha affermato che la proposta di concordato preventivo si pone come alternativa a quella fallimentare in presenza di un soggetto che riveste ugualmente la qualità di imprenditore commerciale e versa in stato di insolvenza e che la vendita dei beni ceduti, ove pure se ne debba occupare il debitore o un suo mandatario, si pone in un contesto “proceduralizzato” in presenza di atti che il debitore non sarebbe in condizioni di compiere direttamente in vista di finalità satisfattorie dei creditori, non dissimili da quelli dell’esecuzione fallimentare e nell’ambito di controlli giurisdizionali che non potrebbero mancare. 157 Le «modalità» in parola potranno riguardare, invece, soltanto il controllo del commissario giudiziale durante la fase esecutiva. Il Tribunale potrebbe imporre al debitore concordatario obblighi strettamente funzionali all’esercizio del controllo (e, dunque, nella sostanza, di natura informativa), mentre non potranno essere introdotti obblighi miranti ad introdurre condizionamenti rispetto a tempi, forme e modalità dell’esecuzione (267). Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti, invece, non è prevista alcuna disciplina dell’attività di sorveglianza e di verifica che eventualmente potrebbe essere compiuta durante la fase di esecuzione. Le parti dell’accordo di ristrutturazione, tuttavia, hanno la facoltà di inserire all’interno dell’accordo meccanismi di tutela dei creditori. Tali meccanismi potrebbero consistere: a) nell’obbligo per il debitore di assicurare costanti flussi informativi sull’andamento della gestione e sulla situazione patrimoniale e finanziaria; b) nella facoltà dei creditori di avanzare in ogni tempo richieste di informazioni e di documentazione; c) nell’eventuale coinvolgimento di uno o più rappresentanti del ceto creditorio nell’organo di gestione e in quello di controllo (268). 267 Cfr. App. Milano, 20 marzo 2009, in Fall. 2010, 340, con nota di G. B. Nardecchia, La liquidazione del concordato preventivo per cessione di beni dopo il D. Lgs. 169/2007, il quale afferma che «Nel caso in esame la Corte d’appello di Milano ha affermato la correttezza della decisione del tribunale che, a fronte di una proposta che prevedeva l’indicazione di un liquidatore fornito di poteri gestori non meglio specificati, ha richiamato il liquidatore medesimo al rispetto dell’art. 185 l. fall. ed ha dettato disposizioni sul procedimento da adottare per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione [...] Il tribunale può limitare, ma solo in sede di omologa tale attività discrezionale con l’imposizione di termini e vincoli (nel rispetto di quanto previsto dall’art. 182 l. fall.) la cui osservanza è poi demandata al controllo del commissario e del giudice delegato sulla base delle relazioni periodiche del liquidatore. In definitiva appare evidente come nel concordato preventivo la fase della liquidazione sia ormai disciplinata in maniera profondamente differente a seconda che si trovi di fronte ad un concordato con cessione di beni o meno dato che in quest’ultimo ipotesi le modalità della liquidazione sono ancora interamente rimesse alla volontà negoziale delle parti». 268 S. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in A. Jorio - M. Fabiani (diretto da) Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, 2010, Bologna, 1166; M. Arato, Gli accordi di salvataggio o di liquidazione dell’impresa in crisi, in Fall. 2008, 1241. 158 2.2. - L’attività di controllo svolta dal commissario giudiziale durante la fase esecutiva del concordato preventivo risulta «qualitativamente» diversa rispetto a quello svolta durante la fase giurisdizionale in cui avviene la conclusione del negozio sulla crisi d’impresa (269). Il controllo che il commissario giudiziale è chiamato a svolgere durante la fase esecutiva va, innanzitutto, modellato sulla base del contenuto della proposta e del piano di concordato. Il commissario giudiziale dovrà verificare costantemente lo stato di avanzamento dell’esecuzione del piano e, in particolare, dovrà richiedere informazioni al debitore stesso sull’andamento della fase esecutiva. Ma a ciò dovrà provvedere il Tribunale, in modo più o meno preciso, a seconda delle caratteristiche del singolo caso concreto. Il commissario giudiziale non è più chiamato a verificare se le garanzie promesse esistano effettivamente, ovvero, se il debitore rispetti le scadenze temporali dei pagamenti, oppure, che nel caso di concordato per cessione dei beni il liquidatore adempia correttamente al proprio mandato. Occorre ad ogni modo ritenere che il commissario giudiziale debba comunque segnalare eventuali inadempimenti da parte del debitore agli impegni assunti. Tale dovere, diversamente da quanto accadeva prima della riforma, dovrebbe essere esercitato in favore del creditore o dei creditori interessati dall’inadempimento, al fine di informarli tempestivamente della possibilità di agire per richiedere la risoluzione del concordato. Il commissario giudiziale non può più richiedere la risoluzione del concordato e non dovrà più riferire al giudice delegato sulle condotte del debitore costituenti forme di inadempimento, ma dovrà informare soltanto i singoli creditori interessati. 269 Cfr. M. Vitiello, Sub art. 185 l. fall., cit. 1659; T. E. Cassandro, L’esecuzione del concordato preventivo, cit. 417; M. Marano, Sub art. 185 l. fall. in A. Jorio - M. Fabiani (diretto e coordinato), Il nuovo diritto fallimentare, II, Bologna, 2006, 2605. 159 Se, infatti, il piano concordatario prevedesse una ristrutturazione dei debiti piuttosto complessa potrebbe ragionevolmente accadere che non tutti i creditori possano avere tempestiva contezza dell’inadempimento, anche perché potrebbe anche non essere imputabile al debitore. Ad esempio: i) nel piano si prevede l’adempimento delle obbligazioni mediante l’attribuzione ai creditori di quote di una costituenda società e tale attribuzione deve avvenire a seguito di una fusione per incorporazione, ma l’atto di fusione non viene posto in essere alle scadenze concordate; ii) oppure, il piano prevede che le risorse economiche per i pagamenti devono essere reperite mediante la prosecuzione dell’attività d’impresa, ma quest’ultima continua a generare perdite economiche. Alla luce delle modifiche apportate all’art. 160 e dell’art. 186 l.fall., la funzione di sorveglianza del commissario e il controllo del giudice delegato devono ritenersi ormai mutati nella sostanza, nonostante l’immutato tenore letterale dell’art. 185 l.fall. Le prerogative del giudice delegato si sono senza alcun dubbio ridotte, in quanto: a) non è più competente a ricevere le segnalazioni dei fatti di inadempimento provenienti dal commissario; b) non può più dichiarare la risoluzione del concordato ex officio. Il commissario giudiziale ha assunto invece il compito di svolgere una stringente funzione di sorveglianza sul rispetto degli obblighi assunti dal debitore concordatario. La funzione di sorveglianza dovrebbe consistere: a) nel vigilare accuratamente sull’esecuzione della soluzione negoziata posta in essere dal debitore; b) nel segnalare ai creditori tutti gli eventi che possono compromettere la corretta esecuzione del piano concordatario, al precipuo scopo di consentire loro, ove lo vogliano, di agire tempestivamente con l’azione di risoluzione. 160 3.- La disciplina della risoluzione contenuta nell’art. 186 l.fall. è stata modificata dal c.d. decreto correttivo della riforma (D. Lgs. 169/2007). Il legislatore è intervenuto per cercare di armonizzare la disciplina del rimedio in questione in conformità ai nuovi principi informatori dell’istituto concordatario. La formulazione originaria dell’art. 186 l.fall. (richiamando l’art. 135 l.fall.) prevedeva sia la legittimazione ad agire del commissario giudiziale, che la possibilità per il Tribunale di dichiarare risolto d’ufficio il concordato, dichiarando contestualmente il fallimento del debitore concordatario. La disciplina attuale, invece, attribuisce la legittimazione ad agire esclusivamente ai creditori, anche singolarmente considerati (270), escludendo con ciò l’iniziativa del commissario giudiziale. La risoluzione del concordato preventivo, inoltre, è subordinata all’accertamento dell’«inadempimento di non scarsa importanza» (271). 270 La legittimazione spetta, altresì, anche ai creditori che siano rimasti estranei alla procedura per non essere stati convocati all’adunanza, cfr. C. Cost. 2 aprile 2004, n. 106, in Dir. fall. 2004, II, 679, con nota di A. Coppola, Il creditore pretermesso può richiedere il fallimento anche se il concordato non è stato annullato; la Corte ha disatteso la questione con una sentenza interpretativa di rigetto riconoscendo invece la sua legittimazione. 271 Cfr. G.B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, cit. 253 secondo cui il presupposto oggettivo dell’«inadempimento», necessario al fine di ottenere la risoluzione del concordato preventivo, non può essere definito in astratto, ma occorrerà procedere ad una attenta verifica in concreto del piano e della proposta. La proposta può prevedere, infatti, non soltanto una riduzione quantitativa dei crediti chirografari, am anche una modifica qualitativa della prestazione offerta, delle modalità di adempimento diverse dal pagamento, con la conseguenza che soltanto analizzando in concreto il singolo piano è possibile accertare gli effetti (dilatori, remissori, modificativi) che il concordato produce sui rapporti obbligatori. Allo stesso modo, soltanto dall’analisi della proposta è possibile stabilire il momento in cui si determinano gli effetti sui rapporti obbligatori coinvolti nel concordato, l’A. citato osserva: «Nell’ipotesi di concordato preventivo con garanzia che si concretizzi in una proposta di pagamento di una percentuale fissa, da eseguirsi in n tempo determinato, l’effetto remissorio, l’estinzione delle ragioni di credito eccedenti la quota concordataria, è direttamente conseguente all’omologazione, o, più correttamente, alla definitivi del decreto ex art. 180 l. fall. Nel concordato con cessione dei beni (che non preveda l’immediato trasferimento della proprietà in capo ai creditori) l’effetto estintivo parziale del credito potrà avvenire solo in fase esecutiva, dopo la suddivisione dell’attivo liquidato, nei limiti solo allora accertabili, delle entità non soddisfatte». In ogni caso, la 161 Per il resto, invece, la nuova formulazione dell’art. 186 l.fall. riproduce, in termini pressoché analoghi, la precedente disciplina: a) la risoluzione non può essere richiesta decorso un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato; b) la risoluzione non opera nel caso in cui gli obblighi concordatari sono stati assunti da un terzo, con conseguente immediata liberazione del debitore. La disciplina della risoluzione rappresenta una disposizione cardine del nuovo concordato, perché riafferma chiaramente il marcato carattere «contrattuale» assunto dall’istituto concordatario (272). Orbene, non può essere trascurato che il concordato preventivo rispetto al contratto bilaterale, si caratterizza per il fatto che una delle sue parti, quella costituita dalla massa dei creditori, ha natura eterogenea e plurisoggettiva. Tale particolare profilo soggettivo impone di definire il parametro di raffronto tra quanto è stato eseguito dal debitore durante la fase esecutiva e quanto, invece, è stato dallo stesso promesso nella proposta sottoposta all’approvazione dei creditori (273). Più precisamente, è necessario stabilire se il punto di vista da assumere per valutare l’inadempimento sia quello del singolo creditore, precisamente del creditore che ha presentato il ricorso per la risoluzione, ovvero, quello della massa dei creditori. Ciò è rilevante al fine di definire se l’eventuale inadempimento, così come l’eventuale sua non scarsa rilevanza, debbono essere individuati con riguardo alle aspettative di soddisfacimento del singolo o dell’intera categoria dei creditori. liberazione del debitore non può che essere ricollegata all’effettiva esecuzione del concordato, la quale può assumere diverse modalità a seconda del tipo di piano e proposta. 272 M. Vitiello, Sub art. 186 l. fall. in G. Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, cit. 1664; P. Gianmaria, Sub art. 186, cit. 879. 273 M. Vitiello, Sub art. 186, cit. 1663; P. Gianmaria, Sub. art 186, cit. per il quale: «mancherebbe, nella nuova procedura, la stessa possibilità di individuare un “massa” in senso tecnico, atteso che i creditori, nella nuova disciplina, vanno suddivisi non solo in base alla tipologia del credito stabilita dal codice, ma anche, e sopratutto in ordine alla “atipica” modalità di soddisfazione proposta nel concordato; essi, cioè, presentano caratteristiche talmente eterogenee da rendere del tutto improprio indicarli come “massa”». 162 Muovendo dalla premessa che la parte del negozio sulla crisi d’impresa è l’intera massa dei creditori, si deve escludere la risolubilità nell’ipotesi in cui l’«inadempimento» sia limitato a uno soltanto o a pochi creditori; così opinando si privilegerebbe, ovviamente, la conservazione dell’accordo (274). Verrebbe, cioè, valorizzata la peculiarità concorsuale dell’istituto e la sua funzione di strumento conservativo dell’impresa, ma si trascurerebbe che legittimato alla presentazione della domanda di risoluzione è il singolo creditore e che la richiesta non può affatto provenire da un organo in funzione rappresentativa della massa (275). Dopo aver risolto il profilo soggettivo, occorre affrontare il profilo oggettivo dell’inadempimento, dovendosi assegnare il corretto significato alla rilevanza dell’inadempimento degli obblighi previsti dalla proposta, in quanto il piano può prevedere modalità di adempimento diverse rispetto a quelle del passato. Così, ad esempio, la mancata esecuzione di alcuni passaggi intermedi del piano potrebbe non pregiudicare le aspettative di 274 Si afferma che, essendo il concordato un accordo tra il debitore e l’insieme dei creditori (accordo di carattere concorsuale), tanto che, conseguentemente, l’effetto risolutorio si estende automaticamente a tutti i rapporti creditori, la valutazione dell’importanza dell’inadempimento andrebbe parametrata al complesso degli obblighi assunti dal debitore e non al singolo rapporto obbligatorio con il creditore istante, così: V. Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, 332; A. Penta, La revoca dell’ammissione al concordato preventivo: rilevanza della percentuale offerta e della fattibilità del piano, in Fall. 2010, 865 - 866; G. Fauceglia, Esecuzione, risoluzione e annullamento del concordato preventivo, in G. Fauceglia - L. Panzani (a cura di), Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, 2009, 1769; A. C. Marrollo, L’inadempimento nella risoluzione del concordato preventivo dopo il D. Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, in Fall. 2009, 982; in giurisprudenza v. Trib. Milano 25 gennaio 2010, in Fall. 2010, 1315 secondo il quale l’inadempimento di non scarsa importanza è quello che tocchi almeno un quarto del totale delle obbligazioni concordatarie. 275 Poiché la legittimazione a chiedere la risoluzione è stata attribuita singolarmente ad ogni creditore e sottratta al commissario giudiziale, alcuni autori negano che un creditore possa far valere anche inadempimenti estranei alla sua sfera giuridica e, conseguentemente, ritengono che la valutazione dell’importanza dell’inadempimento debba essere limitata all’inadempimento fatto valere dal creditore (o dai creditori) istante, così: A. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2009, 1109; G. Rago, La risoluzione del concordato preventivo fra passato, presente e...futuro, in Fall. 2007, 1214; L. Pica, Il concordato preventivo, in P. Celentano - E. Forgino (a cura di), Fallimento e concordati, Torino, 2008, 1172. 163 soddisfacimento dei creditori (276); potrebbe però accadere che, sebbene il piano e la proposta abbiano trovato esatto adempimento sino ad un determinato momento, è altrettanto chiaro che da quel momento in poi il piano non potrà più esser portato ad integrale esecuzione e la proposta non potrà più essere integralmente adempiuta (277). Ora, a seconda del punto di vista soggettivo adottato, si avranno dirette ripercussioni sulla stessa operatività dell’istituto della risoluzione concordataria. Nella prima ipotesi, infatti, ai fini della risolubilità rileverebbe solo il rispetto degli obblighi concordatari, conformemente a quanto accadrebbe se l’inadempimento dovesse riferirsi anche a uno soltanto o a pochi dei creditori (278). Nel secondo caso, invece, sarebbe rilevante, quale causa risolutiva del concordato, anche la semplice previsione di non proseguibilità del piano concordatario, senza che fosse indispensabile attendere gli esiti della fase esecutiva. Ove si preferisse tale ricostruzione, occorrerebbe, però, chiedersi se la prognosi di inadempimento debba anch’essa essere svolta o meno alla luce del criterio della rilevanza di quest’ultimo (art. 1455 c.c.); 276 Cfr. G. B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fall. 2012, 258, il quale rileva che la :«violazione del piano potrebbe non determinare la risoluzione del concordato perché il debitore è comunque stato in grado di soddisfare i creditori nei termini della proposta, così come l’osservanza del piano non è di certo ostativa alla risoluzione del concordato ove il debitore non abbia comunque adempiuto alla proposta» 277 Cfr. P. Sisinni, Commento sub art. 186 l. fall. in A. Nigro - M. Sandulli - V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, III, Torino, 2010, 2364 che evidenzia come l’importanza dell’inadempimento non possa essere valutata avendo riguardo ai singoli passaggi del piano «dal momento che la mancata esecuzione degli stessi non necessariamente (ma solo in seguito ad una valutazione giudiziaria dei termini e delle percentuali di soddisfacimento) si traduce in un grave inadempimento della proposta concordataria, così come la loro osservanza non necessariamente conduce alla realizzazione del piano» 278 In senso contrario, sotto il vigore della precedente disciplina, cfr. Cass. 27 dicembre 1996, n. 11503, in Fall. 1997, 815, secondo cui: «nel giudizio di risoluzione del concordato preventivo per inadempimento degli obblighi concordatari, il tribunale non ha altro compito né altro potere che quello di accertare se il concordato fosse stato eseguito, o meno, nei termini e con le modalità stabiliti nel decreto di omologazione, senza alcun margine di discrezionalità in ordine alla valutazione della gravità o all’imputabilità dell’inadempimento»; in senso analogo: Cass. 10 gennaio 1996, n. 157, in Fall. 1996, 277. 