UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI DI VENEZIA FACOLTA’ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN MARKETING E COMUNICAZIONE TESI DI LAUREA LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION NELLA PROSPETTIVA DEL CONSUMATORE Relatore: Prof. Tiziano VESCOVI Correlatori: Prof.ssa Monica CALCAGNO Prof. Paolo PELLIZZARI Laureando: GABRIELE PAOLACCI matricola 803244 ANNO ACCADEMICO 2005/2006 Ai miei nonni Giulio, Bruna, Bruno, Silvana PREMESSA Con questa tesi si conclude un percorso di cinque anni presso la Facoltà di Economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. La natura del lavoro muove da due istanze: in primo luogo, l’interesse che, specialmente durante il biennio di laurea specialistica in “Marketing e Comunicazione”, è maturato per il tema della marca; in subordine, la volontà di concludere il corso di laurea coerentemente con l’indirizzo “quantitativo” seguito al suo interno. La lettura di alcuni articoli di ricerca ha suggerito una possibile risposta ad entrambe le esigenze: uno studio sulla strategia di brand extension vista attraverso gli occhi del consumatore, che contemplasse l’utilizzo di dati e metodi quantitativi a supporto delle analisi di marketing. Si è da un lato beneficiato della vasta bibliografia presente sull’argomento della marca; dall’altro, per non smarrirsi tra i molteplici punti di vista da cui esso è dibattuto ed affrontabile, è stato particolarmente importante farsi guidare in ogni fase dagli obiettivi predeterminati. Con queste premesse, si è cercato di raggiungere un livello di consapevolezza adeguato alla predisposizione e formulazione di un giudizio critico. SOMMARIO INTRODUZIONE 1 PARTE I 1. IL BRAND 1.1. Il significato cos’è il brand 9 1.2. I luoghi dov’è il brand 11 1.3. Le funzioni perchè il brand 1.3.1. Per il consumatore 1.3.2. Per l’impresa 1.3.3. Altre funzioni 14 1.4. Il valore la brand equity 1.4.1. Tra finanza e marketing 1.4.2. La brand equity nel modello di Aaker 1.4.3. La brand equity nel modello di Keller 19 2. LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND 2.1. L’attività di branding l’orizzonte strategico 37 2.2. La costruzione della brand equity come creare valore 2.2.1. Definizione del posizionamento e dei valori del brand 2.2.2. Pianificazione ed attuazione dei programmi di marketing 40 2.3. Crescita e sostegno della brand equity le strategie di branding 2.3.1. Le dimensioni del branding 2.3.2. L’architettura di branding 2.3.3. Elaborare una strategia di branding 2.3.4. La crisi del brand 51 2.4. Il branding dei nuovi prodotti prodotto nuovo, marca nuova? 2.4.1. Lanciare una nuova marca 2.4.2. Sub-branding 2.4.3. Co-branding 2.4.4. Brand extension 73 3. LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION 3.1. La strategia che cos’è un’estensione di marca 83 3.2. I vantaggi e gli svantaggi estendere o non estendere? 3.2.1. L’efficienza della brand extension 3.2.2. L’efficacia della brand extension 3.2.3. I rischi della brand extension 86 3.3. Come estendere la marca dalla teoria alla pratica 3.3.1. Il successo della strategia 3.3.2. L’attuazione della brand extension 3.3.3. Linee guida per estendere la marca 93 3.4. Alcuni esempi la brand extension nel mondo aziendale 103 PARTE II 4. IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA 4.1. Gli studi sull’estensione della marca 111 la prospettiva del consumatore 4.2. Aaker e Keller (1990) “Consumer Evaluations of Brand Extensions” 113 4.2.1. Scopi e articolazione della ricerca 4.2.2. Il metodo di indagine 4.2.3. I risultati dello studio 4.3. Gli studi successivi quindici anni di ricerca 4.3.1. Sunde e Brodie (1993) 4.3.2. Bottomley e Holden (2001) 4.3.3. Völkner e Sattler (2006) 123 4.4. Considerazioni personali i punti controversi 132 PARTE III 5. CARATTERISTICHE DELLO STUDIO 5.1. Scopo della ricerca rifocalizzare l’obiettivo 141 5.2. Il modello di regressione riconsiderare le premesse e rinnovare 142 5.2.1. Le variabili dipendenti 5.2.2. Le variabili indipendenti 5.2.3. Le variabili di stratificazione: la matrice degli atteggiamenti di consumo 5.2.4. L’equazione del modello 5.3. Marche e nuovi prodotti gli oggetti di indagine 5.3.1. La scelta delle marche note 5.3.2. La determinazione delle estensioni ipotetiche 153 5.4. Metodo di indagine il questionario 5.4.1. Natura e struttura del questionario 5.4.2. La misurazione degli atteggiamenti di consumo 5.4.3. La misurazione delle percezioni sulle estensioni di marca 157 6. RISULTATI DELLO STUDIO 6.1. Gli atteggiamenti di consumo il campione nella matrice 6.1.1. Gli atteggiamenti verso marche e categorie di estensione 6.1.2. Il campione nella matrice degli atteggiamenti di consumo 171 6.2. Analisi preliminare un primo sguardo ai risultati 6.2.1. I risultati medi delle estensioni di marca 6.2.2. Analisi descrittiva delle variabili 6.2.3. La struttura di correlazione 177 6.3. Analisi di regressione i criteri di valutazione del consumatore 6.3.1. Il dataset intero: tutti i consumatori 6.3.2. I consumatori delle categorie di estensione 6.3.3. I consumatori “fedeli” alla marca 190 6.4. Le estensioni di marca suggerite le idee degli intervistati 204 7. CONSIDERAZIONI FINALI 7.1. Conclusioni dello studio comprendere i risultati 211 7.2. Implicazioni manageriali tradurre in azione 213 7.3. La matrice degli atteggiamenti uno strumento strategico? 218 7.4. Limitazioni e ricerca futura cautele e auspici 223 ALLEGATO N°1: IL QUESTIONARIO 227 BIBLIOGRAFIA 235 RINGRAZIAMENTI 243 INTRODUZIONE Negli ultimi anni, il tema della marca si è riproposto nella letteratura di marketing con contributi numerosi e innovativi. L’attenzione verso il brand rispecchia l’importanza del ruolo che esso si vede assegnato nella complessità dell’odierno contesto economico: cambiano i processi d’acquisto e di consumo, si evolvono le tecnologie, aumenta e muta la natura della pressione competitiva. Per l’impresa è sempre più difficile soddisfare le crescenti esigenze di un consumatore divenuto più maturo; questo è altresì in difficoltà davanti al moltiplicarsi di un’offerta non sempre intelligibile e di qualità. I cambiamenti amplificano per entrambi il bisogno di instaurare con la controparte una relazione certa e stabile: in questo senso, il brand offre a tutti gli attori economici un riferimento condiviso, capace di resistere, con la sua forma e sostanza, ai cambiamenti dell’esterno. Per il consumatore, affidarsi ad una marca nota riduce i rischi insiti nell’acquisto e consumo di un nuovo prodotto. Per l’impresa, la marca diviene così una guida ed uno strumento per competere: una risorsa il cui valore va gestito con lungimiranza e piena consapevolezza. Questo lavoro considera una delle strategie di marca più frequentemente utilizzate dall’impresa: la brand extension, cioè l’utilizzo di una marca consolidata per denominare un nuovo prodotto. L’interesse della ricerca per l’estensione di marca è alto, perché alla crescente frequenza con cui essa è stata utilizzata nella prassi aziendale non sono sempre corrisposti risultati ottimali. In questa tesi si studia il fenomeno assumendo un orizzonte strategico e utilizzando la prospettiva del consumatore. Sebbene non esauriscano i possibili modi per studiare un’estensione di marca, questi due tratti individuano due condizioni necessarie per una corretta gestione del brand: assicurare continuità e coerenza alle scelte che ricadono sulla marca e conoscere come essa viene percepita dal consumatore. Appunto, lungimiranza e consapevolezza. Nella stesura della tesi si è costantemente inseguito l’obiettivo di dare ad essa uniformità e linearità, per favorire una lettura logica ed una miglior comprensione. Ciononostante, le tre parti in cui il lavoro è articolato sono dotate di larga autonomia. La prima parte inquadra la brand extension all’interno delle strategie di marca, ed è strutturata, in una logica di progressiva focalizzazione, su tre capitoli: il capitolo 1 sviscera il concetto di brand alla luce della sua più recente evoluzione, descrivendone il significato, le manifestazioni, le funzioni, il valore; il capitolo 2 tratta come, in un’ottica strategica, l’impresa debba gestire la marca per costruirne, incrementarne, sostenerne il valore, e analizza le modalità di branding dei nuovi prodotti; il capitolo 3, infine, approfondisce la strategia di brand extension, descrivendone vantaggi e rischi, modalità di attuazione, esempi reali. La prima parte ha anche un implicito ruolo “di definizione”, perché consente al lettore di appropriarsi, oltre che dei concetti, anche della terminologia utilizzata nel prosieguo del lavoro. La seconda parte, costituita dal capitolo 4, ha una fondamentale funzione di collegamento tra l’impianto teorico della tesi e lo studio empirico effettuato: si analizza il filone di ricerca che, dal 1990 ad oggi, ha cercato di comprendere le determinanti del successo dell’estensione di marca nella prospettiva del consumatore. Definito nella parte precedente cosa si sta osservando, si indossano ora “le lenti del consumatore”. Oltre che un collegamento, la seconda parte costituisce in modi diversi anche una premessa: cronologicamente, alla prima parte, perché la ricerca studiata ha contribuito in modo significativo a formare lo “stato dell’arte” in materia di brand extension; metodologicamente, alla terza parte, perché lo studio condotto ne fa proprie alcune modalità di indagine; infine, all’idea stessa della tesi, indotta dalla lettura di articoli analoghi a quelli presentati. Per questo motivo si è scelto di valorizzare questa analisi isolandola sia dal precedente nucleo teorico che dal successivo empirico. La terza parte è integralmente costituita dalla presentazione di uno studio empirico, che si colloca idealmente nel filone di ricerca di cui sopra. Si è cercato di strutturare in modo aggiornato la percezione che il consumatore ha della proposta di un nuovo prodotto da parte di una marca che conosce. Il capitolo 5 illustra le basi teoriche dello studio e argomenta le scelte metodologiche compiute, mostrandone continuità e novità rispetto alla ricerca precedente; il capitolo 6 presenta dettagliatamente i risultati ottenuti. Tutte le considerazioni finali trovano spazio nel capitolo 7: le conclusioni a cui è giunto lo studio, le implicazioni manageriali di questo, le limitazioni e gli auspici per la ricerca futura. Si suggerisce anche, desunto dallo studio effettuato, un possibile strumento di analisi utilizzabile nell’ambito di una strategia di estensione di marca. PARTE I 1. IL BRAND 1.1. Il significato cos’è il brand 1.2. I luoghi dov’è il brand 1.3. Le funzioni perchè il brand 1.4. Il valore la brand equity IL BRAND 1.1 IL SIGNIFICATO Negli anni passati, il termine brand è stato esplicitato in molti modi, con riferimenti comunemente accettati ma con accenti diversi. Sebbene spesso le elucubrazioni formali siano esercizi sterili in termini sostanziali, in questo caso cercare di comprendere le definizioni date alla marca (o brand) è in realtà un metodo efficace di sviscerarne il significato. Infatti, l’evoluzione del concetto di marca negli ultimi anni trova una certa rispondenza nei suoi tentativi di definizione; analogamente, a partire da questi possiamo ricavare spunti preziosi per una successiva e rigorosa analisi dell’oggetto di studio. Nel lontano 1960, l’American Marketing Association (AMA) definiva il brand come “un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno o una loro combinazione che identifica un prodotto o servizio di un venditore e che lo differenzia da quello del concorrente”. Questa definizione, ancora oggi insegnata e da ritenersi valida, si concentra, a ben guardare, sulla funzione distintiva del brand: se il marchio è sintetizzabile come “segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa” (artt. 2569-2574 C.C., R.D. 929/42), questi due concetti, marca e marchio, sembrerebbero quasi perfettamente sovrapponibili. La fondamentale definizione dell’AMA è fatta propria anche da Kotler e da Aaker: “la marca è un nome o un simbolo distintivo (per esempio un logo, un marchio, il design di una confezione) che serve ad identificare i beni o i servizi di un venditore o di un gruppo di venditori e a differenziarli da quelli di altri concorrenti”1. Pur se in termini accrescitivi (Aaker si spinge fino al design di una confezione per esemplificare il simbolo distintivo, quasi a voler considerare elementi non propriamente tangibili), anche lo studioso di Berkeley condivide questa definizione “tecnica” del brand, precisa ma non esaustiva se si voglia sviscerarne il significato. Altri studiosi hanno dato della marca definizioni meno puntuali e più ricche: per De Chernatony e McDonald essa è ”un prodotto, servizio, persona o luogo, aumentato in misura tale che l’acquirente o l’utilizzatore percepisca elementi unici e rilevanti di valore aggiunto che incontrino i suoi bisogni e che tale valore 1 AAKER, D.A. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli, Milano, p.26. 9 CAPITOLO 1 sia sostenibile nei confronti dei concorrenti”2. Pur se piuttosto fumosa, questa definizione ci consente di intuire nuove dimensioni oltre a quella della distintività, già considerata, della marca: essa è rivolta a specifici individui; qualora i suoi elementi distintivi (“unici”) incontrino i bisogni di questi, la marca darà un valore aggiunto a ciò che identifica. La caratteristica della marca dipende quindi da come gli individui la percepiscono: dai destinatari del messaggio oltre che dai suoi emittenti. Ci si distacca, pertanto, dalla visione del brand come semplice segno distintivo del prodotto che identifica. Il pubblicitario Walter Landor definisce il brand “una promessa: identificando ed autenticando un prodotto o un servizio, annuncia un impegno di soddisfazione e qualità”. La marca è una precisa assunzione di responsabilità, una garanzia data ai consumatori rispetto ai prodotti contrassegnati. Il consulente di branding Colin Bates definisce addirittura la marca svincolandola del tutto dal prodotto che identifica, come "un insieme di percezioni nella mente del consumatore". Pur peccando di eccessivo astrattismo, Bates accentua in modo forte l’intangibilità della marca, sminuendo l’importanza dei segni distintivi che la rappresentano e focalizzandosi piuttosto sul suo destinatario, il potenziale fruitore del brand. Anche Kapferer, studioso europeo di branding, prende idealmente le distanze dal “brand come marchio”: “è l’essenza del prodotto, il suo significato e la sua direzione, ne definisce l’identità nel tempo e nello spazio”3. La marca è il luogo concettuale dove si sedimentano l’evoluzione passata e futura dell’offerta, l’identità dell’impresa e con essa l’esperienza del consumatore. Zara descrive la marca come “una sintesi di risorse dotate di potenziale generativo, capaci di accrescere nel tempo la fiducia e la conoscenza su cui si fonda la marca stessa attraverso la creazione di valore. Con specifico riferimento alle relazioni con i consumatori, tale capacità deriva dall’aggregazione, intorno a specifici segni di riconoscimento, di un definito 2 L.DE CHERNATONY-M.MC DONALD, Creating Powerfull Brands in Consumer, Service and Industrial Markets, Oxford, Butterworth Heinemann, 1998, citato in BAIETTI I., “Dalla brand Identity alla site identity: l’influenza della comunicazione off-line sulla site image e sulla brand image”, Convegno le “Tendenze del Marketing in Europa”, 2000. 3 KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra. 10 IL BRAND complesso di valori, di associazioni cognitive, di aspettative e di percezioni, al quale i segmenti di domanda attivati dall’impresa attribuiscono un valore-utilità che eccede la performance tecnico-funzionale del prodotto identificato dalla marca stessa e che pertanto si traduce in un valore differenziale per l’impresa”4. Se non ha il pregio della sintesi, questa definizione anticipa il concetto fondamentale di valore della marca e mostra come esso derivi al contempo dall’impresa e dal consumatore. Si potrebbero riportare molti altri tentativi di definizione, alcuni efficaci, altri in bilico tra la frase ad effetto e l’aforisma: ognuno va a cogliere diverse dimensioni di un concetto, quello di brand, che per la sua multidimensionalità è molto difficile da sintetizzare. Se ciascuna definizione ha il merito di evidenziarne degli aspetti, tutte sono inevitabilmente incomplete. Questo perché, come vedremo, la marca è comprensiva di tutto: del suo nome, del suo marchio, dei prodotti o servizi che identifica, della sua storia, del valore che porta… per arrivare fino ai due estremi stessi della relazione, l’impresa e il consumatore. Nel corso del lavoro, quando ad emergere saranno talora alcuni, talora altri aspetti, la poliedricità del concetto apparirà ancora più chiara. Forse proprio in questa difficoltà di formalizzare il brand risiede il successo di una definizione, quella ormai datata dell’American Marketing Association, che senza la presunzione di catturare tutta la complessità della marca ne descrive puntualmente la manifestazione fisica. 1.2 I LUOGHI Se si riuscirà a a comprendere meglio il concetto di brand mostrando le funzioni a cui assolve, è importante dargli da subito visibilità: comprendere gli ambiti in cui esso è utilizzato, le categorie nelle quali si presenta o si potrebbe presentare. “Localizzare le marche” prima di addentrarsi nel suo funzionamento è al contempo un modo di evidenziarne la presenza e di premetterne l’importanza. 4 ZARA C. (a cura di) (1997), La valutazione della marca. Il contributo del brand alla creazione del valore dell’impresa, Etaslibri, Milano. 11 CAPITOLO 1 L’assunto fondamentale è che la marca nasce nella mente del consumatore. Tutto può costituire o divenire brand se come tale viene percepito, se diviene oggetto di un insieme di percezioni, come nella definizione di cui sopra. Così, possiamo individuare delle marche in tutte le seguenti categorie5: Prodotti di consumo: rappresentano ciò che è comunemente considerato prodotto in senso stretto, e sono uno degli ambiti in cui la marca più ha e ha avuto importanza. Si guardi al concetto stesso di prodotto di marca: “ciò che distingue un prodotto di marca dai prodotti non di marca (unbranded) e gli dà valore è la percezione complessiva sviluppata dai consumatori in merito alle sue caratteristiche, al nome che l’identifica e al suo significato, nonché all’azienda associata a quella marca (Achenbaum 1993)”. Sebbene si debba applicare questa utile definizione anche alle categorie successive, il primo ambito a cui è facile far riferimento è proprio quello dei prodotti di consumo, proprio per la diffusione che ha avuto in passato l’utilizzo del brand in questa categoria. Si pensi sia a marche di beni di largo e frequente consumo (FastMoving-Consumer-Good, FMCG) come Coca-Cola, Marboro, che a marche di beni durevoli, quali Mercedes-Benz o Sony. Prodotti business to business: nell’ambito dei beni industriali, l’utilizzo della marca è in rapida espansione, essendone stato riconosciuto il ruolo importante nelle transazioni tra imprese oltre che tra impresa e consumatore. Trattasi di un utilizzo prevalente del brand aziendale, che mira a far emergere l’impresa b2b dal complesso di tutte le concorrenti, rendendola un interlocutore e partner commerciale affidabile. Servizi: rappresentano uno degli ambiti in cui la marca ha avuto, negli ultimi tempi, un tasso di utilizzo molto crescente. L’immaterialità dell’offerta e la variabilità dei soggetti in essa coinvolti, che ne sono state forse un tempo un freno, stanno oggi trovando proprio nella marca un’eccezionale ”opportunità di sintesi”: il brand Vodafone, per esempio, identifica e rende riconoscibili le caratteristiche di un’intera gamma di servizi (piani, promozioni) e insieme i 5 KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. Titolo originale: Strategic Brand Management (2003), II ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. 12 IL BRAND soggetti che a vario titolo contribuiscono alla sua erogazione (sito Internet, commessi…). L’utilizzo dei brand è frequente anche per identificare singoli servizi speciali (Vodafone Live). Va evidenziato come, aldilà della crescita dell’ultimo decennio, in questa categoria esistano da molti anni sul mercato brand forti e noti (basti ricordare American Express, British Airways). Dettaglianti e distributori: analogamente ai servizi, anche nel canale distributivo la presenza della marca è crescente. Si pensi alle marche commerciali (private labels), che sempre più distributori adottano (in Italia, per esempio, Pam o Esselunga) o all’evoluzione delle stesse insegne, sempre più posizionate e dotate di una propria immagine. Prodotti e servizi on-line: nell’ultimo decennio, nuove aziende sono nate (e morte) su Internet e vecchie vi si sono affacciate, spesso con entusiasmo e decisione ma con alterne fortune. Il ruolo della marca è fondamentale, costituendo un riferimento e un’interfaccia comune per soggetti spesso dispersi geograficamente. Google e E-Bay sono entrambi esempi di azienda pure player e brand online rapidamente divenuto credibile e sinonimo di affidabilità, al punto da essere, nel ranking Interbrand delle marche globali, rispettivamente la prima e la terza per tasso di crescita. Individui e organizzazioni: anche le persone fisiche possono essere dei brand. Ne abbiamo un esempio banale nell’industria cinematografica, dove nomi di autorevoli registi sono spesso utilizzati per dare risalto o portare un significato in più a progetti che li coinvolgono in minima parte (“Wes Craven presenta…”); personaggi dello spettacolo, politici o altre figure pubbliche impegnate nell’ottenimento di un qualche consenso cercano di crearsi un’immagine affidabile e in un qualche modo accattivante; ma in senso lato, ogni qualvolta le persone si impegnano a conquistare, con i propri spontanei atteggiamenti, una propria credibilità, stanno costruendo il proprio brand. Sport ed entertainment: club sportivi danno in licenza il proprio marchio e cercano di renderlo prestigioso, anche con attività sociali ed extra-sportive in generale (Fondazione Milan); i sequel di film di successo fanno leva sull’appeal dei precedenti, i cui nomi si affermano come veri e propri brand (Matrix, Star Wars…) e sono come tali valorizzati dalle case di produzione. 13 CAPITOLO 1 Luoghi geografici: nell’immaginario collettivo, alcune città d’arte sono dei city brand, percepiti in modo preciso e definito; le amministrazioni locali consapevoli possono sfruttare il loro prestigio utilizzandone il nome o addirittura il logo (il rinnovato leone alato di Venezia) e al contempo cercare di accrescerlo (lo slogan di Treviso “se la vedi ti innamori”). Ancora, si pensi all’appeal del Made in Italy in tutto il mondo. Idee e cause: anche in ambito umanitario e non-profit si sono spesso creati dei veri e propri brand: enti come Emergency o Amnesty International hanno potuto beneficiare dei rispettivi, così come la lotta all’AIDS ha da tempo un simbolo nel fiocco rosso. Questa breve rassegna dovrebbe far intuire, per ora in termini puramente quantitativi, quanto l’utilizzo della marca sia penetrato nei mercati, entrando a far parte della vita degli individui oltre che dei consumatori. 1.3 LE FUNZIONI 1.3.1 Per il consumatore I ruoli che la marca ricopre sono molteplici, analizzabili secondo le prospettive dei diversi soggetti che, in modo diretto o indiretto, vengono con questa a contatto. Innanzitutto, ci si concentri sulle funzioni che il brand ricopre per il consumatore. Utilizzando i termini prodotto e consumatore si farà sempre riferimento, di fatto, all’oggetto identificato dal brand e al soggetto che viene con esso a contatto, sia esso un individuo o un’organizzazione. Il presupposto dell’importanza della marca per il consumatore risiede nel concetto di rischio percepito: è intuibile che quando il consumatore investe delle risorse (tempo, denaro, energie mentali…) in un processo d’acquisto, facilmente percepisce un rischio di insoddisfazione nello stesso. Il rischio è percepito per motivi imputabili all’acquirente (il suo coinvolgimento nell’acquisto) o all’oggetto da acquistare (presenza o meno di indicatori delle sue qualità 14 IL BRAND prima dell’acquisto). Ci sono diversi tipi di rischio6: funzionale (performance inferiore alle aspettative); fisico (minaccia per il benessere o la salute di chi lo utilizza o di altri soggetti); finanziario (valore del bene inferiore al prezzo pagato); sociale (il prodotto potrebbe creare situazioni imbarazzanti nel rapporto con gli altri); psicologico (il prodotto influisce negativamente sul benessere psichico dell’utente); temporale (se il prodotto non è soddisfacente, servirà ulteriore tempo per trovarne un sostituito adeguato). La marca, con la sua stabilità e reputazione consolidata, è una delle soluzioni che il consumatore sente di avere a disposizione per ridurre questi rischi. Viceversa, il ruolo del brand cessa di esistere nel momento in cui il consumatore non sente di rischiare acquistando una merce piuttosto che un’altra. Ecco perché ci sono mercati dove le marche non esistono, hanno un ruolo meramente segnaletico o sono prevalentemente commerciali. Il diverso rischio percepito, variabile in base ai mercati, allo spazio e al tempo, è uno dei motivi principali per cui le funzioni che ci accingiamo a descrivere non sono presenti con la medesima intensità in tutte le tipologie e fattispecie di marche. Kapferer assegna al brand otto funzioni7: • Identificazione: è la funzione segnaletica. Riconoscendone il nome o il marchio (rispettivamente brand name e brand mark secondo le definizioni di Kotler8), il consumatore identifica immediatamente il prodotto e/o la sua fonte di provenienza tra quelli che lo circondano. L’esempio tipico è quello del barattolo di una certa marca esposto tra gli altri negli scaffali. • Praticità: riconoscere una marca con la quale ha avuto esperienze positive permette al consumatore di risparmiare tempo ed energie nell’acquisto: non avrà più bisogno di cercare informazioni, di vario carattere, che può o sente di dare per scontate; sarà propenso a 6 ROSELIUS (1971), “Consumer Ranking of Risk Reduction Methods”, Journal of Marketing, 35 (January), 56-61. 7 Adattato da KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra. 8 KOTLER P. (2003), Marketing Management, XI ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. 15 CAPITOLO 1 confermare le scelta passata, senza metterla in discussione e senza cercare alternative di marca costose in termini di tempo. • Garanzia: la marca dà al consumatore la sicurezza di qualità costante nel tempo e nello spazio. Acquistando la stessa marca in due luoghi diversi e lontani, egli troverà le stesse caratteristiche; analogamente, in momenti distanti del tempo questi si sentirà garantito nel riacquisto dal permanere della marca. • Ottimizzazione: sicurezza del consumatore di acquistare il prodotto migliore della sua categoria, o il più adatto a soddisfare le sue esigenze specifiche. Questi è disposto a pagare un prezzo anche considerevolmente più alto (premium price) per il prodotto di marca che gli dia questa sicurezza. • Caratterizzazione: conferma della propria immagine. Il consumatore cerca e trova nella marca una riaffermazione di sé, o del sé che vuole presentare agli altri. Va evidenziato come, rispetto a tempi e climi culturali passati, i prodotti siano sempre meno un fine e più un mezzo di espressione della personalità. Questo non diminuisce affatto la loro pregnanza e quella delle marche nella vita degli individui, ma li dota di una rinnovata funzione, quella, appunto, di conferma della propria immagine. Le funzioni di garanzia, ottimizzazione e caratterizzazione superano il ruolo segnaletico delle prime due e ne abbracciano uno prettamente di riduzione del rischio percepito dal consumatore. • Permanenza: soddisfazione dalla familiarità con il brand. Il consumatore prova piacere nel rapporto con una marca con la quale si relaziona da molto tempo. 16 IL BRAND • Edonismo: soddisfazione dall’esteriorità della marca. Il consumatore è attratto dal suo nome, dal logo, da come essa si presenta e comunica. • Etica: soddisfazione dalla responsabilità sociale della marca. Il consumatore è divenuto generalmente più sensibile alle problematiche sociali, e si attende talora la stessa attenzione da parte della marca agli aspetti inerenti l’ecologia, l’occupazione, il rispetto dei minori nella pubblicità. Le ultime tre funzioni concernono il “piacere” ricavabile dal consumatore nel suo rapporto con la marca. L’analisi delle funzioni svolte dai brand nei singoli mercati è anche una delle chiavi per comprendere lo spazio di azione dei distributori in termini di marche commerciali: se il ruolo del brand è prevalentemente segnaletico, infatti, questi avranno buon gioco nell’introdurre proprie marche, che svolgano le stesse funzioni a costi minori; viceversa, se i brand svolgono anche funzioni più complesse, le marche commerciali riusciranno difficilmente a competere. In generale, più ricco è il ruolo rivestito da un brand, più questo sarà tutelato dalla minaccia delle marche dei distributori. 1.3.2 Per l’impresa Anche per l’impresa, il brand ha una funzione di identificazione: la marca è un mezzo per semplificare le operazioni di gestione e controllo dell’inventario, delle registrazioni contabili, in generale del prodotto. La marca è un importante strumento di tutela giuridica: l’impresa può, per mezzo di questa, proteggere legalmente le caratteristiche uniche del prodotto. In capo alla marca ci possono essere i diritti di proprietà intellettuale che il suo titolare può esercitare (è il concetto di trade mark, secondo la terminologia dettata da Kotler): il nome del brand può essere protetto mediante marchi 17 CAPITOLO 1 commerciali registrati; i processi produttivi sono oggetto di brevetti, così come il packaging, tutelabile anche grazie alla disciplina del diritto d’autore. Le esperienze positive del consumatore con una marca, come abbiamo visto, possono tradursi in un riacquisto e in una sempre rinnovata fiducia nel brand. La fedeltà del consumatore alla marca (brand loyalty), obiettivo sempre più ricercato dalle imprese, garantisce certezza e costanza della domanda, costituendo barriere all’entrata difficili da valicare per la potenziale concorrenza. Il brand, pertanto, è una importante fonte di vantaggio competitivo. Infine, e in virtù di tutte queste sue apprezzate funzioni, il brand è una fonte di risorse finanziarie: come sarà approfondito, la marca è un asset con un valore intrinseco oltre che con specifici ruoli, suscettibile di essere monetizzato alienandolo a vario titolo. 