164 come pure la prognosi della irrilevanza degli scostamenti dalle prospettive attuative, rispetto a quanto previsto nel piano (279). Potrebbe, poi, verificarsi l’ipotesi della sopravvenuta improseguibilità del piano non direttamente imputabile ad un inadempimento del debitore. Occorre, pertanto, interrogarsi se i fatti sopravvenuti, che si rivelino estranei alla sfera di volontà del debitore consentano o meno di ottenere la risoluzione del concordato. Sotto il vigore della passata disciplina, nel giudizio sulla risolubilità del concordato - in una prospettiva intesa a valorizzare il preminente interesse dei creditori - la giurisprudenza di legittimità accordava rilevo solo all’oggettivo inadempimento della proposta del concordato, prescindendo da ogni indagine sulla imputabilità o meno dell’inadempimento al debitore (280). Nell’affrontare il profilo delle sopravvenienze di fatto, è opportuno prendere le mosse dal mutato quadro generale di riferimento e considerare l’interesse alla conservazione della soluzione concordataria, il quale deve orientare in misura maggiore, rispetto a prima, le possibili soluzioni interpretative. Pertanto, nel caso di incolpevolezza dell’inadempimento, sarebbe forse opportuno che il Tribunale non provveda a dichiarare sic et 279 Cfr. G. B. Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fall. 2012, 259 secondo cui: «Solo ove si ipotizzi, come pare preferibile, l’esistenza di un interesse sovraindividuale, comune all’intera massa dei creditori concordatari (quello volto ad ottenere il massimo valore di realizzo, anche prospettico, dal patrimonio del debitore), potrà esservi spazio per una richiesta che si estenda ad inadempimenti diversi da quello dell’istante, e, di conseguenza, l’importanza dell’inadempimento potrà essere valutata alla luce del complesso degli obblighi assunti dal debitore. Interesse ad ottenere il massimo valore di realizzo, anche prospettico, dal patrimonio del debitore che dopo l’omologa si tramuta in un interesse comune all’adempimento del concordato»; T. E . Cassandro, L’esecuzione del concordato preventivo, cit. 440 il quale: «Deve però qui insistersi nella rilevata singolarità della scelta operata dal legislatore, che da un lato ha attribuito la legittimazione ad ogni singolo creditore, il che presuppone che l’inadempimento azionato al fine della risoluzione produce effetti, diretti o indiretti, sulla sfera giuridica, poiché diversamente difetterebbe l’interesse ad agire; dall’altro ha affidato le sorti del concordato alle determinazioni del singolo creditore, che può provocarne l’inefficacia nei confronti di tutto il ceto creditorio». 280 Cass. 25 marzo 1976, n. 1073, in Foro it. 1977, I, 2023; Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Fall. 1993, 807; Cass. 27 dicembre 1996, n. 11503, in Fall. 1997, 815; Cass. 10 gennaio 1996, n. 157, in Fall. 1996, 277. 165 simpliciter la risoluzione del concordato, ma tenti almeno di avviare un procedimento volto a conseguire una ridefinizione del piano o, per lo meno, ne consenta il tentativo. Il terzo comma dell’art. 186 l.fall. circoscrive poi la possibilità di utilizzare il rimedio della risoluzione entro un arco temporale ben determinato. Tale ambito temporale viene, però, ampliato rispetto all’abrogata disciplina. Non è più previsto un termine entro cui deve intervenire la pronuncia della risoluzione, ma soltanto il termine entro il quale deve essere depositato il ricorso inteso ad ottenerla. Il termine di decorrenza non coincide più con la scadenza dell’ultimo pagamento stabilito nel concordato, ma con la scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento. Si tratta di una modifica opportuna alla luce delle diverse modalità satisfattive che il piano concordatario può prevedere e, in particolare, a fronte della possibilità di prevedere forme di soddisfacimento del ceto creditorio alternative al pagamento. Il quarto comma dell’art. 186 l.fall. prevede l’esclusione della risolubilità del concordato se gli obblighi vengano assunti da un terzo, con liberazione immediata del debitore (c.d. concordato con assuntore). La ratio della previsione è chiara e va riposta nell’opportunità di non penalizzare ulteriormente il debitore, il quale ha ceduto il suo patrimonio all’assuntore. Resta, però, il problema di individuare gli strumenti di tutela dei creditori a fronte dell’inadempimento dell’assuntore. Da un verso, la giurisprudenza esclude che il concordato possa risentire della mancata esecuzione da parte dell’assuntore, con la conseguenza che soltanto nei confronti di quest’ultimo i creditori potranno indirizzare le loro azioni (281); dall’altro verso, invece, una parte della dottrina, ritiene che la risoluzione sia ammissibile nei confronti del solo assuntore, con la conseguenza che quest’ultimo verrebbe 281 In questo senso: Cass. 3 marzo 2000, n. 2400, in Fall. 2001 166 esautorato dalla liquidazione, la quale dovrebbe essere effettuata dagli organi della procedura (282). Non è stato riproposto il divieto di risolvere il concordato per cessione dei beni se a seguito della liquidazione ne sia derivato il soddisfacimento del ceto creditorio chirografario in una percentuale non inferiore al quaranta per cento (art. 186, secondo comma del testo previgente) (283). Tale omissione risponde, a ben vedere, ad una esigenza di coerenza con il nuovo sistema, che non impone più, come accadeva sulla base del previgente art. 160 l.fall. la condizione di ammissibilità rappresentata dall’offerta di pagamento del chirografo in una misura minima predeterminata dalla legge (il quaranta per cento, appunto). Nel nuovo sistema, invece, occorre stabilire se, qualora la proposta preveda la cessio bonorum o comprenda, tra le varie opzioni, anche una cessio bonorum, la risoluzione sia condizionata soltanto al mancato pagamento in una qualsiasi percentuale, anche minima, dei chirografari, ed al mancato soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati. La soluzione dipende, in realtà, dalla premessa da cui si intende muovere: se si considera che è stata abrogata la norma di cui al testo originario dell’art. 186, secondo comma, l. fall. è possibile che il debitore possa limitarsi, nella sua proposta, a proporre la cessione dei suoi beni, o di determinati beni, senza vincolarsi ad alcuna garanzia di soddisfacimento in termini percentuali. In questa prospettiva, la risoluzione del concordato potrebbe derivare dal totale mancato pagamento dei creditori chirografari o, per il caso di divisione di questi ultimi in classi, di quelli appartenenti ad una delle classi stesse, e dal 282 In questo senso: G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova,1994, 540; F. Ferrara, voce Concordato fallimentare, in En. dir. VIII, Milano, 1961, 507. 283 B. Inzitari, Il soddisfacimento dei creditori forniti di prelazione e la risoluzione del concordato preventivo con cessione dei beni, in Giur. comm. 1990, 383; G. Ferra, Sulla risoluzione del concordato preventivo con cessione di beni ai creditori, in Riv. dir. civ. 1969, II, 503. In giurisprudenza v. Trib. S.M. Capua Vetere 23 luglio 2002, in Fall. 2003, 224. 167 mancato soddisfacimento dei privilegiati in misura integrale o nella misura promessa, per il caso in cui la proposta preveda la falcidia dei privilegiati o di alcuni di essi. Se invece si ritene che il debitore deve indicare con precisione il risultato conseguibile per i creditori - a prescindere dalle modalità satisfattive che il piano può in concreto assumere - la risoluzione potrà essere richiesta e disposta sulla base del mero inadempimento di non scarsa importanza (284). Tuttavia, la previsione di una soddisfazione dei creditori secondo percentuali e tempi non rigidamente predeterminati ma rimessi alle modalità esecutive della liquidazione, potranno comunque ritenersi compatibili con il nuovo sistema. Occorre infatti riconoscere che il sistema non impone più al debitore alcun vincolo formale nella costruzione del piano concordatario e nella definizione della proposta. L’imprenditore, ad esempio, può prospettare che a seguito della liquidazione del patrimonio possa derivare una percentuale di adempimento dei creditori chirografari inferiore al quaranta per cento; può, altresì, prevedere, a certe condizioni, la falcidia del creditore privilegiato. Inoltre, va osservato che il debitore è libero di prevedere la cessione di una parte soltanto dei beni, ovvero, prevedere la cessione di alcuni beni come forma accessoria o a garanzia di altre forme di soddisfacimento dei creditori. In relazione all’accordo di ristrutturazione dei debiti, invece, il legislatore non ha predisposto alcuna disciplina dei rimedi utilizzabili dai creditori per contestare l’efficacia dell’accordo successivamente all’omologazione. Ora, durante la fase esecutiva potrebbe accadere che l’accordo non possa più trovare regolare esecuzione o, comunque, che la sua esecuzione non possa più assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei (c.d. vizi funzionali). Inoltre, potrebbero sorgere fatti ostativi all’esecuzione, strettamente dipendenti tanto dal contenuto dell’accordo, quanto dalle 284 In questo senso è orientata la giurisprudenza maggioritaria: Trib. Monza, 16 ottobre 2005 e Trib. Monza 28 settembre 2005, Fall. 2005, 1402; Cass. 9 maggio 2007, n. 10634, in Fall. 2007, 1297. 168 modalità con cui è stato concluso l’accordo (i c.d. vizi genetici), che potrebbero condurre, ad esempio, alla dichiarazione di nullità (per illiceità della causa o - forse meglio - dei motivi comuni) o annullamento dell’accordo. Ora, di fronte a tali sopravvenienze, si potrebbe essere indotti a ricercare la soluzione nei rimedi già predisposti per il concordato preventivo, quali la risoluzione e l’annullamento ex art. 186 l.fall. Tuttavia, tale operazione ermeneutica non pare praticabile in quanto, diversamente dal concordato preventivo, l’accordo di ristrutturazione è un vero e proprio contratto, efficace solo inter partes (seppure oggetto di un provvedimento di «omologazione» e capace di riverberare sui terzi gli effetti legali che ne discendono). La natura negoziale dell’accordo di ristrutturazione consente certamente di ammettere il rimedio della «risoluzione» tipicamente di diritto comune disciplinata dagli artt. 1453 c.c. Ma il rimedio contrattuale in questione è accessibile solo ai creditori aderenti all’accordo ed è utilizzabile soltanto a partire dal momento in cui si constati che l’accordo non stia trovando più regolare esecuzione (285). I c.d. «terzi-creditori», invece, oltre ad avere la possibilità di opporsi all’omologazione, dovranno, invece, avvalersi degli altri strumenti di tutela che normalmente l’ordinamento accorda a qualunque situazione obbligatoria che non stia trovando attuazione; fra i quali, il più noto, la proposizione dell’istanza di fallimento, sempre che dall’insuccesso dell’accordo, 285 M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ. 2009, 358 per il quale: «Neppure è esclusa, in principio, la possibilità che una delle parti si limiti ad opporre un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.). Però è pur chiaro che, tendenzialmente, l’interesse perseguito nel caso in questione non è tanto quello dello scambio di prestazioni in sé (ed anzi, profili di diretta corrispettività potrebbero anche non emergere affatto, quante volte ad una mera novazione decrementativa del diritto di uno dei creditori, evidentemente volta a favorire l’uscita dalla crisi del debitore, non corrisponda una controprestazione ad hoc di quest’ultimo), quanto quello di realizzare la rimozione dello stato di crisi. Sicché, è plausibile che non saranno tanto singoli inadempimenti a costituire oggetto di contestazione, quanto il venir meno - sia pure per loro effetto - della possibilità di realizzare la finalità complessiva dell’accordo, invocandone allora la risoluzione». 169 rivelatosi inidoneo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori istanti, emerga un effettivo stato di insolvenza del debitore. 3.1. - Ulteriore rimedio negoziale predisposto per il concordato preventivo è costituito dall’azione di annullamento. Il nuovo art. 186 l.fall. disciplina l’annullamento del concordato preventivo operando un mero rinvio alla disciplina dettata all’art. 138 l.fall. per l’annullamento del concordato fallimentare. La disciplina dell’art. 138 l.fall. sebbene sia stata modificata con il decreto correttivo n. 169 del 2007 è rimasta - nella sostanza - inalterata rispetto a quella antecedente. L’unica novità attiene al riferimento temporale ancorato all’«ultimo adempimento» e non più all’«ultimo pagamento», quale termine di decorrenza del periodo utile per la presentazione dell’istanza. Si tratta, anche in tal caso, di una modifica che era necessaria alla luce del possibile contenuto atipico della proposta. I motivi che possono condurre all’annullamento del concordato preventivo restano sempre e soltanto due: a) la «dolosa esagerazione del passivo»; b) la «sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo». Continuano, pertanto, a rimanere privi di sanzione altri comportamenti, anche gravi, posti in essere dal debitore con finalità fraudolente, quali ad esempio il mercato del voto (286). Le condotte tipizzate devono essere necessariamente sorrette dall’elemento psicologico del dolo e giustificano l’annullamento perché dalle stesse emergerebbe l’intenzione del debitore di ingannare il ceto creditorio in relazione, in particolare, al requisito della convenienza della proposta. Proprio per tale ragione l’annullamento del concordato provoca la caducazione, con efficacia retroattiva, di tutti gli effetti negoziali conseguenti omologazione. 286 G. U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2007, 766 170 La dolosa esagerazione del passivo non pone, in realtà, alcun problema interpretativo, in quanto può essere integrata, alternativamente o cumulativamente, dalla esposizione di inesistenti crediti o dalla rappresentazione di debiti in misura superiore al reale (287); viceversa, per quanto attiene alla dissimulazione di attivo si esclude la configurabilità della fattispecie nel caso in cui i beni siano stati sottostimati, ma risultino comunque individuati nelle loro caratteristiche essenziali (288). Per l’ipotesi della sottrazione dell’attivo la norma prevede l’ulteriore requisito della rilevanza; tuttavia, pare corretta l’estensione del requisito in parola, in via interpretativa, anche all’esagerazione del passivo, quale espressione di un principio secondo cui soltanto le alterazioni idonee ad incidere sulla volontà dei creditori assumono valenza ai fini della possibile risoluzione del concordato (289). 4. - Tanto la risoluzione del concordato, quanto l’annullamento, danno luogo alla caducazione degli effetti negoziali dei rapporti giuridici autorizzati dal provvedimento di omologazione, primo tra tutti quello esdebitativo (art. 184 l. fall.). A seguito della declaratoria di risoluzione o annullamento i creditori avranno la possibilità di insinuare il credito nel successivo fallimento per l’intero e originario ammontare, ovvero, nell’ipotesi in cui il debitore ritornasse in bonis - ad esempio, per l’accertata carenza del presupposto dello stato di insolvenza, o per la mancanza di ricorsi o richieste di fallimento - i creditori potranno agire in via esecutiva individuale per il recupero dell’intero ammontare originario del credito. 287 A. Bosignori, Concordato preventivo, in V. Scialoja – M. Branca. La legge fallimentare, Bologna - Roma, 1979, 530. 288 Cfr. Cass. 19 gennaio 1987, n. 396, in Fall. 1987, 594. 289 Cfr. A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 529; S. Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 432; e dopo le recenti riforme: G. Fauceglia, La risoluzione e l’annullamento del concordato preventivo, in Fall. 2006, 1107. 171 Nonostante l’ampia riforma che ha interessato la legge fallimentare, l’art. 186 l.fall. non consente di chiarire quale sia il regime di efficacia degli atti compiuti in epoca anteriore all’apertura della procedura, nel caso in cui alla risoluzione del concordato consegua la dichiarazione di fallimento. Ora, seguendo i criteri generali, gli atti compiuti prima dell’apertura del concordato potranno essere soggetti all’azione revocatoria fallimentare, sulla base del noto fenomeno della consecuzione delle procedure, ravvisabile anche nel caso in cui la dichiarazione di fallimento consegua alla risoluzione del concordato (290). Per quanto riguarda invece l’accordo di ristrutturazione di debiti occorre rilevare che «manca un espresso coordinamento fra un’eventuale dichiarazione di fallimento richiesta dai creditori estranei e la sorte dell’accordo omologato, concluso con gli altri creditori» (291). Per cui, in linea di principio, e dal punto di vista sostanziale, si dovrebbe ritenere che a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento si caducheranno tutti gli effetti negoziali dell’accordo omologato. 5. - L’art. 186 l.fall. omette poi di disciplinare gli aspetti processuali e rinvia, quanto agli stessi, all’art. 137 l.fall. il quale a sua volta rinvia all’art. 15 l. fall. che disciplina il procedimento fallimentare. La riforma consente di superare la duplicità di percorsi processuali che nel vigore della passata disciplina avrebbero potuto verificarsi tra, da un lato, il procedimento di risoluzione, per il quale era prevista la forma camerale, destinata a sfociare in un decreto in caso di rigetto del ricorso per la risoluzione e di sentenza di fallimento nell’opposta ipotesi, e, dall’altro 290 In questo senso: G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, 746; A. Patti, La conversione delle procedure concorsuali, in Compendio fallimentare, coordinato da G. Lo Cascio, Milano, 1996, 487; contra A. Bonsignori, Concordato preventivo, cit. 516; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 2365. 291 In questo senso: S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 313, secondo la quale la mancata omologazione dell’accordo per la ristrutturazione dei debiti indipendentemente dalla dichiarazione di fallimento che ne potrebbe conseguire - comporta anche l’invalidità e, dunque, l’inefficacia dell’adesione espressa dei creditori. 