1.3.3 Altre funzioni La marca del produttore ha anche funzioni ed effetti indiretti, collaterali alla relazione con il consumatore: per il distributore, la presenza di marche note e ben pubblicizzate favorisce la visita al negozio e ne influenza la percezione del cliente. Per questo motivo, gli obiettivi di fidelizzazione al punto vendita (store loyalty) trovano uno strumento molto importante nelle marche dei produttori. La marca, infine, ha anche una funzione per il sistema economico: trattandosi di “una promessa ed un impegno verso il consumatore”, può favorire un più alto livello qualitativo dei prodotti e l’innovazione, atta a mantenere vivi i vantaggi competitivi derivanti dalle marche stesse. 18 IL BRAND 1.4. IL VALORE 1.4.1. Tra marketing e finanza Il valore della marca (brand equity) è un concetto salito alla ribalta nella letteratura di marketing in un tempo relativamente recente. Questo proprio perché, tautologicamente, la marca è stata valorizzata solo di recente. Prima degli anni ’80, i multipli (o Price/Earnings ratio: il rapporto del prezzo di un titolo azionario diviso gli utili per azione della società) di una tipica operazione di fusione o acquisizione si aggiravano intorno a valori di sette o otto: tanto era il prezzo pagato per un’azienda rapportato ai suoi guadagni. Successivamente, i prezzi corrisposti cominciarono ad incrementare vertiginosamente, fino a superare sovente valori pari a venti volte i guadagni delle aziende rilevate. Nestlè, a titolo di esempio, nel 1988 comprò Rowntree Macintosh (produttrice di dolciumi) ad un prezzo pari a 26 volte i suoi utili. Si cercava di investire in aziende sottovalutate, le cui forti marche avrebbero portato crescita, utili, valore per gli azionisti. Non si acquistavano più solo entità produttive, ma anche e soprattutto dei posti (già occupati) nelle menti dei consumatori. Si riconosceva la difficoltà di creare da zero marche della forza di quelle già affermate, che tuttavia non erano adeguatamente valutate o neppure considerate a bilancio. Oggi, le risorse intangibili, e in particolare i brand, sono considerati dalle aziende la loro risorsa più grande, e costituiscono spesso la quota prevalente del valore aziendale: in una tipica impresa produttrice di beni di consumo ad acquisto ricorrente, gli asset tangibili supererebbero a malapena il 10% del valore totale9. Se la maggioranza del valore intangibile è dato proprio dal brand, si comprende come queste considerazioni abbiano dato grande ribalta al concetto di valore della marca. Un importante filone di ricerca ha elaborato diversi metodi di valutazione del brand e degli altri asset intangibili: utilizzando criteri storici (come la determinazione dei costi sostenuti per creare il brand) o meglio prospettici (come i guadagni attesi), fino ad arrivare a metodi complessi 9 KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. 19 CAPITOLO 1 come quello utilizzato ogni anno dalla società di consulenza Interbrand per il suo ranking dei brand globali. Fig. 1.1 : Il valore dei brand globali secondo Interbrand Fonte: www.interbrand.com 20 IL BRAND Tuttavia, sarebbe un errore pensare che i motivi di studio della brand equity siano esclusivamente finanziari. Un altro approccio, che potremmo definire “di marketing” e che da subito premettiamo essere quello seguito in questo lavoro, ha considerato la brand equity alla luce del suo significato strategico per l’impresa: dalla consapevolezza che la marca, cioè la sua percezione nella mente dei consumatori, è la risorsa più importante a disposizione dell’azienda nel complesso contesto concorrenziale, è partita la necessità di conoscere a fondo le leve da attivare per incrementarne il valore. Si noti bene che questi due punti di vista del valore del brand, finanziario e di marketing, sono assolutamente interrelati. Kapferer stesso ci ricorda che “l’avviamento è dove finanza e marketing convergono”10: la differenza tra prezzo pagato e valore contabile, l’intangibile che ci si premura di quantificare con precisione, non deriva che dalle attitudini e predisposizioni del consumatore e degli altri attori. Gli analisti finanziari valutano ciò che il mercato ha precedentemente valorizzato. E a ben guardare, il brand lavora in modo analogo per entrambi i soggetti: riduce il rischio11. L’investitore finanziario paga un prezzo alto per un’azienda con forti marche, cercando di assicurarsi flussi di cassa certi per il futuro; analogamente, il consumatore corrisponde un premium price perché si sente garantito e ha fiducia nel prodotto di marca. Oltre a dare visibilità al concetto, il gran dibattere teorico intorno al valore della marca ha causato una certa confusione sul suo reale significato. Esistono, nella letteratura di marketing e tra gli addetti ai lavori, svariate definizioni di brand equity, alcune delle quali molto efficaci e largamente condivisibili: L’insieme delle associazioni e dei comportamenti dei clienti del brand, dei membri del canale distributivo e della casa madre che consentono un aumento del volume o dei margini rispetto a quelli possibili senza il nome della marca e che danno al brand un vantaggio forte, sostenibile e differenziato rispetto alla concorrenza (Marketing Science Institute). 10 11 KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra, p.23. KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra, p.33. 21 CAPITOLO 1 Il valore aggiunto per l’impresa, per il commercio o per il consumatore che un determinato brand conferisce al prodotto (Farquhar 1989) L’insieme delle attività e passività legate a un brand, al suo nome e simbolo, che accrescono e diminuiscono il valore fornito da un prodotto o servizio a un’azienda o ai suoi clienti (Aaker 1991) La differenza di fatturato e profitti risultante dalla precedente attività di marketing rispetto a una nuova marca confrontabile (Brodsky e NPD Group 1991) Nel concetto di brand equity sono compresi la forza e il valore del brand. La forza è l’insieme delle associazioni e dei comportamenti dei clienti della marca, dei membri del canale distributivo e della casa-madre che consentono alla marca di godere di vantaggi competitivi sostenibili e differenziati. Il valore è il risultato finanziario della capacità del management di far leva sulla forza del brand attraverso azioni tattiche e strategiche aumentando i profitti attuali e prospettici e riducendo i rischi (Srivastava e Schocker 1991). Tutte queste definizioni convergono su un punto focale: la brand equity è un valore differenziale, aggiuntivo, che deriva, quale che sia la sua misurazione, unicamente dal brand stesso. Parlando di valore del brand, pertanto, ci si interrogherà su effetti e risultati che sarebbero assenti senza la marca stessa. Il problema, in ottica di marketing, si sposta dalla definizione di cosa sia e come si misuri il valore della marca alla comprensione del processo mediante il quale questo si crea. Rimandando ad altre sedi12 per la determinazione del suo sunto economico-finanziario (o brand value, secondo la definizione di Interbrand), si analizzerà ora la brand equity dal punto di vista del consumatore, cercando di comprendere come vada a formarsi questo valore. Le prossime pagine, pertanto, fungono da base e fondamento teorico per il capitolo successivo, che 12 SIMON, C. J. E SULLIVAN M. W. (1993), “The Measurement and Determinants of Brand Equity: a Financial Approach”, Marketing Science, vol. 12, (Winter), 28-52. 22 IL BRAND passa a considerare le strategie mediante le quali le imprese creano e gestiscono il valore dei propri brand nel contesto concorrenziale. 1.4.2. La brand equity nel modello di Aaker Nella letteratura di marketing si sono elaborati e successivamente perfezionati molti costrutti teorici intorno al concetto di valore della marca: si è cercato di comprendere cosa rende “forte” un brand e come i consumatori diano valore alla marca. I due modelli più autorevoli sono probabilmente quelli elaborati e perfezionati, dagli anni ’90 ad oggi, da Aaker e Keller. Questi condividono molti aspetti, alcuni passaggi concettuali e soprattutto l’idea di base che si debba partire dallo studio del consumatore per comprendere come nasca il valore della marca. Li si presenteranno entrambi, uno di seguito all’altro, con modalità e scopi diversi. Si ritiene la ricerca di semplicità e precisione del modello di Aaker al contempo un pregio in termini teorici ed un vizio dal punto di vista della spendibilità pratica. Per questo motivo, si è scelto di presentarlo da subito in maniera sommaria, trovandolo adatto soprattutto in una fase istruttoria di alcuni concetti fondamentali su cui poggia il valore della marca. Si è invece approfondito maggiormente il modello di Keller, che come detto ne condivide alcuni tratti ma li inquadra in un costrutto forse più complesso ma meno rigido, e anche per questo “maggiormente spendibile”. Riprendendo la sua definizione di valore della marca, Aaker sostiene che esso si basi su una serie di “attività” e “passività” ad essa associate, al suo nome o marchio, che aggiungono o sottraggono valore al prodotto o servizio venduto da un’azienda e acquistato dai consumatori. Va osservato che le attività e passività a cui si riferisce Aaker sono indissolubilmente legate alla marca: sono da essa poste in essere e con essa potrebbero modificarsi o addirittura cessare di esistere qualora la marca mutasse nel suo nome o marchio. Esse, che 23 CAPITOLO 1 rappresentano le leve che l’impresa deve saper gestire per creare valore, si possono raggruppare in cinque categorie, come schematizzato nella fig. 1.2. Fig. 1.2: La brand equity secondo Aaker Fedeltà alla marca Altre risorse esclusive Notorietà del nome BRAND EQUITY Qualità percepita Associazioni di marca Fonte: AAKER, D. A. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli È importante rilevare che le cinque componenti che danno valore alla marca sono spesso interrelate; lo stesso valore può, a sua volta, influire sulle componenti da cui origina; inoltre, lo stesso Aaker osserva che talora potrebbe essere utile ammettere nel modello altre categorie oltre alle cinque considerate. Queste osservazioni, che in un certo senso evidenziano la già citata rigidità del modello, non impediscono di utilizzarlo efficacemente per comprenderne, una 24 IL BRAND ad una e senza approfondimenti non necessari allo scopo, le singole componenti13: 1. Fedeltà alla marca: è la misura dell’attaccamento al brand. Le strategie di marca devono guardare ai consumatori potenziali, cioè a quelli da acquisire, ma anche alle relazioni già istituite, ovvero ai clienti già in portafoglio. La fidelizzazione è un obiettivo da perseguire con determinazione, perché porta valore alla marca in vari modi: innanzitutto in termini di rapporto costi-benefici, perchè è relativamente poco costoso consolidare i consumatori esistenti; per la capacità della clientela esistente di farsi essa stessa promotrice della marca verso quella potenziale; per il disincentivo delle altre imprese ad entrare in competizione diretta, stante l’inerzia e la resistenza al cambiamento della clientela fedele; infine, per il potere che ne deriva sul canale distributivo, visto che i consumatori si attenderanno sempre di reperire la marca negli esercizi commerciali. 2. Notorietà del nome: si tratta della capacità di un acquirente potenziale di riconoscere o ricordare che la marca è presente in una certa classe di prodotto, stabilendo così un legame fra la classe di prodotto e la marca stessa. La notorietà dà valore alla marca innanzitutto perché è la condizione necessaria per comunicare: una marca sconosciuta non può essere oggetto di comunicazione; conferisce alla marca un senso di familiarità; dà al consumatore, anche in condizione di scarsità di reali informazioni, un segnale di forza e presenza della marca; infine, la consapevolezza della marca da parte del consumatore ha un ruolo al momento dell’acquisto, per esempio nella selezione del paniere di marche tra cui scegliere. Aaker riconosce tre livelli di notorietà (marca riconosciuta se nominata; marca spontaneamente menzionata tra quelle di una certa classe di prodotto; marca top of mind, cioè la prima delle 13 Adattato da AAKER, D. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli. 25 CAPITOLO 1 spontaneamente citate), più il caso di marca dominante, cioè unica ricordata da una percentuale elevata di intervistati. 3. Qualità percepita: è la percezione da parte del consumatore della qualità globale o della superiorità del prodotto o servizio rispetto all’uso a cui è destinato, tenendo conto anche delle alternative possibili. Porta valore alla marca in molti modi: è spesso un criterio decisionale importante nelle scelte d’acquisto; è una dimensione sulla quale l’impresa può scegliere di posizionarsi in vari modi, quindi uno strumento per differenziarsi; consente di praticare strategie di premium price, o viceversa di far valere sul mercato la maggiore qualità a parità di prezzo competitivo; avendo effetti anche sull’immagine degli attori del canale distributivo, può influenzarne politiche di assortimento e di pricing; può infine essere una leva per le strategie di estensione della marca. 4. Associazioni di marca: tutto ciò che nella mente del consumatore è collegato alla marca costituisce un’associazione, e può portare ad essa valore. Le associazioni più tipiche sono le caratteristiche intrinseche del prodotto e i vantaggi che da esse derivano, ma ce ne sono molte altre categorie: una marca può essere associata a uno stile di vita, al suo consumatore tipo, alla classe di prodotto, al paese d’origine… il brand può significare per il consumatore questo e molto altro ancora, senza il bisogno di precise codifiche ma con l’esigenza, da parte dell’impresa, di averne piena coscienza. Infatti, le associazioni di marca, specie se forti, portano valore alla marca stessa in molti modi: aiutando a ricordare, spesso sintetizzandole, le informazioni di cui il consumatore dispone sul brand; costituendo una base di differenziazione e posizionamento; stimolando, talora con la propria credibilità, una motivazione per l’acquisto; creando sentimenti o atteggiamenti positivi nei confronti della marca; costituendo una base per eventuali estensioni di marca. 26 IL BRAND 5. Altre risorse esclusive della marca: brevetti, marchi registrati, canali distributivi privilegiati… queste ed altre proprietà della marca, se ad essa strettamente associate, possono a vario titolo portarle valore, per esempio proteggendola dalla concorrenza o addirittura impedendola. 1.4.3 La brand equity nel modello di Keller Il presupposto da cui parte l’autore nell’elaborazione del suo modello è che, così come la marca nasce nella mente del consumatore, da questa dipenda anche il suo potere: la conoscenza del brand, intesa come tutto ciò che il consumatore ha appreso o esperito, direttamente o indirettamente, è la base costitutiva della brand equity. Per gestire efficacemente il valore del brand, pertanto, occorre chiedersi come la conoscenza della marca da parte del consumatore influenzi la risposta alle attività di marketing. La spendibilità di questo modello risiede nella sua capacità, già a partire dall’assunto di base, di fungere da guida per le strategie dell’impresa. Keller definisce la Customer-Based Brand Equity (CBBE) come “l’effetto differenziale che la conoscenza della marca esercita sulla risposta del consumatore alle azioni di marketing della marca stessa”14. L’effetto è differenziale perché, come già spiegato, si tratta di reazioni del consumatore attribuibili alla marca: positivo o negativo l’effetto, esso deriva unicamente dalla presenza del brand. Quali che siano, le percezioni, preferenze e comportamenti del consumatore rispetto al brand e alle sue attività dipendono dalla conoscenza della marca (brand knowledge), l’oggetto di studio: concettualizzandola, si riuscirà ad avere un quadro generale per identificare, di caso in caso, le azioni di marketing e le strategie di branding idonee a creare il maggior valore possibile. 14 KELLER, K. L., BUSACCA, B. ,OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. 27 CAPITOLO 1 La Brand Knowledge In psicologia è presente un modello, detto della memoria associativa (Anderson 1983, Wyer Jr. e Srull 1989), secondo cui la memoria consiste in una rete di nodi e legami connettivi: i nodi rappresentano le informazioni immagazzinate e i legami la forza delle associazioni tra queste. La conoscenza della marca si può concettualizzare come la presenza nella memoria di un nodo (il brand) e di una molteplicità di associazioni ad essa collegate. Vanno pertanto comprese le caratteristiche di questo “sistema”, riconducibili a due dimensioni: la consapevolezza della marca (brand awareness) e l’immagine della marca (brand image). Fig. 1.3: La Brand Knowledge Brand Knowledge Brand Awareness Brand Image La Brand Awareness La consapevolezza della marca è la forza del nodo-brand nella memoria del consumatore, cioè la sua capacità di essere riconosciuta e richiamata alla memoria. La brand awareness consta di due componenti, che ricordano per certi versi due dei livelli di notorietà nel modello di Aaker: • la brand recognition, che si riferisce la capacità del consumatore di confermare una precedente esposizione al brand sentendolo nominare o vedendolo esposto. Si potrà parlare di riconoscimento quando il consumatore, trovandocisi a contatto, individuerà correttamente come già nota una marca già conosciuta in qualche modo. • la brand recall, che si riferisce alla capacità del consumatore di richiamare alla memoria il brand a partire dalla categoria del prodotto, dal bisogno soddisfatto o da altro tipo di indizio. Trattasi di un’azione 28 IL BRAND autonoma, che avviene senza il precedente manifestarsi esterno della marca, ed è per questo generalmente più difficile del riconoscimento. L’importanza relativa delle due componenti è variabile: se la brand recall è fondamentale in situazioni di assenza della marca, come negli acquisti online o in quelli che richiedono una ricerca attiva da parte del consumatore, la brand recognition avrà un maggior peso per gli acquisti che avvengono nel punto vendita. Ci sono tre vantaggi ricavabili da un elevato grado di consapevolezza della marca: la maggior probabilità che essa entri a far parte del consideration set delle marche tra le quali verrà effettuato l’acquisto, coerentemente a quanto argomentato da Aaker; la possibilità, in caso di scarso coinvolgimento da parte del consumatore o di poche associazioni, che questo scelga la marca nel consideration set affidandosi in primo luogo alla sua notorietà; infine, un elevato grado di consapevolezza facilita la formazione e il rafforzamento delle associazioni che determinano l’immagine della marca. Questi vantaggi sono al contempo anche dei fattori di criticità della gestione della brand awareness da parte dell’impresa, che dovrà crearla e mantenerla elevata nelle sue componenti di brand recognition (accrescendone la familiarità, di solito mediante l’esposizione ripetuta) e brand recall (cercando di creare associazioni forti con le sue caratteristiche di base, come la categoria di appartenenza e le situazioni più tipiche di acquisto o consumo). Brand Image L’immagine della marca, nel modello di Keller e coerentemente con il modello della memoria associativa, è l’insieme delle percezioni sulla marca presenti nella memoria dei consumatori, che si riflettono in associazioni di varia natura alla marca stessa. Le associazioni di marca sono gli altri nodi informativi legati al nodo rappresentato dal brand nella memoria, e contengono il significato di questo per i consumatori. Keller definisce tre tipi di associazioni alla marca, con crescente livello di astrazione (in base a quante informazioni sono riassunte nell’associazione): gli attributi del sistema d’offerta, i benefici percepiti dai consumatori e 29 CAPITOLO 1 l’atteggiamento generale che il consumatore ha maturato nei confronti della marca. Gli attributi sono gli elementi di base o distintivi che caratterizzano il prodotto o servizio: possono essere relativi al prodotto (le caratteristiche intrinseche che gli consentono di adempiere alle funzioni cui sono destinati) o meno (cioè relativi al suo acquisto o consumo: informazioni sul prezzo, packaging o presentazione del prodotto, tipici consumatori o situazioni d’uso). I benefici sono le percezioni che i consumatori hanno degli attributi a cui la marca è connessa, cioè i vantaggi che pensano di ricavarne. Si possono distinguere in funzionali (direttamente collegati agli attributi propri del prodotto), di esperienza (derivanti dalla soddisfazione o insoddisfazione dall’uso del prodotto, e anche questi solitamente collegati agli attributi propri di questo), simbolici (i vantaggi estrinseci, collegati agli attributi non propri del prodotto e coerenti in senso lato con le “funzioni kapfereriane” della marca più astratte, tipicamente la conferma della propria immagine). Infine, gli atteggiamenti verso la marca sono l’opinione e la valutazione complessiva che il consumatore fa del brand: è un tipo di associazione difficile da definire puntualmente per il suo elevato livello di astrazione, ma si tratta spesso di un sunto delle altre associazioni che forma la base da cui scaturiscono i comportamenti del consumatore, dalla scelta al rifiuto. 30 IL BRAND Fig. 1.4: Le associazioni al brand secondo Keller Tipi di associazione al brand Attributi Propri del prodotto Non propri del prodotto Benefici Attitudini Funzionali D’esperienza Prezzo Simbolici Packaging Consumatore tipo Tipica situazione d’uso Fonte: Adattato da KELLER, K. L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing Customer-Based Brand Equity”, Journal of Marketing, vol. 57 (Gennaio), 1-22. Il sistema con cui Keller organizza le associazioni è utile a comprenderne la natura più che ad esaurirne la varietà; come già asserito presentando lo stesso concetto nel modello di Aaker, l’esigenza di passarle in una rassegna esaustiva passa in secondo piano rispetto all’obiettivo di comprendere il modo in cui esse determinano l’immagine del brand: cioè come contribuiscono, insieme alla consapevolezza di marca, a formarne il valore. Ciò che rileva, come sostiene lo stesso Keller, non è la fonte delle associazioni (che potrà talora non essere controllabile dall’impresa) e il modo in cui esse prendono forma, bensì la loro 31 CAPITOLO 1 forza, positività, unicità15. Queste sono le tre caratteristiche che un’associazione, per portare valore al brand, deve avere nella mente del consumatore, e le tre dimensioni sulle quali devono dall’impresa essere considerate16. • Forza delle associazioni alla marca: è la solidità della connessione tra l’associazione e il nodo del brand. Essa è funzione della quantità e della qualità dell’elaborazione delle informazioni ricevute: se il consumatore rifletterà molto sull’informazione e la metterà in relazione con le conoscenze già acquisite sul brand, le conseguenti associazioni saranno forti. Ovviamente, se il consumatore ha un elevato coinvolgimento rispetto all’informazione e se questa viene presentata coerentemente nel tempo, ne gioverà la forza delle associazioni create. I programmi di marketing, pertanto, dovranno impattare sul consumatore cogliendo tutte le possibilità di rafforzamento delle associazioni che questo crea con la marca. • Positività delle associazioni alla marca: è la desiderabilità dell’associazione alla marca, effettivamente garantita dal prodotto e trasmessa dai programmi di marketing. È fondamentale convincere il consumatore che gli attributi e i benefici portati dalla marca sono adatti a soddisfarne i desideri, in modo tale che si formi un’attitudine positiva. Perché le associazioni siano desiderabili occorre che abbiano rilevanza (per esempio, che si tratti di un attributo non marginale), distintività (l’associazione deve “emergere rispetto alle altre marche”, in senso differenziante o notevolmente accrescitivo), credibilità (si deve dare per scontata la capacità dell’impresa di mantenere la promessa implicita dell’associazione). • Unicità delle associazioni al brand: le associazioni possono anche essere condivise da marche concorrenti. Perchè la marca sia efficacemente posizionata, e tragga valore dalla sua insostituibilità nella 15 KELLER, K.L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. 16 KELLER, K.L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing Customer-Based Brand Equity”, Journal of Marketing, vol. 57, (January), pp. 1-22. 32 IL BRAND mente del consumatore, è fondamentale che questo individui la proposta dell’impresa come unica (è il celebre acronimo USP, ovvero l’unique selling proposition teorizzata nel lontano 1961 dal pubblicitario Rosser Reeves). A prescindere che lo si faccia esplicitamente o meno, è importante quindi che si faccia percepire la differenza tra la marca e le concorrenti, creando associazioni uniche e non condivise. Ciononostante, la marca si troverà certamente a condividere delle associazioni con la concorrenza, come quella della categoria di prodotto, la cui forza, peraltro, è spesso un’importante determinante della brand awareness (Nedungadi e Hutchinson 1985; Ward e Loken 1986). L’impresa, pertanto, dovrà agire in modo tale che le associazioni comuni alla marca appaiano al consumatore non meno favorevoli di quelle dei concorrenti, lavorando nel frattempo su elementi di differenziazione del brand che siano percepiti dal consumatore mediante associazioni positive, forti, uniche. Va evidenziato come le caratteristiche di forza e positività di un’associazione dipendano anche dal suo rapporto con le altre associazioni: se un’informazione condivide significati con associazioni alla marca già presenti nella memoria del consumatore, sarà appresa e immagazzinata con più facilità; d’altro canto, va considerato che informazioni inaspettate potrebbero, proprio per la loro caratteristica di presunta incoerenza rispetto al brand, dare luogo a elaborazioni molto profonde e quindi ad associazioni molto forti. Ma andando oltre il modo in cui le associazioni si formano, va rilevato che se queste condividono larghi tratti e sono strettamente relazionate, l’immagine del brand risulterà più omogenea e coesa: con vantaggi di chiarezza per il consumatore e di gestione per dell’impresa, che avrà buon gioco nell’affermarla con vigore. 33 CAPITOLO 1 Fig. 1.5: La brand equity secondo Keller Brand Knowledge Brand Awareness Brand recognition Brand recall Brand Image Forza delle associazioni Positività delle associazioni Unicità delle associazioni Fonte: Adattato da KELLER, K. L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing Customer-Based Brand Equity”, Journal of Marketing, vol. 57 (Gennaio), 1-22. Il modello della Customer-Based Brand Equity si ripresenterà ancora nel corso del lavoro: in modo esplicito nel capitolo prossimo, fungendo per lunghi tratti da guida alla gestione strategica del brand; in modo più sottile nel prosieguo del lavoro, con la personale applicazione agli argomenti affrontati di alcuni dei concetti fondamentali su cui si basa. 34 2. LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND 2.1. L’attività di branding l’orizzonte strategico 2.2. La costruzione della brand equity come creare valore 2.3. Crescita e sostegno della brand equity le strategie di branding 2.4. Il branding dei nuovi prodotti prodotto nuovo, marca nuova? LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND 2.1 L’ATTIVITA’ DI BRANDING Nel precedente capitolo abbiamo analizzato il concetto di brand in senso “statico”, partendo dalla sua definizione ed arrivando alle componenti del suo valore. Il problema si sposta ora verso la comprensione della sua dinamicità: in altre parole, cercheremo di capire come deve agire l’impresa per creare, mantenere e gestire il valore della marca. In primo luogo, che cosa significa branding? Abbiamo visto che il valore del brand, in tutte le sue definizioni, era descritto come differenziale, cioè derivante esclusivamente dalla marca stessa. Branding, pertanto, è dare a prodotti e servizi il valore aggiunto della marca, e consiste di fatto nel creare differenze. A ben guardare, quindi, l’impresa non sta forse, in ogni sua azione, facendo branding? Le percezioni del consumatore sul brand sono influenzate da ogni suo comportamento e scelta: dal tono del messaggio pubblicitario alla diminuzione di prezzo, fino alla posizione sullo scaffale al momento dell’acquisto, l’impresa concorre continuamente alla formazione, nella mente del consumatore, dell’insieme organizzato di percezioni che alcuni definiscono come brand. L’impresa, pertanto, sta in ogni momento creando e modificando il brand. È quindi fondamentale, in prima battuta, che queste azioni siano tra loro coerenti e organizzate, in modo che l’immagine del consumatore sia il più aderente possibile a quella desiderata. Va inoltre osservato che l’insieme delle percezioni del consumatore non dipende esclusivamente dalle fonti controllate dall’impresa: il passaparola, che molti definiscono come la miglior forma di comunicazione, è anche un famigerato strumento di diffusione di notizie lesive; o ancora, le scelte degli attori sul canale distributivo possono avere un’influenza anche notevole sull’immagine del brand percepita dai clienti. Più in generale, la complessità e imprevedibilità del contesto competitivo non fanno che accrescere la criticità di una risorsa, il brand, che agisce e si spiega in un orizzonte temporale più lungo di quello del prodotto: che ne costituisce anzi, parafrasando Kapferer, la memoria ed il futuro17. 17 KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra, p.53 37 CAPITOLO 2 Questi aspetti comportano per l’impresa la necessità di assumere un’ottica di lungo periodo: il brand andrà gestito strategicamente, assicurando continuità e coerenza alle scelte tattiche di breve e cercando di farne il punto di riferimento della relazione con il cliente. Il modello della Customer-Based Brand Equity, che nel capitolo precedente ha consentito di estrapolare le componenti del valore della marca e organizzarle in un quadro complessivo, fornisce anche un’architettura concettuale per comprendere come questo valore vada costruito e gestito nel tempo. In particolare, Keller descrive il processo di gestione strategica del brand come l’insieme di tre momenti: 1. Definizione del posizionamento e dei valori del brand; 2. Pianificazione e attuazione dei programmi di marketing; 3. Sviluppo e sostegno della brand equity. Si utilizzerà il modello tenendo presente la logica e gli obiettivi del nostro lavoro: nel prossimo paragrafo si riassumeranno le prime due fasi, dedicate alla costruzione del valore della marca; ci si soffermerà quindi, nel prosieguo del capitolo, sulla terza, che riflette sulla gestione del brand in senso stretto. E’ utile premettere la descrizione di una fase di supporto al processo, in esso non esattamente localizzata, ma ugualmente indispensabile per un suo corretto svolgimento. Si tratta della misurazione e valutazione delle fonti e dei risultati della brand equity. Questa si avvale di uno strumento metodologico, la catena del valore, la cui descrizione è utile sia a fini riassuntivi della formazione della brand equity che come incipit all’approfondimento del processo di gestione strategica. L’”esigenza di controllo” scaturisce dalla sopra spiegata natura dell’attività di branding: se l’impresa influisce con ogni suo membro sul brand e concorre in ogni sua azione al mutamento del relativo valore (sia esso incremento o distruzione), è importante che i membri stessi abbiano piena conoscenza di questi rapporti causa-effetto. Dalla premessa che il valore del brand risiede nei clienti, il modello assume che il processo della sua creazione parta dal programma di marketing ad essi 38 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND destinato: se questo è di qualità (chiaro, rilevante per i clienti, differenziante, coerente nelle sue componenti di prodotto, comunicazione ecc.), riuscirà ad incidere sulle disposizioni mentali dei clienti. Queste rappresentano lo stadio successivo della catena: il valore qui si misura con parametri già conosciuti dal modello CBBE, cioè sulla base della consapevolezza del brand e della forza, positività, unicità delle associazioni ad esso: le due componenti, brand awareness e brand image, comporteranno atteggiamenti positivi del consumatore, attaccamento e “coinvolgimento” verso la marca. Questi tratti avranno un’importante leva in fattori esogeni alla disposizione mentale dei consumatori, come la superiorità competitiva del brand sui concorrenti e il sostegno del canale commerciale. Anche grazie a questi fattori moltiplicativi, il consolidarsi delle disposizioni mentali dei clienti in strutture definite si tradurrà a sua volta in determinate performance del brand sul mercato: il premium price spuntato, l’elasticità al prezzo della curva di domanda, la quota di mercato; ancora, l’impresa potrà riuscire ad espandere con successo il brand e a detenere strutture di costo migliori, grazie ai minori investimenti di marketing necessari ad ottenere atteggiamenti favorevoli; tutte performance che si tradurranno, più in generale, in una maggiore redditività del brand, oggetto di valutazione del successivo stadio della catena, la comunità finanziaria. Gli azionisti e gli analisti finanziari valutano il brand con riferimento alle sue performance sul mercato e sulla scorta di altre opinioni: tra le altre, si ricordino il profilo di rischio del brand e il suo potenziale di crescita, ma anche fattori ad esso esterni, come le dinamiche complessive dei mercati finanziari. In questo ultimo stadio, alcuni indicatori del valore della marca sono il prezzo dei titoli azionari, il multiplo prezzo/utili e la capitalizzazione del mercato. La catena del valore, con la sua struttura a stadi, è un supporto utile a tutti gli attori dell’impresa: fornisce una guida per comprendere, a livello aggregato, come agire per portare valore al brand; ad un livello più specifico, ciascun membro dell’impresa si focalizzerà sullo stadio in cui è richiesto il suo contributo. Infine, riassume in modo efficace i parametri di valutazione 39 CAPITOLO 2 utilizzabili per monitorare, nelle varie fasi del processo della sua creazione, il valore del brand. 2.2 LA COSTRUZIONE DELLA BRAND EQUITY 2.2.1 Definizione del posizionamento e dei valori del brand Secondo il modello della Customer-Based Brand Equity, il valore della marca si costruisce agendo sulle leve della brand awareness (aumentando la capacità della marca di essere riconosciuta e richiamata alla mente) e della brand image (creando associazioni forti, positive, uniche). La base dalla quale partire nel processo di costruzione del valore della marca è la definizione di ciò che la marca stessa deve rappresentare e di come deve posizionarsi rispetto alla concorrenza: il posizionamento, appunto, definito da Kotler come “l’atto di definizione dell’offerta e dell’immagine della società, in modo che essa occupi una posizione precisa e di riconosciuto valore nella mente del cliente target”18. Si tratterà di collocare il brand nel punto desiderato della mente dei consumatori, determinandone in partenza le strutture cognitive su cui le successive strategie di marketing faranno leva. Un posizionamento chiaro prevede la precisa identificazione di quattro entità, brevemente descritte19: 1. consumatori target: si dovranno individuare tutti gli effettivi e potenziali acquirenti che abbiano interesse, reddito e accesso al prodotto. Questo presuppone la segmentazione del mercato, cioè l’individuazione di gruppi quanto più omogenei di consumatori con riferimento ai propri obiettivi. Per una corretta segmentazione, è fondamentale scegliere le basi migliori, classificabili in descrittive (attinenti alle persone) o comportamentali (gli atteggiamenti rispetto al brand o al prodotto). Le seconde sono di solito più efficaci perché hanno dirette implicazioni 18 KOTLER P. (2003), Marketing Management, XI ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. 19 KELLER, K.L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. 40 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND strategiche: per esempio, si potranno desumere gli attributi di un certo prodotto o brand sulla base dei benefici ricercati. Successivamente alla segmentazione, l’impresa dovrà scegliere quanti e quali segmenti servire, cioè il suo mercato target. 2. principali competitor: la scelta del mercato target non può prescindere dall’identificazione dei concorrenti, reali e potenziali, con cui l’impresa dovrà competere: la presenza e la natura di questi soggetti dovranno essere studiate con una precisa analisi competitiva, da cui l’impresa possa dedurre possibilità e aree in cui agire con profitto. 3. elementi di comunanza con le marche concorrenti: si tratta degli aspetti condivisi con i competitor, che andranno a formare le basi delle associazioni non uniche al brand nella mente dei consumatori. Il ruolo di questi point-of-parity (POP), come già spiegato, è molto importante, tanto da poter costituire un presupposto per il successo di un brand: servendo a “controbattere” ai concorrenti nelle aree dove questi hanno dei vantaggi; costituendo talora, nel caso di POP riferibili alla categoria di appartenenza, una condizione necessaria, di legittimazione per entrare a far parte di un certo contesto competitivo. 4. elementi di differenziazione alla base del vantaggio competitivo del brand: perché un brand abbia successo, è fondamentale che alcune delle sue associazioni, oltre che forti e positive, siano uniche. Queste, anzi, costituiscono di solito la vera ragion d’essere del brand. Un’impresa può differenziarsi in molti modi, sulla base dei propri attributi o dei benefici connessi alla marca: l’importante è che i suoi point-of-difference (POD) dimostrino in modo inequivocabile la superiorità del brand nelle rispettive aree. Tutte le basi di posizionamento, uniche e non, devono essere sintetizzate per costituire l’insieme dei valori principali del brand: sono i tratti che dovranno 41 CAPITOLO 2 riaffermarsi anche in eventuali estensioni del brand, ponendosi quali riferimenti costanti per il consumatore, che dovrà su di essi investire nella sua relazione con la marca. Spesso, un brand mantra (una frase che in poche parole catturi l’essenza della marca) è uno strumento utile perché questi valori diventino i principi guida di tutte le attività di branding (inteso in senso lato, come da inizio capitolo) dell’azienda e dei partner commerciali, e si assicuri coerenza in tutte le scelte e azioni. La fase di posizionamento, pertanto, assicura in partenza che la marca sia percepita con chiarezza: nella mente dei consumatori, definendo le associazioni desiderate da indurre, e nel cuore dell’impresa, con la piena consapevolezza della promessa posta in essere dal brand. 2.2.2 Pianificazione e attuazione dei programmi di marketing Per raggiungere gli obiettivi desiderati in termini di brand awareness e brand image, l’impresa dovrà assumere e perseguire le decisioni più adeguate in termini di: • scelta degli elementi del brand; • integrazione del brand all’interno dei programmi e delle attività di marketing; • sfruttamento delle associazioni secondarie. Si analizzano uno ad uno questi modi di costruzione del valore della marca. 42 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND Scelta degli elementi del brand Gli elementi del brand sono le informazioni, visive o verbali, che servono in prima istanza ad identificare e differenziare il prodotto. Quali che siano (nome, slogan…), essi svolgono tuttavia anche altre funzioni oltre quella segnaletica: soprattutto, nel nostro modello, sono un importante strumento per creare consapevolezza del brand e stabilire nella mente del consumatore associazioni forti, positive, uniche a questo. In questo senso, gli elementi del brand vanno scelti opportunamente tenendo conto di alcuni importanti criteri: memorizzabilità (per raggiungere elevati livelli di awareness è importante che il brand catturi l’attenzione del consumatore e sia facile da ricordare), significatività (contribuire alla formazione di associazioni inerenti alla categoria di appartenenza e agli specifici attributi e benefici della marca), piacevolezza (prescindendo dai primi due criteri, è auspicabile che gli elementi siano intrinsecamente piacevoli per il consumatore che ci si rapporta). Oltre a questi aspetti, fondamentali per la costruzione del valore della marca, ne vanno segnalati altri tre che consentiranno, qualora assecondati, di preservarlo da future minacce o di fare su di esso leva in caso di opportunità. In questo senso, gli elementi del brand dovrebbero adempiere anche ai criteri di trasferibilità (in senso geografico e a livello di categorie di prodotto), adattabilità (nel tempo, per incontrare le evoluzioni del consumatore o semplicemente aggiornare la marca), proteggibilità (dal punto di vista legale e concorrenziale, difendendolo da facili imitazioni). Queste linee guida sono utilmente applicabili a tutti i brand element che l’impresa sceglierà di utilizzare per caratterizzare efficacemente la marca. Il nome rappresenta una scelta fondamentale, per la sua capacità di catturare in modo conciso i valori principali del brand e per la difficoltà di una sua successiva modifica. Si tratta spesso di un compromesso nel tentativo di raggiungere elevati livelli di semplicità, originalità, significatività. Il processo di scelta del nome è infatti molto difficile, anche e soprattutto per il grande e crescente affollamento di marche, e richiede sistematicità oltre che creatività. Un ulteriore e recente elemento di criticità è l’esportabilità del brand name sul web, quindi la disponibilità di URL (Uniform Resource Locators, o nomi dei 43 CAPITOLO 2 domini) efficacemente utilizzabili dalla marca per i suoi obiettivi di presenza online. I loghi e simboli, analogamente al nome del brand, sono importanti per la loro capacità di sintesi, incorporando graficamente i valori che l’impresa vuole trasmettere all’esterno. Sono versatili, utilizzabili per la maggior parte delle comunicazioni dell’impresa e aggiornabili nel tempo con più facilità rispetto al nome della marca. Un particolare tipo di simbolo è il personaggio: grazie alla capacità di destare attenzione, questo può essere uno strumento importante per creare brand awareness. La sua indipendenza dagli attributi più specifici del prodotto ne consente l’applicabilità anche in categorie diverse da quella di appartenenza, arrivando talora a dischiudere persino interessanti opportunità di licensing. Gli slogan sono delle frasi molto brevi, capaci di comunicare efficacemente al destinatario il significato di un brand. Per la loro forma, concisa ma più estesa del nome o del logo della marca, sono più duttili e possono contribuire in maniere diverse alla costruzione della brand equity: creando consapevolezza del brand name o della categoria di prodotto, o più frequentemente rafforzando il posizionamento desiderato. Sono strettamente collegati alla comunicazione pubblicitaria e possono costituirne utili sunti. Se composti in musica, assumono la denominazione di jingle. I ruoli del packaging nella creazione della brand equity sono molteplici: dal punto di vista identificativo del brand, il design di una confezione e gli altri suoi elementi visivi, come il colore, diventano alcune volte un elemento preponderante, rafforzando la consapevolezza della marca; queste sue caratteristiche, unite ad altre sue funzioni come la protezione e la facilitazione di consumo del prodotto, ne influenzano anche l’immagine. Nelle decisioni sugli elementi da utilizzare per caratterizzare il brand, oltre ai criteri generali esposti, un importante obiettivo da raggiungere è anche la loro utile interazione, affinché i valori da comunicare emergano coerenti e rafforzati dalle singole componenti identificatici. La scelta degli elementi del brand costituisce, oltre che un mezzo per costruirne il valore nel suo momento 44 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND costitutivo, la premessa perché si possano successivamente sviluppare al meglio i più adeguati programmi di marketing. Integrazione del brand all’interno di programmi e attività di marketing Sebbene le note “4P” del marketing mix (Product, Price, Place, Promotion) rappresentino un modo riduttivo di comprendere la complessità dei moderni programmi di marketing, rappresentano quattro direttrici basilari lungo le quali l’impresa può muoversi per portare valore al proprio brand. Più che un paradigma, pertanto, possiamo considerarle come un’utile semplificazione del ventaglio di strumenti a disposizione per aumentare, secondo il modello CBBE, la consapevolezza del brand e creare associazioni forti, positive, uniche ad esso. L’obiettivo delle prossime righe, inoltre, non è di sviscerare tutte le possibili strategie aziendali, bensì di far intuire lo stretto rapporto tra le scelte di marketing dell’impresa e il valore del brand, secondo il modello CCBE. Dal punto di vista della brand awareness, la principale leva di marketing da attivare è la comunicazione: la frequente esposizione alla marca aumenta la consapevolezza che il consumatore ha della medesima. La pubblicità (nei suoi mezzi della televisione, radio, stampa, affissioni…) ha ovviamente un ruolo principe nel mix di comunicazione: si tratterà, preposto un dato obiettivo di consapevolezza da raggiungere, di identificare media e veicoli più idonei a trasmettere il messaggio della marca e determinare la quantità e le modalità delle esposizioni. Anche gli altri strumenti di comunicazione, come la sponsorizzazione, la promozione, il packaging inteso nella sua dimensione comunicativa possono essere utili per aumentare la brand awareness e portare quindi valore alla marca grazie a questa leva. L’utilizzo di questi mezzi ha ovviamente anche un risvolto in termini di immagine, come vedremo. Gli obiettivi di brand image sono fondamentali quanto critici. Affinché l’immagine sia omogenea ed aderente a quella desiderata, come già asserito in apertura di capitolo, è fondamentale che tutte le azioni, di marketing e più in generale aziendali, siano coerenti e integrate. L’impresa, infatti, ha una grande varietà di 45 CAPITOLO 2 modi e strumenti per creare associazioni forti, positive, uniche. Si tratterà di elaborare ed integrare le migliori strategie per cogliere queste opportunità. In termini di prodotto, è banale evidenziare come la qualità dei suoi attributi fisici e la sua capacità di soddisfare i bisogni e le aspettative del consumatore abbiano dei risvolti in termini di positività delle associazioni alla marca che lo distingue. La personalizzazione secondo le richieste del cliente, e più in generale le scelte di prodotto che partono dalla necessità di intraprendere con esso una relazione profonda, sono esempi di opzioni strategiche scelte dalle imprese per portare valore al brand. Le politiche di prezzo hanno l’intrinseca responsabilità di creare una delle associazioni più forti nella mente del consumatore: il livello di prezzo colloca il prodotto in modo esplicito all’interno della propria categoria, e costituisce spesso un indicatore di qualità per il consumatore. Anche la percezione della variazione di prezzo ha dirette conseguenze nelle percezioni del consumatore rispetto al brand. Va tuttavia notato, come linea guida generale, che è opportuno che i consumatori giudichino il prezzo ragionevole rispetto alla qualità percepita del prodotto: le strategie di pricing sono pertanto, in misura variabile, vincolate da quelle di prodotto. Gli attori sul canale distributivo hanno un’influenza importante sulla percezione che il cliente finale ha del brand commercializzato, concorrendo, con la propria immagine e le proprie scelte, alla formazione delle associazioni alla marca. Anche per questo motivo, alle scelte iniziali di tipologia di canale (diretto, indiretto o entrambi), si affiancano attività di trade marketing che tra i propri obiettivi hanno anche quello di rendere coerenti e sinergiche le azioni di tutti gli attori del canale. Le strategie di comunicazione hanno un peso molto rilevante per le dimensioni di forza, positività e unicità delle associazioni. Queste si formano anche e soprattutto sulla scorta di ciò che l’impresa comunica del suo brand all’esterno. Si guardi, a titolo di esempio, alla “classica forma” del messaggio pubblicitario: perché il brand ne tragga valore, innanzitutto, il “nodo nella memoria” creato dovrà essere ad esso associato con forza; e questo dovrà aver veicolato una caratteristica del prodotto o della marca direttamente collegabile ad un beneficio 46 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND rilevante per il consumatore: solo con questi requisiti la ripetuta esposizione al messaggio potrà tradursi in un atteggiamento positivo verso la marca e in un successivo acquisto. Sfruttamento delle associazioni secondarie Il modello CBBE individua nella cosiddetta “conoscenza secondaria” il terzo e ultimo strumento a disposizione dell’impresa per portare valore al brand. Si tratta di un approccio “indiretto”, che mira a legare la marca ad altre entità già presenti nella mente dei consumatori con caratteristiche proprie. Questo consentirà al brand di beneficiare di associazioni che ancora non possiede: infatti, se il consumatore ha una precisa conoscenza di una certa entità, identificando un legame tra il brand e questa può dedurre che alcune delle associazioni che la caratterizzano sono proprie anche del brand. Queste associazioni si dicono secondarie e l’impresa, volgendosi all’esterno, ha in potenza infinite entità con cui stabilirle; andranno valutate con il criterio della forza dell’effetto esercitato dal legame, prevedibile grazie a tre indicatori: consapevolezza e conoscenza dell’entità (la familiarità del consumatore con l’entità è il prerequisito dell’utilità del legame), significatività della conoscenza dell’entità (dovrà esserci una connessione utile per il brand) e trasferibilità della conoscenza dell’entità (in che misura le associazioni all’entità riusciranno ad estendersi al contesto del brand). Il ricorso a questo approccio può rivelarsi prezioso, soprattutto nei casi in cui le associazioni esistenti non godano di adeguata forza, positività, unicità. Inoltre, il concetto di trasferimento della conoscenza è basilare nell’ambito della predisposizione di strategie di estensione della marca. Una tipica associazione secondaria utilizzata è quella con l’impresa stessa: si cercherà di far ricadere sul brand le opinioni, gli atteggiamenti e le associazioni proprie dell’impresa produttrice. Nelle prossime pagine si comprenderanno le logiche sottostanti al portafoglio di marche e le scelte di utilizzo del brand aziendale. Il paese d’origine, e più in generale le aree geografiche, sono altre entità spesso utilizzate per identificare e differenziare il brand: molti paesi hanno 47 CAPITOLO 2 tradizioni consolidate nell’ambito di alcune categorie di prodotti, così le imprese hanno buon gioco nel legare la propria immagine al paese di provenienza. Si pensi all’elettronica giapponese o ai vini francesi, o si guardi più facilmente proprio al nostro paese: il paradigma del Made in Italy è una delle leve più importanti da attivare per imprese appartenenti alle categorie della moda o del cibo, e viceversa molte aziende americane (Levi’s, Timberland) hanno proprio in Italia puntato molto sulla loro “americanità”. Se nei mercati interni le strategie che legano il brand al paese d’origine agiscono sulla leva del patriottismo e della coscienza comune dei propri valori, su quelli esterni le medesime strategie puntano sull’appeal di questi stessi valori: come detto all’inizio del lavoro, i luoghi geografici possono in questo senso considerarsi dei veri e propri brand. Si è già detto come il canale distributivo abbia un ruolo decisivo non solo in termini di erogazione dell’offerta dell’impresa: l’immagine del distributore, e in particolare del dettagliante, può influire in modo sostanziale su quella del produttore e dei suoi brand. L’assortimento, le politiche di prezzo e le altre scelte commerciali, specie se rafforzate da pubblicità e promozioni, creano nella mente del consumatore un’immagine precisa del distributore, costituita da associazioni proprie, che questi potrà estendere alle marche commercializzate. L’esigenza di adeguati piani di trade marketing, che assicurino comunanza di obiettivi tra i due attori, è successiva alla primaria scelta di quali distributori utilizzare per commercializzare i propri brand, cioè con quali attori del canale commerciale stabilire delle, più o meno forti, associazioni secondarie. Un tipico criterio applicato è quello della coerenza tra l’immagine desiderata e quella del distributore scelto, che porta, per esempio, i brand prestigiosi nei negozi esclusivi e le marche che puntano sulla convenienza tra gli scaffali delle catene mass-market. Questi tipi di associazione secondaria sono basati su legami tra il brand ed entità considerabili di esso sorgente; ma si possono anche creare legami più “artificiali”, con entità non naturalmente collegabili alla marca: le celebrità sono spesso utilizzate come testimonial di prodotti, facendo leva sulla loro notorietà, credibilità e cercando di creare nel consumatore associazioni riferibili, per esempio, alle categorie del “consumatore tipo”. La strategia di celebrity 48 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND endorsement, tuttavia, va valutata attentamente: una star che si lega a troppi brand, se non perde il suo potere di persuasione, può comunque sfocare la sua immagine e il suo significato in termini di associazioni trasferibili; anche la sintonia tra la celebrità e il prodotto va valutata, o ricercata, con attenzione; vanno infine ponderati alcuni rischi: il personaggio, proprio per la sua notorietà, potrebbe sottrarre attenzione al brand; ancora, un improvviso calo di popolarità potrebbe minare il suo contributo alla marca o addirittura cambiarne il segno. Per questi motivi, i testimonial vanno prima scelti con cura e poi valorizzati all’interno di una collaborazione che ne sfrutti al meglio la notorietà e le associazioni trasferibili alla marca. Anche il marketing degli eventi è una leva da utilizzare per creare associazioni secondarie: ogni evento sportivo, musicale, culturale è caratterizzato da proprie associazioni che potrebbero trasferirsi al brand che vi si associasse. Questo principio è alla base dei programmi di sponsorizzazione. Anche le fonti istituzionali sono utilmente attivabili, per conferire ad un brand affidabilità e credibilità: si pensi ai marchi di qualità emessi da organizzazioni di esperti. Il trasferimento delle associazioni è il concetto alla base di alcune tipologie di alleanze di marca: la più discussa in letteratura, il co-branding, cioè l’utilizzo congiunto di due marche per commercializzare un prodotto, verrà descritta nel paragrafo conclusivo del capitolo; alcune imprese decidono di associare le proprie marche in iniziative di comunicazione, per fare leva, oltre che sulle rispettive associazioni, anche su quella del partner. Il joint advertising, per esempio, è la pubblicità congiunta di due marche, spesso di settori differenti, che si uniscono nello stesso messaggio (spot televisivo o radiofonico, annuncio su carta stampata, ecc.) per ottenere benefici sinergici: fatta salva la specificità degli obiettivi (che potranno, per esempio, contemplare anche il guadagno di awareness), ciascuna impresa cerca di trarre vantaggio dalle associazioni dell’altra. L’obiettivo dei singoli brand è quello di rafforzare le rispettive immagini, qualora ci sia perfetta coerenza tra le due, o rinnovarle, arricchendole con le associazioni primarie dell’altra. Un’altra alleanza di marketing piuttosto tipica è la joint promotion: due o più marche note collaborano a livello promozionale, facendo leva ciascuna sul valore dell’altra per aumentare il 49 CAPITOLO 2 volume di vendita: Mac Donald’s anima spesso il proprio menu per bambini con immagini dai più recenti film Disney, che dal canto suo trova un canale di comunicazione efficace e coerente con la propria immagine. Nonostante questa tipologia di accordo sfrutti più il capitale di awareness che quello di image del brand partner, la coerenza di immagine è il prerequisito di attuazione della strategia; inoltre, le associazioni specifiche di ciascuna marca possono, specie se l’alleanza si stende su un periodo più lungo o si rinnova nel tempo, estendersi anche in questo caso all’altra. Anche il licensing fa leva sullo sfruttamento delle associazioni secondarie: questa strategia consiste in accordi contrattuali per l’utilizzo di nomi, loghi, personaggi, ecc., di altre marche per commercializzare i propri brand, dietro pagamento di un compenso. Un’impresa, di fatto, affitta la marca di un'altra, con tutto il suo capitale il termini di brand awareness e brand image, per creare valore per il proprio brand. Si tratta di una modalità molto veloce di costruzione del valore per l’impresa licenziataria; per il licenziante, del resto, è una ghiotta occasione per monetizzare il valore del proprio brand. È fondamentale comprendere che il valore per il licensee si crea, ma non si trasferisce dal licensor. Quest’ultimo, anzi, dovrà sempre considerare i risvolti dell’operazione in termini di propria brand equity oltre che di profitti monetari di breve periodo: nella misura in cui il licenziante riuscirà a incrementare la notorietà e rafforzare l’immagine del proprio brand, l’operazione di licensing sarà proficua sotto il duplice aspetto reddituale e di brand equity; viceversa, nel caso di politiche meno accorte, l’abbaglio del ricavo immediato potrebbe tradursi in una dispersione, nel medio-lungo periodo, del valore della marca. Per il licenziatario, il rischio principale della strategia è, per certi versi, analogo a quello denunciato parlando dei testimonial: se il brand ceduto in licenza è oggetto di una popolarità temporanea o derivante da “fattori moda” non destinati a perdurare nel tempo, ancorare unicamente ad esso i propri obiettivi di vendita di lungo periodo potrebbe rivelarsi una scelta incauta. In chiusura di paragrafo e di parentesi sulla strategia di licensing, si ammetta un’osservazione rispetto ai modelli di brand equity analizzati nel capitolo precedente. Si è detto che il licensing, dal punto di vista del licenziatario, si può 50 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND senz’altro intendere come uno sfruttamento del valore della marca. Intendendo questo nelle determinanti del modello di Keller, brand awareness e brand image, bene si intende come dal licenziante venga concesso, dietro compenso, lo sfruttamento del capitale di consapevolezza e di immagine della marca. Se si volesse applicare alla strategia il modello di Aaker, invece, resterebbe meno limpido come il licenziatario sfrutti, per esempio, la leva della fedeltà alla marca o della qualità percepita, dipendenti almeno in una certa misura dalla natura del prodotto commercializzato oltre che dai risultati già ottenuti dal brand. Il modello della Customer-Based Brand Equity di Keller, pertanto, che prosegue nella trattazione nel paragrafo successivo, si conferma maggiormente spendibile di quello di Aaker. 2.3 CRESCITA E SOSTEGNO DELLA BRAND EQUITY 2.3.1 Le dimensioni del branding Un’adeguata definizione del posizionamento e dei valori del brand è la base iniziale su cui costruirne il valore; un’efficace programmazione e attuazione dei programmi di marketing riusciranno poi a far conseguire alla marca posizioni di leadership, anche mediante lo sfruttamento di associazioni secondarie. Una volta che il brand sia riuscito ad affermarsi come solido, tuttavia, la gestione e capitalizzazione del valore raggiunto diviene una questione critica, e per questo da affrontare, innanzitutto, con consapevolezza: l’impresa deve mostrarsi capace di conoscere appieno le dimensioni del contesto in cui opera, comprenderne pertanto i cambiamenti nel tempo (in primis le esigenze e le aspettative del consumatore) e le specificità nello spazio (aree geografiche, segmenti di mercato e culture da servire diversamente). L’impresa deve essere anche consapevole del proprio brand: il monitoraggio della sua performance economica e concorrenziale, come spiegato, è fondamentale per avere sempre sotto controllo lo stato attuale del brand. La consapevolezza dell’interno e 51 CAPITOLO 2 dell’esterno, quindi, costituisce la premessa di un brand management dinamico ed efficace. Si è detto come il branding sia un’attività complessa e da intendere, di fatto, come l’insieme delle azioni che contribuiscono, a vario titolo, a cambiare il brand nella mente dei consumatori. Per strategia di branding, tuttavia, si intende, nella letteratura di marketing, un momento più specifico e fondamentale nella gestione del valore della marca. Delineare una strategia di branding, infatti, significa individuare i principi guida relativi agli elementi del brand da applicare ai vari prodotti offerti dall’azienda: in termini pratici, si sceglieranno quali nomi, loghi, simboli siano opportuni per quali prodotti. Tuttavia, come il brand è più di un segno distintivo, così una strategia di branding è più che una mera assegnazione: si tratterà di determinare con quali valori permeare i prodotti assegnati, quale senso dare all’offerta e in che modo farla percepire dal consumatore. Uno strumento utile sia a scopo gestionale che di comprensione delle dimensioni della strategia di branding è la matrice brand-prodotto20: si tratta di uno schema che presenta insieme le marche (nelle righe) e i prodotti (nelle colonne) offerte dall’impresa. Nelle righe si leggeranno tutti i prodotti commercializzati per ciascuna marca; nelle colonne, invece, si leggeranno, per ciascuna categoria di prodotto, i brand utilizzati per competere, cioè i vari portafogli di brand a livello di prodotto. Ogni colonna della matrice corrisponde pertanto ad un brand portfolio, che dovrà essere giudicato in base al suo montante totale di valore. Per massimizzare la brand equity, è fondamentale che ciascuna marca non danneggi le altre: che ciascun brand quindi, attraendo e servendo uno specifico segmento di consumatori, contribuisca al valore collettivo del portafoglio senza togliere valore agli altri. 