172 lato, il procedimento di annullamento, per il quale era previsto l’instaurazione del rito ordinario, che si concludeva sempre con una sentenza, avverso la quale sarebbero stati esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione. La disciplina del procedimento di risoluzione e annullamento ora è unica; resta unicamente la differenza in punto di legittimazione attiva: a) nel caso della risoluzione, la legittimazione ad agire è limitata ai soli creditori, anche individualmente considerati; b) nel caso dell’annullamento, invece, la legittimazione è estesa anche al commissario giudiziale. In entrambi i casi, sia che si tratti di risoluzione o di annullamento del concordato, è comunque esclusa la legittimazione attiva del debitore in concordato. Per il resto, il rinvio all’art. 15 l.fall. risponde all’esigenza di verificare, nel contraddittorio delle parti e, quindi, con il necessario contraddittorio del debitore se, oltre ai presupposti cui la legge subordina la risoluzione o l’annullamento, siano presenti i requisiti di assoggettabilità a fallimento, e segnatamente (stante l’equivalenza, nel fallimento e nel concordato, del presupposto soggettivo), se sussista lo stato di insolvenza, non necessariamente integrato dalla crisi che aveva legittimato l’imprenditore alla presentazione della domanda di concordato (292). Nel caso in cui il procedimento camerale previsto dall’art. 15 l. fall. consenta di accertare, sussistendo i presupposti di risoluzione o annullamento, che il debitore, oltre che in crisi, è anche insolvente, il tribunale, previa applicazione analogica dell’ultimo comma dell’art. 180 l.fall., dovrà emettere contestualmente al decreto, a seconda dei casi, di risoluzione o annullamento, la sentenza dichiarativa del fallimento. 292 Cfr. E. Bertacchini, Commento sub art, 137 l. fall. in A. Nigro - M. Sandulli - V. Santoro (a cura di) La legge fallimentare dopo la riforma, III, Torino, 2010, 1836. 173 Nell’ipotesi in cui non si dovesse risolvere o annullare il concordato, o nel caso in cui, nonostante la risoluzione o l’annullamento, dovesse emergere che l’imprenditore non sia in stato di decozione, il procedimento si concluderà soltanto con un decreto, di rigetto o accoglimento del ricorso per la risoluzione o l’annullamento. La necessità di coordinare la disciplina in esame con l’esclusiva iniziativa di parte, esclude la possibilità che il Tribunale pronunci la sentenza di fallimento, contestualmente al decreto che dichiara risolto o annullato il concordato, se non in presenza di un ricorso di fallimento presentato da un creditore o della analoga richiesta del pubblico ministero (293). Tenendo presente ciò, nel caso in cui dovesse mancare il ricorso di fallimento, da parte del ricorrente per la risoluzione o per l’annullamento, il tribunale avrà cura di trasmettere gli atti del procedimento al pubblico ministero, secondo quanto previsto dall’art. 7, ult. co., l. fall. per consentire, eventualmente, all’organo della pubblica accusa di presentare la sua richiesta di fallimento in vista dell’udienza fissata ex art. 15 l. fall. (294) SEZIONE II LA CONTESTAZIONE DEGLI EFFETTI RIFLESSI: L’INDIVIDUAZIONE DEL RIMEDIO. 6.- Resta dunque da verificare se sussiste la possibilità di contestare anche la produzione dei c.d. effetti riflessi. 293 S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, 2008, 154; G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali. Aggiornamento al d. lgs. 169 del 2007, Milano, 2008, 1027; G. U. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2007, 572. 294 Si consentito rinviare a R. Fava, La segnalazione dello stato di insolvenza al p.m. tra principio di terzietà e par condicio creditorum, in Corr. mer. 2010, 943 e ss. 174 Tali effetti si verificano solo a seguito della dichiarazione di fallimento e danno luogo alla riduzione della garanzia patrimoniale che avrebbe potuto essere assoggetta ad esecuzione concorsuale. La riduzione in parola si origina in quanto gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse durante la fase esecutiva non possono essere aggrediti con l’azione revocatoria fallimentare in virtù di quanto previsto dalla disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. Se, infatti, la soluzione negoziata non riuscisse a traghettare l’imprenditore fuori dalla crisi d’impresa e si convertisse nella procedura fallimentare, la disposizione in parola impedirebbe agli «atti esecutivi» del negozio sulla crisi d’impresa di essere dichiarati inefficaci rispetto alla massa dei creditori. Più precisamente, la disposizione in esame realizza il «consolidamento» di tutti i pagamenti, di tutte le garanzie concesse e, più in generale, di ogni atto dipendente dal negozio sulla crisi d’impresa. L’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare accordata agli «atti esecutivi» delle soluzioni negoziate rappresenta la principale novità introdotta dal legislatore delle recenti riforme (295). L’effetto protettivo accordato rappresenta il punto di forza delle nuove soluzioni negoziate, tant’è che può essere assunto quale vera e propria «presupposizione» del consenso prestato dal creditore. Il creditore, infatti, potrebbe essere indotto a prestare il consenso perché attratto «dal miraggio» di conseguire - anche parzialmente - l’adempimento del credito, senza sentirsi esposto al rischio di subire un’azione revocatoria fallimentare nell’ipotesi che la soluzione negoziale si converta in fallimento. La revoca delle garanzie o dei pagamenti - sopratutto a distanza di tempo - implica, 295 C. D’Ambrosio, Art. 67, comma 3°, lett. d), e), g), in A. Jorio - M. Fabiani, (diretto e coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, 985; G. B. Nardecchia, Crisi d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Milano, 2007, 98; S. Bonfatti, Gli atti di “esecuzione” in generale delle procedure concausali minori, degli accordi di ristrutturazione e dei “piani” di risanamento, in S. Bonfatti, La disciplina dell’azione revocatoria, Milano, 2005, 185. 175 inevitabilmente, un peggioramento della condizione del creditore a seguito della crisi dell’imprenditore. Se l’imprenditore non provvede ad adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, il creditore ha ragione di temere che l’incapacità temporanea possa sfociare nella definitiva «incapienza» patrimoniale. I creditori in grado di acquisire tempestivamente informazioni sulla situazione patrimoniale del debitore tenderanno, pertanto, a sfruttare il vantaggio informativo a danno degli altri, ad esempio, agendo immediatamente in via di autotutela per conseguire un pagamento o per ottenere una causa di prelazione. Nel momento in cui si manifesta l’incapacità patrimoniale del debitore, si genera una situazione di competitività e conflittualità tra i creditori, in quanto il soddisfacimento di uno o di pochi può determinare un danno per gli altri. Proprio per questo motivo l’apertura della procedura concorsuale interferisce con le pretese e le esecuzioni individuali, rendendole inammissibili e improcedibili (296). L’incapacità patrimoniale del debitore, la conflittualità che la stessa origina tra i creditori e, soprattutto, la diversa possibilità che i creditori hanno di accorgersi di tale stato, giustificano l’abbandono del principio prior in tempore, potiore in iure in favore del principio della par condicio creditorum (297). 296 S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, cit. 67; R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, cit. A. Bonsignori, Il fallimento, Padova, 1986, 101. 297 Come noto, il principio della par condicio creditorum - che trova il suo referente normativo nell’art. 2741 c.c. - non è un principio assoluto, in quanto sussistono le cause legittime di prelazione. Tale principio della parità di trattamento conoscerebbe, in realtà, oltre ad una «relatività» sostanziale, anche una «relatività» di natura c.d. processuale, in questo senso: V. Colesanti, Mito realtà della «par condicio creditorum», in Fall. 1984, 32; sulla c.d. «relatività» del principio della par condicio creditorum v. anche: P. Schlesinger, L’eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Riv. dir. proc. 1995, 318, per il quale «il principio in questione rappresenta solo uno strumento comodo per la soluzione di un problema distributivo altrimenti difficile o addirittura irresolubile, senza alcuna pretesa di giustizia sostanziale»; in senso analogo: P. G. Jaeger, Par condicio creditorum, in Giur. comm. 1984, 88, per il quale: «La par condicio creditorum non è un principio assoluto, ispirato a interessi superiori, di carattere economico, sociale o ideologico. Essa risponde, piuttosto, a criteri di “ordine” nelle procedure concausali, che 176 Il principio poc’anzi richiamato è perseguito, da un verso, precludendo creditori di agire individualmente sul patrimonio del debitore fallito, e, dall’altro verso, imponendo ai creditori di partecipare proporzionalmente alla distribuzione del dividendo patrimoniale, nonché ai costi e alle perdite conseguenti. Il principio della parità di trattamento si sostanzia, in altri termini, nel diritto all’uguale percentuale di credito assegnabile, nel senso che ogni creditore di uguale natura e rango ha diritto alla medesima percentuale di adempimento del credito. L’«eguale» diritto dei creditori ad essere soddisfatti sul patrimonio del debitore (art. 2741 c.c.) viene così a consistere in un criterio di partecipazione proporzionale tanto alla distribuzione del ricavato dalla vendita del patrimonio, quanto alle perdite che dipendenti dalla sopravvenuta incapacità patrimoniale del debitore. L’«eguale» diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni (residui) del passano in secondo piano di fronte al riconoscimento di interessi prevalenti meritevoli di tutela. Come tale, ha, effettivamente, un valore “residuale” il che non toglie che gli si possa riconoscere un’impronta di generalità, dopo che sia chiarito l’ambito e la portata delle ipotesi “eccezionali”, nelle quali non trova applicazione. Infine, non è possibile sostenere che dal principio derivino diritti soggettivi, e neppure posizioni soggettive tutelate in quanto tali, dal momento che queste ultime rappresentano, semplicemente, il riflesso di precetti obbiettivi», l’A. conclude, pertanto, che: «in definitiva la par condicio creditorum [...] rappresenta una tendenziale esigenza del concorso fallimentare, ma che non può realizzarsi col carattere dell’assolutezza senza porre il rischio di istituire un sistema di sostanziale disincentivazione dei rapporti economici e commerciali». La riflessione sulla contrapposizione dei principi prior in tempore, potiore in iure e par condicio creditorum è apparsa anche nella letteratura anglosassone, in un noto - e forse unico - libro dedicato al tema dell’etica del fallimento: J. Kilpi, The ethics of bankruptcy, Rutledge, London - New York, 1998, 13, ove emerge subito che: «Thus, interference in individual debt collection is justified because the target of individual seizure efforts is actually a common pool to which no sole person should have an exclusive right.»; tuttavia, secondo l’A. in esame, in tale contesto fattuale, da un punto di vista etico, l’impossibilità di agire in via di autotutela individuale, e l’assoggettamento di tutti i creditori ad una procedura unitari, collettiva e concausale, si spiega in quanto per effetto dell’insolvenza il debitore per il diritto (morale) di proprietà dei beni, che viene acquisita dalla massa dei creditori, cfr. op. loc. ult. cit. «Ethically it is a recognition that the debtor’s insolvency has extinguished her moral right to her property and the joint right of creditors has taken over. The institution of bankruptcy, by transferring the property to the creditors’ joint control, gives legal expression to this ethical idea». 177 debitore, a fronte del rischio di un generale inadempimento, viene garantito, più precisamente, ponendo tutti creditori in un’identica condizione (298). La procedura concorsuale risponde a tale esigenza e tenta di risolvere il conflitto sorto tra i creditori creditori prefallimentari cercando di garantire a tutti i creditori la medesima opportunità di essere soddisfatti (299). L’ordinamento vuole evitare che alcuni creditori si approprino di tutto il patrimonio e che ad altri creditori non sia riconosciuto ciò che è loro dovuto (300). Tale finalità è perseguita con una duplice efficacia: a) ex nunc, cioè dal momento in cui si apre il concorso tra i creditori; b) ex tunc, vale a dire, dal momento in cui si presume che lo stato di incapacità patrimoniale fosse conoscibile per i creditori (301). Il sistema di ripartizione fallimentare tende 298 L’uguaglianza delle condizioni iniziali di partecipazione alla ripartizione dell’attivo fallimentare è particolarmente avvertita nella letteratura anglosassone, in particolare dai teorici giusnaturalistici che considerano l’uguaglianza giuridica dei creditori come il riflesso di una uguaglianza di diritto naturale, cfr. J. Finnis, Natural law and natural rights, Oxford, Clarendon Press, 1986, 190, secondo cui: «The debts te prove are paid to te pari passu. That is to say, each receives, from the pool remaining after payment of preffered creditors, the same percentuale of the debt owed to him (not the same percentuale of chat pool); if the pool is insufficient the claim each abates proportionately. This is, then, another instante of the geometrical equality which, as oppose to arithmetical equality, si characteristic of distributive justice». 299 Cfr. J. Kilpi, The ethics of bankruptcy, cit. passim per il quale l’uguaglianza dei creditori deve essere intesa come valore metanormativo, che attiene proprio alla posizione dei creditori di fronte al patrimonio dell’imprenditore insolvente; nella prospettiva di Kilpi, in realtà, la procedura concorsuale è la risposta normativa al problema etico della conflittualità dei creditori e si tratta di un problema etico in quanto attiene al comportamento di più soggetti in uno stato di conflittualità; in argomento cfr. V. De Sensi, L’etica del fallimento, in archivioceradi.luiss.it, 2002, 11 secondo cui: «Parlare di etica del fallimento non vuol dire parlare di qualcosa di fumoso, privo di consistenza e di utilità scientifica, al contrario significa recuperare i criteri di orientamento sia nella interpretazione ed attuazione della disciplina attuale, sia nella impostazione di un futuro assetto normativo». 300 Cfr. V. De Sensi, L’etica del fallimento, in archivioceradi.luiss.it, 2002, 11 secondo cui dal punto di vista etico la concorsualità tra i creditori non sembra molto lontana dal concetto di giustizia assunto da Aristotele (l’A. richiama Aristotele, Etica nicomachea, tradotto da Natali, Roma-Bari, 1999, 209), il quale affermava che la giustizia si identifica con l’astensione dalla pleonexia, cioè dall’ottenere per sé vantaggi appropriandosi di ciò che appartiene ad altri o di negare ad una persona ciò che le è dovuto. 301 L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, 276, il quale chiaramente a proposito del principio della parità di trattamento afferma che nel sistema fallimentare: «La parità di trattamento fra i creditori non sarebbe quindi solo affermata ex post, a procedura aperta, ma sarebbe assicurata ex ante»; Id. La nuova 178 ad impedire che i creditori in possesso di un vantaggio informativo sulle reale capacità di adempimento del debitore possano, in forza di ciò, vantare nel concorso fallimentare condizioni di preferenza distributiva rispetto ai creditori rimasti ignari della sopravvenuta incapacità del debitore. Le c.d. azioni «di massa» sono volte a ristabilire ex post (i.e. una volta accertato lo stato di insolvenza nella sentenza di fallimento) le «condizioni iniziali» in cui versavano i creditori nel momento in cui si presume che l’incapacità del debitore fosse conoscibile (302). La finalità ultima del sistema fallimentare è quella di garantire a tutti i creditori l’uguale opportunità di essere soddisfatti, conformemente alla condizione in cui si trovavano nel momento in cui lo stato di incapacità patrimoniale iniziava a manifestarsi all’esterno dell’impresa. Il sistema concorsuale, pertanto, è volto a perseguire una duplice identità: a) l’identità della percentuale del ricavato distribuita tra i creditori che hanno la stessa natura e rango; b) l’identità della condizione in cui in creditori si trovavano nel momento in cui l’incapacità patrimoniale si presume si fosse manifestata. L’«eguale diritto [dei creditori] di essere soddisfatti sui beni del debitore», si sostanzia nel diritto ad essere soddisfatti sul ricavato delle vendita dei beni del debitore con identica proporzione e nell’identica condizione vantata nel momento in cui la garanzia patrimoniale sia diventata incapiente. revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in La riforma della legge fallimentare, Atti del XXVI convegno nazionale (Napoli, 26-27 ottobre 2007), Bologna, 2008, 177 per il quale: «La revocatoria può dunque essere vista come un tassello importantissimo di un sistema che, nel suo insieme, mira a disincentivare chi opera per l’impresa e con l’impresa dal tenere comportamenti pregiudizievoli per i creditori nel loro complesso o (in caso di alterazione dell’ordine di soddisfazione) anche solo per alcuni di essi, e mira a ripristinare la situazione quo ante: in forma specifica, eliminando gli atti compiuti in danno dei creditori, o per equivalente, facendo sorgere obblighi risarcitori»; 302 v. anche: I. Pagni, Le azioni di massa e la sostituzione del curatore ai creditori, in Fall. 2007, 1037 secondo cui i creditori sarebbero titolari di un diritto al mantenimento dell’attivo dell’impresa superiore al passivo, e che questo diritto darebbe fondamento alle c.d. azioni di massa, cioè a quelle azioni il cui risultato utile rifluisce a vantaggio di tutti i creditori indistintamente e alla cui proposizione sarebbe legittimato il curatore fallimentare. 179 Sennonché, il principio poc’anzi esposto viene travolto in virtù dei c.d. effetti riflessi che si originano dal provvedimento di omologazione dalle soluzioni negoziate. La disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. “altera”, infatti, tale principio, in quanto impedisce di realizzare il soddisfacimento tra i creditori nel rispetto della «condizione iniziale» in cui si trovavano nel momento in cui si è manifestata - nuovamente - l’incapacità patrimoniale. Ma vi è di più. La nuova disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. può dar luogo ad una situazione alquanto contraddittoria. Da un verso, i pagamenti, le garanzie e, più in generale, gli atti compiuti in esecuzione della soluzione negoziata, non potranno essere dichiarati inefficaci nei confronti della massa con l’azione revocatoria fallimentare. Dall’altro verso, però, i pagamenti, le garanzie e, più in generale, gli atti compiuti nel c.d. periodo «sospetto» antecedente la dichiarazione di fallimento, potranno essere dichiarati inefficaci, sulla scorta del noto fenomeno della consecuzione delle procedure concorsuali (303). Dunque, la stessa tipologia di atti (pagamenti, garanzie, contratti preliminari etc.) in dipendenza del momento in cui sono posti in essere prima o durante - l’esecuzione della soluzione negoziale, saranno soggetti a un diverso regime di efficacia. I pagamenti e le garanzie acquisite prima che l’imprenditore depositi il ricorso per accedere alla procedura di concordato preventivo, ovvero, il ricorso per richiedere l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione, potranno essere dichiarati inefficaci. Viceversa, i pagamenti 303 L’art. 33, comma 1, lett. a - bis), n.1), del D.L. 22 giugno 2012, n.83 convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 ha inserito all’art. 69-bis un nuovo II° comma secondo cui: «Nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, i termini di cui agli artt. 64, 65, 67, primo e secondo comma, e 69 decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese». 