20 KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea 52 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND Fig. 2.1: La matrice brand-prodotto prodotti marche Fonte: Adattato da KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea._______________________________________________________________ Le decisioni di branding hanno una stretta relazione con quelle di assortimento: una linea di prodotti (l’insieme di prodotti appartenenti alla stessa categoria) potrà essere commercializzata con uno o più brand; in generale, guardando alla matrice nel suo complesso, si scopre l’equilibrio dell’offerta tra l’assortimento di prodotti (product mix) e quello di brand (brand mix). La matrice brand-prodotto è uno strumento utile ma non sufficiente per la comprensione della complessità di alcune strategie di branding: tuttavia, cattura concettualmente e visivamente le due dimensioni basilari di qualunque strategia: l’ampiezza e la profondità. È utile presentare questi due temi perché costituiscono da un lato un modo di comprendere il rapporto tra scelte di assortimento e di branding, e dall’altro dei parametri con cui misurare opzioni strategiche anche molto complesse. L’ampiezza di una strategia di branding fa riferimento al numero e alla natura dei diversi prodotti associati alle marche offerte da un’impresa21. Le due principali decisioni da assumere riguardano il numero di linee di prodotti e le varianti all’interno di ciascuna linea. Quanto alla prima, l’impresa dovrà valutare 21 KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. 53 CAPITOLO 2 attentamente da un lato l’attrattività di ciascuna categoria di prodotto (basandosi su criteri come il tasso di espansione del relativo mercato, il potere dei competitor reali e potenziali…) e dall’altro le competenze e gli obiettivi strategici interne all’impresa stessa. Una volta deciso di entrare in una certa categoria di prodotto, se ne dovranno scegliere le modalità in termini di prodotto, definendo, considerando ancora una volta dalle competenze dell’impresa, il ruolo e il potenziale di mercato di ciascun articolo. La profondità di una strategia di branding fa riferimento al numero e alla natura dei diversi brand commercializzati nella classe di prodotti in cui l’azienda opera22. Il principio base delle decisioni è la copertura del mercato, che dovrà essere massimizzata facendo in modo che i brand del portafoglio si sovrappongano il meno possibile: la situazione ottima, in termini di efficacia ed efficienza del portafoglio di marche, è quella in cui tutti i clienti sono serviti senza essere contesi dai singoli brand. Se il ruolo canonico di una marca all’interno di un portafoglio è, pertanto, quello di attrarre un segmento di mercato non coperto dalle altre, l’ottica complessiva può far compiere all’impresa scelte dominate da altri obiettivi, che assegnano anche altri ruoli ai brand: per esempio, i flanker brand creano elementi di parità con la concorrenza, affiancando le marche principali e consentendo loro, grazie alla loro azione di contrasto degli elementi di differenziazione dei concorrenti, di mantenere costante il loro posizionamento desiderato. I brand cash cow, nonostante la recessione delle loro vendite, sono tenuti nel brand mix perché garantiscono comunque dei profitti senza compiere sforzi di marketing: poiché il ritirarli dal mercato non dirotterebbe automaticamente i clienti verso altri brand commercializzati dall’impresa, è talora conveniente mantenerli nel portafoglio. I brand di ingresso di fascia bassa e i brand di prestigio di fascia alta cercano, mantenendo alcune delle associazioni delle marche già affermate, rispettivamente di attrarre clienti di un altro segmento nell’orbita del brand principale e di dare credibilità alla famiglia di brand. Altri ruoli assegnabili alle marche sono secondari, ma preziosi in un’ottica di portafoglio: aumentare la presenza negli scaffali e con essa il potere verso i distributori; attrarre i 22 Ib. 54 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND consumatori sensibili alla varietà; spingere alla competitività all’interno dell’azienda; ricercare economie di scala nell’ambito della pubblicità, delle vendite, della distribuzione. Si è presentata la definizione del portafoglio di marche come un momento successivo alle decisioni di prodotto. Tuttavia, al contrario è spesso il brand a pilotare le scelte di assortimento, determinando quali prodotti, in virtù della loro coerenza con la sua evoluzione, siano adatti a farne parte. Per questo motivo si parla di strategie di crescita della marca, anche e soprattutto per indicare scelte che incidono sull’offerta e sulle scelte di prodotto dell’impresa. Del resto, si è abbondantemente argomentato come la marca costituisca, con la coerenza nel tempo dei suoi valori, il passato e il futuro del prodotto. Nel capitolo finale di questa prima parte, dedicato alla strategia di estensione della marca, l’aspetto di “guida” del brand emergerà in modo inequivocabile. Queste considerazioni non fanno che confermare come marca e assortimento abbiano oggi una relazione indissolubile: la natura e le dinamiche dell’una non possono essere studiate senza piena coscienza dell’altro, e viceversa. 55 CAPITOLO 2 2.3.2 L’architettura di branding La matrice brand-prodotto ha il pregio di far comprendere lo stretto rapporto che intercorre tra i brand e l’assortimento dell’offerta dell’impresa, inquadrandolo in uno schema che, concettualmente e visivamente, ne fa un sunto in termini di ampiezza e profondità. Nonostante l’universalità di queste due dimensioni, tuttavia, si tratta di uno strumento preliminare, utile a definire il contorno dell’attività di branding e i suoi tratti fondamentali piuttosto che il suo complesso articolarsi. In altre parole, se consente di intuire cosa fa l’impresa, si rimane piuttosto all’oscuro su come lo faccia. Quali elementi del brand incorpora un certo prodotto? Si tratta di elementi condivisi anche da un prodotto di un’altra categoria? Ancora, l’impresa manifesta mai il suo nome nella sua offerta? E dove? Per rispondere a queste domande, si deve fare riferimento ad un altro strumento concettuale, la gerarchia dei brand. Si tratta di una sintesi della strategia di marca che analizza i tratti comuni, in termini di brand element, dei prodotti commercializzati, per ricavarne una struttura per livelli gerarchici: ogni prodotto viene quindi contraddistinto in base al numero e alla combinazione dei brand element che presenta, e lo colloca in rapporto agli altri prodotti. Si può pensare a diversi sistemi di codifica dei livelli gerarchici del brand, ognuno dei quali certamente fallisce in parte nel catturare la complessità dell’architettura di alcune strategie di branding. Kapferer individua sei livelli gerarchici della marca e li fa corrispondere a sei differenti modelli e strategie di gestione del rapporto marca-prodotto23: Brand di prodotto: con questa strategia si assegna un nome esclusivo ad un unico prodotto, per poter dare ad esso anche un unico posizionamento. Il portafoglio di brand, pertanto, corrisponde al portafoglio di prodotti, perchè c’è una corrispondenza biunivoca tra i due. Il caso tipico è Procter & Gamble: l’impresa ha fatto del one brand-one product la sua filosofia di branding, essendo presente con svariate marche in molte categorie di prodotto, ciascuna con uno specifico e ben distinto posizionamento e senza mai presentare il suo 23 KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra. 56 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND nome. Si tratta di un paradigma a suo modo “estremo”, che punta, nel caso l’impresa sia presente in un solo mercato, a diventare leader nella categoria di prodotto senza legare il nome dell’impresa a nessuno dei segmenti che serve. Qualora l’impresa voglia entrare in un nuovo segmento, magari in potenziale ma incerta espansione, lo farà con un nuovo brand-product senza il rischio di compromettere i brand esistenti o quello aziendale. L’impresa, non mettendo mai in gioco il proprio nome, ha per questo una libertà pressoché totale di entrare in nuovi mercati, perché gli eventuali fallimenti non minerebbero la credibilità dell’impresa e con essa dei restanti brand del portafoglio. Dalla creazione del sapone Ivory, nel 1882, Procter & Gamble è entrata con marche note in svariati mercati, dal detersivo (tra le altre Dreft, Tide, Dash) al dentifricio (Crest) agli snack (Pringles). Questa strategia dà al produttore anche dei vantaggi nel suo rapporto con i distributori: lo spazio che questi destina all’impresa dipende dal numero di forti marche che questa presenta; se una marca si propone sul mercato con molti prodotti, il dettagliante soddisferà la sua esigenza di tenere il brand tra gli scaffali trattando solo alcuni di questi; mentre nel caso di un brand per prodotto, l’impresa riuscirà a spuntare più spazio a livello di portafoglio. A questi vantaggi si contrappongono degli aspetti negativi piuttosto evidenti, innanzitutto in termini economici: ogni lancio di un nuovo prodotto è l’introduzione sul mercato di una nuova marca, molto costosa in quanto richiede notevoli investimenti in pubblicità e promozioni. L’impresa dovrà anche fare i conti con le resistenze dei distributori, poco propensi a tenere sugli scaffali delle marche dal futuro incerto perché sconosciute al consumatore. Inoltre, se l’indipendenza tra marche-prodotti evita i rischi di associazioni secondarie negative, annulla anche i potenziali benefici per i brand dal successo di uno di questi. Se una marca del portafoglio riscuote molto successo sul mercato, le altre non ne beneficeranno perché entrambe si presentano senza riferimenti alla loro origine comune. Va evidenziato che l’impresa che si cela dietro i brand commercializzati è invece ben nota ai distributori, che pertanto saranno sensibili ai successi e fallimenti delle marche del produttore. La saturazione di molti mercati rende infine sempre più difficoltoso il lancio di nuove marche. 57 CAPITOLO 2 Va osservato che il requisito di non sovrapposizione delle marche, già spiegato descrivendo il concetto di brand portfolio, è qui molto pressante, in quanto assunto stesso dell’attuazione della strategia, qualora si presentino più marche nella stessa categoria. Procter & Gamble cominciò a proporre più marche all’interno della stessa categoria proprio in seguito all’aumento delle vendite globali che ebbe nel settore dei detersivi grazie all’introduzione del brand Cheer come alternativa al già di successo Tide. Fig. 2.2: Brand di prodotto Impresa X Brand A Brand B Brand C Brand D Prodotto A Prodotto B Prodotto C Prodotto D Posizionamento A Posizionamento B Posizionamento C Posizionamento D _____________________________________________________________ Brand di linea: si utilizza un nome per prodotti complementari, che fanno leva sugli stessi tratti condivisi. Si tratta di estendere il concetto di prodotto ad altri a questo complementari (si tornerà su questa modalità nel prossimo capitolo) o di lanciare nello stesso momento un’intera linea (la linea Studio Line di L’Oreal, per esempio, composta da gel, spray, ecc., si proponeva ai giovani come la soluzione per modellare da soli i propri capelli e per crearsi un look in autonomia). Questa strategia rafforza il potere di vendita del brand creando un’immagine molto forte, unitaria e condivisa pienamente dai singoli prodotti 58 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND della linea; l’introduzione di un nuovo prodotto non richiede grossi sforzi di lancio, inserendosi in una linea già nota in tutti i suoi tratti e già trattata dai distributori. La necessaria cautela da utilizzare è il rispetto dei limiti naturali della linea di prodotto, che non dovranno essere dimenticati e valicati nelle estensioni. Fig. 2.3: Brand di linea Brand di linea Prodotto A Prodotto B Prodotto C Brand di gamma: questa strategia associa un solo nome ed un’unica promessa ad un gruppo di prodotti che condividono un’area di competenza. È un modello di architettura di branding utilizzato in molti settori, come in quelli alimentare, tessile, cosmetico, industriale: esempi di brand di gamma sono Benetton, Lacoste, Campbell. Il brand viene utilizzato per commercializzare più prodotti che condividono un unico concetto, un set di valori sui quali l’impresa si focalizzerà nelle attività di comunicazione, creando un’immagine propria del brand della quale beneficeranno tutti i prodotti della gamma. In alternativa, è possibile concentrarsi su uno o alcuni dei prodotti più rappresentativi della gamma, capaci di comunicare al meglio l’essenza del gruppo: analogamente, anche gli altri ne ricaveranno benefici. Nel caso di nuovi prodotti della stessa categoria e coerenti con il concetto sottostante al gruppo, l’impresa potrà commercializzarli con la stessa marca, beneficiando dei precedenti sforzi di marketing e riducendo così i costi di lancio. Un possibile problema di questa strategia è la poca trasparenza dell’offerta nel caso in cui la gamma sia molto estesa: raggruppare sotto un unico brand una grande quantità di prodotti “in 59 CAPITOLO 2 modo disordinato” può far perdere ad esso significato a causa della difficoltà, da parte del consumatore, di comprendere l’essenza la marca. Si può ovviare a questo problema strutturando l’offerta per linee: raggruppando cioè i prodotti della gamma secondo opportuni criteri, come le caratteristiche del prodotto o i benefici per il consumatore, e commercializzandoli in maniera coerente ma distinta, per esempio con packaging di colore diverso. Fig. 2.4: Brand di gamma Brand gamma Concetto del brand Prodotto o linea A Prodotto o linea B Prodotto o linea C Prodotto o linea D Brand ombrello: con questo tipo di architettura, un unico brand sostiene i prodotti in mercati diversi, e ciascun prodotto ha la propria comunicazione e la propria promessa. Yamaha è un brand forte e credibile nel settore motociclistico così come in quello degli strumenti musicali; Philips commercializza con il suo marchio hi-fi, computer, altra elettronica di consumo e componenti elettrici. Tutti i prodotti possono fare leva sulla notorietà dello stesso brand e godere di economie di scala a livello internazionale; anche nel caso di entrata in nuovi mercati, l’elevato livello di brand awareness potrebbe rivelarsi preziosissimo per penetrare distributori e consumatori senza il dispendio di risorse necessario a costruirla. La notorietà del brand può addirittura essere sufficiente ad avere successo in settori piccoli o dove sono richiesti pochi sforzi pubblicitari e di marketing in generale. Va osservato che all’entrata in un mercato competitivo, 60 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND l’impresa troverà una molteplicità di marche specializzate che la forzeranno a dimostrare la sua superiorità: se la brand awareness consentirà probabilmente all’impresa un’entrata più agevole nel mercato, è da verificare l’effettiva sostenibilità della sfida. L’impresa dovrà mettere sul mercato competenze reali, specifiche e risorse dedicate. Alcuni brand sono dotati di un’immagine accattivante e associazioni spendibili in molte categorie di prodotto, e si prestano pertanto ad essere utilizzati anche in settori merceologici molto eterogenei. Il rischio della strategia risiede nella difficoltà di trovare un compromesso tra l’indipendenza delle singole divisioni (in parte necessaria perché derivante dalla specificità dei mercati) e il comune codice di espressione da rispettare. Nel giusto equilibrio tra le due istanze sta la capacità delle singole divisioni di portare il proprio contributo positivo all’immagine del brand, e con essa al suo valore. Fig. 2.5: Brand ombrello Brand ombrello Prodotto A Prodotto B Prodotto C Prodotto D Comunicazione della divisione A Comunicazione della divisione B Comunicazione della divisione C Comunicazione della divisione D Brand sorgente: è una strategia simile a quella ad ombrello, con la differenza che i prodotti hanno il proprio nome e non sono più denominati genericamente. 61 CAPITOLO 2 A prevalere, nell’equilibrio tra i due nomi, è quello del source brand: il nome del prodotto porta il contributo della sua individualità al servizio del nome del brand principale, che resta dominante. Un esempio è Yves Saint Laurent con il profumo Jazz. L’abilità dell’impresa che scelga di perseguire questa strategia starà, come premessa, nell’avere consapevolezza dei due ruoli; in secondo luogo, dovrà portare al consumatore due differenti livelli di profondità: il brand di livello gerarchico più basso arricchirà il significato del brand principale con il proprio, che deve attrarre il segmento a cui è destinato. Uno degli aspetti più critici, appunto, è quello del rispetto dell’identità del brand sorgente, che definisce i confini da rispettare: i nomi del prodotto, per esempio, dovranno appartenere al campo semantico del brand sorgente. Qualora si voglia dare più libertà alla marca di livello gerarchico più basso, converrà adottare una strategia di endorsing brand, che ci si accinge a descrivere. Fig. 2.6: Brand sorgente Brand sorgente Brand A Brand B Brand C Brand D Promessa A Promessa B Promessa C Promessa D Prodotti A o linea A Prodotti B o linea B Prodotti C o linea C Prodotti D o linea D Brand endorser: questa strategia può sembrare simile alla precedente, ma ne sovverte la logica: una marca, detta endorser, “sponsorizza” i brand di prodotto, 62 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND linea, gamma, affiancandosi a questi e aggiungendo la propria notorietà e credibilità. Il rapporto tra i due soggetti che convivono è pertanto meno stretto rispetto alla strategia precedente, e consente maggior libertà nella scelta e gestione del brand subordinato. Questo beneficerà e allo stesso tempo porterà valore, con la propria immagine, al brand endorser: Nestlè garantisce, apponendo il suo marchio sulle rispettive confezioni, per i brand Galak, Nesquik, Nescafè, ecc., e analogamente ne ricava notorietà e associazioni. La funzione di garanzia del brand, pertanto, è adempita soprattutto dall’endorser, mentre le altre sono svolte in prevalenza dalle marche più specifiche. Fig. 2.7: Brand endorser Brand endorser Brand A Brand B Brand C Brand D Prodotto o gamma A Prodotto o gamma B Prodotto o gamma C Prodotto o gamma D Promessa B O gamma C Promessa C Promessa D Promessa A Va anche considerata l’ipotesi in cui il brand name di livello gerarchico più elevato sia quello aziendale: in questo caso l’impresa si espone in prima persona, compiendo una scelta di segno opposto a quella “Procter & Gamble” di non comparire mai con propria evidenza sui mercati e utilizzando anzi la marca come indicatore d’origine. 63 CAPITOLO 2 Fig. 2.8: Gerarchia e funzione del brand Funzione del brand: indicatore d’origine . Brand ombrello (aziendale) . Brand endorser (aziendale) . Brand sorgente (aziendale) . Brand ombrello . Brand endorser . Brand sorgente . Brand di gamma . Brand di linea . Brand generico . Brand di prodotto Funzione del brand: differenziazione del prodotto Fonte: Adattato da Kapferer (2003) In chiusura di questa analisi sulle possibili architetture di branding, infine, è importante capire che questi sei modelli non costituiscono per l’impresa delle alternative tra cui scegliere; sono piuttosto un ventaglio di ipotesi che questa potrà, di volta in volta in base ai prodotti e mercati, considerare: così, la stessa marca (specialmente se corrispondente a quella aziendale) potrà fungere da endorser, ombrello, gamma, ecc., per i diversi prodotti commercializzati dall’impresa. Strategie ibride, anzi, daranno all’impresa la possibilità, spendendo o meno il proprio nome o mischiandolo in maniera diversa ai diversi brand del proprio portafoglio, di assecondare e rinforzare i posizionamenti dei singoli prodotti senza sfocare il proprio. 64 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND Proprio in riferimento a questo aspetto, una scelta fondamentale per l’impresa è quella dei nomi da dare ai brand sotto quello aziendale. Senza addentrarci nel problema del brand naming, la cui importanza è già stata peraltro descritta, se ne osservi il ruolo importantissimo all’interno delle strategie di branding: l’impresa, infatti, oltre al tipo di legame tra sé e i suoi prodotti, dovrà sceglierne anche la forza, determinandola in un continuum che ha come estremi la totale dipendenza e la totale autonomia dei prodotti stessi: Dior, per esempio, chiamando i suoi profumi Diorissimo e Miss Dior li caratterizzò come “variazioni” sul suo tema; Fiat, invece, che non godeva di un’immagine positiva fuori dall’Italia, scelse di caratterizzare le sue automobili Tipo, Ritmo, Panda come tali, e non come “costole del proprio brand”. Rispettivamente, si tratta di vendere i prodotti tramite il proprio brand o vendere il brand tramite i propri prodotti. Il brand naming è pertanto un processo che ha risvolti strategici più estesi di quelli della singola marca da denominare, al punto da essere, per l’impresa, una variabile da considerare anche nelle scelte di architettura di branding. 2.3.3 Elaborare una strategia di branding Nel paragrafo precedente si sono elencate le opzioni strategiche, in termini di branding, tra le quali l’impresa deve scegliere per commercializzare i propri prodotti o servizi. Ma come fare per individuare l’architettura giusta da utilizzare? Quali criteri utilizzare per un branding funzionale? Accordandoci nuovamente al modello CBBE, l’unico principio universalmente valido, aldilà delle specificità e delle contingenze, è quello della massimizzazione della brand equity: dal numero di livelli gerarchici alla condivisione di brand element da parte dei prodotti, ogni scelta dovrà avere un riscontro in termini di brand awareness (contribuire quindi a creare consapevolezza nel consumatore) e brand image (promuovere la formazione di associazioni forti, positive, uniche). Sulla scorta di questo assunto, Keller identifica quattro decisioni da prendere, 65 CAPITOLO 2 che rappresentano quattro “occasioni” per l’impresa di sviluppo della brand equity: Innanzitutto, l’impresa dovrà decidere il numero di livelli della gerarchia del brand, ispirandosi ad un principio di semplicità: si vedrà come la pratica del subbranding, cioè del combinare una marca esistente e una nuova, sia spesso utilizzata per introdurre un prodotto; tuttavia, la quantità di informazioni da fornire al consumatore non deve eccedere il livello ottimale. Un prodotto commercializzato con più di tre marche (comprensive del modifier, indicatore del “modello” o versione del “prodotto”) facilmente creerà confusione nella mente del consumatore, con effetti negativi oltre che benefici dalla quantità di informazioni ricevute. Per ciascuno dei livelli nella gerarchia stabilita, l’impresa dovrà decidere il grado di consapevolezza e le associazioni da creare, seguendo in primo luogo il principio di rilevanza: è auspicabile che le associazioni create ad un livello siano rilevanti anche per i livelli gerarchici inferiori, in modo tale che questi possano beneficiarne. Emergono pertanto come più vantaggiose e maggiormente estendibili le associazioni più astratte, riferibili ai benefici per il consumatore più che agli attributi del prodotto. L’impresa dovrebbe cercare di ispirarsi anche ad un principio di differenziazione: i brand situati allo stesso livello gerarchico dovrebbero essere il più possibile distinguibili, perché l’offerta risulti chiara al consumatore e logica agli attori del canale distributivo che dovranno sostenerla. Questo vale sia per i brand prodotto e i modifier che per i brand di gamma o ombrello, che strutturano l’offerta a livello più aggregato. Si osservi, inoltre, che questo punto e i successivi aggiungono ulteriori elementi di criticità alla scelta precedente e aumentano l’importanza del principio di semplicità: un numero più elevato di livelli gerarchici moltiplica per l’impresa le scelte da assumere e gli equilibri da ricercare, con potenziali difficoltà di gestione e insorgere di problemi. La terza decisione da prendere è come collegare tra loro brand presenti a livelli diversi per uno stesso prodotto: qualora il brand di un prodotto sia la combinazione di elementi già presenti in livelli più elevati della gerarchia, vanno decise le modalità con cui questi saranno presenti. Il principio di prominenza 66 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND suggerisce che i pesi relativi degli elementi presenti determinano quali siano i primari e quali i secondari nella percezione del consumatore: per questo motivo, sono i primari a dover comunicare posizionamento e i principali punti di differenziazione del prodotto; i secondari, invece, dovrebbero comunicare punti di parità, ulteriori punti di differenziazione e/o contribuire ad aumentare la consapevolezza (per esempio tramite l’uso di un certo sfondo). Per l’impresa che si presenti sul mercato anche con il proprio nome, una questione fondamentale è come affiancare a questo i brand ai livelli gerarchici inferiori, e in particolare nei singoli prodotti: ci potrà essere perfetto equilibrio, o la supremazia dell’uno o dell’altro brand, a seconda delle associazioni che si vorranno promuovere con maggior forza. Questa scelta influenza anche il trasferimento di immagine dall’una all’altra entità: come già detto in precedenza, se l’azienda si spende maggiormente in termini di visibilità per il proprio nome, le percezioni sul prodotto si estenderanno maggiormente all’impresa che non nel caso in cui questa si faccia percepire più distante dal proprio prodotto. La decisione sugli elementi da combinare ha un’evidente relazione con le scelte di brand endorsing, sebbene, in senso stretto, questa strategia si persegua non combinando ma affiancando il proprio nome e logo ai brand di livello più basso. L’ultima decisione riguarda come collegare un brand a diversi prodotti, in una logica inversa alla precedente: secondo il principio di comunanza, quanto più numerosi sono gli elementi condivisi dai prodotti, tanto più questi appariranno legati, analogamente a quanto spiegato rilevando la criticità del brand naming. Questa scelta, unita alla precedente, è un’opportunità per l’impresa di razionalizzare il proprio portafoglio di brand agli occhi del consumatore, rendendo visibili e logiche le relazioni tra gli elementi della propria offerta e beneficiandone in termini di consapevolezza ed immagine. Queste decisioni, se prese nella maniera corretta, renderanno l’architettura di branding dell’impresa efficace (massimizzando il valore del portafoglio di marche) ed efficiente (minimizzando gli sprechi di risorse dell’impresa e del cliente). 67 CAPITOLO 2 2.3.4 La crisi della marca In questo capitolo si sono descritte le leve che l’impresa deve attivare per creare la brand equity; si sono inoltre illustrate le possibilità che essa ha a disposizione per gestirla: in particolare, in termini architetture di branding utilizzabili per massimizzare il valore complessivo del patrimonio di marca. Va tuttavia introdotto un elemento di criticità al modello: il valore della marca, oltre che crearsi, può anche dissiparsi. Il declino della marca è un fenomeno che molte imprese si trovano a dover fronteggiare, ed è opportuno avere piena coscienza degli strumenti e delle modalità secondo cui operare. Innanzitutto, è fondamentale conoscere i motivi, strutturali o contingentali, che possono portare il brand a diminuire nel valore. Molti di questi sono infatti dipendenti (e come tali controllabili) dall’attività di branding dell’impresa, che se non svolta nella maniera migliore, come descritto in precedenza, può essere, nel breve ma soprattutto lungo periodo, nociva alla marca. Nei termini del modello CBBE, finora utilizzato, la leva che cessa di agire positivamente, o inverte addirittura i suoi effetti sul valore del brand, è quella della brand image: associazioni positive perdono la propria forza o si creano nel tempo associazioni negative. Con il tempo, tuttavia, può venire a mancare anche l’apporto della brand awareness: non tanto in termini di profondità della consapevolezza, perché difficilmente i consumatori, salvo casi specifici, cesseranno di ricordare o addirittura riconoscere la marca; quanto piuttosto in termini di ampiezza della consapevolezza, perché i consumatori potrebbero pensare alla marca in modo limitativo, destinandola ad un ambito, ad una situazione o in un’idea troppo circoscritta. Nella pratica, il brand può andare incontro ad una situazione di crisi, cioè di stagnazione del suo valore, per vari motivi specifici: coerentemente a quanto argomentato da Aaker nel suo modello della brand equity, anche Kapferer24 riconosce un primo fattore di declino nella diminuzione della qualità percepita da parte del consumatore: questa ha uno stretto rapporto con la qualità intrinseca del prodotto, che l’impresa dovrà quindi premurarsi di mantenere elevata mediante adeguati controlli e successive 24 KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra. 68 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND modifiche. Un secondo fattore di declino deriva dal rifiuto o incapacità dell’impresa di fronteggiare i cambiamenti del mercato, che sono continui in molte delle sue dimensioni: dal punto di vista tecnologico, emergono a volte introduzioni che offrono miglioramenti tali da costituire veri punti di discontinuità, che non si possono pertanto ignorare; i gusti e le esigenze del consumatore sono in evoluzione incessante, tanto che il paradigma della customer satisfaction resta ad oggi un fondamento che non si può dare per scontato ma un obiettivo che va continuamente inseguito; l’entrata nel mercato di concorrenti con proposte forti e credibili, se non mette a repentaglio la leadership con il tempo raggiunta dal brand, nel migliore dei casi ne muta, almeno in piccola misura, il posizionamento nella mente dei consumatori. Il paradosso del posizionamento è quello di variare anche se l’impresa è completamente ferma [Vescovi, La pianificazione di marketing, 2005, pag. 118]. Un’impresa, per sopravvivere, deve essere dinamica, e con essa i brand su cui la sua sopravvivenza si basa. Ci sono fattori di rischio di declino connaturati alle scelte di branding compiute dall’impresa: per esempio, legare la marca ad un solo prodotto ancora indissolubilmente le sorti della prima a quelli del secondo; se l’impresa segue questa strategia, deve rincorrere in modo ancora più spasmodico le aspettative del consumatore, affinché il suo brand-prodotto non diventi mai obsoleto ma risponda sempre efficacemente ad esse. Tutti questi fattori potenziali di declino fanno in senso lato riferimento alla “sfera-prodotto” dell’attività di branding: e in effetti, la marca è tanto legata al prodotto che contraddistingue che questo rappresenta una condizione necessaria per il suo successo. Ma in generale, anche strategie di prezzo, di canale o di comunicazione errate possono generare effetti negativi sul brand nel lungo periodo. Come si è già detto, tutte le attività di marketing e aziendali fanno branding: scelte sub-ottimali, azioni poco efficaci o addirittura erronee incideranno in misura negativa sul valore del brand nella misura in cui lo renderanno meno adatto a svolgere le sue funzioni. Le cause di crisi della marca si sono dimostrate in larga misura controllabili dall’impresa, e questa potrà evitarne l’insorgere grazie ad una gestione attenta. Tuttavia, una volta che essa si trovi, per cause ad essa imputabili o meno, 69 CAPITOLO 2 davanti ad una crisi consolidata del suo brand, dovrà prendere le decisioni migliori perché questo ne esca. Esclusa la possibilità di mantenere nel brand portfolio una marca ormai destinata all’oblio, l’impresa ha davanti a sé due scelte: decretarne la morte ed eliminarla o cercare piuttosto di rivitalizzarla. Si dirà delle difficoltà e dei costi di lancio di una nuova marca, che nella fattispecie sostituisca quella eliminata; basti premettere che, a causa di questi ostacoli, la seconda ipotesi è la più praticata e talora, esclusi gli eccessi di tenere in vita un brand senza più nulla da dire sul mercato, la più auspicabile. Aaker descrive sette modi per rivitalizzare la marca, riassunti nella figura 2.9. Fig.2.9: La rivitalizzazione del brand Incrementare l’uso Identificare nuovi utilizzi Estendere la marca Rendere obsoleti i prodotti esistenti RIVITALIZZAZIONE DEL BRAND Aumentare il prodottoservizio Entrare in nuovi mercati Riposizionare il brand Fonte: Aaker, D. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli. 70 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND Una prima alternativa a disposizione dell’impresa per rivitalizzare la marca è quella, guardando alla clientela già esistente, di incrementare l’uso del prodotto. Si potrà cercare di incrementare la frequenza, per esempio aumentando la comunicazione, posizionando il prodotto per uso regolare, promuovendo l’utilizzo in luoghi o situazioni differenti; in alternativa, si potrà, con tecniche simili alle precedenti, cercare di aumentare le quantità d’uso, per esempio eliminando o limitando le conseguenze negative associate, nella mente dei consumatori, ad un consumo elevato. Alcune volte si riuscirà a rivitalizzare un brand trovando nuovi utilizzi per i prodotti contrassegnati, ampliando in questo modo l’ambito di consapevolezza della marca: a partire dall’analisi delle attuali modalità d’uso, e considerando gli utilizzi dei prodotti concorrenti, si potrebbero scoprire o creare delle nuove aree di applicazioni che ingrandirebbero, in senso orizzontale rispetto a quello verticale di prima, il territorio di azione del brand. Una modalità frequente per far sì che il brand riprenda a trarre valore dalla sua azione è l’entrata in nuovi mercati, preferibilmente ad alto potenziale di crescita: segmenti che prima non erano stati considerati da nessuno o non si prestavano al brand potrebbero essere dei serbatoi di vendite anche molto rilevanti. Una quarta, radicale strategia di rivitalizzazione è il riposizionamento della marca: se l’impresa non riesce a far evolvere il proprio brand in modo coerente con i cambiamenti del mercato a cui dovrebbe rispondere, la sua strategia di posizionamento è destinata a divenire obsoleta. Per questo potrebbe essere necessaria una rinnovata immagine, con nuove o modificate associazioni nella mente del consumatore. Sempre nell’ottica del rinnovamento, una soluzione è quella di arricchire, aumentare il prodotto-servizio: a partire da una perfetta conoscenza delle aspettative del cliente (e in modo particolare di quelle non soddisfatte), si dovranno aggiungere dei nuovi servizi o attributi che siano da questo tradotti in nuovi benefici sostanziali. Il coinvolgimento attivo del cliente nella progettazione di nuove soluzioni potrebbe rivelarsi molto prezioso, anche per comprendere esigenze difficili da esprimere ma rilevanti, come quelle riferibili all’efficienza della gestione ordini o ai servizi post-vendita. Una nuova tecnologia può rappresentare, come detto, una minaccia per un brand poco 71 CAPITOLO 2 dinamico, qualora non la si riesca ad incorporare con efficacia ed efficienza nella propria offerta. Tuttavia, è anche un’opportunità da cogliere in caso di difficoltà, perché può essere uno strumento per rendere obsoleti i prodotti esistenti e rinnovare il brand con i nuovi; è una sorta di “colpo di spugna in positivo”, che dà nuovo vigore alla marca accelerando il ciclo di sostituzione dei prodotti in fase di declino naturale. L’ultima strada da percorrere per l’impresa che voglia rivitalizzare il proprio brand è quella dell’estensione di marca, che si descriverà nel prossimo capitolo. Va osservato che questo ventaglio di ipotesi può essere sfruttato in più delle sue parti contemporaneamente, perché le singole strategie possono essere sinergiche piuttosto che alternative. Così, l’impresa potrà ad un tempo riposizionare il brand in modo che sia associato anche a nuovi utilizzi; o ancora, arricchendo il prodotto con una nuova funzione, potrà riuscire anche ad incrementarne l’uso presso la clientela della marca. Qualora l’impresa si renda conto che nessuna di queste strade è percorribile, o richiede sforzi non convenienti in ottica di portafoglio, dovrà arrendersi all’inesorabilità del declino del brand e decidere come gestirlo al meglio. Non è detto che la riduzione degli investimenti sia finalizzato al ritiro della marca: l’impresa, se ne esistono i presupposti, potrebbe decidere, contestualmente ad un taglio delle risorse di marketing, di tenere in vita la marca per soddisfare la clientela fedele, che continuerà comunque ad acquistarla. È un tentativo di sfruttare il valore del brand per generare ulteriore cash flow, le cui premesse vanno però attentamente valutate: in termini di gravità del tasso di declino del segmento, di effettiva fedeltà dei propri clienti, di struttura del prezzo mantenibile nel medio periodo, di ruolo del brand rispetto agli altri più importanti nel portafoglio. Qualora le condizioni non siano sufficienti, l’impresa non avrà altra scelta che cessarne la produzione. 72 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND 2.4 IL BRANDING DEI NUOVI PRODOTTI 2.4.1 Lanciare una nuova marca Si è spiegata, nel paragrafo introduttivo di questo capitolo, la stretta relazione che intercorre tra il portafoglio di marche e quello dei prodotti dell’impresa; si è anche premesso come il nesso di causalità tra le decisioni riguardanti l’una e l’altra sfera non sia a senso unico: in particolare, i brand consolidati e la loro architettura complessiva hanno un forte ruolo di guida per le decisioni riguardanti l’offerta dell’impresa. Prendiamo ora, come mera ipotesi dialettica del nostro ragionamento, il caso inverso in cui l’impresa voglia introdurre nel proprio assortimento un nuovo articolo25 e si ponga il problema di dove collocarlo sulla sua matrice brand-prodotto. Una prima ipotesi di branding è quella di lanciare, insieme al nuovo prodotto, anche una nuova marca. Questa scelta consente all’impresa di dotare il prodotto di un posizionamento distintivo, del tutto svincolato da legami e obblighi di coerenza con la restante offerta dell’impresa. Si rimanda all’inizio del capitolo per la descrizione delle fasi iniziali del processo di gestione strategica del brand, e in particolare sulla sua costruzione; si evidenziano però una serie di motivazioni, di ordine ancora strategico, che possono portare l’impresa a compiere la scelta di lanciare, in corrispondenza di un nuovo prodotto, anche una nuova marca26: un primo motivo è che la nuova marca ha la possibilità di dominare una categoria di prodotto, perché porta un beneficio funzionale rilevante per il mercato di riferimento. In questo senso, un nuovo brand può rappresentare un’importante opportunità da cogliere per segnalare questo beneficio e indurre la formazione un’associazione forte, positiva e unica. Se il prodotto incorpora tra i suoi attributi un’importante innovazione tecnologica o funzionale, la nuova marca può diventare, nella mente dei consumatori, l’archetipo della classe di prodotti posta da essa in essere. Un motivo di ordine completamente diverso è l’incompatibilità tra l’immagine del nuovo prodotto e le 25 Per un approfondimento del tema del lancio di un nuovo prodotto si rimanda a Urban e Houser (1993). 26 Adattato da AAKER D.A., JOACHIMSTHALER E. (2000), Brand Leadership, p. 120-126. 73 CAPITOLO 2 marche esistenti, che obbliga l’impresa ad introdurre un nuovo brand più aderente alle caratteristiche del target di riferimento. Nel mercato del lusso, è prassi introdurre nuove marche per prodotti destinati a segmenti di livello inferiore, per evitare associazioni negative alla marche di origine. L’impresa può altresì abbinare una nuova marca anche ad un prodotto destinato ad un segmento già coperto: cerca in questo modo di attivare, in mercati già saturi, la ricerca di varietà dei consumatori ed aumentare la propria copertura con più marche. La scelta di contrassegnare un nuovo prodotto con un nuovo brand, se ripetuta e fatta un sistematico principio di branding, si traduce nel già citato paradigma one brand-one product. Si sono già descritti gli svantaggi di questa politica, resa celebre da Procter & Gamble, come le mancate economie di scala e sinergie in aree di business diverse, gli alti costi e il rischio di polverizzazione tra le diverse marche. In generale, tuttavia, nell’ultimo ventennio, anche e soprattutto a causa dei cambiamenti del mercato nel senso della saturazione, è soprattutto la mancanza dei presupposti di marketing a dissuadere dall’introduzione di nuovi brand: in altre parole, lanciare nuove marche è sempre più difficile. Questo, unito ad una nuova consapevolezza e attenzione intorno al concetto di brand equity, spinge le imprese a cercare strade che capitalizzino il valore delle marche esistenti piuttosto che a cimentarsi nella creazione da zero di nuove. Una scelta talora operata da alcune imprese è riportare in vita, qualora ce ne siano le premesse, un brand assente dal mercato: infatti, potrebbero, dopo anni di tempo, essersi ricreate le condizioni per l’esistenza e il successo di una marca, entrata per qualche motivo in crisi e non più prodotta; più in generale e semplicemente, un’impresa potrebbe ritenere un vecchio brand, di proprietà o meno, idoneo a commercializzare, previa adattamenti di immagine, la propria proposta. Così come questa “operazione archeologica”, che si colloca nella pratica a metà tra il lancio di un nuova marca e la rivitalizzazione di una vecchia, anche le strategie di branding che ci si accinge a descrivere partono dalla volontà di sfruttare il valore acquisito dai brand piuttosto che di cercare di formarlo da zero. 74 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND 2.4.2 Sub-branding L’utilizzo, per introdurre un nuovo prodotto, di una strategia di sub-branding evita molte delle problematiche connesse alla precedente modalità di branding: questa strategia consiste nel combinare una marca esistente di livello superiore (detta master brand) e una nuova di livello inferiore (detta sub-brand, appunto). La marca subordinata, di fatto, interviene a modificare quella da cui dipende, o meglio ad aggiungere ad essa un significato, consentendo un potenziale duplice vantaggio: attingere da associazioni già presenti nella mente del consumatore (quelle relative al master brand) posizionando però il prodotto in maniera distintiva (grazie al sub-brand). Questa strategia di branding dei nuovi prodotti è concettualmente riconducibile al modello di brand sorgente tra le possibili gerarchie di marca utilizzabili dall’impresa: il peso del master brand è superiore a quello del sub brand, che serve piuttosto a declinare il primo in base agli elementi innovativi specifici, di prodotto e di marketing in generale. Ancora una volta, va registrata la frequente possibilità che la scelta di un sub-brand dipenda da una strategia di marca, prima che da un’esigenza di branding di un nuovo prodotto: si tratta di una modalità frequente, infatti, di far entrare il master brand in un nuovo segmento, o di estenderlo, seppur indirettamente, in una nuova categoria; più in generale, consente al brand preesistente, di livello gerarchico superiore, di trarre significato dalle associazioni che la nuova marca introdotta porrà in essere. Questa strategia può pertanto nascere dall’esigenza di modificare la brand image esistente oltre che di razionalizzare, in termini di branding, l’evoluzione dell’assortimento. Il sub-branding ha anche un importante vantaggio potenziale nella chiarezza che può contribuire a fare sull’offerta dell’impresa: le informazioni aggiuntive portate dai brand subordinati aiutano i consumatori a comprendere le differenze tra i prodotti recanti lo stesso master brand e a scegliere più consapevolmente quello più adatto; gli stessi attori del canale distributivo non potranno che beneficiare della medesima razionalizzando gli sforzi commerciali destinati ai vari sub-brand. 75 chiarezza, CAPITOLO 2 Tuttavia, valgono le cautele già espresse in precedenza circa la corretta determinazione dei livelli in cui organizzare la gerarchia di branding: il principio di semplicità, secondo il quale vanno date al consumatore informazioni in numero non eccessivo, è valido a maggior ragione in caso di introduzione di un nuovo prodotto: in una situazione, cioè, in cui si va potenzialmente ad aggiungere un altro livello ad un’architettura precostituita. Non si deve correre il rischio, volendo razionalizzare e semplificare l’offerta dell’impresa, di renderla poco intelligibile perché eccessivamente strutturata in senso verticale. 2.4.3 Co-branding L’impresa potrebbe anche scegliere di collaborare con altre nella realizzazione e commercializzazione del nuovo prodotto; in particolare, si parla propriamente di co-branding se la collaborazione prevede la denominazione congiunta del prodotto o servizio, che avrà quindi due o più marche. Si tratta di una pratica in espansione e ormai consolidata, che fa leva, come già detto precedentemente, anche sullo sfruttamento delle associazioni secondarie: si crea un legame con un’altra marca anche nel tentativo di estenderne alla propria le associazioni forti, positive, uniche. A livello di prodotto, questo viene ad avere un posizionamento risultante dal mix delle associazioni ai brand e rafforzato dalla loro notorietà: ciascun brand metterà a disposizione il proprio valore e al contempo sfrutterà quello dell’altro di cui non dispone. La prima condizione necessaria per una corretta iniziativa di co-branding è il valore rilevante di entrambe le marche. Queste dovranno anche essere compatibili: avere immagini coerenti e presentarsi insieme come “logiche” agli occhi del consumatore. Se questi prerequisiti sono rispettati, il co-branding è potenzialmente una strada percorribile per lanciare un nuovo prodotto, e presenta vantaggi, per i singoli brand, che vanno oltre la singola operazione: può essere uno strumento per conquistare nuovi segmenti di clientela, che, attratti dai benefici del prodotto oggetto di co-branding, potranno entrare nell’orbita della marca. Più 76 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND specificamente, i clienti fedeli all’altro brand, venendo a contatto con la marca, potranno apprezzarne gli attributi: poiché questi sono collegati a benefici che si è detto essere, in linea di principio, coerenti con quelli del brand già conosciuto, ci sono buone premesse per l’instaurarsi di un nuovo rapporto di fiducia. In senso lato, si può azzardare che per certuni consumatori una marca, quella fidata, faccia da endorser all’altra meno conosciuta. Analogamente al subbranding, anche la strategia di co-branding, inoltre, può interpretarsi come una modalità di estensione, seppur indiretta, della marca, qualora il nuovo prodotto appartenga ad una categoria collaterale a quella di provenienza. Questa strategia ha anche dei vantaggi che esulano la sfera del brand vera e propria: ciascuna impresa potrà innanzitutto beneficiare delle altrui esperienze nei rispettivi campi di competenza, apprendendone parte dei know-how; il rapporto stretto con approcci alternativi al consumatore, inoltre, non potrà che arricchire la conoscenza di questo; una efficiente attuazione del co-branding, infine, comporta anche dei risparmi dalle conseguenti economie di condivisione, perché gli sforzi di pubblicità, promozione e distribuzione saranno congiunti. Questa lunga serie di benefici ottenibili mediante il co-branding va temperata con alcuni potenziali svantaggi, o cautele, che andranno ponderati dall’azienda che consideri questa opzione strategica per ampliare la propria offerta. Le associazioni agli altri brand, in prima battuta, non sono controllabili dall’impresa: ritorna, in questo senso, il problema della rischiosità, più volte denunciata parlando delle associazioni secondarie, di legare la propria immagine a quella di un’entità esterna. Se il partner avrà delle vicissitudini negative, anche la marca ne potrebbe risentire; più semplicemente, se esso sceglierà di cambiare l’immagine del brand, è da verificare la permanenza della compatibilità che era requisito della collaborazione. Questa perdita di controllo trova una pericolosa leva nelle aspettative spesso elevate del consumatore verso il prodotto cobranded: un feedback negativo, derivante da una non piena soddisfazione dall’acquisto, potrebbe essere maggiore che nel caso di un prodotto singlebranded. Fatte salve tutte queste considerazioni, vanno distinte due grandi categorie, non alternative, di co-branding: quelli su base funzionale e quelle su base simbolica. 77 CAPITOLO 2 Il primo si ha quando entrambe le imprese contribuiscono, a vario titolo, alla realizzazione fisica del prodotto: la co-denominazione evidenzia il beneficio superiore che il consumatore dal rapporto di collaborazione. Ne sono esempi i telefoni cellulari Sony Ericsson e i personal computer Fujitsu Siemens: in questi casi, i produttori si sono addirittura uniti in joint-venture societarie. Un particolare caso di collaborazione su base funzionale è la strategia di ingredient branding, quando una marca ne ospita un’altra al suo interno, sotto forma di componente o materiale. Ci sono “ingredient brand per antonomasia”, come le fibre idrorepellenti Gore-Tex o l’antirumore Dolby, il cui utilizzo è per natura possibile mediante la fruizione di prodotti che li contengono, in vario modo, al proprio interno; ma molte tipologie di marca possono diventarlo, per esempio in ambito alimentare: si pensi ai preparati Zuegg contenuti nei croissant Bauli, all’Amarena Fabbri nella linea Cremeria Motta, al caffé Lavazza nelle caramelle Sperlari. Per le marche ospitanti, la notorietà dell’ingredient brand è un valore aggiunto al proprio, così come l’associazione alla qualità superiore che spesso questo possiede; in alcuni mercati, certi ingredient brand divengono degli standard tecnologici, al punto da costituire dei point-of-parity condivisi: un esempio sono i microprocessori Intel, integrati e segnalati dalla maggioranza dei produttori di personal computer. Per gli ingredient, invece, le marche ospitanti rappresentano di fatto un “canale di vendita”: che consente di aumentare e stabilizzare i ricavi, derivanti, oltre che dal prezzo dell’ingrediente, da eventuali royalty pagate dall’ospitante per l’esposizione della relativa marca. La seconda, grande categoria di co-branding è quella di tipo simbolico: si ha quando una marca produce il prodotto ed un’altra contribuisce con la sua immagine a rivestirlo di associazioni aggiuntive. È un paradigma tipico del mercato automobilistico: il brand Roland Garros ha apportato parte del suo valore alla Peugeot 206, caratterizzando con i suoi attributi simbolici di modernità e sportività i modelli co-branded. Questo tipo operazione mira, in termini commerciali, al segmento di clientela particolarmente sensibile al brand invitato; ma ha una portata più ampia, nella misura in cui anche parte della restante clientela potenziale interpreta l’alleanza come una consonanza di valori tra partner: nell’esempio di cui sopra, anche le 206 non marchiate Roland 78 LA GESTIONE STRATEGICA DEL BRAND Garros verranno, da alcuni altri consumatori e in misura certo minore, investite del suo significato. Il risvolto comunicativo per le singole marche, in altri termini, è più diffuso della linea co-branded oggetto di vendita mirata, e per questo si collega ad obiettivi strategici di marca oltre che di vendita. Si sono convenzionalmente distinte queste due categorie di co-branding, funzionale e simbolico, perché le due basi rispondono a criteri diversi; nella pratica, tuttavia, in un prodotto possono combinarsi in vari rapporti entrambe le istanze. 2.4.4 Brand extension L’ultima possibilità che l’impresa ha a disposizione per il branding di un nuovo prodotto è l’utilizzo di una marca già presente nel suo portafoglio. Negli ultimi decenni, per le ragioni di opportunità sopra esposte, la strategia di brand extension è stata utilizzata sempre di più, con risultati non sempre positivi. Il prossimo capitolo analizza diffusamente questa strategia, delineandone vantaggi, svantaggi e modalità di attuazione. La prospettiva di prodotto, provvisoriamente adottata in queste ultime pagine, verrà nel prossimo capitolo abbandonata per focalizzare nuovamente l’attenzione sul brand e sul suo valore. 79 3. LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION 3.1. La strategia che cos’è un’estensione di marca 3.2. I vantaggi e gli svantaggi estendere o non estendere? 3.3. Come estendere la marca dalla teoria alla pratica 3.4. Alcuni esempi la brand extension nel mondo aziendale LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION 3.1 LA STRATEGIA Una brand extension è l’utilizzo di una marca consolidata per denominare un nuovo prodotto. Ogni qualvolta un’impresa sceglie di ampliare il territorio di competenza di un proprio brand, quindi, si parla correttamente di estensione della marca. Questo termine generico, tuttavia, per la molteplicità di tipologie strategiche che comprende, ha bisogno di essere declinato a seconda delle fattispecie. La distinzione più praticata in letteratura è quella tra line extension e category extension (Farquhar 1989): con il primo termine si intende un’estensione della marca praticata all’interno di una categoria dove essa è già presente. In un’ipotetica matrice brand-categoria di prodotto, la configurazione della stessa non cambia in seguito all’estensione: viene introdotta una nuova varietà di gusto, un ingrediente, una nuova configurazione del prodotto per raggiungere un nuovo segmento di mercato nella stessa categoria. Ne sono un esempio le introduzioni di varianti alla forma classica della Coca-Cola, come Diet Coke. Con il secondo tipo di brand extension, invece, la marca esistente viene utilizzata per entrare in una nuova categoria di prodotti: sulla matrice di cui sopra, il brand va a presidiare una nuova casella, allargandosi in senso orizzontale. Si pensi alla Sony Playstation o all’Apple iPod. Fig. 3.1 Line extension e category extension categorie di prodotto marche category extension line extension Fonte: adattato da COLLESEI U., ISEPPON M. (2003), “Strategie di crescita della marca”, Atti del III Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Parigi 28-29 Novembre. 83 CAPITOLO 3 Nel 1988, uno studio dimostrò che l’89% dei nuovi prodotti erano estensioni di linea, il 6% di categoria e il rimanente 5% erano nuove marche (Ogiba 1988). Ancora oggi, ogni anno vengono introdotti nuove marche, tuttavia l’esigua percentuale nel mix di branding dei nuovi prodotti non è di molto cambiata (Keller 2003). Questa bipartizione delle strategie di brand extension è senz’altro utile per comprenderne la natura, tuttavia si presenta il risultato di uno studio di Tauber27, che da un’indagine su 276 estensioni di marca desume sette tipi diversi di strategie praticabili: (1) stesso prodotto in forma diversa: per esempio, affiancare un liquido a un solubile (2) gusto, ingrediente o componente distintivo nel nuovo prodotto: specialmente nel settore alimentare, il gusto di un prodotto-marca affermato è potenzialmente estensibile in molte categorie, si pensi al gelato After Eight; si trovano molti esempi anche in altri settori, basti guardare agli ammorbidenti al sapone di Marsiglia (3) prodotti complementari: spesso gli assortimenti vengono completati con prodotti che hanno un ruolo correlato a quelli esistenti. Ne sono un esempio le batterie Kodak per macchine fotografiche, o gli spazzolini elettrici di marche di dentifrici (4) prodotti rilevanti per la clientela del brand: si può cercare di estendere la propria marca comprendendo nuovi prodotti che colgano delle esigenze dei propri clienti: le guide Michelin o le carte di credito delle catene di supermercati ne sono esempi di successo (5) prodotti che traggono vantaggio dall’esperienza maturata dall’impresa: dal punto di vista aziendale, in termini di competenze accumulate, e del consumatore, che in virtù di queste ritiene il brand affidabile anche in nuovi prodotti percepiti in un qualche modo collegati. Un esempio sono le fotocopiatrici Canon e gli accendini Bic (6) beneficio, carattere distintivo nel nuovo prodotto: certi tratti riconosciuti sono potenzialmente condivisibili anche da nuovi prodotti. Marche di dentifrici, a titolo di esempio, producono gomme da masticare (7) prodotti che traggano vantaggio dall’immagine e dal prestigio del brand: alcune marche, per il loro elevato status, si prestano ad essere estese anche 27 TAUBER, E.M. (1988), “Brand leverage: strategy for growth in a cost control world’’, Journal of Advertising Research, August/September, pp. 26-30. 84 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION in altre categorie, specialmente nell’ambito del lusso. Si pensi agli occhiali da sole Porsche o alla linea di arredamento Armani Casa. Come per altri elenchi fino a qui presentati, vale la pena ricordare che la classificazione di Tauber non è da intendersi in senso rigido, perchè le opzioni strategiche passate in rassegna non sono prive di relazioni ne’ alternative: un’impresa potrebbe estendere un brand del suo portafoglio facendo leva su più di uno degli aspetti enumerati, rendendo anzi sinergiche le basi della sua strategia. Prima di un approfondimento qualitativo della strategia di brand extension, è opportuno introdurre un ulteriore elemento di cautela al rigore delle definizioni che spesso si utilizzano in letteratura: nella fattispecie, è utile precisare ex ante il significato che la locuzione brand extension assume in questo lavoro. Si è già detto, infatti, che anche le strategie di sub-branding e co-branding possono rappresentare, di fatto, un’estensione della marca. Per quanto riguarda il primo caso, anzi, la modalità di estensione del brand esistente mediante l’associazione di un sub-brand (quantomeno di un modifier) è quasi la norma: tuttavia, si è ritenuto più corretto descrivere le specificità di quest’ultima strategia come fosse estranea all’estensione di marca, perché effettivamente, in una prospettiva di prodotto, può essere vista come un’opzione strategica di branding a sé stante. Ma in una prospettiva di marca, e più precisamente nell’ambito di una strategia di brand extension, essa rappresenta un momento successivo rispetto alla scelta se estendere o meno una marca: da un duplice punto di vista, concettuale e temporale, le scelte sull’ipotetico sub-brand sono collocate ad un livello inferiore nella scaletta delle decisioni sul (master) brand da eventualmente estendere. In altre parole, nell’ambito di una estensione di marca, la scelta di sub-branding rappresenta il dettaglio più che la strategia. Discorso analogo valga per la strategia di co-branding, che presenta peraltro delle peculiarità evidenti. Si potrebbe arrivare a comprendere perfino il licensing, dal punto di vista del licensor, come una delle modalità di estensione della marca28, ma non è negli obiettivi del presente lavoro considerare questa pur interessante 28 FARQUHAR, P.H. (1989), “Managing brand equity’’, Marketing Research, Vol. 1, September, pp. 24-33. 85 CAPITOLO 3 prospettiva “di dettaglio”: dato il livello strategico dell’analisi compiuto in questo lavoro, l’accezione di brand extension adottata, nel capitolo e nel prosieguo della trattazione, è necessariamente (e non convenzionalmente) lata, connotata dai suoi tratti concettuali e “di opportunità” più che dalle sue pratiche, eventuali e successive modalità di attuazione. 3.2 I VANTAGGI E GLI SVANTAGGI 3.2.1 L’efficienza della brand extension Perché un’azienda dovrebbe decidere di estendere il proprio brand? I tanti motivi che negli ultimi decenni hanno spinto le imprese a ricorrere a questa strategia sono organizzabili con diversi criteri; si trova utile ricondurli alle sfere dell’efficienza e dell’efficacia delle strategie di branding. Utilizzare una marca esistente per un nuovo prodotto consente di evitare i costi di sviluppo di un nuovo brand: la progettazione del nome e degli altri elementi identificativi della marca è complessa e richiede ricerche di mercato e personale qualificato, entrambi costosi; la criticità dello sviluppo è aumentata dalla continua riduzione di nomi disponibili e interessanti, che fa crescere contestualmente il rischio di battaglie legali e il sostenimento di ulteriori costi. Un brand esistente consente anche di aumentare l’efficienza delle spese promozionali per il nuovo prodotto. I programmi di marketing, ed in particolare di comunicazione, potranno concentrarsi sul prodotto in sé, senza preoccuparsi di creare consapevolezza intorno alla marca e traendone anzi beneficio. Un’indagine su 98 marche di consumo in 11 differenti mercati ha rilevato una spesa pubblicitaria inferiore per le estensioni di successo rispetto all’introduzione di prodotti paragonabili con un nuovo brand (Sullivan 1992). Alcune estensioni di marca consentono anche di realizzare efficienze a livello di packaging e di etichettatura: specialmente nelle line extension, poiché queste si commercializzano talora con confezioni ed etichette molto simili, si 86 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION possono raggiungere economie di scala nella produzione di questi. Si pensi a prodotti di largo consumo come le bottiglie d’acqua frizzante e liscia, le cui etichette si differenziano esclusivamente per il colore. In generale, una strategia di brand extension risponde ad esigenze di razionalizzazione del brand portfolio, tanto più pressanti quanto un’impresa si preponga obiettivi di crescita. Specialmente se l’impresa vuole presidiare e raggiungere posizioni di leadership in mercati internazionali, dovrà supportare i suoi prodotti con programmi di comunicazione di costo notevole, crescenti all’aumentare dei brand con cui si presenta: da qui l’esigenza di concentrare i propri sforzi su poche marche che raggiungano elevati livelli di awareness, e dalle quali tutti i prodotti con esse commercializzati possano ricavare benefici. 