180 e le garanzie concesse «in esecuzione» della soluzione negoziata non potranno essere aggrediti dal curatore fallimentare. Il sistema delle azioni di massa, pertanto, sconta un deficit di effettività, in quanto mediante le stesse si potranno ristabilire unicamente le «condizioni iniziali» che esistevano prima che l’imprenditore tentasse la via della soluzione negoziata della crisi d’impresa. Il creditore che ha acquisito una garanzia reale (o ricevuto un pagamento) nel periodo c.d. «sospetto» che precede il deposito del ricorso per accedere alla soluzione negoziata della crisi d’impresa, potrebbe vedersi revocare l’atto dispositivo compiuto dal debitore; viceversa, il creditore che ha acquisito una garanzia (o ricevuto un pagamento) in esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa potrà vantare tale diritto nel successivo fallimento. La disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. origina un diverso trattamento tra i creditori del medesimo debitore in sede di riparto fallimentare. Tale disparità di trattamento, tuttavia, si giustifica alla luce del fatto che lo stato di crisi dell’impresa è stato reso noto a tutti i creditori (304). Gli atti dispositivi compiuti sul patrimonio dell’imprenditore sono posti in essere sulla base di un piano portato a conoscenza dell’intero ceto creditorio, in cui devono essere descritte le cause della crisi unitamente alle modalità e ai tempi di adempimento della proposta (305). I creditori pertanto sono consapevoli della situazione di «precarietà» in cui versa il patrimonio dell’imprenditore e proprio ciò giustifica la disparità di trattamento tra il creditore che ha conseguito un posizione preferenziale o un pagamento prima o durante l’esecuzione della soluzione negoziata. Se, infatti, un creditore ha acquisito una posizione preferenziale o un pagamento (anche parziale) prima che il debitore rendesse noto a tutto il ceto creditorio lo stato 304 G. Presti, Rigore è quando l’arbitro fischia? in Fall. 2009, 25. L’obbligo di prevedere la «descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta» è stato introdotto dalla legge del 7 agosto 2012, n. 134 di conversione del c.d. decreto sviluppo n. 83 del 2012. 305 181 di crisi si presume che abbia agito perché in possesso di informazioni sullo stato di incapacità patrimoniale dell’imprenditore (306). Non tutti i creditori, però, possono in ugual modo attingere ad informazioni sullo stato della capacità patrimoniale del debitore. Per ottenere tempestivamente informazioni sull’andamento economico di un’impresa è necessario avere la possibilità di destinare apposite risorse in tal senso. Occorre poi avere la capacità di monitorare costantemente l’andamento del volume d’affari gestito dall’imprenditore e l’indebitamento globale a cui egli è esposto. Infine, per intraprendere tempestivamente una autonoma ed efficace iniziativa di autotutela del proprio credito è essenziale riuscire a controllare anche l’operato degli altri creditori. L’«informazione», dunque, rappresenta un bene «prezioso» per tutelare efficacemente il diritto di credito, ma come tutti i beni «preziosi» richiede un costo elevato per conseguirlo. I c.d. creditori «forti» sono proprio quelli in grado di sostenere tali costi, vale a dire: a) hanno la capacità economica di destinare risorse economiche appositamente per conseguire informazioni sullo stato patrimoniale del debitore; b) possono monitorare costantemente la gestione economica imprenditoriale; c) possono controllare gli altri competitori. Tale categoria può comprende al suo interno soltanto pochissimi creditori; anzi, per vero, nella categoria predetta potrebbero essere compendiate esclusivamente le banche (307), le quali hanno disponibilità 306 B. Inzitari – A. Limitone, Tendenze riduzionisti che della revocatoria fallimentare nel progetto di riforma: effetti sulla concorrenza e sulla libertà di mercato, in Dir. fall. 2005, I, 170. 307 L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 275: «I creditori veramente informati sulla crisi del debitore (di solito le banche), se temono la revocatoria dei pagamenti, iniziano un’azione di disimpegno graduale, che ha l’effetto di prolungare l’agonia del debitore e di aggravare la perdita. È come se la revocatoria dei pagamenti, se non opportunamente governata, creasse attorno all’insolvente un credito artificiale, non fondato sul suo merito come prenditore di denaro, ma sulla paura di vederlo fallire»; la riflessione su tale problematica ha preso avvio alle fine degli anni ’70 con A. Nigro, La responsabilità della banca per concessione ‹‹abusiva›› di credito, in Giur. comm. 1978, I, 219 ss. Sullo stesso argomento successivamente v. A. 182 economiche superiori alla media dei creditori di un’impresa (ad esempio, i fornitori di un’impresa). Ecco, quindi, che emerge la funzione delle azioni «di massa»: tali azioni sono volte a ristabilire - ex post - le condizioni iniziali in cui si trovavano i creditori prima che, sfruttando i vantaggi informativi sulla situazione di incapacità patrimoniale, acquisissero un vantaggio patrimoniale (308). Le Bargioli, Responsabilità della banca per concessione ‹‹abusiva›› di credito, in Giur. comm. 1981, I, 287; F. Galgano, Civile e penale nella responsabilità del banchiere, in Contr. impr. 1987, 20; G. Franchina, La responsabilità della banca per concessione abusiva del credito, in Dir. fall. 1988, I, 656; G. Terranova, Profili dell’attività bancaria, Milano, 1989, 210; B. Inzitari, Concessione abusiva del credito: irregolarità del fido, false informazioni e danni conseguenti alla lesione dell’autonomia contrattuale, in Dir. banc. 1993, I, 399 ss; Id. Le responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca, borsa, tit. cred. 2001, I, 265; Id. L’abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito, in Soc. 2007, 462; R. Sgroi Santagati, ‹‹Concessione abusiva del credito›› e ‹‹brutale interruzione del credito››: due ipotesi di responsabilità della banca, in Dir. fall. 1994, I, 625; A. Castiello d’Antonio, Il rischio per le banche nel finanziamento delle imprese in difficoltà: la concessione abusiva del credito, in Dir. fall. 1995, I, 246; Id. La banca tra ‹‹concessione abusiva›› e ‹‹interruzione brutale›› del credito, in Dir. fall. 1995, I, 765; V. Roppo, Crisi d’impresa e responsabilità civile della banca, in Fall. 1996, 874; O. Capolino, Rapporti tra banca ed impresa: revoca degli affidamenti e ricorso abusivo al credito, in Fall. 1997, 884; F. Anelli, La responsabilità risarcitoria delle banche per illeciti commessi nell’erogazione del credito, in Dir. banc. 1998, I, 137; a carattere monografico su questo tema v. A. Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004 passim; F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, Napoli, 2004 passim.v. anche: v. A. Nigro, Note minime in tema di responsabilità per concessione ‹‹abusiva›› di credito e di legittimazione del curatore fallimentare, in Dir. banc. 2002, I, 296 ss; Id. La responsabilità della banca nell’erogazione del credito, in Soc. 2007, 441; G. Ragusa Maggiore, La concessione abusiva del credito e la dichiarazione di fallimento, in Dir. fall. 2002, II, 510; G. Lo Cascio, Iniziative giudiziarie del curatore fallimentare nei confronti delle banche, in Fall. 2002, 1181; M. Robles, Erogazione ‹‹abusiva›› di credito, responsabilità della banca finanziatrice e (presunta) legittimazione attiva del curatore fallimentare del sovvenuto, in Banca borsa tit. cred. 2002, II, 274; A. Viscusi, Concessione abusiva di credito e legittimazione del curatore fallimentare all’esercizio dell’azione di responsabilità, in Banca borsa tit. cred. 2004, II, 683; C. Esposito, L’azione risarcitoria ‹‹di massa›› per ‹‹concessione abusiva di credito››, in Fall. 2005, 857; M. Ferrari, Legittimazione del curatore per abusiva concessione del credito: plurioffensività dell’illecito al patrimonio e alla garanzia patrimoniale, in Corr. giur. 2006, 419; I. Pagni, La concessione abusiva di credito, tra diritti dei creditori e azioni della curatela, in Soc. 2007, 442; F. Di Marzio, Sulla fattispecie ‹‹concessione abusiva di credito››, in Banca borsa tit. cred. 2007, II, 399 ss 308 L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, cit. 193: «La revocatoria fallimentare mira quindi a responsabilizzare i terzi che hanno rapporti con l’imprenditore, imponendo loro di non trascurare eventuali segni di difficoltà di costui o addirittura, in certi casi o per certi soggetti (e in primo luogo i 183 azioni in parola, infatti, consentono di ridurre le differenze tra i creditori stessi che potrebbero essersi originate per via del vantaggio informativo, in modo tale che gli altri creditori possano partecipare alla distribuzione del ricavato senza risentire, per quanto possibile, del pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità di informazioni sullo stato della garanzia patrimoniale. Tale esigenza non sussiste nel caso in cui l’apertura del fallimento consegua al tentativo infruttuoso di perseguire una risoluzione negoziale della crisi, in quanto i pagamenti o le garanzie sono state acquisite in un contesto in cui lo stato di crisi dell’impresa era stato reso noto a tutti i creditori. Per tale ragione non sussiste l’esigenza di ristabilire le condizioni iniziali in cui versavano i creditori prima che si aprisse la procedura concorsuale. I creditori che hanno conseguito pagamenti o garanzie «in esecuzione» del negozio sulla crisi d’impresa non dovrebbero aver sfruttato un vantaggio informativo, in quanto è stato lo stesso debitore a rendere noto a tutto il ceto creditorio la propria situazione di precarietà patrimoniale. La disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. avrebbe una propria ragione sistematica: gli «atti esecutivi» del negozio sulla crisi d’impresa non possono essere revocati in quanto non potrebbero integrare atti preferenziali in favore di alcuni creditori, conseguiti in forza di un vantaggio informativo. 6.1. - L’esecuzione della soluzione negoziata potrebbe, però, richiede tempi piuttosto lunghi. I primi anni di applicazione della riforma dimostrano che - mediamente il debitore si impegna verso i creditori ad eseguire integralmente il piano di finanziatori), di informarsi attivamente sulle sue condizioni economiche, reagendo tempestivamente di fronte all’eventuale crisi. Il prezzo della violazione di questa regola è il coinvolgimento nel pagamento del costo dell’insolvenza, cioè nello sbilancio che si è creato fra attivo e passivo». 184 ristrutturazione entro tre anni. Si tratta, a ben considerare, di un periodo di tempo piuttosto lungo, durante il quale, come visto sopra, l’esecuzione può anche essere interamente lasciata alla libera gestione del debitore. L’esecuzione del concordato preventivo può essere, infatti, demandata direttamente al debitore stesso o ad uno suo mandatario, mentre il commissario giudiziale si limiterà a controllare che l’esecuzione avvenga in conformità a quanto contenuto nel decreto di omologazione. Emergono, quindi, i seguenti dati su cui occorre soffermarsi: a) l’esecuzione della soluzione negoziata potrebbe protrarsi anche per un periodo di tempo piuttosto lungo (dell’ordine di alcuni anni); b) il controllo sulla condotta del debitore durante la fase esecutiva della soluzione negoziata è, in buona sostanza, lasciato all’autonoma autotutela ed iniziativa dei creditori. Ora, è ben possibile che i c.d. creditori «forti» continuino ad acquisire informazioni sulla situazione patrimoniale e sulle reali capacità di adempimento del debitore, in modo tale da pronosticare, prima di altri, gli eventuali scenari che potrebbero verificarsi. L’acquisizione di vantaggi informativi sulle effettive capacità di adempimento del debitore non è, di per sé, un ostacolo al regolare svolgimento della ristrutturazione, né, men che meno, potrebbe reputarsi una pratica illecita. Tuttavia, non può essere sottaciuto che i creditori in possesso di vantaggi informativi potrebbero pregiudicare il regolare andamento dell’esecuzione. Così, ad esempio, se alcuni creditori possono rendersi conto prima di altri che il debitore non è più in grado adempiere regolarmente agli impegni assunti, potrebbero sfruttare tale vantaggio informativo in un duplice senso: a) potrebbero rendere nota a tutti gli altri creditori tale informazione, anche agendo tempestivamente per ottenere la risoluzione del negozio sulla crisi d’impresa; b) potrebbero, viceversa, celare segretamente tale informazione, 185 pretendendo che il debitore lì soddisfi in via preferenziale rispetto ad altri creditori mediante il compimento degli atti ancora eseguibili. Nella prima ipotesi, il vantaggio informativo verrebbe impiegato per impedire l’ulteriore esecuzione del negozio sulla crisi d’impresa e si eviterebbe la dispersione di risorse economiche a danno di tutti i creditori; nella seconda ipotesi, invece, il vantaggio informativo verrebbe impiegato per acquisire un trattamento preferenziale a danno di tutti gli altri creditori Durante la fase esecutiva della soluzione negoziata possono essere compiuti atti preferenziali, dal momento che nel concordato preventivo, e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti l’esecuzione può essere lasciata nella gestione esclusiva del debitore. Il commissario giudiziale o il professionista nominato nell’accordo di ristrutturazione, infatti, non hanno alcun potere ex lege per impedire che il debitore compia atti preferenziali a favore di alcuni creditori; il loro controllo sarà sempre successivo rispetto al compimento dell’atto (309). Come ormai assodato, in virtù della disposizione dell’art. 185 l.fall. il Tribunale può imporre al debitore soltanto obblighi informativi nei confronti del commissario giudiziale. Il Tribunale non può, invece, modificare la proposta avanzata dal debitore, né imporre allo stesso obblighi attinenti alle modalità esecutive del negozio sulla crisi d’impresa (310). Nel decreto di 309 In questo senso cfr. Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345 cit. la cui massima riporta: «Ove in deroga all’art. 182 (nel testo contemplato dal D. Lgs. n. 5/2006, non modificato rispetto alla previsione normativa di cui alla precedente legge fallimentare R.D. 16 marzo 1942, n. 267), nella proposta di concordato preventivo approvata dai creditori ed omologata sia stato attribuito direttamente al debitore (nella specie amministratore giudiziario/liquidatore) un ampio potere discrezionale sulle modalità esecutive da adottare, senza nomina del liquidatore giudiziario e senza imposizione di regole alle quali è necessario conformarsi, il tribunale non può stabilire ulteriori modalità ad integrazione di quanto previsto e, in particolare, quelle concernenti l’autorizzazione del giudice delegato degli atti di straordinaria amministrazione e la nomina da parte di quest’ultimo organo dei coadiutori, professionisti e difensori, nonché il potere di liquidare i compensi» 310 Cfr. Cass. sez. un. 16 luglio 2008, n. 19506 cit. in cui si è ha negato che, in presenza di un ampio potere discrezionale attribuito direttamente al debitore sulle modalità esecutive da adottare nel concordato preventivo, il tribunale possa stabilire altre modalità o integrazioni a quanto previsto dal debitore in materia di amministrazione, di autorizzazione 186 omologazione il Tribunale potrà stabilire le modalità con cui il debitore dovrà consentire il controllo durante l’esecuzione, vale a dire, le forme e i termini con cui il debitore dovrà informare il commissario giudiziale sull’attività svolta (311). Ciò vale anche per il professionista nominato dai creditori aderenti all’accordo di ristrutturazione, il quale non potrà interferire sulle modalità di attuazione della soluzione negoziata, ma potrà soltanto pretendere dal debitore informazioni con periodicità costante sull’attività compiuta. Nella fase di esecuzione delle soluzioni negoziate non è prevista obbligatoriamente ex lege la presenza di un organo deputato a svolgere un controllo preventivo sugli «atti esecutivi» che il debitore vorrà compiere; per tale ragione non può sussistere un controllo preventivo sulla conformità dell’atto rispetto al programma stabilito nel negozio sulla crisi d’impresa. Il controllo sarà sempre successivo rispetto al compimento o al mancato compimento dell’atto. Tale controllo sconta, però, un deficit di effettività. Qualora il commissario giudiziale o il professionista dovessero riscontrare che l’atto compiuto dal debitore è difforme rispetto al contenuto della soluzione negoziale omologata, non potranno denunciare al Tribunale tale irregolarità, ma dovranno informare - senza indugio - i creditori di atti e quant’altro si renda necessario per espletare l’attività liquidatoria. Per cui, alla luce della modifica dell’art. 160 l. fall., in forza del quale la proposta può assumere un contenuto pienamente libero e discrezionale e, quindi dell’accentuato carattere negoziale «sarebbe del tutto improprio concepire l’applicabilità di norme con cui di impongono vincoli o limiti pubblicistici nei confronti del proponente. Piuttosto, poiché il contenuto della proposta è sottoposto all’esame dei creditori, potrebbe accadere che questi ultimi non condividano determinate clausole o specifiche modalità negoziali di esecuzione stabilite nella proposta. In quest’eventualità i creditori potrebbero anche non approvare il concordato», così: G. Lo Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 539. 311 Cfr. G. Lo Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 541: «Se il Tribunale dovesse procedere alla nomina di un liquidatore giudiziale diverso da quello indicato dal debitore, o dettare talune modalità di esecuzione, in sostituzione di quelle previste dal debitore, o disporre in modo contrario al contenuto del piano, ci sembra che si finirebbe per ledere le aspettative del debitore di poter regolare la sua insolvenza, secondo quelle clausole inserite nella proposta che è stata approvata dai creditori ed omologata dal Tribunale, dando luogo alla violazione di un diritto soggettivo e legittimando la proponibilità del ricorso per cassazione». 187 pregiudicati dal comportamento del debitore. Per cui, se fosse stato posto in essere un «atto esecutivo» difforme rispetto al programma negoziale, ad esempio, proprio un atto dispositivo a favore di un creditore e in pregiudizio di altri, tale atto dovrà ritenersi comunque valido ed efficace. La validità e l’efficacia dell’«atto esecutivo» non potrà essere contestata né dal commissario giudiziale (o dal professionista deputato al controllo della fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione), né dai creditori. Il commissario giudiziale e il professionista non potranno agire per ottenere la risoluzione della soluzione negoziata, né potranno impugnare i singoli atti esecutivi e denunciarne l’illegittimità. I singoli atti esecutivi, per vero, non potranno essere impugnati neppure dai creditori. Quest’ultimi potranno agire - nel rispetto delle forme e dei termini propri di ogni soluzione negoziata - soltanto per ottenere la risoluzione o l’annullamento del negozio sulla crisi d’impresa. In sintesi: durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziali i creditori potranno denunciare il mancato compimento degli atti esecutivi delle soluzioni negoziate in loro favore, ma non potranno impugnare gli atti esecutivi compiuti in favore degli altri creditori. Nella fase esecutiva non sussiste la possibilità di prevenire il compimento degli atti esecutivi che si discostassero dal programma negoziale, né di contestare gli atti esecutivi tramite i quali venisse accordato un trattamento preferenziale in favore di alcuni creditori. Tale lacuna fomenta il duplice rischio: a) che il debitore proceda ad un irregolare svolgimento della fase esecutiva, preferendo i creditori che hanno acquisito il vantaggio informativo a discapito degli altri che siano ancora ignari delle sopravvenute incapacità di adempimento; b) che i creditori in possesso del vantaggio informativo cerchino di stringere accordi con il debitore, chiedendo, ad esempio, pagamenti e garanzie pur di non agire con l’azione di risoluzione, essendo consapevoli che gli atti compiuti in loro 188 favore saranno esonerati dall’azione revocatoria in caso di conversione della procedura in fallimento. Ora, in quest’ultimo caso è evidente che si verificherebbe un vero e proprio «abuso» del beneficio dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. (312). A seguito delle recenti riforme, al debitore è stata concessa la possibilità di avanzare la domanda di concordato anche qualora si trovi in stato di crisi. Ciò significa che al debitore è stata accordata la possibilità di rendere pubblica, di propria iniziativa, la situazione di difficoltà ad adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. Per cui - in tesi - durante la fase esecutiva nessun creditore potrebbe vantare e sfruttare un vantaggio informativo in danno degli atri creditori: lo stato di crisi e l’incapacità patrimoniale sono stati resi noti a tutti i creditori dallo stesso imprenditore. Anzi, la parità di informazione tra i creditori e la conseguente possibilità di conoscere la reale capacità patrimoniale dell’imprenditore, è proprio ciò che giustifica l’esonero dall’azione revocatoria per gli atti, i pagamenti e le garanzie conseguite durante la fase esecutiva delle soluzioni negoziali. Ma se durante la fase esecutiva un creditore riuscisse a conseguire un vantaggio informativo rispetto agli altri creditori e in forza di ciò potesse pronosticare che la soluzione negoziale non fosse più idonea a garantire 312 Il riferimento è alla categoria dell’abuso del diritto la quale presuppone un’analisi endemica all’esercizio della situazione soggettiva di vantaggio, più precisamente di un’articolata valutazione del caso concreto. Tale categoria è tradizionalmente posta in funzione «correttiva» dell’ambito di applicazione delle regole giuridiche che permettono al titolare del diritto soggettivo di vantare o pretendere posizioni di vantaggio, per l’ipotesi in cui l’applicabilità delle norme si dilati fino a comprendere casi nei quali l’esito finale e concreto si rilevi ingiustificato alla luce dei principi generali dell’ordinamento, cfr: U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1958, 18. Nella giurisprudenza si afferma che l’abuso del diritto: «è una violazione delle buona fede e consiste nel contegno del contraente che esercita il diritto per uno scopo diverso da quello che è preordinato dalla legge o dal contratto», così ex multis Cass. 16 ottobre 2003, n. 15492, in Foro it. 2004, 1845; v. anche: Cass. 11 dicembre 2000, n. 15592, in Foro it. 2001, I, 2374 e più approfonditamente Cass. sez. un. 26 giugno 2009, n. 20106, Giur. comm. 2011, II, 286. 189 l’adempimento, è chiaro che tale creditore verrebbe a porsi in conflitto con tutti gli altri creditori ancora ignari. Si tratterebbe, a ben vedere, della stessa situazione di conflitto che si potrebbe creare anche prima della dichiarazione di fallimento. Ora, è altrettanto evidente che non vi può essere differenza tra gli atti dispositivi compiuti dal debitore in favore dei creditori detentori di un vantaggio informativo prima della dichiarazione di fallimento, e gli atti esecutivi della soluzione negoziata compiuti in favore dei creditori ugualmente in possesso di un vantaggio informativo per evitare che costoro chiedano la risoluzione del negozio sulla crisi d’impresa (313). Entrambe le ipotesi presentano i medesimi presupposti oggettivi (i.e. un atto dispositivo e diminutivo della garanzia patrimoniale) e soggettivi (i.e. la consapevolezza di arrecare un pregiudizio agli altri creditori). Tuttavia, il contesto nel quale sono compiuti gli atti dispositivi del patrimonio implica un diverso regime di efficacia degli atti stessi nei confronti della massa dei creditori fallimentari: a) gli atti dispositivi compiuti nel periodo antecedente la dichiarazione di fallimento potranno essere dichiarati inefficaci rispetto alla massa dei creditori; b) gli atti esecutivi del negozio sulla crisi d’impresa - compiuti ovviamente nel medesimo periodo antecedente l’apertura della procedura fallimentare - beneficeranno dell’esonero sancito dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. 313 Cfr. L. Stanghellini, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, cit. 194, per il quale il coinvolgimento dei creditori “informati” sullo stato patrimoniale del debitore non è giustificato ed appare eccessivamente oneroso solo: «a) per chi non è finanziatore, in quanto, è inutile e costoso imporre a tutti di monitorare il debitore, e si deve limitare quest’onere solo a coloro che hanno finanziato l’impresa e che hanno strutture e mezzi idonei allo scopo; b) per chi ha collaborato con l’imprenditore ad una soluzione cercata, in buona fede e con mezzi idonei, al fine di evitare al debitore una costosa e non sempre efficiente (e dunque evitabile) procedura concorsuale». 190 Ma gli atti esecutivi compiuti in tale ultima ipotesi non sarebbero stati compiuti in favore dei creditori in condizione di uguaglianza informativa tra loro e volti a risolvere la crisi nel rispetto di quanto concordato, in quanto sarebbero stati compiuti in una condizione di disuguaglianza informativa al fine esclusivo di accordare un trattamento preferenziale. Per cui, se a tali atti si riconoscesse l’esonero dall’azione revocatoria fallimentare, si finirebbe per ricadere, a ben vedere, in una evidente ipotesi di abuso del diritto, dal momento che gli atti esecutivi non presentano i presupposti oggettivi, né le finalità soggettive predeterminate dall’ordinamento (314). L’esonero sancito dall’art. 67, comma 3° lett. e) l. fall. sarebbe accordato ad atti che né dal lato oggettivo, né da quello soggettivo perseguono in concreto l’interesse meritevole di tutela in forza del quale il beneficio dell’esenzione è attribuito dall’ordinamento (315). L’ordinamento, infatti, ha 314 Come noto, risulta sempre più abbandonata la concezione formalistica del diritto, la quale tendeva ad interpretare le categorie giuridiche mediante criteri ontologici, mentre va sempre più affermandosi un indirizzo antiformalistico che punta ad interpretare il diritto sostanziale attraverso paradigmi assiologici, quali la proporzionalità, la buona fede o la giustizia del contratto, mediante i quali si pretende di verificare la corrispondenza concreta del precetto normativo ai principi dell’ordinamento. Partendo, quindi, da tale premessa, la buona fede diviene il parametro di valutazione delle condotte concrete, ovvero, il criterio discriminante tre esercizio consentito del diritto ed esercizio abusivo. Quest’ultimo sarebbe, pertanto, ravvisabile nel caso in cui l’esercizio concreto del diritto avvenga in contrasto con i principi regolatori di un determinato settore dell’ordinamento giuridico, in quanto il titolare esercita il diritto al fine di appropriarsi di «utilità diverse ed ulteriori» rispetto a quelle che l’ordinamento è disposto ad assegnargli in astratto e in modo da ledere situazioni giuridiche soggettive altrui, cfr. R. Orestano, Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche, Bologna, 1978, passim; U. Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato 1997. III. L’abuso del diritto, Padova, 1997, 11; P. Rescingo, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 68; D. Messinetti, Abuso del diritto, in Enc. dir. II, Agg. Milano, 1998, 15; F. D. Busnelli - E. Navetta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Studi in onore di Pietro Rescingo, Milano, 1998, 171; G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, in Riv. dir. priv. 2000, 21; M. Attinenza - J.R. Manero, Illeciti atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, Bologna, 2004, passim; F. D. Busnelli, «Illeciti atipici» e il dibattito su regole e principi, in Eur. dir. priv. 2006, 1035; G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010, 19. 315 La dottrina costruisce il giudizio di abusività come un’articolata valutazione concreta dell’equilibrio fissato dall’autonomia privata, ovverosia dei diritti e doveri che caratterizzano l’esercizio e la struttura dei poteri delle parti, in modo da effettuare il confronto e la rispondenza con l’interesse giudicato ex ante dal legislatore meritevole di tutela. L’indagine sull’esercizio concreto del diritto deve, pertanto, essere svolta avendo riguardo non solo alla fattispecie contrattuale ma anche ai profili esterni ad essa, ovverosia 191 scelto di accordare agli «atti esecutivi» della soluzione negoziale il beneficio dell’esonero dall’azione revocatoria, al fine di indurre i creditori a fornire il consenso alla risoluzione negoziale della crisi d’impresa. Ma l’esecuzione della soluzione negoziata - come visto poc’anzi - deve avvenire in condizioni di parità informativa tra i creditori o, per lo meno, i creditori in possesso di un vantaggio informativo non devono poter conseguire, in forza di ciò, vantaggi patrimoniali. Si verserebbe, pertanto, in una ipotesi di abuso del diritto se si riconoscesse l’effetto previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. agli atti esecutivi: a) che fossero compiuti in favore di singoli creditori in possesso di un vantaggio informativo; b) che integrassero un trattamento preferenziale in violazione del programma negoziale, con pregiudizio degli altri creditori ancora ignari della sopravvenuta incapacità della soluzione negoziata (316). Se, dunque, le effettive modalità con cui fosse compiuta l’esecuzione della soluzione negoziale risultassero inequivocabilmente volte al perseguimento di un obiettivo contra ius, la concessione del beneficio alle circostanze che partecipano in varia misura alla composizione dell’assetto di interessi, verificando in concreto la rispondenza delle condotte delle parti del negozio al modello astratto di riferimento, cfr. D. Messinesi, Abuso del diritto, in Enc. dir. II, Agg. Milano, 1998, 5; M. Costanza, Brevi note per non abusare dell’abuso del diritto, in Giust. civ. 2001, I, 2444; G. Amadio, L’abuso dell’autonomia contrattuale tra invalidità e adeguamento, in Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma? Le prospettive di una novellazione del Libro IV del Codice civile nel momento storico attuale, in Riv. dir. civ. 2006, 255. 316 La categoria dell’abuso è, invero, impiegata al fine di sondare il contenuto di un programma negoziale e connotare l’«asimmetria di un potere contrattuale», così: V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria del potere contrattuale: genesi e sviluppo di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv. 2001, 775. In particolare, la categoria dell’abuso del diritto è volta a stigmatizzare le relazioni tra l’esercizio del diritto soggettivo e l’iniziativa economica, nei termini di disvalore dello sfruttamento del potere economico-informativo, cfr. R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, in G. Alpa - M. Graziadei - A. Guarnirei - U. Mattei - P. G. Monateri - R. Sacco, Il diritto soggettivo, Torino, 2001, 281; 192 potrebbe risultare distonica rispetto alla giustificazione sistematica della disposizione che lo contempla (317). Si potrebbe obiettare che nella fattispecie in esame non è possibile ravvisare il tradizionale schema dell’abuso, il quale presuppone un esercizio del diritto in modo esorbitante rispetto ai fini previsti dall’ordinamento. L’esonero dall’azione revocatoria fallimentare è ricollegato indistintamente ex lege a favore degli atti esecutivi del negozio sulla crisi d’impresa, allo scopo di indurre i creditori a fornire il consenso per la definizione negoziale della crisi d’impresa. Tuttavia, nella fattispecie in esame la finalità del legislatore verrebbe ad essere deviata, dato che il beneficio sarebbe attribuito ad «atti esecutivi» compiuti per occasione iris contra naturale aequitatem: il beneficio previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. non rappresenterebbe più infatti il “premio” che l’ordinamento è disposto a riconoscere ai creditori per aver aderito alla soluzione negoziale, ma uno strumento fonte di disuguaglianza, utilizzato per avvantaggiare coloro che hanno preteso e ottenuto vantaggio economici in virtù di un vantaggio informativo (318). 317 Cfr. Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274, in Fall. 2011, 403 secondo cui: «l’abuso del diritto altro non è se non una particolare esplicazione del principio della buona fede, inteso non solo quale parametro di comportamento ma anche quale limite all’esercizio dei diritti». 318 L. Stanghellini, Le crisi d’impresa fra diritto ed economia, cit. 277, per il quale: «Una richiesta di pagamento non soddisfatta ha un prezioso contenuto informativo che i creditori, aggredendo senza incertezze il debitore, fanno emergere nell’interesse generale. La non revocabilità del pagamento ottenuto, in un sistema in cui il debitore ha un incentivo a rivolgersi al giudice chiedendo di essere protetto contro i creditori, è il prezzo che deve essere pagato perché la crisi venga tempestivamente affrontata, con minore perdita di tutti. Questa considerazione costituisce al contempo la giustificazione della non revocabilità dei pagamenti e il suo limite. Nessuna tutela devono infatti avere i pagamenti preferenziali, cioè quelli fatti dal debitore che consapevolmente attribuisce un beneficio ad alcuni creditori, che a loro volta sono consapevoli di ricevere tale beneficio. Nessuna tutela devono inoltre avere i pagamenti ottenuti a ridosso dell’apertura della procedura, quando ormai la crisi era divenuta palese: questi pagamenti non hanno infatti alcun valore di spinta alla tempestiva emersione della crisi, e l’informazione al pubblico dominio non deve essere pagata a nessuno». Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente il principio di correttezza rappresenterebbe una traduzione normativa del divieto di abuso del diritto: Cass. 5 maggio 1995 n. 4923, in Soc. 1995, 1548; Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm. 1996, II, 332; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353, in Soc. 2004, 188; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387, in Foro it. 2006, 3467; Cass. 7 novembre 2008, n. 26842, in Giur. comm. 2010, II, 256. 