3.2.2 L’efficacia della brand extension Una strategia di estensione della marca può essere un utile strumento per gestire ed accrescere il valore complessivo del proprio portafoglio di brand. In particolare, gli effetti positivi agiscono in due sensi: dal parent brand (il brand da cui ha origine l’estensione) all’extension brand e viceversa. Dal parent brand all’extension brand Nel rapportarsi ad un nuovo prodotto, si è detto che il consumatore percepisce diversi tipi di rischio: ma se il prodotto è associato ad un brand credibile e affidabile, questi si sentirà molto più garantito. Rispetto al caso in cui l’introduzione avviene con un nuovo brand, pertanto, un’estensione di marca può ridurre il rischio percepito dai consumatori. Dalla funzione di riduzione di rischio del brand si ricava pertanto un importante precetto, cioè il ruolo positivo, in un’estensione di marca, delle associazioni di affidabilità ed esperienza percepita dal consumatore: se un consumatore, addirittura, ricorderà precedenti introduzioni di successo da parte del brand, certamente gli riconoscerà ex ante una certa affidabilità anche per le successive. In 87 CAPITOLO 3 generale, il trasferimento di associazioni positive dal parent brand all’extension brand è uno dei vantaggi principali della strategia: il consumatore, in virtù della sua conoscenza della marca, è portato a trasferire rilevanti tratti della sua immagine al nuovo prodotto, di cui poco conosce se non la marca. In particolare, se il parent brand gode di un’immagine molto positiva, se ne dedurranno prima dell’adozione prestazioni positive anche per la sua estensione. Un’estensione di marca può anche dare accesso ad un capitale di immagine accumulato (Kapferer 2003) e altrimenti non sfruttato: alcuni brand, addirittura, sono spontaneamente citati per categorie di prodotto delle quali non fanno parte. Il consumatore, evidentemente, ha per essi delle associazioni che sarebbero forti anche qualora essi entrassero in questi nuovi mercati. Anche offrire ai consumatori una scelta più ampia per la stessa marca può essere un motivo per praticare una brand extension: alcuni clienti, fedeli ma annoiati, potrebbero passare da un articolo all’altro di una stessa categoria senza abbandonare la marca; anche in assenza di questa ipotesi, stimolare con una gamma estesa un utilizzo più ampio e differenziato del brand può essere una strategia praticabile. La reputazione acquisita dal brand può essere fatta valere anche sul canale commerciale: in particolare, un’estensione di marca può, rispetto all’introduzione di un nuovo brand, aumentare la probabilità di ottenere un’adeguata distribuzione. Un rivenditore è certo più facilmente convincibile ad inserire in assortimento un prodotto se commercializzato con un brand noto piuttosto che uno nuovo, perché in virtù della reputazione acquisita dal primo è lecito da esso attendersi un aumento della domanda. Dall’extension brand al parent brand Questi benefici dall’estensione di marca sono tutti riferibili agli obiettivi di efficacia nel lancio di un nuovo prodotto. Ma gli effetti positivi non si esauriscono sull’extension: Aaker, anzi, parla dei vantaggi di questa strategia 88 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION chiamando il buono il contributo positivo del parent brand sull’extension brand, e il meglio il contributo inverso29. Un’estensione di marca, innanzitutto, può rappresentare in certi casi una condizione di sopravvivenza della stessa. Si pensi ad alcuni mercati “basici”: di recente, marche dominanti hanno visto la loro leadership minacciata da private labels in grado di coprire il mercato a costi molto bassi. Poiché le funzioni di marca non sono molto ricche, possono essere adempiute anche da brand di livello basso. Così, diversificare il proprio business può rappresentare una via di fuga da una situazione di difficoltà: la strategia di brand extension, infatti, si era inserita tra le possibilità al vaglio per rivitalizzare una marca in crisi30. Un’estensione di marca non è certo utile solo per queste categorie di marche: proprio per un brand in crescita, anzi, questa strategia può rappresentare la strada giusta per chiarire il proprio significato: in termini di espansione di un singolo brand, infatti, un nuovo prodotto è una straordinaria occasione per mostrare con evidenza ciò che si vuole rappresentare per il consumatore. Una category extension, con l’entrata in un nuovo mercato, inevitabilmente ridefinisce il senso e la valenza di un brand agli occhi del consumatore: Prenatal, commercializzando anche corsi per le mamme e prodotti editoriali, è passata da “produttrice di abbigliamento per l’infanzia” a “riferimento della relazione mamma/bambino”. Ogni estensione “forte” di marca, pertanto, riposizionandola e cambiando la percezione della medesima da parte del consumatore, ha un significato strategico cruciale per le sorti dell’impresa. Un’estensione, in taluni casi, può anche rappresentare per il brand un modo di stare al passo coi tempi, introducendo prodotti che incorporino nuove tecnologie ed esigenze mantenendo più stabili le fonti di ricavo tradizionali. Un’impresa può optare per questa strategia non solo per spostare, ma anche per consolidare l’immagine della marca originaria: lo farà con una nuova introduzione che rafforzi e renda più favorevoli le associazioni esistenti, o ne 29 AAKER, D.A., Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli, Milano, 2003. 30 Ib. 89 CAPITOLO 3 stabilisca di nuove compatibili con le altre. Si tratta di riaffermare con forza i valori principali del brand, cioè i motivi condivisi da tutta l’offerta, siano essi attributi di prodotto o benefici per il consumatore. Per esempio, un produttore di abbigliamento sportivo che introduca dell’equipaggiamento più tecnico e di qualità elevata sottolineerà le associazioni di ”performance” e di “sport” al proprio brand. Le estensioni di linea possono servire ad un brand per conquistare nuovi clienti ed aumentare la propria copertura di mercato. Il nuovo mix di offerta del brand, infatti, potrebbe attrarre dei nuovi consumatori prima poco ricettivi rispetto alla marca perché non attratti dagli specifici prodotti in assortimento. Tylenol, affiancando il formato “capsule” a quello “compresse” del suo analgesico all’acetaminofene, ha acquisito i clienti che avevano difficoltà nell’assunzione del secondo. Infine, va rilevato come un’estensione di successo passa a volte costituire una base per estensioni successive: qualora il nuovo prodotto sia apprezzato, potrebbero dischiudersi possibilità di ulteriore ampliamento dell’offerta commercializzata dal brand. L’ultimo vantaggio conseguibile con una strategia di brand extension bene ne esprime il “duplice verso” degli effetti positivi, grazie al quale si possono innescare potenziali circoli virtuosi: un brand che si estenda in un’altra categoria di prodotto per uscire da una situazione di crisi e ci riesca, per esempio, vedrà rinnovato il proprio significato per il consumatore; potrà quindi fare valere la sua nuova immagine sul mercato conquistato, con estensioni di linea che beneficino del valore di marca. 3.2.3 I rischi della brand extension I molteplici vantaggi perseguibili con un’estensione della marca hanno reso questa strategia sempre più utilizzata dalle imprese. Tuttavia, essa presenta anche dei potenziali lati negativi, che possono manifestarsi sull’extension o 90 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION sul parent brand. Aaker chiama questi effetti negativi rispettivamente il brutto e il cattivo di una strategia di brand extension31. Innanzitutto, un’estensione di marca può confondere o frustrare i consumatori: affinché questi possano comprendere e scegliere il prodotto più idoneo a soddisfare i loro bisogni, è fondamentale che l’offerta dell’impresa sia intelligibile. Un’eccessiva varietà di linea potrebbe creare loro dei problemi, facendo scartare le estensioni per rifugiarsi nei prodotti conosciuti. Inoltre, un ulteriore elemento di criticità è dato dalla limitata disponibilità di spazio dei rivenditori, che potrebbero per questo scegliere di non tenere in assortimento le estensioni e deludere così chi era ad esse interessate. Per motivi di spazio e non solo, peraltro, un’estensione può incontrare la resistenza dei rivenditori che percepiscano le nuove varietà come meri duplicati e ne deducano per questo poca redditività. In questo senso, pertanto, se un’estensione è percepita come “eccessiva” nell’economia del portafoglio prodotti del brand, non sarà ben accolta da consumatori e rivenditori. L’insuccesso dell’extension brand è un fatto negativo intrinsecamente ma non solo, perché il fallimento può avere ripercussioni sull’immagine del parent band: questo, infatti, denominando l’estensione, si espone e lega ad esso la propria immagine; qualora la nuova introduzione si dimostri infelice, l’effetto potrebbe ritorcersi sull’origine. Questo rischio è presente soprattutto nel caso in cui l’insuccesso dipenda dalla performance del prodotto, mentre è più limitato qualora derivi da scarsa consapevolezza o carente distribuzione (Keller 2003). Anche in caso di successo dell’extension brand ci possono essere effetti negativi, ad esempio qualora avvengano fenomeni di cannibalizzazione delle vendite della marca originaria: se c’è una transizione “intra-brand” dei consumatori, da parent a extension, il fatturato della nuova marca potrebbe ottenersi a scapito della vecchia, con pericolosi giochi a somma zero da valutare in ottica strategica. Una “cannibalizzazione preventiva” (Keller 2003), che mantenga nel portafoglio i clienti del parent brand prima che 31 Ib. 91 CAPITOLO 3 passino ad altre marche, potrebbe essere positiva; in caso contrario, si tratta di un rischio da non correre. Il successo di un’estensione di categoria potrebbe anche accompagnarsi ad una minore identificazione con una precisa categoria di prodotto, appunto. Si tratta di uno dei rischi principali della strategia, che deriva dall’abbaglio dei vantaggi conseguibili con essa. Ci sono marche che per caratteristiche proprie (di brand element, di appeal raggiunto…) o del contesto di riferimento (per esempio nel settore moda) hanno un elevato “potenziale di estensione” in categorie anche molto lontane da quella di appartenenza. Questo può portare a strategie di brand extension che, se da un lato sembrano giustificate dall’incremento reddituale atteso, potrebbero indebolire l’immagine della marca nel medio-lungo periodo. Si è detto che una delle associazioni più comuni e importanti ad un brand è quella della categoria di prodotto; essere presenti con la stessa marca in troppe categorie potrebbe diminuire la forza delle risultanti associazioni, ed in particolare di quella al business di riferimento. Si ritiene che l’ottica strategica sia una necessità più che un consiglio per una efficace gestione del brand. Ries e Trout, nel 1981, coniarono il termine di “trappola dell’estensione” di linea proprio per identificare il ricorso eccessivo alla strategia di brand extension. Si corre il rischio di monetizzare (e quindi disperdere) la brand equity raggiunta più che di farla effettivamente fruttare. Il concetto di brand dilution fa riferimento proprio alla possibilità che il significato della marca, cioè gran parte del suo valore, si disperda in tutte le sue traduzioni di categoria e perda di pregnanza per il consumatore. L’ultimo rischio della strategia di estensione della marca, ancora una volta connaturato alla presunta “comodità” della sua attuazione, è quello di lasciarsi sfuggire l’opportunità di lanciare un nuovo brand. Si è detto dei costi e della difficoltà di questa operazione, ma è giusto ricordare i benefici differenziali che se ne possono ricavare: una nuova marca, con proprie, esclusive associazioni, sebbene non tragga vantaggio dalla brand equity già presente nel portafoglio marche dell’impresa, può godere di totale libertà per costruire valore da zero; entrare in mercati altrimenti irraggiungibili con i 92 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION vincoli di immagine derivanti da un parent brand. In questo senso, rappresenta una scelta da fare con coraggio qualora se ne intravedano le possibilità: non farlo sarebbe un “costo nascosto”, un rischio superiore secondo Aaker (che lo definisce il pessimo di una strategia di brand extension) a tutti gli altri. 3.3 COME ESTENDERE IL BRAND 3.3.1 Il successo della strategia I vantaggi e i vantaggi della strategia di brand extension rappresentano il ventaglio dei possibili risultati di una sua attuazione; nulla però si è ancora detto su come l’impresa debba agire per sfruttare i primi ed evitare i secondi. La ricerca accademica, in questo senso, si è mossa su due direttrici: da un lato, fornendo un archetipo concettuale per predisporre ed attuare la migliore strategia di brand extension; dall’altro, sulla base della casistica aziendale e delle ricerche sul consumatore, ha elaborato delle linee guida che, se seguite dalle imprese, dovrebbero ex-ante cautelarla da fallimenti. In primo luogo, come premessa ad entrambi, è importante definirne il fine ultimo, cioè il successo della brand extension, concetto non scontato perché multidimensionale: esso, infatti, dipende e si misura sulla sua capacità di creare brand equity nella categoria di appartenenza e di contribuire al valore della marca originaria. Dal modello della Customer-Based Brand Equity ricaviamo le dimensioni per giudicare entrambe, cioè la brand awareness e la brand image. Come per un qualunque altro brand, il valore dell’estensione dipenderà dal suo livello di consapevolezza e dalla forza, positività e unicità delle associazioni create; e il suo contributo alla marca originaria dipenderà dalle nuove associazioni poste in essere e dalla sua influenza sulle preesistenti, ancora secondo i parametri di forza, unicità, positività. 93 CAPITOLO 3 3.3.2 L’attuazione della strategia Si possono individuare cinque momenti chiave nella strategia di brand extension, che possiamo considerare di analisi e di decisione32. Ciascuno di questi dovrebbe essere confortato da attente valutazioni che derivino da ricerche di mercato e dalla conoscenza del management. Definire la conoscenza del brand attuale e quella desiderata: come punto di partenza, è necessario comprendere il presente e il futuro auspicato della marca. In questo modo si chiarirà la direzione in cui il brand va condotto nel lungo periodo, e si costituiranno le basi per le scelte da compiere in termini di estensione. Ancora una volta, in concetti in causa sono il posizionamento e i valori principali del brand. Individuare i possibili candidati all’estensione: le conoscenze da utilizzare per delineare l’insieme di possibili estensioni sono le associazioni alla marca originaria presenti nella mente del consumatore. Da queste, il management potrà ricavare delle categorie di prodotto ad esse correlate, e attraverso sessioni di brain-storming individuare delle possibili estensioni. In alternativa, è possibile anche compiere delle ricerche di mercato, ma nella pratica è difficile i consumatori suggeriscano spontaneamente delle idee di estensione. Valutare il potenziale del candidato all’estensione: come per ogni nuovo prodotto, è importante cercare di prevederne il successo. Nella fattispecie, lo si farà considerando la sua attitudine a conseguire i vantaggi ed evitare gli svantaggi evidenziati in precedenza; più specificamente, si misurerà la sua capacità presunta di creare brand equity analizzando consumatori, impresa, concorrenza. Per quanto concerne i primi, si tratta di prevedere la forza, positività e unicità di tutte associazioni create. È spesso utile compiere delle ricerche che mettano in luce le percezioni del consumatore sulle ipotetiche 32 Adattato da KELLER, K.L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), del brand, Egea. 94 Gestione e sviluppo LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION estensioni, chiedendo risposte dirette, su scale di valutazione, piuttosto che aperte, evocando associazioni. La prospettiva del consumatore è fondamentale ed è quella che sarà utilizzata nelle altre parti del lavoro, tuttavia bisogna considerare anche altri fattori: rispetto all’impresa, assicurandosi per esempio che l’estensione non comporti diseconomie e non distolga l’attenzione dal core business; rispetto alla concorrenza, cercando di prevederne le eventuali reazioni. È importante considerare, oltre che il valore intrinseco dell’estensione, i suoi effetti di feedback sul parent brand: riconducendoci alla definizione che abbiamo dato di successo, va previsto anche il contributo dell’extension brand alla marca originaria, considerando quattro aspetti: la credibilità intrinseca degli elementi che sostengono la corrispondenza tra il brand e i benefici percepiti dell’estensione; la rilevanza di questi elementi (e quindi la loro capacità di legare la performance dell’estensione a quella della marca originaria); la coerenza tra l’apparenza dell’estensione e le associazioni alla marca originaria (più le due entità sono compatibili e meno la prima influirà sulle seconde); la forza delle associazioni al parent brand nella mente dei consumatori (più è elevata e più difficile è da mutare). Pianificare la creazione di valore dell’estensione: il valore di un’estensione di marca va costruito in modo analogo a quello di una nuova marca: innanzitutto, scegliendo i brand element più opportuni, che per definizione rimarranno gli stessi in una parte più o meno estesa. Il permanere del packaging, quando ha una rilevanza importante nell’economia degli elementi identificativi della marca, ha spesso un ruolo chiave nella strategia di brand extension. Per gli elementi di novità, l’impresa dovrà fare riferimento ai medesimi criteri di memorizzabilità, piacevolezza, ecc., descritti parlando della costruzione del valore di una marca. Il peso relativo di elementi derivati dal parent brand e di elementi nuovi determina la forza del legame di branding tra marca originaria ed estensione, e tendenzialmente l’intensità degli effetti, diretti e di feedback, tra le due entità. La creazione di valore dell’estensione prosegue, come si ricorderà, programmando le attività di 95 CAPITOLO 3 marketing ottimali: una corretta strategia di prodotto, in termini di relazione con l’offerta esistente del brand, fungerà da guida per le altre attività. In particolare, si sottolinea l’importanza di una comunicazione che trasmetta efficacemente le differenze e peculiarità dell’estensione rispetto alla marca originaria. Il valore si crea infine sfruttando le associazioni secondarie del brand: il trasferimento di associazioni dal parent brand all’extension brand è uno dei presupposti stessi della strategia. Si deve infatti cercare che l’immagine dell’estensione benefici delle associazioni positive e trasferibili della marca originaria: questo è appunto il senso degli elementi che rimangono immutati. Va osservato, tuttavia, che l’effettivo trasferimento di associazioni dipende dalla strategia di branding adottata, e nella fattispecie dalla forza del legame che si vuole creare tra le due entità. Nel caso questo sia stretto, l’estensione beneficerà anche delle associazioni secondarie proprie della marca originaria; in ogni caso, si potrà scegliere di stabilirne anche con entità specifiche. Valutare il successo di un’estensione del brand e i suoi effetti sul valore della marca originaria: sia preventivamente che a consuntivo, i risultati della brand extension vanno studiati a livello di brand nel suo complesso. Si deve ricordare, per esempio, che il successo dell’extension brand potrebbe accompagnarsi ad un’erosione delle vendite del parent brand. Fatte salve queste ed altre considerazioni di tipo prettamente economico, il modello CBBE resta, in ottica strategica di branding, lo strumento più adatto per comprendere gli effetti dell’operazione. Analizzare il valore della marca originaria e dell’estensione alla luce dei risultati di brand awareness e brand image consente il raggiungimento di due obiettivi: nel caso si tratti dei risultati attesi, di scegliere, nell’insieme dei candidati, i più idonei all’estensione, anche alla luce dei programmi di marketing che si sono ritenuti praticabili e ottimi; nel caso si tratti dei risultati conseguiti, di verificare la correttezza delle scelte tattiche di marketing, appunto, e della direzione strategica inizialmente determinata dall’impresa. 96 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION 3.3.3 Linee guida Questo schema decisionale è un supporto utile per la predisposizione di una brand extension “concettualmente ineccepibile”. Tuttavia, il suo elevato livello di astrazione non lo rende sufficiente ad esaurire in modo approfondito la varietà di fattispecie e contingenze possibili per questa strategia. La ricerca accademica ha compiuto molti studi intorno al tema dell’estensione di marca, e se ne presentano qui alcuni risultati33. Questo paragrafo conclude, prima dell’ultimo dedicato ad una breve casistica di esempio, l’apparato “puramente teorico” del lavoro. L’estensione del brand ha successo quando il parent brand è caratterizzato, nella percezione generale, da associazioni positive e da una certa compatibilità con il nuovo prodotto. Per quanto riguarda il primo aspetto, basti per ora dire più in generale che deve sussistere, almeno in una certa misura, una “parent brand equity”. Per Aaker, autore nel 1990 di uno studio seminale che si analizzerà, “non ha davvero senso estendere la mediocrità” (Aaker 2003). Quanto alla compatibilità, si consideri il concetto di categorizzazione: l’omonima teoria sostiene che gli individui tendono a ricondurre i singoli stimoli a cui sono esposti ad una categoria precedentemente definita, senza valutarli ponderatamente di volta in volta. Si applichi ora questo concetto al momento della valutazione, da parte del consumatore, di una brand extension. Essa può avvenire secondo due diverse modalità (Aaker e Keller, 1990): attraverso un processo analitico (piecemeal processing), che giudichi l’estensione in base alla sua capacità di soddisfare i benefici promessi, o mediante un processo sintetico (category-based processing), fondato sul trasferimento all’estensione dell’atteggiamento globale sviluppato verso la marca originaria. Come dimostrano Boush e Loken (1991), estensioni in categorie percepite come molto simili o molto dissimili rispetto a quella della marca originaria vengono valutate velocemente e in modo sintetico, mentre 33 Le conclusioni presentate sono state utilmente organizzate in KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. Sono qui rielaborate a partire dal medesimo testo o dalle fonti citate. 97 CAPITOLO 3 invece estensioni non molto dissimili formano oggetto di un processo valutativo analitico. Pertanto, se in un primo momento il consumatore ritiene l’extension brand in qualche modo coerente al parent brand, potrebbe estendere al nuovo prodotto l’atteggiamento sviluppato verso la marca. Viceversa, una valutazione analitica renderebbe il nuovo prodotto meno dipendente dalla marca originaria. La compatibilità può poggiare su diverse basi: attributi e benefici relativi al prodotto oppure legati a situazioni di utilizzo o tipologie di utenti comuni. La compatibilità è basata sulle associazioni nella mente del consumatore, per le quali si è detto non esistere un limite preciso. Le categorie di appartenenza sono un’importante associazione, e possono essere, ciascuna con le proprie ulteriori associazioni, un punto di contatto discriminante nel giudizio di similarità o meno che il consumatore dà dell’estensione. La percezione di similarità è tanto più forte quanto le associazioni comuni prevalgono su quelle distintive. Particolare peso hanno le associazioni salienti del brand, di cui l’impresa deve avere piena coscienza: se queste sono forti, possono essere per il consumatore più rilevanti di quelle relative alla categoria di appartenenza del brand. Uno specifico brand, per esempio, potrebbe essere più compatibile con una categoria di estensione percepita “più lontana dalla propria” che con una invece molto vicina. La natura del fit è molto dibattuta in letteratura, e se ne approfondirà in seguito il concetto. A seconda della conoscenza del consumatore della categoria di prodotto, la percezione di compatibilità può essere fondata su analogie tecniche o produttive oppure su fattori più superficiali come la complementarietà funzionale. Consumatori esperti sono in grado di esprimere giudizi di compatibilità più strutturati e profondi di consumatori “novizi”: possono considerare, per esempio, le competenze tecniche dell’impresa per ricavarne l’eventuale spendibilità nella categoria di estensione. In mancanza di conoscenza approfondita delle categorie di prodotto, invece, si affideranno, 98 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION per i propri giudizi di similarità, ad elementi più “percettivi” e meno razionali (Muthukrishnan e Weitz 1990). I brand di alta qualità consentono un’estensione maggiore rispetto a quelli medi, pur essendo anch’essi soggetti a dei limiti. Le marche di qualità godono spesso di credibilità ed affidabilità. I consumatori che accordino ad esse, anche inconsciamente, queste caratteristiche sono più portati a dare fiducia a scelte che “comprendono poco” sul piano razionale. Un brand di qualità, pertanto, possiede a parità di condizioni una maggior facilità di estensione. Tuttavia, va osservato che le sempre presenti caratteristiche intrinseche di un brand, anche qualora questo goda di elevata credibilità, negano la possibilità che esso si possa estendere in qualunque categoria desideri: il giudizio di affidabilità del consumatore è accordato sulla base di associazioni positive ma specifiche, non necessariamente spendibili in tutti i contesti. Una marca considerata come il prototipo di una certa categoria di prodotti può essere difficilmente estensibile al di fuori di quella categoria. In alcuni mercati ci sono brand leader che rappresentano l’intera categoria di prodotto. Alla forza acquisita è connaturata la tentazione di sfruttare il proprio capitale di notorietà ed immagine per entrare in nuove categorie: tuttavia, si tratta di un’operazione da valutare attentamente, perché nasconde molti rischi. Innanzitutto, il consumatore potrebbe faticare ad accettare l’estensione, per la difficoltà di comprendere la marca in una modalità disancorata dalla sua origine tradizionale; in secondo luogo, l’impresa rischierebbe di perdere la legittimità e il potere del brand nel mercato d’origine. Il rischio di disperdere il proprio valore è a maggior ragione da considerare quando nella categoria di estensione sono presenti altri prototipi (Kapferer 2003). Chiquita provò, nel 1990, a lanciare una linea di granite, ma le associazioni al suo prodotto principale, la banana, furono troppo forti da superare e il prodotto non ebbe successo (Phillips 1990). Si pensi a casi limite, quelli in cui nomi di marca 99 CAPITOLO 3 sono diventati generici, come Kleenex o Thermos, al punto da non avere più un valore intrinseco spendibile sui mercati. Le associazioni ad attributi concreti tendono ad essere più difficilmente estensibili rispetto a quelle astratte. Le associazioni relative ad elementi tangibili tendono ad essere trasferibili solo in categorie di prodotti dove possono mantenersi positive: un’associazione ad un gusto o un ingrediente, per esempio, se da un lato può costituire una base di estensione di una marca in formati o per utilizzi diversi, dall’altro può ostacolarla qualora voglia entrare in categorie più eterogenee. In questo caso, infatti, l’attributo potrebbe non essere più rilevante o visto come inappropriato. Si pensi alla difficoltà per Perlana di entrare nelle linee di detersivi per capi non in lana. Un’associazione astratta, invece, non essendo direttamente collegata ad attributi tangibili che caratterizzano la categoria originaria, gode tendenzialmente di maggior libertà di estensione. I consumatori potrebbero trasferire associazioni positive nella classe del prodotto originale ma negative nel contesto dell’estensione. Oltre ad assumere poca rilevanza nel contesto dell’estensione, un’associazione originariamente positiva potrebbe assumere connotazioni negative. Certamente, le associazioni al gusto si prestano facilmente ad essere trasferite da un prodotto alimentare ad un altro, ma un brand associato agli aromi piccanti delle sue patatine, per esempio, sarebbe difficilmente accolto con favore nel mercato dei prodotti per la prima colazione. Un test di mercato rivelò che l’eventuale salsa di pomodoro Campbell sarebbe stata percepita negativamente come “acquosa”, caratteristica invece positiva della nota zuppa. Anche da associazioni positive i consumatori potrebbero dedurne altre negative. Una associazione potrebbe anche non cambiare segno nel contesto dell’estensione, ma dare luogo ad altre associazioni negative. La resistenza è spesso sinonimo di qualità nell’ambito dei beni durevoli e 100 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION rappresenta difficilmente un’associazione negativa, ma potrebbe, nell’ambito dell’abbigliamento di lusso, far nascere associazioni di “eccessiva durata nel tempo” e quindi di “fuori moda”. È difficile compiere un’estensione in una classe di prodotti percepiti di facile realizzazione. I mercati basici, dove i prodotti sono percepiti come simili, si sono detti essere meno adatti alle marche, perché esse possono svolgere solo parte delle loro potenziali funzioni. Analogamente, è difficile estendere un brand, magari di alta qualità, in categorie di prodotto ritenute banali: il consumatore, infatti, percepirebbe come ingiustificato il premium price richiesto, soprattutto a fronte della scarsa differenziazione offribile dalla marca nel contesto “facile” (Aaker e Keller 1990). Oltre ad influire positivamente sull’immagine del parent brand, un’estensione di successo può consentire ulteriori estensioni. Uno dei ruoli strategici della brand extension è quello di “muovere la marca” in una certa direzione, mutandone posizionamento e immagine percepita. Per questo motivo, un’estensione di successo che dia alla marca una nuova immagine potrebbe far dischiudere opportunità di sviluppo precedentemente fuori portata: nella fattispecie, consentire ulteriori estensioni non affrontabili con l’immagine originaria. Estensioni progressive possono consentire al brand di accedere gradualmente a categorie non affrontabili da subito in modo diretto (Keller e Aaker 1992). In questo aspetto emerge in modo marcato la portata strategica, oltre che tattica di breve periodo, dell’estensione di marca. Inoltre, c’è anche un motivo secondario per questo effetto: se una marca riesce ad essere presente con qualità in categorie molto diverse, può acquisire credibilità e l’associazione di “saper fare bene qualunque cosa”, che rende il consumatore, come già spiegato, più propenso a superare le eventuali percezioni di scarsa compatibilità delle ulteriori estensioni. In questo senso, “più un brand è esteso, più è facile che si riesca ad estendere”, restando tuttavia invariati, di volta in volta, i requisiti e rischi che questa operazione comporta. 