193 7. - Alla luce di quanto precede, occorre allora interrogarsi sulle conseguenze che potrebbero derivare dall’abuso dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. Nel caso in cui l’esenzione sancita dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. fosse accordata ad atti che non presentino le condizioni oggettive, né le condizioni soggettive supposte dall’ordinamento per la concessione del beneficio, si darebbe luogo, evidentemente, ad una «ingiustificata» diminuzione della garanzia patrimoniale assoggettabile all’esecuzione concorsuale. L’abuso dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. consentirebbe: a) un ingiustificato accrescimento patrimoniale del singolo creditore che avesse conseguito il vantaggio informativo; b) una ingiustificata diminuzione del patrimonio destinato alla soddisfazione di tutto il ceto creditorio. L’accrescimento patrimoniale del singolo creditore e la diminuzione della generica garanzia patrimoniale potrebbero ritenersi «ingiustificati» in quanto, da un verso, il creditore conseguirebbe un trattamento preferenziale, senza che gli altri creditori, né il commissario giudiziale del concordato preventivo, né l’eventuale professionista nominato dai creditori aderenti all’accordo di ristrutturazione possano immediatamente contestare; dall’altro verso, l’esenzione sancita dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. consentirebbe a tale creditore di vantare un vantaggio patrimoniale nel concorso fallimentare e di partecipare alla distribuzione del ricavato in una condizione di disuguaglianza rispetto agli altri creditori. La procedura concorsuale - come visto sopra - è volta a risolvere il conflitto tra i creditori prefallimentari derivante dall’incapacità patrimoniale dell’imprenditore. Il sistema fallimentare tende, infatti, ad impedire che il vantaggio informativo acquisito nel periodo antecedente l’accertamento della sopravvenuta insolvenza, consenta ai creditori di vantare nel concorso 194 fallimentare una condizione di disuguaglianza rispetto agli altri creditori, ignari della sopravvenuta incapacità del debitore. I creditori devono partecipare al riparto dell’attivo concorsuale nel rispetto di una duplice identità: a) la percentuale di adempimento riconosciuta ai creditori che hanno uguale natura e rango; b) la posizione rispetto al patrimonio dell’imprenditore nel momento in cui si presume che l’incapacità patrimoniale fosse conoscibile. Sennonché, è evidente che la disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. impedisce di perseguire la predetta duplice identità. Dal punto di vista sistematico l’effetto sancito dalla disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. implica che: a) in via diretta, il curatore fallimentare non potrà agire per ripristinare le condizioni in cui versavano i creditori nel momento in cui si è manifestata l’incapacità del piano posto a fondamento della soluzione negoziata; b) in via riflessa, la garanzia patrimoniale destinata al soddisfacimento dei creditori concorsuali si ridurrà in proporzione all’ammontare degli atti esecutivi eventualmente compiuti nel c.d. periodo «sospetto», i quali resteranno efficaci nei confronti della massa. Se la riduzione della garanzia patrimoniale dipendesse dall’abuso poc’anzi rappresentato, i creditori che non hanno potuto o voluto sfruttare il vantaggio informativo per conseguire un vantaggio patrimoniale, subirebbero un «ingiustificato» pregiudizio in sede di ripartizione fallimentare. Pertanto, ove si verificasse l’abuso dell’effetto sancito dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. la diminuzione della garanzia patrimoniale andrebbe a pregiudizio dei creditori: a) che non hanno potuto acquisire un vantaggio informativo sulle capacità di adempimento del debitore agli impegni assunti nel negozio sulla crisi d’impresa; b) che hanno mantenuto le loro aspettative di soddisfacimento conformemente a quanto l’imprenditore 195 aveva offerto nel negozio sulla crisi d’impresa, senza pretendere alcun vantaggio patrimoniale. Viene quindi ad emergere un’ulteriore categoria di creditori aventi posizione giuridica subordinata a quella delle altre parti del negozio. L’atto dispositivo del patrimonio compiuto dal debitore a favore di un creditore si rifletterà infatti sul patrimonio del debitore a danno di tutti gli altri creditori (319). Dunque, da un verso, la garanzia patrimoniale assoggettabile ad esecuzione concorsuale si ridurrà proporzionalmente, con pregiudizio delle aspettative di soddisfacimento dei creditori estranei all’atto dispositivo; dall’altro verso, il creditore che ha preteso ed ottenuto il trattamento preferenziale, al fine di non rendere nota la sopravvenuta incapacità del debitore, accrescerà il proprio livello di soddisfacimento, in quanto l’atto dispositivo non potrà essere dichiarato inefficace in virtù dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. Quindi, l’abuso dell’esenzione consentirà al creditore di aumentare il proprio livello di soddisfacimento, in pregiudizio degli altri creditori. I creditori estranei all’abuso saranno pertanto «terzi» rispetto all’atto dispositivo, ma anch’essi partecipano all’interesse meritevole di tutela in forza del quale il beneficio è concesso dall’ordinamento. Come ormai assodato, i creditori hanno interesse a conseguire l’adempimento delle loro obbligazioni in conformità al negozio concluso con il debitore e, in particolare, nella misura - per quanto concretamente possibile - più conveniente. Più precisamente, durante la fase esecutiva, i creditori pretendono: a) di essere soddisfatti integralmente, ma nei limiti di quanto 319 Cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit. 261, e 265 e ss ove l’A. rileva che: ‹‹Un negozio giuridico può, per sua destinazione oppure in via riflessa e accidentale, avere rilevanza giuridica e produrre effetti anche in capo a persona diversa dalle parti» 196 loro promesso dal debitore; b) che l’esecuzione avvenga nel rispetto del piano approvato dai creditori. Appare allora utile il ricorso alla categoria dell’abuso del diritto, di cui si possono ravvisare gli estremi alla luce delle finalità perseguite dal debitore e dal creditore. Se, da un verso, il debitore ha interesse a ritardare l’emersione della sopravvenuta incapacità ad eseguire integralmente la soluzione negoziata; dall’altro verso, il creditore ha interesse ad accrescere il proprio soddisfacimento e sottrarsi al conflitto con gli altri creditori. Per cui, se l’esonero dall’azione revocatoria fallimentare fosse riconosciuto anche a tali «atti esecutivi», sebbene ciò sia consentito all’interno della cornice legale, in concreto, darebbe origine ad una «ingiustificata» sproporzione tra il beneficio concesso al creditore e il sacrificio imposto a tutti gli altri c.d. «terzi-creditori». Vi sarebbe, pertanto, un abuso del beneficio previsto dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. ogni qualvolta l’esonero fosse accordato ad «atti esecutivi» la cui funzione teleologica - obiettiva e soggettiva - fosse unicamente quella di accordare un trattamento preferenziale ad un creditore dotato di un vantaggio informativo sulla sopravvenuta incapacità patrimoniale. 8. - É evidente, allora, che la concessione del beneficio dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. andrebbe preceduta da un giudizio mirato ad accertare la «meritevolezza» dell’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare. Tale giudizio si pone, a ben vedere, alla stregua del giudizio sul vantaggio economico svolto dal Tribunale nella fase di omologazione. Entrambi i giudizi rappresenterebbero due corollari fondamentali del potere giurisdizionale di estendere il vincolo negoziale nei confronti dei c.d. «terzicreditori». 197 L’accertamento del vantaggio economico del negozio sulla crisi d’impresa - svolto nel giudizio di omologazione – servirebbe ad evitare che l’estensione del vincolo negoziale in capo ai c.d. «terzi-creditori» - quale effetto diretto del provvedimento di omologazione - produca un ingiustificato e irragionevole pregiudizio in capo ai creditori che non hanno prestato il consenso alla soluzione negoziata (320). Così, allo stesso modo, l’accertamento della meritevolezza dell’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare, sarebbe volto ad evitare che si produca una ingiustificata e pregiudizievole diminuzione della garanzia patrimoniale destinata al soddisfacimento dei creditori concorsuali del fallimento. Il giudizio in parola consentirebbe, dunque, di compiere un sindacato di più ampio spettro: verificare che le discriminazioni prodotte tra i creditori in forza della disposizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l.fall. possono reputarsi ragionevoli e giustificate dal punto di vista sistematico. In altri e più precisi termini, il giudizio servirebbe a verificare che l’esonero dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall venga concesso solo ad «atti esecutivi» aventi una finalità - oggettiva e soggettiva - sincronica rispetto al moderno sistema di regolamentazione negoziale della crisi d’impresa. Come assodato, in virtù della previsione legale in esame, sussiste un diverso regime di efficacia per gli atti dispositivi del patrimonio compiuti dal debitore in favore dei creditori, in quanto: a) gli atti dispositivi del patrimonio, compiuti prima che il debitore renda nota l’incapacità patrimoniale e che rientrino nel c.d. periodo sospetto, possono essere dichiarati inefficaci rispetto alla massa dei creditori concorsuali tramite l’azione revocatoria fallimentare, e ciò anche qualora si arrivasse alla dichiarazione di fallimento a seguito della risoluzione o annullamento della soluzione negoziale (321); b) gli atti esecutivi della soluzione negoziale 320 Si rinvia a quanto detto nel Cap. II Cfr. il nuovo art. 69, comma 2°, l. fall. sulla c.d. consecuzione delle procedure concorsuali 321 198 compiuti nel medesimo periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento non potranno essere dichiarati inefficaci e il creditore che ne ha beneficiato potrà vantare una garanzia nel successivo fallimento, ovvero, potrà conservare il pagamento ottenuto. Il giudizio in esame, quindi, dovrebbe essere svolto alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, in particolare, mediante l’adozione di una prospettiva euristica che consideri il complesso assetto degli interessi coinvolti tanto nell’esecuzione della soluzione negoziale della crisi d’impresa, quanto nell’esecuzione concorsuale del fallimento (322). L’esonero dall’azione revocatoria fallimentare non potrà prescindere da un’analisi della causa concreta che sorregge i singoli «atti esecutivi». Il beneficio in questione, più precisamente, non potrà prescindere dall’accertamento della ragionevole giustificazione tecnica sottesa al compimento dell’atto esecutivo. Dal punto di vista speculare, gli effetti riflessi che si verificano sulla garanzia patrimoniale non potrà verificarsi solo per via di una mera indagine finalizzata ad accertare che gli atti dispositivi presentino le caratteristiche astrattamente idonee per essere qualificati come «atti esecutivi» del negozio sulla crisi d’impresa in conformità all’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. Occorre, invece, che l’effetto riflesso sulla garanzia patrimoniale si verifichi solo all’esito di uno scrupoloso sindacato volto ad accertare che il debitore e i creditori non abbiano inteso utilizzare la previsione legale dell’esonero per perseguire finalità diverse e contrarie rispetto a quelle meritevoli di tutela alla luce del moderno sistema di regolamentazione negoziale della crisi. 322 In questo senso, sebbene riferito alla valutazione del Tribunale sulla formazione delle classi di creditori, cfr. I. L. Nocera, Abuso del diritto nella formazione delle classi nel concordato preventivo, in Dir. fall. 2012, II, 386, nota di commento a Trib. Milano. 19 luglio 2011. 199 Tale sistema, come noto, consente di derogare alla parità di trattamento ed effettuare trattamenti discriminatori tra i creditori, a condizione che quest’ultimi siano giustificati dal canone della ragionevolezza, nel senso che consentano la risoluzione della crisi d’impresa e la soddisfazione dei creditori (tutti) nella misura - per quanto concretamente possibile - più conveniente (323). Di conseguenza, se durante l’esecuzione della soluzione negoziale la ripartizione delle risorse economiche avvenisse in modo difforme rispetto a quanto previsto nel negozio e il debitore accordasse trattamenti preferenziali, la concessione dell’esonero darebbe luogo ad una irragionevole discriminazione tra i creditori. Infatti, gli atti esecutivi avrebbero perseguito finalità contrarie a quelle poc’anzi dette, perché l’esecuzione avrebbe consentito unicamente di soddisfare uno o alcuni creditori, e ciò si ripercuoterebbe in sede di esecuzione concorsuale in un eccessivo ed ingiustificato sacrificio per tutti gli altri creditori. Al fine di evitare che si produca tale eccessivo ed ingiustificato sacrificio in capo ai c.d. «terzi-creditori» estranei all’abuso, è opportuno che l’esonero dall’azione esecutiva sia accordato esclusivamente agli atti esecutivi che presentino le condizioni di meritevolezza di protezione in conformità al moderno diritto della crisi d’impresa. 9. – Va subito osservato che la protezione accordata agli «atti esecutivi» mediante l’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. non si produce semplicemente ope legis, in quanto la produzione dell’effetto è subordinata all’emissione del provvedimento di omologazione della soluzione negoziata. Al pari dell’effetto esdebitativo - che a norma dell’art. 184 l. fall. si produce sui rapporti obbligatori dei c.d. «terzi-creditori» - anche la 323 F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Milano, 2011, passim; F. Di Marzio – F. Macario (a cura), Autonomia negoziale e crisi d’impresa, Milano. 2010, passim; L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, cit. 67; D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto fallimentare fra diritto ed economia, Bologna, 2006, passim. 200 protezione accordata agli «atti escutivi» è un effetto ope judicis che deriva dal provvedimento omologazione. Alla luce della nuova disciplina della fase esecutiva e, in particolare, del rischio di abuso paventato poc’anzi, il provvedimento di omologazione non può costituire l’unica ed esclusiva condicio iuris in forza della quale tutti «gli atti esecutivi» delle soluzioni negoziali dovrebbero reputarsi ipso iure sottratti all’azione revocatoria fallimentare. Per evitare che si possa verificare un abuso dell’esonero dall’azione revocatoria fallimentare è allora opportuno che la protezione degli «atti esecutivi» sia subordinata ad un accertamento della meritevolezza tutela dell’interesse perseguito nella fase esecutiva. Al fine di verificare l’ammissibilità di tale giudizio occorre muovere dall’analisi dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. Innanzitutto, la norma non modifica i presupposti dell’azione revocatoria fallimentare, ma esclude soltanto che gli «gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione» della soluzione negoziata siano sindacabili alla luce dell’art. 67, comma 1° e 2°, l. fall. L’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. esclude, in altri termini, la possibilità giuridica di agire del curatore per ottenere la dichiarazione di inefficacia nei confronti della massa fallimentare degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere in esecuzione di un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti. Se il curatore decidesse di agire con l’azione revocatoria fallimentare per ottenere la declaratoria di inefficacia di un pagamento, di una garanzia, ovvero, più in generale, di un atto a titolo oneroso compiuto durante la fase esecutiva della soluzione negoziale, l’azione intrapresa - a prescindere dell’esistenza dei fatti costitutivi della domanda - dovrebbe essere dichiarata inammissibile, in quanto difetterebbe una fondamentale condizione dell’azione. 201 L’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. rappresenta, pertanto, una “garanzia”, tanto per i creditori che hanno dato il consenso alla soluzione negoziata, quanto per coloro che sono rimasti «terzi», nel senso che gli «atti esecutivi» compiuti in loro favore non potranno essere dichiarati inefficaci nei confronti della massa fallimentare. La garanzia ha una ben precisa ratio: nel momento in cui l’imprenditore propone la soluzione negoziata rende noto a tutti i creditori che il patrimonio è incapiente e che non può soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. É ovvio, allora, che durante la fase esecutiva i creditori percepiranno i pagamenti, ovverosia conseguiranno i diritti di prelazione, nella piena consapevolezza dello stato di insolvenza in cui versa il patrimonio del debitore. Per tale motivo, dunque, non ha senso assoggettare all’azione revocatoria gli «atti esecutivi» della soluzione negoziata, in quanto non vi è l’esigenza di rimuovere eventuali vantaggi patrimoniali conseguiti in virtù di vantaggi informativi. I creditori, infatti, sono consapevoli che il patrimonio del debitore è incapiente e non consente il regolare ed integrale adempimento di tutte le obbligazioni; e verosimilmente proprio per tale ragione avranno dato il consenso alla ristrutturazione del loro credito. Dal lato opposto, i creditori che non hanno prestato il consenso dovrebbero ricevere la loro tutela nell’accertamento giurisdizionale del vantaggio economico della soluzione negoziale. Tale accertamento è necessario per ricondurre nell’orbita dei principi costituzionali dettati in materia di rapporti economici la disciplina degli artt. 184 e art. 182 - bis, 1° comma, lett. a) e b), l. fall. che consentono l’estensione nei confronti dei c.d. «terzi-creditori» degli effetti diretti (l’esdebitazione o la moratoria) del provvedimento giurisdizionale di omologazione. L’accertamento consacrato nel provvedimento di omologazione è frutto di un giudizio di fatto, compiuto in relazione ad un preciso periodo di 202 tempo: l’arco temporale in cui si svolge la procedura giurisdizionale. Per cui, l’accertamento del vantaggio economico altro non è che un giudizio prognostico, compiuto alla luce delle circostanze di fatto esistenti e sottoposte alla cognizione del Tribunale al momento della richiesta di omologazione. Di conseguenza, ove la soluzione negoziata, prima della sua integrale esecuzione, si dovesse convertire nella procedura di fallimento, l’accertamento compiuto ex ante dal Tribunale verrà - di fatto - ad essere disatteso. Nella prospettiva strettamente negoziale la dichiarazione di insolvenza del debitore e il suo conseguente assoggettamento al fallimento, rappresentano la conclamata preclusione della finalità alla quale il negozio sulla crisi d’impresa era preordinato. In particolare, la conversione della soluzione negoziale nella procedura fallimentare rappresenta la negazione della stessa causa dell’accordo, nel senso di un «difetto funzionale» del negozio stesso. La conversione della soluzione negoziata nella procedura concorsuale del fallimento mostrerebbe, quindi, l’intrinseca e potenziale caducità del negozio sulla crisi d’impresa, derivante dal venir meno del presupposto, esplicito o implicito che sia, dell’effettiva possibilità di recupero dell’impresa coinvolta (324). Ora, il nuovo sistema di risoluzione negoziale della crisi, da un lato, tende a facilitare la conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, ma dall’altro lato, non accorda rilievo alle sopravvenienze di fatto che, 324 Tale profilo è stato approfondito in particolar modo in riferimento all’accordo di ristrutturazione dei debiti cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 361; V. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” cit. ; quanto al concordato preventivo, v. F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, Riv. soc. 2008, 131 ss. 203 successivamente alla conclusione del negozio, potrebbero impedire l’integrale esecuzione della soluzione negoziata. Le c.d. sopravvenienze fattuali vengono in rilevo soltanto nell’ottica dei c.d. effetti negoziali, quali vizi funzionali ostativi all’esecuzione dell’accordo. Il mutamento delle circostanze è rilevante solo nell’ambito delle c.d. azioni negoziali idonee a caducare l’effetto della ristrutturazione dei debiti (325). Il sistema, invece, trascura l’incidenza delle sopravvenienze fattuali nell’ottica degli effetti riflessi, che in forza dell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. si possono ripercuotere sulla garanzia patrimoniale del debitore nel caso di conversione della soluzione negoziata nella procedura di fallimento (326). Il legislatore, in altri termini, ha trascurato l’incidenza delle sopravvenienze fattuali nell’ottica del peggioramento delle condizioni subite dai creditori in caso di conversione della soluzione negoziale nella procedura fallimentare, interessandosi soltanto di favorire e agevolare la conclusione del negozio sulla crisi d’impresa, tanto da introdurre il premio dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare per indurre i creditori a prestare il consenso. 325 In riferimento all’accordo di ristrutturazione dei debiti cfr. M. Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 360 il quale rileva che: «In linea di principio, e dal punto di vista sostanziale, parrebbe doversi ritenere che a seguito della sentenza di fallimento si caducheranno tutti gli effetti negoziali dell’accordo omologato». 326 In questo senso cfr. G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit. 27, le cui osservazioni possono essere estese anche al concordato preventivo: «L’esenzione dalla revocatoria fallimentare prevista nell’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. nella prospettiva del creditore estraneo, significa che si riduce il patrimonio oggetto dell’esecuzione fallimentare ovvero che aumentano le pretese che in tale sede possono essere fatte valere in concorso con la sua. In entrambi i casi la situazione non cambia: la sua fetta si riduce perché la torta è più piccola e/o perché la misura delle altre fette è aumentata. [...] Mi pare sufficiente per dimostrare la ragione che ha indotto il legislatore a richiedere l’omologazione degli accordi di ristrutturazione come condizione necessaria per fruire dall’esenzione da revoca. Nel caso che abbiamo ipotizzato il nostro creditore ha agito su due leve: da un lato, ha concesso una dilazione; dall’altro lato, non essendo samaritano né tantomeno buono, ha acquisito una garanzia. É evidente che i due strumenti giocano su piani differenti: il primo, diminuendo la probabilità di fallimento, va a beneficio di tutti i creditori; il secondo, invece, agendo direttamente sulla specifica pretesa di quel creditore diminuendone la loss given default, va a suo vantaggio esclusivo e, in modo direttamente proporzionale, a svantaggio degli altri». 204 L’unica preoccupazione del legislatore è stata quella di introdurre un preventivo sindacato giurisdizionale nella fase genetica del negozio, volto ad evitare che le parti intendano avvalersi dello strumento per operare il trasferimento della ricchezza a vantaggio di alcuni creditori e a danno di altri. Ma è banale osservare come non si possa reputare sufficiente che la proposta e il piano appaiano ex ante correttamente formulati, essendo necessario che entrambi lo siano effettivamente ex post per tutto l’arco temporale della fase esecutiva. 9.1 - L’incapacità del piano - sopravvenuta o originaria che sia - di risolvere la crisi dell’impresa non va però considerata un vizio genetico del negozio sulla crisi d’impresa, bensì un vizio funzionale dello stesso ( 327). Tale difetto è il presupposto dal quale discenderebbe l’«inadempimento di non scarsa importanza» alla proposta, che potrebbe giustificare la risoluzione del concordato preventivo, da cui consegue la caducazione retroattiva degli effetti esdebitativi e modificativi dei rapporti obbligatori conseguenti all’omologazione ex art. 180 l. fall. Alla risoluzione del concordato preventivo si ritiene applicabile, per analogia, la disposizione dell’art. 140 l. fall. e, quindi, gli atti dispositivi del patrimonio del debitore, compiuti in favore dei creditori, resteranno efficaci. Quest’ultimi alla luce del combinato disposto degli artt. 140 ult. co. e 67, comma 3°, lett. e) l. fall. potranno: a) insinuarsi nel concorso fallimentare per l’importo originario del credito; b) trattenere le somme riscosse in 327 Una delle pronunce in materia di esecuzione del concordato, App. Firenze, 29 maggio 2012, reperibile su www.ilcaso.it, ha precisato che: «Nel procedimento di concordato preventivo, il potere del Tribunale di valutare la fattibilità dell’accordo non può avere ad oggetto la fattibilità del piano, il quale deve essere tenuto distinto dalla proposta che costituisce l’oggetto dell’incontro delle volontà del debitore e dei creditori. Al piano non potranno, pertanto, essere riferiti eventuali vizi genetici del negozio concordatario in quanto esso altro non è che lo strumento per l’adempimento del concordato e la sua fattibilità potrà avere rilievo esclusivamente nell’ambito dell’eventuale giudizio di risoluzione del concordato». 205 parziale esecuzione del concordato preventivo, anche se conseguite nel periodo c.d. sospetto immediatamente antecedente la dichiarazione di fallimento; c) avvalersi delle garanzie ottenute durante l’esecuzione del concordato sui beni dell’imprenditore. Sennonché, alla luce di quanto precede, al fine di evitare che dell’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare si traduca in un eccessivo sacrificio per i creditori estranei agli atti preferenziali della fase esecutiva, è necessario verificare, innanzitutto, che gli atti dispositivi del patrimonio siano stati posti in essere «in esecuzione» di un piano e, in secondo luogo, che tale piano fosse in quel momento effettivamente capace di risolvere la crisi. Come noto, nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, all’interno del perimetro di controllo demandato al Tribunale non rientra il potere-dovere di accertare la c.d. fattibilità del piano posto alla base dell’accordo tra il debitore proponente ed i creditori, in quanto essi, se informati sin dall’inizio e durante le fasi successive, in modo veritiero e trasparente sulla situazione aziendale e sulle ragioni di sostegno del piano concordatario, ben possono accordare a quest’ultimo preferenza, rispetto alla liquidazione concorsuale (328). 328 Il dibattito sulla possibilità di sindacare la fattibilità del piano da parte del Tribunale non ha dato ancora una soluzione soddisfacente. Possono ritenersi esistenti tre distinte ricostruzioni in ordine ai limiti del controllo giudiziale sulla fattibilità del piano concordatario da parte del Tribunale. Secondo una prima opzione ermeneutica, che sembrerebbe esse stata accolta dalla giurisprudenza di legittimità, (v. Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860; Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274; 23 giugno 2011, n. 13817), occorre procedere ad una interpretazione riduttiva dei poteri interdittivi esercitabili dal Tribunale sia in sede di ammissione, sia nella successiva fase di omologazione del concordato, per cui il Tribunale dovrebbe limitarsi ad una mera verifica sulla regolarità e completezza della documentazione allegata dalla parte proponente e sulla correttezza della procedura. Secondo altro filone interpretativo, maggioritario tra la giurisprudenza di merito, il Tribunale si dovrebbe far carico di valutare la fattibilità del piano. Sussiste poi una soluzione c.d. intermedia che propende per un, non meglio definito, controllo di legittimità sostanziale. Per ripercorre tale dibattito v. M. Vitiello, Sub art. 180 l. fall. in G. Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, cit. 1570. 206 Di fronte a tale scelta, consapevolmente deliberata, il Tribunale deve invero limitarsi a prenderne atto e accertare: a) la persistenza delle condizioni di ammissibilità della procedura (ex artt. 160 e 161 l. fall.); b) l’assenza di fatti che possano giustificare la revoca dell’ammissione (ex art. 173 l. fall.); c) la presenza del vantaggio economico per i «terzi-creditori» assoggettati al vincolo della ristrutturazione (ex art. 184 l. fall.) e alla moratoria legale (art, 182 - bis, 1° comma, lett. a) e b) l. fall.); tale accertamento è necessario alla luce dei principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) dell’iniziativa economica e dell’attività d’impresa (art. 41 e 42 Cost.). Il giudizio sulla realizzabilità della proposta, come mera prognosi di possibilità di adempimento delle obbligazioni ristrutturate, compete, dunque, solo ai creditori. Ora, alcuni scenari delle fase esecutiva, per quanto ragionevolmente presumibile, potrebbero anche essere previsti nella fase genetica del concordato. Ma è ovvio che né l’imprenditore, né il Tribunale, né i creditori potranno prevedere ogni possibile sviluppo, soprattutto, rispetto ad un orizzonte temporale piuttosto lungo dell’ordine di alcuni anni. La previsione dei possibili sviluppi della fase esecutiva non è, tuttavia, necessaria, in quanto l’oggetto dell’accordo concordatario è rappresentato essenzialmente da due elementi: la promessa del debitore di regolare la crisi con determinate modalità e l’accettazione dei creditori, che a fronte di quella regolazione rinunciano alla soddisfazione dei loro crediti nella misura originaria. Il concordato viene ad esistenza per effetto dell’incontro di queste due volontà e - preme rilevare - l’oggetto dell’accordo tra l’imprenditore e creditori è rappresentato soltanto dalla proposta e non dal piano. 207 Per tale ragione, l’inadeguatezza del piano non può essere considerata un vizio genetico del negozio, in quanto non afferisce alla causa dell’accordo, la quale consiste essenzialmente nell’interesse delle parti alla risoluzione della crisi con modalità diverse dalla liquidazione concorsuale. In altri termini, la prognosi di incapacità del piano non può integrare un vizio genetico e non può ripercuotersi in un vizio della causa del negozio sulla crisi d’impresa, tale prognosi non può condurre ad una declaratoria di nullità dell’accordo e tale vizio non può essere rilevato dal giudice ex officio (ex art. 1421 c.c.) nel giudizio di omologazione. Ecco, allora, che occorre aver cura di non confondere i profili genetici con quelli funzionali del negozio: i primi integrano l’oggetto del sindacato giurisdizionale compiuto dal Tribunale nel procedimento di omologazione; i secondi, invece, possono aver rilievo soltanto nella fase esecutiva. Tale ripartizione si impone in virtù della rilevanza attribuita al consenso espresso dalla maggioranza dei creditori, dall’assoluta ampiezza dei contenuti sostanziali che può avere il piano di concordato (tanto da non potersi più teorizzare una suddivisione tra concordati per garanzia e con cessio bonorum ) e dall’elisione delle soglie minime di adempimento (sia in relazione ai creditori privilegiati non capienti, ex art. 160, 2° comma, l. fall. che ai chirografari). Ma la ripartizione in parola induce a ritenere che sussista la possibilità di invocare la risoluzione dell’accordo concordatario tutte le volte in cui emerga la non fattibilità di quel piano, la cui fattibilità sia stata attestata al momento della presentazione della proposta di concordato. L’impossibilità di eseguire il piano concordatario rappresenterebbe il massimo grado di inadempimento a cui potrebbe giungere il debitore, anche alla luce del nuovo criterio dell’importanza dell’inadempimento introdotto dall’art. 186, 208 comma 2°, l. fall. (329). È evidente che a seguito della sopravvenuta infattibilità del piano non potrà che discendere l’impossibilità di onorare gli impegni concordatari, secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza anteriore alla riforma . Nel vigore della disciplina originaria del ’42 si riteneva che la risolubilità anticipata del concordato preventivo fosse ammissibile nel caso in cui il piano fosse diventato non più fattibile per cause non imputabili al debitore, e ciò si giustificava sia in ragione della preminente rilevanza del mancato soddisfacimento dei creditori sia, conseguentemente, del mancato superamento dello stato di crisi (insolvenza) (330). Nello specifico, si riteneva che la sopravvenuta incapacità del piano, nell’ottica del concordato preventivo, integrasse un’ipotesi di conclamato inadempimento ai sensi dell’art. 1219, comma 2°, n. 2 c.c. conseguente alla dichiarazione del debitore di non poter o volere adempiere. Più precisamente, secondo un orientamento la nozione stessa di risoluzione implicava un giudizio a posteriori, da poter formulare soltanto all’esito della cessione di tutti i beni e della definizione di tutti i rapporti giuridici patrimoniali pendenti in capo al debitore, sì da poter poi valutare la 329 Trib. Milano, 9 marzo 2007, in Fall. 2007, 684; v. anche S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Padova, 2008, 152; F. Marano, Commento art. 186 l. fall. in A. Jorio (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2007, II, 2609; contra G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 844. 330 Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Fall. 1993, 807 la quale ha ritenuto l’impossibilità fosse valutabile dal Tribunale durante la fase esecutiva ed anche in via prognostica, allorquando «ancorché prima della liquidazione dei beni emerga, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, che il concordato medesimo sia venuto meno alla sua funzione, per essere ragionevolmente prevedibile che le somme ricavabili dalla vendita dei beni ceduti non possano essere sufficienti, per cause originarie o sopravvenute, a soddisfare, nemmeno in minima parte, i creditori chirografari o, a maggior ragione, a soddisfare integralmente i creditori privilegiati»; nello stesso senso cfr. Cass. 13 dicembre 1969, n. 3936, in Dir. fall. 1970, II, 393; Cass. 23 marzo 1976, n. 1073, in Foro it. 1977, I, 2023; Cass. 3 novembre 1981, n. 5790, in Foro it. 1983, I, 1092; v. anche nella giurisprudenza di merito: Trib. Sulmona, 3 giugno 1999, in Fall. 1999, 1153; Trib. S. Maria Capua Venere, 23 luglio 2002, in Fall. 2003, 224. 209 sussistenza dell’inadempimento idoneo a rappresentare causa di risoluzione (331). Viceversa, secondo altro orientamento la mancata conclusione del procedimento non impediva la possibilità di dichiarare la risoluzione, laddove si fosse stati certi che la liquidazione non avrebbe comunque consentito il soddisfacimento delle ragioni creditorie privilegiate e almeno in una qualche misura, delle chirografarie (332). Si riteneva che la risoluzione fosse possibile anche nel caso di giudizi pendenti volti ad ottenere l’accertamento di un credito in favore dell’imprenditore, se ciò non avesse comportato alcun effetto favorevole per le possibilità satisfattorie della procedura (333). Prima della riforma, quindi, si ammetteva la risoluzione anticipata del concordato preventivo qualora fosse emerso, con ragionevole certezza, che il debitore non avrebbe potuto adempiere alle sue obbligazioni, in quanto il contrario avrebbe significato imporre agli organi della procedura una inutile attesa pregiudizievole per i creditori (334). Ora, alla luce del mutato quadro normativo, la risoluzione anticipata del concordato preventivo, a seguito della sopravvenuta incapacità del piano, non potrebbe più avvenire per iniziativa degli organi della procedura. 331 Cfr. App. Milano, 12 febbraio 1968, in Dir. fall. 1968, II, 293; Trib. Napoli, 6 marzo 1997, in Fall. 1997, 1223; contra Cass. 10 gennaio 2005, n. 295, in Fall. 2005, 701: «in materia di concordato preventivo con cessione dei beni, qualora sia disposta la vendita all’asta dei beni, la fissazione del prezzo base non può ritenersi vincolata dall’importo della somma necessaria a soddisfare i creditori, in quanto detto prezzo dipende esclusivamente da valutazioni di mercato e anche se esso sia insufficiente al succitato scopo, non possono ritenersi sussistenti, per ciò solo, i presupposti per la risoluzione del concordato, dato che non è possibile prevedere se, ed in quale misura, all’esito della gara il prezzo di aggiudicazione sarà superiore all’importo base, ferma restando l’intangibilità del diritto del miglior offerente all’aggiudicazione anche nel caso in cui questa ipotesi non si sia verificata». 332 Cfr. S. Satta, Diritto fallimentare, III ed. 1996, Padova, 516 e nota 59. 333 Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011, 695. 334 Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Dir. fall. 1993, II, 920; Trib. Milano, 20 settembre 2000, in Fall. 2001, 358. 210 Come noto, il commissario giudiziale non ha più la legittimazione ad agire per richiedere risoluzione del concordato preventivo, né il Tribunale può dichiararla d’ufficio. La risoluzione del concordato preventivo è unicamente subordinata all’iniziativa di un creditore che deduca la sussistenza del c.d. «inadempimento di non scarsa importanza». Sennonché, come rilevato sopra, non tutti i creditori hanno la medesima possibilità di compiere giudizi predittivi sulle effettive capacità dell’imprenditore di proseguire nella fase esecutiva della soluzione negoziata. Ecco, allora, che il sindacato sulla capacità del piano e sulla meritevolezza degli «atti esecutivi» dipendeni dallo stesso, non potrà che essere svolto soltanto a seguito della già avvenuta risoluzione del concorato preventivo. 10. - Così ricostruito il tessuto normativo, è possibile pertanto prendere le mosse dai dati che si sono raccolti in apertura dei lavori e da quelli evidenziati in questa sede, per introdurre e regolare il giudizio sulla meritevolezza degli «atti esecutiviı». In particolare, interessa ricordare, innanzitutto, che gli effetti riflessi che si producono sulla garanzia patrimoniale del debitore sono strettamente subordinati all’emissione del provvedimento di omologazione della soluzione negoziata. Più precisamente, il provvedimento in questione è stato definito la condicio iuris che rende concreta la volontà di legge di esonerare gli «atti esecutivi» delle soluzioni negoziate ex art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. L’effetto in questione non è un effetto ope legis in senso stretto, in quanto la concessione del beneficio in parola è subordinata ad un preventivo scrutinio giurisdizionale, volto ad evitare illegittimiti trasferimenti di richezza a favore soltanto di alcuni creditori e in pregiudizio di altri. 211 Nel giudizio di omologazione è inibito ogni controllo giurisdizionale sulla fattibilità del piano, dal momento che l’incapacità del piano integra – come detto - un «vizio funzionale» del negozio e, pertanto, non può essere rilevata d’ufficio nella fase genetica dell’accordo. Ma tale «vizio funzionale» può essere conosciuto e accertato dal Tribunale durante la fase esecutiva a seguito del ricorso presentato dal creditore finalizzato ad ottenere la risoluzione della soluzione negoziale e, di conseguenza, la caducazione degli effetti negoziali, anch’essi dipendeti dal provvedimento omologazione. Ciò chiarito, preme osservare che la possibilità di ottenere la risoluzione delle soluzioni negoziali (e gli effetti che da queste discendono), induce a ritenere che il provvedimento di omologazione non è suscettibile di acquisire una assoluta stabilità formale; appare, cioè, evidente che il provvedimento di omologazione non è effettivamente idoneo a vincolare in assoluto le parti e il giudice agli effetti del negozio sulla crisi d’impresa. Gli effetti diretti del provvedimento di omologazione (ex art. 184 l. fall. e 182 - bis comma 1°, lett. a) e b) l. fall.) possono essere rimossi mediante l’esercizo delle azioni negoziali, esperibili a fronte della sopravvenuta incapacità del piano a garantire l’esatto adempimento della soluzione negoziata. Occorre, però, verificare se il «difetto funzionale» poc’anzi rilevato, possa giustificare anche la rimozione degli effetti riflessi che dipendono dal provvedimento di omologzione. La possibilità di contestare gli effetti riflessi non può prescindere dall’analisi degli strumenti di contestazione del decreto di omologazione della soluzione negoziata. In questa direzione, alla luce del carattere camerale del provvedimento, diviene preliminare (ed assorbente di ogni altra indagine) determinare se sia possibile ammettere l’esercizio del potere di revoca nei confronti del decreto di omologazione. 