101 CAPITOLO 3 Un’estensione non riuscita danneggia il parent brand solo quando poggia su una forte compatibilità. In questo senso, il fallimento di un’estensione di linea dovrebbe comportare effetti di feed-back negativo maggiori rispetto ad un’estensione di categoria; questi effetti dovrebbero inoltre diminuire proporzionalmente alla lontananza della categoria di estensione da quella di origine. La performance negativa su prodotti percepiti scarsamente compatibili, pertanto, avrebbe poca influenza sull’immagine del parent brand: questo risultato della ricerca accademica (Roedder John e Loken 1993) è da considerarsi attendibile, nonostante siano molte le contingenze che ne attenuano la generalità. Per esempio, se un consumatore è fortemente motivato, il suo giudizio negativo sull’extension si riflette sul parent brand anche se le rispettive categorie sono lontane (Gurhan-Canli e Maheswaran 1998). Un’estensione fallimentare non impedisce all’azienda di fare un passo indietro e introdurre un’estensione più vicina al brand. Gli effetti di feed-back negativo, come asserito nel punto precedente, possono fortunatamente non essere irreparabili. Così, un’impresa che fallisca un’estensione potrà introdurne un’altra, con rinnovata fiducia e maggior consapevolezza. Va detto, tuttavia, che anche il consumatore che percepisca il “passo indietro” del brand acquisisce la medesima consapevolezza, scoprendone un limite che prima era presente ma non palesato. L’estensione verticale può essere difficile e richiede spesso strategie di subbranding. Si è detto della maggior capacità di estensione, a parità di condizioni, delle marche di qualità. Tuttavia, l’estensione verticale verso il basso, scelta di marketing perseguibile dai brand di elevato status, comporta dei rischi notevoli di ritorsione: i clienti fedeli della marca originaria potrebbero non vedere con favore la “compagnia” di consumatori di segmenti che prima non potevano permettersi il brand; più in generale, l’immagine della marca potrebbe uscire sfocata e depauperata dall’operazione. Per 102 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION questo motivo, qualora l’impresa non preferisca optare per una nuova marca, l’estensione è introdotta contestualmente ad una strategia di sub-branding, che la distingua chiaramente dalla marca originaria. La stessa strategia dovrebbe essere applicata in senso contrario da chi voglia estendersi verticalmente verso l’alto, operazione molto difficile. Un adeguato superbrand (Farquhar, Han, Herr e Ijiri 1992), che segnali l’elevata qualità e si leghi in maniera non troppo percettibile al parent brand, consentirà di non risentire dell’immagine più bassa di questo e di aggiornarla anzi nel mediolungo periodo. La strategia pubblicitaria più efficace per un’estensione è quella che privilegia l’informazione sull’estensione piuttosto che evocare il parent brand. Il focus della comunicazione deve essere sull’estensione, per valorizzarla in sé e per mostrarne la compatibilità con il parent brand. Questo va fatto in primo luogo rafforzando le associazioni comuni (che si presumono positive) tra le due entità che i consumatori sono portati a riconoscere nella loro prima valutazione; in secondo luogo, evidenziando altri aspetti del legame più nascosti, dai quali i destinatari del messaggio possano desumere ulteriori associazioni positive. 3.4 ALCUNI ESEMPI La casistica aziendale è ricca di estensioni di marca che ben esemplificano molte delle considerazioni svolte finora. Si presentano alcune fattispecie piuttosto “celebri”, che fanno emergere chiaramente la potenzialità e i rischi della strategia in esame. I rischi di diluizione del significato del brand: Virgin La nascita di uno dei brand più estesi al mondo risale al 1973 anno in cui Richard Branson, all’età di 23 anni, fonda l’etichetta di registrazione Virgin Records. Questa riesce ad avere presto notorietà e successo grazie a Mike 103 CAPITOLO 3 Oldfield e alla celebre Tubular Bells, tema del film L’esorcista (The exorcist, 1973). Successivamente, il contratto con i Sex Pistola, orfani della EMI, la rende una realtà consolidata del mercato discografico inglese e mondiale. Nel 1984, la prima, grande estensione: Branson lancia, tra le incredulità di molti collaboratori, Virgin Atlantic Airways. Da quel momento, Virgin non ha mai smesso di estendersi, entrando nelle categorie di prodotto più disparate: bibite (Virgin Cola, Virgin Drinks), treni (Virgin Rail), servizi di comunicazione (Virgin Mobile), hotel (Virgin Hotels) e molte altre ancora. L’espansione di Virgin, tuttavia, è straordinaria ma controversa: per i problemi finanziari talora affrontati e per l’insuccesso commerciale di alcune estensioni. Dal punto di vista specifico del branding, il suo sviluppo è enorme ma indisciplinato: commercializzando prodotti e servizi del tutto slegati tra loro, Virgin corre continuamente il rischio di vedere diluita la sua immagine ed indebolito il suo significato; rischia inoltre di pagare a livello globale le cattive vicissitudini di alcune delle sue costole. Nel singolo individuo, il ritardo di un aereo o di un treno Virgin può influire negativamente sulla possibilità di acquisto di un prodotto di consumo ugualmente Virgin. Proprio i prodotti di consumo appaiono tra quelli più deboli nel portafoglio globale, tanto da rivestire un ruolo comunicativo nei trasporti marchiati Virgin più che un business a sé. Branson, tuttavia, nonostante dubbi e critiche piovutegli addosso da sempre, continua con convinzione a perseguire la strada dell’estensione continua. La necessità di coerenza: Levi’s Negli anni ’80 Levi’s godeva di piena salute nel mercato dell’abbigliamento, con un’ampia quota di mercato nel segmento degli abiti “pratici e robusti” e una contemporanea presenza, meno rilevante, nei segmenti “fascia bassa” e “trendy casual”. Per mantenere la corrente di crescita, Levi’s decise di provare ad entrare in un segmento fino a quel momento inesplorato, quello degli “individualisti classici”. Questi, secondo uno studio sulla segmentazione dell’abbigliamento classico, rappresentavano il 21% del mercato: si trattava di una clientela ricca e raffinata, disposta a spendere anche molti soldi per abiti di ottimi materiali e fattura. L’impresa introdusse appositamente per 104 LA STRATEGIA DI BRAND EXTENSION questo segmento la linea Levi Tailored Classics: si scelse di commercializzarla nei grandi magazzini anziché nei negozi specializzati, per sfruttare la presenza acquisita, e ad un prezzo più basso rispetto a quello del diretto concorrente Hager. Levi’s azzardò anche la formula, insolita per il segmento, dell’abito “spezzato”, per consentire ampia libertà di scelta al cliente. Nonostante queste scelte fossero attente e ponderate, il prodotto non ebbe successo: ci fu sicuramente un problema di fit tra il brand com’era conosciuto e la nuova categoria di prodotto. Levi’s era sinonimo di robustezza, lavoro, praticità, rapporto qualità/prezzo; gli individualisti classici non le riconoscevano credibilità nell’ambito di abiti classici. In altre parole, appunto, il brand non era compatibile con la categoria di prodotto34. Riposizionarsi estendendosi: Infasil Infasil nasce del 1974 come marca monoprodotto: un detergente liquido per lavare e proteggere la pelle del neonato, distribuito esclusivamente in farmacia. Nel 1987, il brand venne rilevato da Procter & Gamble, che provvide a lanciarlo immediatamente nel mercato di massa. Soprattutto, la multinazionale avviò un deciso processo di riposizionamento, con campagne pubblicitarie che dal neonato cercavano di ampliare il target fino a comprendere anche le madri. Nel 1989, venne lanciato Infasil Intimo, un detergente intimo neutro per l’igiene quotidiana, che fece diventare Infasil il leader di categoria. Con questa rinnovata immagine, che faceva comunque leva sulla forza del “vecchio” brand Infasil, l’impresa poté espandersi anche nelle categorie dei deodoranti, dei bagnoschiuma e degli shampoo, con ottimi risultati di crescita. Raggiunte posizioni rilevanti in tutti questi mercati, Infasil dovette in seguito reagire all’entrata di importanti concorrenti quali Dove e Nivea: precise segmentazioni permisero di comprendere i bisogni più specifici all’interno delle categorie, e furono la base per estensioni che, completando la linea, risposero al meglio agli stessi. 34 Caso tratto da AAKER, D.A., Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli, Milano, 2003. 105 PARTE II 4. IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA 4.1. Gli studi sull’estensione di marca la prospettiva del consumatore 4.2. Aaker e Keller (1990) “Consumer Evaluations of Brand Extensions” 4.3. Gli studi successivi quindici anni di ricerca 4.4. Considerazioni personali i punti controversi IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA 4.1 GLI STUDI SULL’ESTENSIONE DI MARCA Si è detto che l’attenzione ai temi del brand e della brand equity è un fenomeno piuttosto recente: in particolare, la ricerca ha cominciato ad occuparsi di estensione della marca da meno di un ventennio. Il primo studio fu presentato nel 1987 all’Università del Minnesota35: si era osservato l’atteggiamento verso una marca fittizia di computer, chiamata Tarco, presentando i risultati di test che valutavano sei computer Tarco. Questi test, a seconda dei casi, presentavano risultati diversi (da zero a sei computer erano identificati come “di scarsa qualità”), e l’atteggiamento verso Tarco ne veniva ovviamente influenzato. Successivamente, si sottoponeva una lista dei prodotti che avrebbe lanciato la marca: da un nuovo computer ad estensioni molto vicine (microcomputer, orologi digitali, registratori di cassa…), fino ad arrivare ad estensioni di categoria anche molto distanti (biciclette, penne, sedie da ufficio). Si chiedeva al campione di esprimere un giudizio/sensazione su questi prodotti prima di vederli. Si misurò così la correlazione tra l’atteggiamento verso Tarco e quello verso i nuovi prodotti da Tarco introdotti, e si verificò che questa era tanto più alta quanto vicina era l’estensione. Il trasferimento degli atteggiamenti, quindi, era maggiore nel caso di categorie di estensione percepite come vicine al core business di Tarco. In questo studio, la marca era intenzionalmente fittizia: i rispondenti si trovavano a formulare giudizi su un brand senza immagine. Così, i ricercatori hanno isolato il fattore della similarità tra le categorie di provenienza ed estensione, mostrandone l’effetto sul giudizio di estendibilità della marca. La ricerca accademica, di norma, conviene nell’individuare in uno studio di Aaker e Keller del 1990 il primo tentativo di comprendere in maniera più strutturata i fattori di successo della strategia di estensione di marca. Questo studio seminale ha dato luogo ad una serie successiva di indagini, con risultati generalmente concordi e a volte più controversi. L’interesse per queste indagini è duplice: dal punto di vista teorico, questi studi hanno contribuito, insieme alla pratica manageriale, a formare lo “stato dell’arte” 35 The University of Minnesota Consumer Behavior Seminar (1987) “Affect Generalization to Similar and Dissimilar Brand Extensions”, Psychology and Marketing, 4 (3), 225-37 111 CAPITOLO 4 sulla materia della brand extension, e in particolare le “linee guida” presentate nel capitolo precedente; più specificamente in relazione a questo lavoro, rappresentano il punto di partenza, anche e soprattutto metodologico, dal quale si è partiti per l’indagine presentata nell’ultima parte. È fondamentale individuare da subito il trait d’union tra questi lavori, cioè il focus sul consumatore: si cerca di comprendere come questi valuti un’estensione di marca, indagando, in questo senso, su una condizione necessaria per il successo della strategia. Anche altri aspetti, come per esempio il supporto di marketing, possono condizionarne il risultato finale; tuttavia, la percezione dell’estensione da parte del consumatore è un primo, fondamentale momento che merita di essere adeguatamente approfondito. Si è scelto di presentare in maniera approfondita lo studio di Aaker e Keller, innanzitutto per i suoi indiscussi meriti sostanziali: nei dieci anni successivi alla sua pubblicazione, è stato citato in altri interventi ben 92 volte (Bottomley e Holden 2001). Inoltre, molti spunti metodologici del contributo saranno successivamente ripresi nello studio personale. Il paragrafo successivo è dedicato alla descrizione di alcuni importanti risultanti ottenuti dalla ricerca successiva, che come si è detto è proliferata: la scelta degli articoli trattati è stata effettuata non solo con il criterio del loro valore intrinseco, ma ancora una volta per la loro rilevanza, anche in termini di interrogativi sollevati, per la parte conclusiva del lavoro. In questo senso, si vuole rappresentare lo “stato dell’arte” della ricerca sulla brand extension dal punto di vista del consumatore mostrandone non solo i risultati consolidati ma anche i punti controversi, alcuni dei quali verranno osservati criticamente nel paragrafo conclusivo del capitolo. Curiosamente, pertanto, due dei concetti che ritorneranno continuamente nel lavoro fino alla sua conclusione, qualità e compatibilità, sono anche quelli che hanno guidato la redazione di questa parte, tramite logico tra la precedente teoria e la successiva, personale sperimentazione. 112 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA 4.2 AAKER E KELLER (1990) 4.2.1 Scopi e articolazione della ricerca Questo studio di David A. Aaker e Kevin Lane Keller è stato presentato nel gennaio del 1990 sul vol. 54 del Journal of Marketing, con il titolo “Consumer Evaluations of Brand Extensions”. Si tratta di una ricerca esplorativa articolata in due diversi studi, dei quali noi descriveremo il primo. Scopo dell’indagine Gli autori hanno studiato le reazioni del consumatore a 20 ipotetiche estensioni di 6 marche note. I rispondenti hanno fornito un set di associazioni aperte, spontanee, ai sei parent brand; hanno quindi giudicato su apposite scale numeriche il loro atteggiamento verso la marca e verso le estensioni, la compatibilità tra le categorie di prodotto e la difficoltà percepita di realizzare l’estensione. L’obiettivo del lavoro era, genericamente, di comprendere come si formi l’atteggiamento verso l’estensione di marca; più puntualmente, i due studiosi intendevano affrontare queste quattro questioni: 1. Si possono dedurre, osservando le reazioni a sei brand e venti estensioni, degli spunti qualitativi utili per comprendere le valutazioni che il consumatore fa delle estensioni di marca? 2. In che modo la qualità globale del parent brand percepita dal consumatore influirà sulla sua valutazione delle estensioni dello stesso? Sotto quali circostanze le percezioni di qualità hanno il loro maggior effetto? 3. Qual è il ruolo della percezione dei consumatori circa la compatibilità (fit) tra la categoria di prodotto originaria e quella dell’estensione? Influirà sul trasferimento della percezione di qualità dalla marca originaria all’estensione? Come dovrebbe essere concettualizzato e misurato il fit? 4. Quali altri aspetti relativi al contesto dell’estensione, come la difficoltà percepita di realizzarla, influiranno sulla valutazione dell’estensione? 113 CAPITOLO 4 Gli oggetti dell’indagine Associazioni ai brand: si è abbondantemente approfondito, nei capitoli precedenti, il significato, condiviso in questo studio, di “associazione alla marca”. Aaker e Keller (A&K) hanno chiesto al campione di fornire delle associazioni aperte alle ipotetiche estensioni di marca, per esplorare dal punto di vista “qualitativo” il tipo di associazioni comparse e il loro impatto sulle valutazioni delle estensioni. In particolare, i ricercatori si proponevano di verificare se il trasferimento delle associazioni negative fosse analogo a quello delle positive. Atteggiamento verso il parent brand: si tratta della percezione di qualità complessiva che il consumatore ha del brand; è un “giudizio astratto” circa la superiorità o eccellenza del brand-prodotto. Gli autori ipotizzano che l’influenza di questo atteggiamento (etichettato qualità) su quello verso l’estensione di marca sia positivo: questa, in altre parole, dovrebbe beneficiare della qualità riconosciuta alla marca originaria. Compatibilità (fit) tra la categoria di prodotto originaria e quella di estensione: questa percezione di coerenza avrebbe una doppia influenza sulla valutazione della brand extension. Infatti, influirebbe sia sul trasferimento delle associazioni positive (facendo ad esso da propellente o addirittura, al contrario, inibendolo) che sulla formazione di negative, perché il consumatore, percependo scarsa compatibilità, potrebbe ritenere l’impresa incapace di produrre estensioni di qualità. Il problema della concettualizzazione della compatibilità è ancora oggi molto dibattuto: la soluzione di Aaker e Keller è l’utilizzo di tre dimensioni per misurarla: la complementarietà, cioè il grado in cui i consumatori percepiscono i prodotti come sinergici nella soddisfazione degli stessi bisogni; la sostituibilità, cioè il grado in cui uno può sostituire l’altro nel soddisfare gli stessi bisogni; la trasferibilità, relativa all’aspetto produttivo più che all’utilizzo, che misura quanto il consumatore percepisce l’impresa in grado di operare nella categoria di prodotto di estensione. La trasferibilità fa quindi riferimento alle risorse e competenze di cui il brand normalmente beneficia nella categoria 114 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA originaria, che potrebbero, nella percezione del consumatore, essere o meno impiegabili in quella di estensione. Difficoltà percepita di realizzare l’estensione: gli autori ipotizzano l’esistenza di altre percezioni della nuova categoria di prodotto che potrebbero influire nella valutazione del consumatore, e scelgono di considerare ed inserire nel modello la difficoltà percepita di progettare o realizzare l’estensione. L’operazione di un brand considerato di qualità, che si cimenti nella creazione di un prodotto ritenuto banale, potrebbe essere giudicata contraddittoria. Addirittura, il consumatore potrebbe interpretarla come un tentativo di sfruttare la reputazione della marca per spuntare premium price che non giustifica. Riassumendo, Aaker e Keller cercano di verificare queste quattro ipotesi: • H1: Elevate percezioni di qualità rispetto alla marca originaria sono associate ad atteggiamenti più positivi verso l’estensione; • H2: Il trasferimento della qualità percepita dalla marca originaria all’estensione è accresciuta quando le due categorie di prodotto in qualche modo sono compatibili. Quando la compatibilità è debole, il trasferimento è inibito; • H3: La compatibilità tra le due categorie di prodotto coinvolte ha una diretta influenza positiva sull’atteggiamento verso l’estensione; • H4: La relazione tra la difficoltà percepita di realizzazione del prodotto della categoria di estensione e la valutazione di questa è positiva. 4.2.2 Metodo di indagine Il campione Le percezioni e le valutazioni sulle 20 estensioni dei 6 brand si sono ottenute da un campione di 107 studenti undergraduate di economia, che hanno partecipato allo studio come parte dei requisiti di un corso. Una lettera di premessa all’indagine spiegava che l’interesse era rivolto alle loro opinioni, come consumatori, circa differenti brand e prodotti. 115 CAPITOLO 4 Marche ed estensioni Le marche originarie scelte erano marche esistenti, rispondenti ad alcuni criteri: rilevanti per il campione, genericamente percepite come di elevata qualità, in grado di suscitare associazioni relativamente specifiche e non ampiamente estese in precedenza. Le venti estensioni, ipotetiche, rispondevano all’esigenza di essere ragionevoli e non illogiche, ma dovevano assicurare una certa eterogeneità sulle tre misure di fit. Si sono scelte marche di elevata qualità perché altrimenti le estensioni generate sarebbero risultate tendenzialmente meno realistiche. La rosa finale di brand e categorie di estensione è stata determinata analizzando i responsi di due focus group e il sondaggio di circa 100 soggetti simili a quelli del campione. Tab. 4.1 Estensioni di marca Marca originaria Heineken (birra) Vuarnet (occhiali da sole) Häagen Dazs (gelato) Crest (dentifricio) McDonald’s (ristorazione) Categoria di estensione Birra leggera, vino, popcorn Sci, portafogli, abbigliamento sportivo, orologi Popcorn, formaggio fresco, barretta snack Collutorio, chewing gum, crema da barba Patate fritte surgelate, parco a tema, lavorazione foto Le misure Si sono ottenute associazioni aperte prima per la marca originaria e poi per ciascuna estensione del set a questa relativo. Agli intervistati è stato chiesto di annotare, in circa 30 secondi, le associazioni o i pensieri emergenti nel considerare l’idea di acquistare ciascuna marca (originaria) o estensione. Le associazioni sono state codificate da due gruppi diversi di individui (ignari dello scopo dell’indagine), assemblandole in raggruppamenti che avessero al loro interno associazioni sostanzialmente uguali. In questo modo, ad ogni associazione al brand-estensione si è fatto corrispondere un cluster caratterizzato dalla numerosità degli individui citanti le stesse cose. La media 116 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA dei responsi dei due gruppi di codificatori, peraltro d’accordo nel codificare l’82% delle associazioni, è il risultato finale delle associazioni riportato dagli autori. Per la misurazione delle variabili si sono utilizzate scale di Likert: così, gli intervistati hanno valutato da 1 a 7 la qualità complessiva della marca originaria (1 = inferiore, 7 = superiore); il grado di sostituibilità nell’utilizzo delle categorie di prodotto originaria e di estensione (1 = bassa, 7 = alta); il grado di complementarietà delle categorie di prodotto originaria e di estensione (1 = bassa, 7 = alta); l’utilità (trasferibilità) di persone, risorse e competenze presenti nella categoria di prodotto originaria nella categoria di estensione (1 = nessuna utilità, 7 = molta utilità); la difficoltà percepita nel progettare e realizzare il nuovo prodotto (1 = per nulla difficile, 7 = molto difficile) per un’impresa proveniente dalla categoria di origine. Infine, l’atteggiamento rispetto all’estensione è stato descritto con la media aritmetica di due misurazioni: la qualità complessiva dell’estensione (1= inferiore, 7 = superiore) e la probabilità di provare l’estensione presupponendo che fosse programmato un acquisto nella categoria di prodotto (1 = assolutamente improbabile, 7 = molto probabile). 4.2.3 Risultati dello studio Analisi qualitativa L’obiettivo della fase qualitativa della ricerca era verificare quali tipi di associazione sarebbero emersi rispetto ai brand originari e alle estensioni, e grazie a queste ricavare spunti sul perché alcune valutazioni di estensioni siano più favorevoli di altre. Le associazioni alle marche originarie sono riassunte nella tabella 4.2 insieme alle valutazioni medie di qualità di ciascuna marca. Quattro marche (Heineken, Vuarnet, Häagen Dazs, Crest) hanno ricevuto valutazioni molto alte, e le altre due (Vidal Sassoon e McDonald’s) comunque sopra la media 117 CAPITOLO 4 o sulla media. Queste considerazioni sulla qualità trovano una rispondenza anche nelle associazioni riportate, con molti intervistati a citare l’alta qualità complessiva dei brand. Anche il prezzo elevato è stato spesso menzionato per quattro delle marche. Molte associazioni sono invece più specifiche, riferendosi a particolari attributi di prodotto, packaging, nozioni sul produttore, caratteristiche del consumatore o situazioni di utilizzo. Complessivamente, l’analisi delle associazioni citate conferma che queste fanno riferimento sia ad atteggiamenti complessivi verso le marche che a loro attributi più specifici. Tab. 4.2 Associazioni alle marche originarie Heineken (birra) 5.57 Costosa Alta qualità Bottiglia/etichetta verde Importata Europea Buona birra 44 24 27 23 23 15 Häagen Dazs (gelato) 5.85 Costoso 55 Buon gusto 28 Ottimi sapori 20 Buon gelato 18 Alta qualità 16 Ricco 17 Cremoso 17 Alto tasso calorico 13 Crest (dentifricio) 5.48 Cavity fighter Tradizionale Buon gusto Fiducia nella marca 36 24 17 16 Vuarnet (occhiali da sole) 5.87 Costosi 68 Sci 33 Qualità 28 Fashion 27 Trendy 13 Protezione UV 12 Vidal Sassoon (shampoo) 4.33 Costoso 24 Buon profumo 15 Bottiglia marrone 14 Alta qualità 14 Francese/Hair designer francese 13 Fashion 12 Usato nei saloni 11 McDonald's (ristorante) 3.33 Fast food Economico Cattivo gusto Buone patatine Grasso Archi dorati/Ronald McDonald 46 45 23 20 19 13 Le associazioni alle estensioni di marca, analogamente a quelle alle marche originarie, sono riassunte insieme alle loro valutazioni complessive. La 118 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA tabella 4.3 riporta alcuni esempi, ed è utile osservare le associazioni alle estensioni che hanno ricevuto i giudizi meno lusinghieri. Complessivamente, da questa analisi qualitativa gli autori hanno rilevato tre tipi di problemi: la compatibilità tra la categoria originaria di prodotto e quella dell’estensione era percepita come bassa (“gelato e popcorn non stanno bene insieme”,”vino e birra brutta combinazione”); l’estensione era percepita come semplice da realizzare (“tutti i popcorn sono uguali”); la marca originaria portava attributi dannosi per l’estensione (“popcorn con gusto di birra”). Tab. 4.3 Associazioni alle estensioni di marca Vino Heineken 2.91 Vino e birra brutta combinazione Bassa o cattiva qualità Poca esperienza Buona qualità/buon nome Costoso Portafogli Vuarnet 3.78 Costosi Fashion Alta qualità Sportivi Non di pelle Popcorn Heineken 2.30 Non si mischiano bene con la birra Tutti i popcorn sono uguali Poco stuzzicanti Gusto di birra Stanno con la birra 32 24 17 12 8 Barretta snack Häagen Dazs 4.81 Buon gusto 32 Costosa 23 Vale la pena provarla 17 Cioccolato 16 Buona qualità 14 33 24 21 15 15 Collutorio Crest 4.86 Buono come il dentifricio Combattere carie Buona qualità Buon gusto Cattivo gusto 36 23 18 11 10 26 20 18 15 14 Popcorn Häagen Dazs 3.28 Si mischiano male con il gelato Costosi Gusti dolci/ricchi Tutti i popcorn sono uguali Alta qualità 31 23 19 16 13 Modello di valutazione delle estensioni di marca da parte del consumatore L’analisi qualitativa delle risposte degli intervistati fornisce alcuni spunti interessanti per comprendere come questo valuti le estensioni di marca. Il 119 CAPITOLO 4 lavoro degli autori, tuttavia, ha il suo nucleo in un modello quantitativo, che cerca di comprendere in modo preciso e strutturato il ruolo delle diverse percezioni del consumatore nel determinare il suo atteggiamento verso le estensioni di marca. Si tratta di un modello di regressione che origina dalle quattro ipotesi precedentemente descritte. La variabile dipendente del modello è l’atteggiamento complessivo verso l’extension brand, che abbiamo detto essere stato codificato come la media delle misure della qualità percepita dell’estensione e della probabilità di provarla. Secondo gli autori, l’utilizzo di due indicatori ha consentito di ottenere una misura affidabile di questa variabile, perché la correlazione tra i due è risultata dello 0,67. In seguito, quando gli autori hanno compiuto regressioni separate per entrambi i coefficienti, i risultati non sono stati significativamente diversi. Le variabili indipendenti seguono le quattro ipotesi inizialmente elencate: la prima variabile (qualità) da H1; le successive tre variabili di compatibilità (trasferibilità, complementarietà, sostituibilità) da H3; successivamente, le tre interazioni tra la compatibilità e la qualità percepita (qualità x trasferibilità, qualità x complementarietà, qualità x sostituibilità), da H2; infine, l’ultima variabile (difficoltà) da H4. L’equazione del modello di regressione, testato su 2140 osservazioni (pari ai 107 intervistati per le 20 estensioni da valutare), è quindi la seguente: Atteggiamento verso l’estensione = β0 + + β1 qualità + + β2 trasferibilità + + β3 complementarietà + + β4 sostituibilità + + β5 qualità x trasferibilità + + β6 qualità x complementarietà + + β7 qualità x sostituibilità + β8 difficoltà 120 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA Dai risultati ottenuti dagli autori, la qualità percepita della marca originaria ha un coefficiente beta praticamente pari a zero, ad indicare che, in contrasto con H1, non c’è diretto collegamento tra la qualità percepita del brand e l’atteggiamento verso l’estensione. La compatibilità percepita tra le categorie di prodotto non ha coefficienti beta significativi nelle dimensioni della complementarietà e della sostituibilità. La variabile trasferibilità, invece, è sostanziale (0.15) e significativa (p < 0.05). Pertanto, l’influenza diretta della compatibilità sull’atteggiamento verso l’estensione di marca, H3, è rinvenibile per solo una delle tre variabili di compatibilità, la trasferibilità. Per quanto concerne l’interazione tra la qualità percepita e la compatibilità percepita tra le categorie di prodotto, essa è sostanziale e significativa nelle variabili della complementarietà (0.25 con p < 0.01) e della sostituibilità (0.18 con p < 0.05). L’interazione della qualità percepita con la variabile trasferibilità, invece, non è significativa (p > 0.15). I risultati del modello suggeriscono che l’alta qualità percepita della marca originaria è positivamente rilevante nella valutazione dell’estensione solo quando è presente una compatibilità tra le rispettive categorie basata sulla complementarietà o la sostituibilità. Gli autori, alla luce di questi risultati, si pongono anche la domanda di quale sia la variabile più indicata per descrivere la compatibilità. La trasferibilità e la complementarietà spiegano maggiormente la variabilità nelle valutazioni delle estensioni rispetto alla sostituibilità. Infatti, in un modello che ometta le suddette interazioni e che riassuma quindi in unici valori sia gli effetti indiretti che quelli indiretti delle tre variabili, i coefficienti (tutti con p < 0.01) delle prime due sono 0.24 e 0.17, e quello della terza è 0.08. Aaker e Keller, inoltre, evidenziano come, se si aggiungesse al modello un’interazione complementarietà / trasferibilità, il suo beta sarebbe - 0.17 e statisticamente significativo (p < 0.01) e gli altri coefficienti rimarrebbero sostanzialmente inalterati. La relazione negativa suggerisce che misurare la compatibilità su una sola delle due variabili è adeguato, mentre poco si guadagnerebbe considerandole entrambe. 