212 Come noto, ai sensi dell’art. 742 c.p.c i decreti emessi all’esito del procedimento in camera di consiglio «possono essere in ogni tempo modificati o revocati». Tale disposizione è suscettibile di applicazione analogica a ogni provvedimento di natura giurisdizional-volontaria emesso all’esito di un procedimento regolato dalle forme del procedimento camerale, in cui non sia prevista una disposizione contraria o la disciplina del singolo provvedimento non sia informata a criteri incompatibili con la possibilità di ottenere la revoca (335). Si è infatti affermato che la revoca non sarebbe configurabile per i provvedimenti emessi all’esito di procedimenti regolati dalle forme del procedimento in camera di consiglio e aventi sostanzialmente contenuto decisorio o, comunque, incisivo su diritti soggettivi (336). Si è, tuttavia, osservato che se il provvedimento è stato emesso all’esito di un procedimento svolto secondo le forme del rito camerale si deve, di conseguenza, accettarne anche la revocabilità, a prescindere dalla individuazione di un oggetto contenzioso, ossia dalla deduzione nelle forme camerali di un diritto soggettivo (337). La revocabilità potrebbe essere esclusa solo per effetto dell’effettiva predeterminazione legale delle forme e dei termini necessaria a trasforme il basso tasso di formalità del procedimento camerale e la relativa cognizione sommaria in un giusto processo a cognizione piena ed esauriente, ossia in un 335 G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione e sull’opposizione dei motivi di revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. proc. civ. II, 1960, 205; il dato della generale revocabilità risulta poi confermato dalla limitata impugnabilità e dalla inidoneità al giudicato formale e, di conseguenza, al giudicato sostanziale, cfr. A. Cerino - Canova: Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., 447 e 458; nel senso più liberare: E. T. Liebman, Id. Limiti alla domanda di revoca di decreto “volontario”, in Giur. it 1957, I, 435. 336 G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione e sull’opposizione dei motivi di revoca al terzo acquirente, in Riv. dir. proc. civ. II, 1960, 205. 337 Cfr. A. Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c. in cit. I, 435. 213 procedimento che assegni alle parti quella pienezza delle garanzie formali che sono necessario presupposto del giudicato formale (ex art. 324 c.p.c.) (338). Ora, il provvedimento di omologazione delle soluzioni negoziate non ha ad oggetto l’accertamento di situazione giuridiche perfette (i.e. diritti soggettivi o status). L’unico effetto di incisione che si verifica sul diritto soggettivo dei c.d. «terzi-creditori» ai sensi degli artt. 184 l. fall. e 182 - bis, 1° comma, lett. a) e b) l. fall. viene, tuttavia, caducato a seguito della risoluzione o dell’annullamento a seguito dell’impugnative negoziali; si riespande, cioè, la situazione giuridica soggettiva in precedenza compromessa dal provvedimento di omologazione. Proprio per tale ragione in relazione al provvedimento di omologazione delle soluzioni negoziate non potrebbe trovare accoglimento l’orientamento poc’anzi richiamato, che esclude dall’ambito applicativo della revoca il provvedimento che, oltre ad avere carattere decisorio, avrebbe anche carattere definitivo, quindi, sarebbe sostanzialmente equiparabile ad una sentenza (339). 10.1 – Ora, la revoca del provvedimento camerale viene considarata l’esercizio di un nuovo potere giurisdizionale (340), che non può essere 338 A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 351 il afferma che: «non basterà giustapporre al termine della trama camerale la mera irrevocabilità, per consentire al provvedimento di soddisfare il bisogno di stabilità e idoneità all’accertamento che si ricollega alle decisioni su diritti o stati personali. Non si può attribuire in alcun modo alla irrevocabilità una simile virtù taumaturgica» e la stessa virtù taumaturgica non può derivare neppure dalla sola garanzia offerta dalla impugnazione di legittimità ai sensi dell’art. 111, Cost. 339 Pone, infatti, dei limiti alla revocabilità la giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui il provvedimento sia decisorio o incidente su diritti soggettivi: cfr. Cass. 28 novembre 1989, n. 5173, in Rep. Giust. civ. 1989, v. Adozione, n. 32 in tema di delibazione del provvedimento straniero di adozione di cui all’art. 801 c.p.c. in quanto attribuirebbe al minore lo stato di figlio adottivo. 340 Così chiaramente: E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, in Giur. it. 1948, I, 327; Id. Limiti alla domanda di revoca di decreto 214 fondato, però, sul mero arbitrio del giudice, ma che deve essere subordinato ad una ben precisa «causa», quale requisito essenziale di ogni atto giudiziario (341), ossia si richiede l’individuazione dei motivi illegittimitàopportunità della precedente decisione (342). La necessità di ancorare la revoca alla individuazione di motivi trova fondamento, in realtà, oltre che nel generale richiamo alla «causa» richiesta per ogni atto giudiziario, anche, se si osserva con attenzione, più nello specifico, nella disciplina dei provvedimenti camerali stessi, laddove si richiede ex art. 737 c.p.c. che tali provvedimenti debbano avere la «forma di decreto motivato» (343). “volontario”, in Giur. it 1957, I, 435. S. Satta, Il procedimento in camera di consiglio, in Riv. comm. 430 341 Cfr. L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, cit. 619 ove si richiamano gli artt. 121, 131, 156 c.p.c. e l’obbligo di motivazione si deduce dall’art. 737 in deroga all’alt. 135, IV comma, c.p.c. ; v. anche: 591 ss, effettua dei chiarimenti in merito ai procedimenti di giurisdizione volontaria, affermando che «i provvedimenti giudiziari con efficacia di giudicato o comunque consumativa delle azioni di parte e dei poteri decisori del giudice [...] non sono di giurisdizione volontaria», affermando, altresì, che «i provvedimenti conclusivi dei procedimenti in camera di consiglio, che sono esplicitamente assegnati dal nostro legislatore alla giurisdizione volontaria, hanno tutti la caratteristica [...] di non costituire di per sé soli compiute fattispecie ma o di vincolare in parte forme e contenuti di futuri atti di diritto sostanziale o di concorrere immediatamente a costituire fattispecie giuridiche che hanno negli atti di diritto sostanziale giudiziariamente autorizzati i loro elementi finali o principali» contra E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, cit. 328, che a proposito della stabilità del provvedimento camerale rileva però che: «L’organo che l’ha emanato può cioè andare in contrario avviso e provvedere nuovamente secondo ciò che ritenga conforme a diritto e opportunità, senza essere vincolato dal provvedimento precedentemente pronunciato». 342 A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 302. 343 Nel senso della più liberale v. però: E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, cit. 449 per il quale la revoca non deve essere subordinata alle c.d. sopravvenienze, in quanto la possibilità di modificazioni quando sopravvengono nuove circostanze è propria anche delle sentenze passate in giudicato, le quali abbiano per oggetto un rapporto continuativo, mentre in relazione al provvedimento camerale: «La legge all’interessato due strade, formalmente e praticamente molto diverse, per ottenere il mutamento degli effetti prodotti dal provvedimento; preclusa la prima di esse, rimane tutt’ora aperta l’altra, che consiste nella facoltà di riproporre la questione allo stesso organo che ha provveduto, con la speranza di indurlo a mutare il proprio convincimento. Si badi: così è e così deve essere, non solo perché questo è il senso trasparente delle disposizioni legali ricordate, ma anche perché questo e non altro significa negare che i provvedimenti di questa categoria valgono come cosa giudicata. Usando una terminologia da me proposta altra volta, dirò che ad essi spetta efficacia (cfr. art. 741 c.p.c.) 215 Ai fini dell’indagine sulla revoca del provvedimento di omologazione la disposizione poc’anzi richiamata viene pertanto in rilievo in un duplice senso: da un verso, impone di individuare i motivi che possono condurre alla revoca del provvediemento; dall’altro verso, mostra che la revoca del provvedimento camerale è strutturata come un mezzo di impugnazione a critica libera, nel senso che la cognizione del giudice non è limitata a determinati presupposti prefissati dalla legge per l’esercizio del potere di revoca (344). I motivi che possono giusitificare la revoca del decreto camerale integrano l’unico presupposto oggettivo in forza del quale può sorgere il potere del giudice e, diversamente da quanto previsto in tema di revocazione delle sentenze (art. 395 c.p.c.), si caratterizzano per la loro «atipicità» (345). Ciò è perfettamente coerente con l’impostazione classica data alla revoca quale strumento che giova alla giustizia della decisione e che si pone a discapito delle esigenze di certezza del diritto (346). Occorre, quindi, interrogarsi su quali potrebbero essere i motivi in forza dei quali si potrebbe ottenere la revoca del decreto di omologazione delle soluzioni negoziate. Secondo un certo orientamento la revoca del provvedimento camerale sarebbe ammissibile, in generale, solo nel caso in cui vengano addotti nuovi motivi di merito sopravvenuti, mentre i vizi originari, sulla scorta di un principio analogo a quello della conversione dei motivi di nullità in motivi ma non autorità del giudicato che vuol dire immutabilità (o, d’accordo con la terminologia corrente, che non acquistano né la cosa giudicata formale né la materiale)». 344 A. Pagano, Contributo allo studio dei procedimenti in camera di consiglio, Dir. giust. 1988, 80; 345 E. Fazzalari, Giurisdizione volontaria, cit. 350; G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di giurisdizione volontaria, cit. 217 : A. Cerino - Canova, Per la chiarezza delle idee, cit. 458. 346 F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, I, Roma, 1942, 373-374; G. Chiovenda, Sulla cosa giudicata, in Id. Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, III, 400. 216 di gravame ex art. 161 c.p.c. potrebbero essere dedotti solo con il reclamo (347). Si è osservato, però, che tale orientamento finirebbe per operare una indebita sovrapposizione tra il provvedimento camerale e le sentenze passate in giudicato formale, in quanto a seguito del mutamento delle circostanze la revoca è propria anche di quest’ultime se incidono su rapporti continuativi (348). Ma proprio in virtù dell’inidoneità al giudicato formale e sostanziale del provvedimento di omologazione, i motivi di revoca non si possono ritenere limitati soltanto ai motivi di merito sopravvenuti, e ai fini della loro determinazione si dovrà tener conto sopratutto delle motivazioni del decreto conclusivo del provvedimento impugnato. Secondo l’impostazione tradizionale, infatti, stante l’assenza di ogni preclusione del dedotto e del deducibile ricollegabile al provvedimento conclusivo del procedimento camerale e in mancanza di una disposizione contraria, è preferibile ritenere che il provvedimento camerale possa essere revocato anche sulla base delle medesime circostanze esaminate al momento dell’emanazione (349). Passando, quindi, ad esaminare il provvedimento di omolgazione del negozio sulla crisi d’impresa, nell’ottica del c.d. «difetto funzionale» 347 C. M. Pratis, Autorizzazione di atti di disposizione patrimoniale nell’interesse di incapaci e difetto sopravvenuto di necessità o utilità negli atti stessi, in Giur. compl. cass. civ. 1952, III, 149; nello stesso senso: G. Franchi, Sulla revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione e sull’opposizione dei motivi di revoca al terzo acquirente, cit., 209, il quale ritiene che alle parti è dato solo il reclamo per ottenere una «rivalutazione degli elementi di giudizio disponibili all’atto della pronuncia del provvedimento»; G.A. Micheli, Camera di Consiglio, (dir. proc. civ.), in Enc. Dir. Milano, 1959, 385. 348 Cfr. R. Caponi, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, 11; già E. T. Liebman, Revocabilità dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, cit. 449. 349 Cfr. L. Mortara, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1905 vol. V, 668; E. T. Liebman, Giurisdizione volontaria e competenza, in Riv. dir. proc. civ. 1925, II, 282; E. Fazzalari, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, 115; in giurisprudenza: Cass. sez. un. 23 ottobre 1986, n. 6220, in Giust. civ. 1987, I, 903; App. Roma, 26 novembre 1983, in Rep. Foro it. 1984 v. Società n. 305; contra V. Colesanti, Sulla competenza ad omologare la separazione consensuale, in Foro it. 1957, I,2057. 217 dell’accordo, occorre verificare se tale vizio possa integrare un motivo idoneo a giustificare la revoca del decreto e, di conseguenza, la caducazione degli effetti riflessi. Il «difetto funzionale» del negozio sulla crisi d’impresa potrebbe derivare: a) dall’insorgere di sopravvenienze fattuali idonee ad impedire la prosecuzione dell’attività esecutiva e, quindi, idonee a contraddire l’accertamento del vantaggio economico compiuto dal Tribunale nel provvedimento odi omologazione; b) dall’emersione di circostanze di fatto preesistenti ma non conosciute dal giudice al momento della emanazione del provvedimento di omologazione; c) da una successiva valutazione dei medesimi fatti che, al banco di prova dell’attività esecutiva, si sono rivelati inidonei a consentire il superamento della crisi d’impresa. Di fronte a tali circostanze l’accertamento compiuto dal Tribunale nel giudizio di omologazione verrà ad essere contraddetto e perderebbe in concreto di significato. L’accertamento del Tribunale è, infatti, un giudizio prognostico, compiuto sulla base delle circostanze di fatto note e dedotte nel giudizio stesso. Se così è, allora, il difetto funzionale del negozio sulla crisi d’impresa, non sussistendo ostacoli dal punto di vista di sistematico (sia dal punto di vista endofallimentare, che dal punto di vista extra-processuale), ben potrebbe, allora, costituire un motivo idoneo per giustificare la revoca del decreto di omologazione. 10.2 - Da un punto di vista generale, il procedimento di revoca rappresenterebbe la continuazione del medesimo procedimento che si è 218 concluso con l’emanazione del provvediemento di cui si intende chiedere la revoca (350). In questa direzione, occorre innanzitutto rilevare la mancanza di una previsione legislativa che regolamenti la fase di revoca; si ritiene, infatti, che sia onere dell’interprete ricostruire il tessuto normativo sulla stessa trama del procedimento che ha condotto all’emissione del provvediento da revocarsi. Si osserva, altresì, che la revoca non può consistere in un mero atto unilaterale da parte del giudice legittimato a revocare il precedente provvedimento, essendo invece richiesta a tal fine proprio la ripresa del procedimento formativo dell’atto (351). Nella nuova fase procedimentale si impone, sopratutto, il rispetto del principio del contraddittorio, nel senso che il potere di ritornare sull’atto da parte del giudice, proprio perché si realizza nella riapertura del medesimo procedimento, richiede la omogeneità soggettiva, quindi la possibilità per i soggetti già partecipi alla prima fase del procedimento di interloquire e concorrere ancora alla formazione del provvedimento (352). Ora, a seguito della dichiarazione di fallimento, tutti i creditori, come noto, perdono la possibilità di agire individualmente a tutela dei loro crediti e i loro interessi vengono tutelati collettivamente mediante la figura del curatore fallimentae. Alla luce di ciò, ove si ammettesse la possibilità di richiedere la revoca del decreto di omologazione, questa dovrebbe essere richiesta al Tribunale dal curatore fallimentare stesso, al fine di ottenere la possibilità giuridica agire con l’azione revocatoria fallimentare. 350 Cfr. L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca, cit. 619- 620; La revoca dell’omologazione nel sistema dei controlli sulla legittimità degli atti societari, Padova, 1990, Zaccarelli, 444. 351 Cfr. A. Chizzini, La revoca dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, cit. 315. 352 L. Montesano – G. Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, 2002, 1225; A. Basilico, La revoca dei provvedimenti civili contenziosi, Padova, 2001, 391. 219 Il curatore fallimentare, in realtà, potrebbe ritenersi l’unico legittimato ad agire, in quanto avrebbe interesse ad ottenere, appunto, la possibilità giuridica di agire, che gli viene esclusa ad opera del provvedimento di omologazione. Il curatore agirebbe nell’interesse dei creditori per dedurre la sopravvenuta incapacità dell’accordo e per ottenere la caduzione degli effetti riflessi, al precipuo scopo di evitare che la concessione del beneficio dell’esenzione si possa ripercuotere a danno dei c.d. «terzi-creditori» della fase esecutiva. Va, però, osservato che anche se il curatore riuscisse ad ottenere la revoca del decreto e in forza di ciò potesse agire con l’azione revocatoria fallimentare tale rimedio sconterebbe un deficit di efficacia, per via: a) della riduzione del c.d. periodo «sospetto» previsto dall’alrt. 67, comma 1° e 2°, l. fall.; b) della necessità di accogliere allo stesso tempo anche un’interpretazione evolutiva del presupposto soggettivo in forza del quale è possibile ottenere la declaratoria di inefficacia degli atti, pagamenti e garanzie concesse. Occorrerà, invero, accogliere una diversa accezione dell’elemento soggettivo che caratterizza la condotta del creditore, che potrebbe essere espresso in termini di “conoscenza della sopravvenuta incapacità” della soluzione negoziale ad essere integralmente eseguita. Si tratterebbe, a ben vedere, di una soluzione volta a perseguire la riduzione del rischio di abuso dell’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. e) l. fall. e idonea a rafforzare nella fase esecutiva il perseguimento degli interessi meritevoli di tutela secondo il moderno sistema di regolamentazione negoziale della crisi d’impresa. 220 Bibliografia Abete L. Il ruolo del giudice ed il principio maggioritario nel novello concordato Abete L. Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o privatistica?, in Fall. 2008, 991. Abete L. Le vie negoziali per la soluzione della crisi dell’impresa, in Fall. 2007, 620 Allorio E. 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