121 CAPITOLO 4 La difficoltà percepita di realizzare l’estensione ha un beta significativo di 0.12, più alto di quello della variabile sostituibilità. Pertanto, il modello supporta l’ipotesi H4, secondo la quale un’estensione facile da realizzare è accolta in modo mediamente peggiore delle altre. Lo studio compiuto da Aaker e Keller consente loro di fare, riassumendo, diverse considerazioni. Gli autori premettono le debite cautele, che derivano dalle caratteristiche dello studio: in primis, il piccolo numero di brand considerati e i dati “meramente di correlazione”, che limitano la forza delle implicazioni. Tuttavia, con riferimento alle quattro questioni definite come gli scopi di indagine, gli autori si sentono di concludere provvisoriamente che: 1. Le idee circa gli attributi della marca originaria possono favorire o minare la valutazione che il consumatore fa dell’estensione: un’associazione positiva in una data categoria di prodotto può essere negativa per un’altra. Si rileva che spesso questo caso si riscontra per associazioni relative ad attributi concreti, mentre il trasferimento di opinioni “senza cambio di segno” avviene per attributi più astratti. 2. La percezione dei soggetti circa la qualità complessiva della marca originaria e quella sulla relazione, o compatibilità, tra le categorie di prodotto di provenienza e di estensione hanno un effetto congiunto sulla valutazione di una brand extension. La relazione tra la qualità positiva della marca originaria e la valutazione dell’estensione è forte solo in presenza di una base di compatibilità tra le due categorie di prodotto. 3. Ancora rispetto alla compatibilità, le misure di complementarietà e sostituibilità dei prodotti delle categorie originarie e di estensione interagiscono con la qualità percepita del parent brand nell’influenza sulle valutazioni dell’extension brand, mentre l’effetto della trasferibilità percepita di abilità e risorse da una classe all’altra di prodotto ha un effetto prevalentemente diretto. Complessivamente, questa trasferibilità e la complementarietà delle categorie di prodotto appaiono predittori migliori rispetto alla sostituibilità, e sembra esserci 122 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA un’interazione negativa tra le due. Gli autori giudicano pertanto adeguata una misura di compatibilità basata su una o sull’altra variabile, e non necessaria la considerazione di entrambe. 4. La percezione dei soggetti circa la difficoltà di realizzare l’estensione ha una relazione positiva con le valutazioni di questa, supportando l’ipotesi che un’estensione estremamente facile da realizzare è mediamente accettata con minor probabilità. Secondo gli autori, i consumatori interpreterebbero questo tipo di estensione come incongrua, o addirittura come un tentativo di sfruttamento e capitalizzazione della reputazione del brand per spuntare prezzi iniqui. Questa indagine e le sue relative conclusioni hanno rappresentato il punto di partenza per una serie di studi che, nel complesso, hanno contribuito a formare parte delle linee guida per estendere una marca presentate nel capitolo precedente. Il paragrafo successivo ne presenta alcuni. 4.3 LE RICERCHE SUCCESSIVE 4.3.1 Sunde & Brodie (1993) Questo studio di Lorraine Sunde e Roderick J. Brodie è stato pubblicato nel 1993 sulla rivista International Journal of Research in Marketing con il titolo “Consumer evaluations of brand extensions: Further empirical results”, e si tratta di una replica neozelandese dello studio di Aaker e Keller (A&K). L’obiettivo degli autori era quello di ampliare la base empirica di verifica delle ipotesi formulate dalla ricerca sulle estensioni di marca. Sunde e Brodie hanno testato le quattro ipotesi dello studio di A&K utilizzando, analogamente allo studio di riferimento, le reazioni dei consumatori a delle ipotetiche estensioni di sei marche note. 123 CAPITOLO 4 Metodologicamente, l’indagine ha cercato di replicare il più fedelmente possibile quella di riferimento: i brand sono stati selezionati con i criteri della notorietà e della non diffusa estensione al momento dell’indagine; le categorie di estensione sono state determinate in modo tale che fossero molto simili a quelle dello studio di A&K; infine, il questionario è stato predisposto con le stesse variabili e scale di misurazione. Dopo essere stato testato, il questionario è stato sottoposto a 157 studenti di economia, suddivisi quasi equamente tra undergraduate e post-experience. Ciascuno ha valutato nove estensioni (per metà del campione relative a tre marche e per metà alle altre tre), per un totale di 1413 osservazioni. Poiché le analisi preliminari non hanno evidenziato differenze statisticamente significative nelle risposte delle due categorie di studenti, i due campioni sono stati considerati sempre congiuntamente. Le correlazioni tra le variabili indipendenti erano tendenzialmente più alte di quelle di A&K. I risultati ottenuti dalla replica Sunde e Brodie presentano alcune differenze rispetto a quelli dello studio originale: innanzitutto, la qualità percepita del parent brand ha un effetto diretto sull’atteggiamento verso l’estensione (coefficiente di regressione di 0.67 e statisticamente significativo). Gli autori, ipotizzato che la differenza possa derivare anche dall’aver posto la domanda relativa molto presto nel questionario, rettificano dicendo che la sequenza delle domande non dovrebbe influenzarne il risultato. L’effetto dell’interazione tra la qualità percepita e il fit nello spiegare l’atteggiamento verso l’estensione non trova invece conforto in questo studio: tuttavia, Sunde e Brodie dubitano della validità di questo risultato (e del corrispondente di A&K) per le elevate correlazioni tra le due variabili indipendenti, che renderebbero i risultati di regressione poco predittivi. Per quanto riguarda l’effetto diretto della compatibilità percepita sulla qualità dell’estensione, questo studio conferma quanto ottenuto dal precedente, mentre supporta in misura minore l’ipotesi che la difficoltà percepita di realizzare l’estensione influisca positivamente sul giudizio sulla medesima. Gli autori considerano poi questi risultati in modo più “qualitativo”, avvicinandoli a quelli di Aaker e Keller (che nel frattempo, in uno studio del 124 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA 199236, rilevavano che l’importanza della compatibilità è maggiore in presenza di bassa qualità percepita del parent brand: questo risultato sembrerebbe coerente con l’effetto diretto dell’alta qualità percepita supportato dallo studio di Sunde e Brodie). Soprattutto, sollevano alcune questioni: si chiedono anzitutto quali siano le più corrette misurazioni della compatibilità percepita (problema metodologico ma anche e soprattutto concettuale) e dell’atteggiamento verso l’estensione (sebbene le correlazioni rilevate tra la probabilità di acquisto e la qualità percepita fossero piuttosto alte, gli autori ritengono ci siano margini di miglioramento); ipotizzano un possibile ruolo delle differenze culturali nelle differenze di valutazione dei consumatori (nella fattispecie, immaginano che il consumatore neozelandese, più informato ed esperto dell’americano, dia meno peso alla difficoltà che percepisce nella realizzazione dell’estensione). Fatte queste considerazioni, comunque, Sunde e Brodie concludono “provvisoriamente” che l’accettazione di una brand extension proposta sarà maggiore se (1) la qualità percepita della marca originaria è elevata, (2) c’è una compatibilità percepita tra le due categorie di prodotto, specialmente in termini di trasferibilità di abilità e complementarietà tra i due prodotti, e in grado minore (3) quando l’estensione avviene in una categoria di prodotto percepito come difficile da realizzare. Gli effetti di (1) e (2) potrebbero interagire, ma c’è poca certezza su questo a causa dell’elevata correlazione di cui sopra. La risposta di Aaker e Keller Il numero della rivista che riporta il contributo di Sunde e Brodie (International Journal of Research in Marketing 10 (1993)) ospita anche un commento di Aaker e Keller, titolato “Interpreting cross-cultural replications of brand extension research”: gli autori intendono rispondere e approfondire alcune delle questioni sollevate da S&B, affinché la ricerca successiva, in continua espansione, ne tragga vantaggio. In particolare, i due riflettono sulle principali discordanze tra gli studi A&K e S&B e concludono con tre osservazioni, non distanti da alcune presenti nello stesso studio S&B, che ne spiegano la 36 KELLER K.L., AAKER D.A, “The effects of Sequential Introduction of Brand extensions”, Journal of Marketing Research, 29 (February), 35-50. 125 CAPITOLO 4 natura. Innanzitutto, in una replica di uno studio di branding che si effettui in contesti culturali diversi, i ricercatori dovrebbero tenere conto delle relative specificità a tutti i livelli di decisione: nella scelta degli intervistati, negli stimoli forniti e nelle misure utilizzate. In secondo luogo, il potere predittivo di una ricerca correlativa è limitato e utilmente incrementabile con l’innesto di una componente qualitativa, come nello studio A&K: questa è molto utile per meglio comprendere, interpretare e “riempire qualitativamente” i dati quantitativi puri. La complessità dell’argomento, secondo gli autori, è tale da richiedere un approccio in cui convivano più tecniche e metodi. Infine, la sfida più pressante, nell’interpretazione delle diversità dei risultati ottenuti in contesti culturali diversi, è quella di comprenderne l’origine: sarebbe importante, in altre parole, comprendere i fattori per i quali in contesti culturali differenti un’estensione di marca è valutata su parametri differenti. Aaker e Keller concludono il loro commento richiamando, tuttavia, il sostanziale accordo, per quanto riguarda i punti fondamentali, tra il loro primo studio e quello di Sunde e Brodie, le cui osservazioni e questioni forniscono spunti e suggerimenti per approfondimenti successivi. 4.3.2 Bottomley e Holden (2001) Dopo Sunde e Brodie, molti altri studiosi, in varie parti del mondo, hanno replicato lo studio di Aaker e Keller, cercando di farlo nel modo più fedele possibile. Tuttavia, nonostante il tendenziale accordo della ricerca su molte delle ipotesi e delle conclusioni di A&K, le repliche hanno fornito spesso risultati contrastanti. La spiegazione più accreditata resta quella fornita dagli stessi autori in replica allo studio S&B: la mancanza di accordo sarebbe da addebitarsi alle variazioni “pratiche” negli studi, in termini di materiali e procedure, e alle differenze socioculturali nei diversi contesti. Nel 2001, Paul A. Bottomley e Stephen Holden hanno analizzato congiuntamente i dati di A&K e delle sette, fedeli repliche esistenti: in altre parole, hanno incorporato tutte le osservazioni in un unico dataset, e hanno 126 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA osservato questo con un duplice obiettivo: da un lato, comprendere come le repliche hanno cercato, rimanendo fedeli all’originale, di consentire confronti e trarre conclusioni di carattere generale. In particolare, gli autori si propongono anche di verificare le veridicità delle suddette spiegazioni di Aaker e Keller alla mancanza di accordo nella replica successiva; soprattutto, gli autori condividono l’obiettivo del filone di ricerca in questione, desiderando sviluppare una generalizzazione empirica di come i consumatori valutino una brand extension. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Journal of Marketing Research (Novembre 2001) con il titolo “Do We Really Know How Consumers Evaluate Brand Extensions? Empirical Generalizations Based on Secondary Analysis of Eight Studies”. Gli otto dataset, resi disponibili e considerati congiuntamente nell’analisi, derivano dagli studi di Aaker e Keller (1990)37, Sunde e Brodie (1993)38, Alexandre-Bourhis (1994), Nijssen e Hartman (N&H, 1994), Holden e Barwise (H&B, 1995)39, Bottomley e Doyle (B&D, 1996). Il problema più delicato da fronteggiare per i due studiosi è stato come sviluppare generalizzazioni da più dataset. Gli autori hanno effettuato una analisi secondaria centrando i residui, per formare una base standard per le successive considerazioni; hanno quindi combinato la loro analisi complessiva del dataset con un “conteggio”, per ciascuna delle ipotesi testate, degli studi supportanti le stesse. La generalizzazione è stata compiuta aggregando le osservazioni in tre set diversi: innanzitutto a livello di singoli studi, analizzati e confrontati nei risultati dopo averli resi tra loro omogenei con le tecniche di cui sopra; a livello di singola brand extension, verificando, estensione per estensione in ciascuno studio, il numero di volte in cui erano supportate le ipotesi del modello (che ricordiamo essere le medesime in tutti gli studi e quindi anche in questo), cioè il numero di coefficienti beta positivi e significativi; infine, a livello di “cultura”, analizzando i tre differenti dataset forniti da Holden e 37 106 anziché 107 soggetti, cioè 2120 osservazioni rispetto alle 2140 dello studio di Aaker e Keller originariamente pubblicato. 38 I risultati pubblicati da Sunde e Brodie nel 1993 erano basati su un campione di 1413 osservazioni, mentre quello ottenuto dagli autori ne comprende 1559. 39 Holden e Bairwise hanno raccolto tre diversi dataset in Inghilterra, Francia e Stati Uniti. 127 CAPITOLO 4 Barwise, che condividevano brand, estensioni, strumenti e procedure utilizzate e si prestavano per questo a confronti piuttosto attendibili40. La prima conclusione a cui gli autori giungono è che le valutazioni che i consumatori fanno delle brand extension sono determinate in prima istanza dalla qualità percepita del parent brand e dalla compatibilità tra la categoria di prodotto originaria e quella di estensione. Contrariamente al risultato di A&K, pertanto, gli autori rilevano un ruolo diretto importante della qualità percepita. Anche gli effetti diretti del fit sono significativi: in particolare, le variabili trasferibilità e complementarietà hanno un ruolo più importante della sostituibilità, nonostante gli autori ipotizzino che questo risultato possa derivare anche dal relativamente esiguo numero delle estensioni che introducano prodotti realmente sostituti. Da queste prime conclusioni, B&H deducono la possibilità che un’estensione possa non avere bisogno di una compatibilità buona su molte dimensioni per essere accolta positivamente. Pur se in misura minore, le valutazioni delle estensioni di marca dipendono anche dalle interazioni della qualità con la compatibilità percepita del brand (in particolare con la complementarietà e la trasferibilità di risorse e competenze dall’una all’altra categoria di prodotto) e dalla difficoltà percepita di realizzare l’estensione. Sebbene piuttosto pochi dei coefficienti delle variabili di interazione tra la qualità percepita del parent brand e la compatibilità percepita tra le categorie siano statisticamente significativi, la proporzione di beta positivi per le interazioni con la complementarietà e la trasferibilità è piuttosto alta. Discorso analogo va fatto per la variabile difficoltà, con beta in larga maggioranza positivi anche se con scarsa significatività statistica. Gli autori, con cautela, si sentono così di concordare con A&K sull’ipotesi che i consumatori valutino un’estensione in una categoria di prodotto “facile” come un’operazione incoerente o addirittura come un tentativo consapevole di spuntare premium price ingiustificati. 40 Le differenze significative tra i dataset di Holden e Barwise erano tre: i soggetti dell’indagine francese e americana erano esclusivamente studenti non lauerati, mentre in Inghilterra hanno partecipato allo studio anche laureati; a causa di una semplice omissione, nello studio inglese le misure di difficoltà non sono state codificate per l’estensione Vuarnetabbigliamento sportivo; il questionario somministrato in Francia era stato dall’inglese tradotto in lingua francese. 128 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA Le differenze culturali non cambiano il fatto che gli effetti diretti della qualità e della compatibilità percepita contribuiscono positivamente e significativamente alle valutazioni delle estensioni di marca, tuttavia influenzano il peso relativo di questi fattori. Gli autori suggeriscono ai brand manager di marche globali di considerare attentamente i driver che sottostanno al potenziale successo di un’estensione in vari contesti socioculturali, e auspicano che la successiva ricerca rifletta sui fattori puramente culturali che fanno rispondere i soggetti in modo diverso. Gli autori credono anche che sia necessario superare il concetto di fit come mera compatibilità tra categorie di prodotto, e incorporare le ricerche che riflettono sul ruolo delle associazioni specifiche del brand. 4.3.1 Völkner e Sattler (2006) La ricerca sull’estensione di marca nella prospettiva del consumatore si è arricchita di contributi che, aldilà della provenienza geografica, hanno saputo incorporare in modo completo i risultati precedenti. Lo scorso paragrafo ha presentato un articolo che, rispetto allo studio di riferimento di Aaker e Keller, ha operato in profondità, mantenendone intatte le ipotesi concettuali e verificandole con maggior forza predittiva grazie ad un campione più ampio. I tedeschi Franziska Völkner e Henrik Sattler, in uno studio presentato nel 2006, agiscono invece in ampiezza, testando, ancora con un modello di regressione, un numero maggiore di predittori dell’atteggiamento del consumatore verso un nuovo prodotto proposto da una marca nota. L’articolo, titolato “Drivers of Brand Extension Success”, è uscito nell’aprile 2006 sul vol.70 della rivista Journal of Marketing (pp. 18-34). Gli autori individuano due questioni che hanno ricevuto relativamente scarsa attenzione nella ricerca precedente: innanzitutto, l’importanza relativa dei predittori nello spiegare il successo delle estensioni di marca, perché ciascuno degli studi precedenti non ne aveva mai considerati più di quattro congiuntamente; in secondo luogo, queste ricerche hanno testato solo la 129 CAPITOLO 4 relazione diretta tra il successo della brand extension (variabile dipendente) e i potenziali fattori di successo (variabili indipendenti), non tenendo conto delle relazioni di dipendenza tra i fattori considerati. Völkner e Sattler, come primo passo del loro studio, hanno rigorosamente passato al setaccio la letteratura esistente sull’estensione di marca, identificando quindici “drivers of brand extension success” dimostratisi significativi (p < 0.10) in almeno uno degli studi considerati. Dopo averne esclusi tre per la loro scarsa influenza sul fenomeno indagato e due per la difficoltà di misurazione con il metodo dell’intervista al consumatore, gli autori hanno deciso di incorporare nel loro modello dieci potenziali fattori che potrebbero determinare il successo di un’estensione di marca, suddivisi in quattro gruppi. Sono riassunti nella tab. 4.4. Tab. 4.4: I potenziali fattori di successo delle estensioni di marca Qualità percepita della marca originaria Fiducia nella marca originaria Esperienza passata con la marca Contesto di marketing Supporto di marketing dell'estensione Accettazione del dettagliante Coerenza tra marca originaria e prodotto di Relazione tra la marca originaria e estensione il prodotto di estensione Legame tra i benefici della marca originaria e gli attributi della sua categoria di appartenenza Caratteristiche della categoria di Rischio percepito prodotto di estensione Innovazione del consumatore Caratteristiche della marca originaria Queste potenziali determinanti, riferendosi a 45 studi, costituiscono un sostanziale sunto, appunto in ampiezza, dei risultati della ricerca sul tema della brand extension. Gli autori hanno condotto anche delle interviste a brand manager e ricercatori tedeschi per ricavarne eventuali altri fattori potenziali, ma senza ottenerne di complessivamente significativi. Se i dieci potenziali predittori considerati vanno a costituire altrettante ipotesi del modello di regressione costruito, gli autori, ancora derivandole dalla letteratura e con l’apporto di esperti, identificano ben tredici relazioni strutturali tra questi che potrebbero influire sulla variabile dipendente, che 130 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA come da consuetudine è l’atteggiamento del consumatore verso l’estensione di marca. A titolo di esempio, lo studio di Völkner e Sattler verifica l’eventuale influenza diretta positiva del supporto di marketing sull’accettazione dei dettaglianti e sulla coerenza percepita tra il parent brand e il prodotto di estensione. Complessivamente, il modello di regressione costruito dagli autori consta di ben 23 ipotesi. Le marche e le estensioni scelte sono entrambe reali: dopo più fasi preliminari, si sono identificate 22 marche e tre estensioni per ciascuna su cui condurre l’indagine. Le variabili sono state misurate con più domande di un questionario, sottoposto a un campione rappresentativo, in termini di età e sesso, della popolazione tedesca. Le scale di misurazione sono simili a quelle della ricerca precedente. Le interviste, affidate a studenti di marketing, sono avvenute porta a porta, con una successiva, parziale, verifica telefonica. Grazie alla numerosità degli intervistatori, le osservazioni finali, ancora una volta pari al numero dei rispondenti per il numero di estensioni testate, è stato molto elevato (2426 x 3 = 7278, poi ridotto a 6668 escludendo rispondenti per i quali le categorie di estensione non erano rilevanti). I risultati ottenuti spingono gli autori e identificare cinque principali fattori capaci di influire sul successo di un’estensione di marca: la coerenza tra marca originaria e prodotto di estensione, la fiducia e l’esperienza con la marca, l’accettazione dei dettaglianti, il supporto di marketing. Queste cinque determinanti, pertanto, sono i tratti di cui i brand manager dovrebbero maggiormente preoccuparsi nel lancio di un nuovo prodotto. Völkner e Sattler mettono in guardia gli stessi brand manager dal considerare tutti i fattori come ugualmente forti nella loro influenza sull’accettazione del prodotto da parte del consumatore, nonché dal dimenticare gli effetti “interni” tra i fattori stessi. 131 CAPITOLO 4 4.4 CONSIDERAZIONI PERSONALI Non sarebbe corretto sostenere che gli studi presentati forniscono una sintesi davvero esaustiva della ricerca sulla brand extension, tanto essa è estesa: piuttosto, rappresentano nell’economia del presente lavoro dei significativi punti di vista sul fenomeno indagato, dal punto di vista teorico e metodologico. Come si è premesso in apertura di tesi e ribadito ad inizio capitolo, queste indagini sono state tanto utili nei risultati (per la teoria della prima parte) quanto preziose nei punti controversi (per lo studio empirico che ci si accinge a presentare). Già abbondantemente discussi i primi, questo paragrafo conclusivo sulla ricerca passata mette in luce i secondi, conducendo idealmente alla lettura della parte successiva. Il campione Una prima questione che merita di essere approfondita è quella del campione utilizzato nelle indagini. Lo studio di Aaker e Keller, così come la maggioranza degli studi successivi, ha utilizzato un campione di studenti. Dall’evidenza che questo campione è scarsamente rappresentativo, quantomeno in termini di età e istruzione, dell’intera popolazione di riferimento, altri studiosi hanno compiuto scelte diverse: sacrificando la facile raggiungibilità dei rispondenti in nome di una maggiore rappresentatività degli stessi, Völkner e Sattler, e prima di loro Barrett, Lye e Venkateswarlu41, hanno stratificato il campione in modo che fosse demograficamente rappresentativo della popolazione, rispettivamente, tedesca e neozelandese. Tuttavia, anche questa scelta non sembra del tutto corretta: affinché le risposte siano attendibili, infatti, si ritengono imprescindibili entrambi gli assunti del modello di Aaker e Keller, cioè che le marche scelte per il test siano tutte note e rilevanti per il campione. Se la prima condizione è immediatamente comprensibile e soddisfabile scegliendo dei brand molto rinomati e per questo conosciuti in tutte le fasce di età del campione scelto, 41 BARRETT, J., LYE, A. e VENKATESWARLU, P. (1999), “Consumer perceptions of brand extensions: generalising Aaker and Keller’s model’’, Journal of Empirical Generalisations in Marketing Science, Vol. 4, pp. 1-21. 132 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA la seconda è più sottile e di difficile traduzione pratica: ipotizzando di scegliere prima le marche da testare e poi il campione da intervistare, questo non dovrebbe comprendere individui che eccedono il target potenziale delle marche stesse, o meglio il loro pubblico: termine con il quale si intende un’entità più ampia della precedente, ammettendo chi conosce e ha un’idea rispetto alle marche in questione, cioè le persone per cui, genericamente, la marca rileva. Se una marca è testata su un campione, per esempio, delle età più disparate, con ogni probabilità essa sarà davvero rilevante soltanto per una parte di questo, e non per la sua totalità come è viceversa richiesto. Così, se un campionamento rappresentativo dell’intera popolazione nazionale può sembrare più corretto alla luce della sua maggiore pregnanza statistica e in vista di una maggiore possibilità di generalizzarne i riscontri, sconta dei vizi dal punto di vista dei presupposti (e quindi, ex post, dei risultati) di marketing. Le variabili dipendenti Un altro elemento da riconsiderare criticamente è il modo in cui la ricerca ha misurato l’atteggiamento del campione verso le estensioni di marca. Lo studio di Aaker e Keller, così come le repliche successive, ha utilizzato come variabile dipendente del modello di regressione la media aritmetica tra la qualità attesa dell’estensione di marca e la propensione all’acquisto del nuovo prodotto. Questa scelta sembra discutibile per due motivi: innanzitutto, per la natura dell’item “propensione all’acquisto”, troppo ancorata a caratteristiche dei rispondenti non misurate del modello. Non è corretto, per esempio, chiedere ad un astemio la sua propensione all’acquisto di una birra; più in generale, è poco informativo chiedere ad un consumatore la propensione all’acquisto di un nuovo prodotto di una categoria per la quale non nutre o non ha mai nutrito interesse, a meno che non si misuri preventivamente, appunto, il suo atteggiamento di consumo verso la categoria. In secondo luogo, esiste anche un problema nel rapporto tra questo item e l’altro utilizzato per misurare l’atteggiamento dei rispondenti 133 CAPITOLO 4 verso l’estensione di marca, cioè la qualità attesa di questa. La bassa correlazione tra i due (0.67 per Aaker e Keller, 0.49 per Sunde e Brodie, addirittura più bassa in altri studi qui non presentati42) indica che, probabilmente, non sempre la media aritmetica è la maniera più corretta di trattarli, per i motivi sopra spiegati descrivendo la natura della “propensione all’acquisto”. Sarebbe quindi più opportuno considerarli come due variabili dipendenti separate, utili in modo sinergico nell’indagare sull’atteggiamento complessivo del rispondente verso l’estensione di marca. Le variabili indipendenti L’ultimo studio presentato, quello di Völkner e Sattler, ha l’indubbio merito di cercare di derivare dalla ricerca passata e sintetizzare in un unico modello tutte le determinanti precedentemente testate dell’atteggiamento del consumatore verso l’estensione di marca. Tuttavia, proprio per l’ampiezza del suo spettro di ipotesi e per la complessità del costrutto da queste derivante, esso sembra “eccedere sul piano teorico” facendo perdere spendibilità pratica al suo quadro complessivo. L’auspicio degli autori, di utilizzare rigore e scientificità nella comprensione dell’importanza relativa delle determinanti dell’atteggiamento del consumatore, è certamente condivisibile; la sensazione nella fattispecie, tuttavia, è quella di inseguire una perfezione solo teorica, mancando la profondità necessaria a rendere l’analisi significativa nelle sue troppe componenti. Peraltro, alcune delle ipotesi che Völkner e Sattler verificano mal si prestano ad essere testate con lo strumento da loro utilizzato, cioè il questionario al consumatore: variabili come l’adeguatezza del supporto di marketing o l’accettazione dei dettaglianti sono certamente importanti nel determinare il successo di un’estensione di marca, ma poco hanno in comune con la “dimensione percettiva” del consumatore. Appunto, influiranno sul successo della strategia ma non sull’accettazione del nuovo prodotto da parte del potenziale cliente; inoltre, si tratta di oggetti assolutamente non conoscibili da 42 Ib. 134 IL CONSUMATORE E LE ESTENSIONI DI MARCA un individuo pur molto informato, che si presterebbero ad essere testati in un modello che indaghi sul successo finale della strategia più che sulla visione di questa da parte del consumatore. Perché i modelli siano efficaci, pertanto, la scelta delle variabili indipendenti da incorporare dovrebbe essere assolutamente guidata dalla teoria, evitando tuttavia errori di traduzione dell’obiettivo inseguito nello strumento prescelto; resta peraltro condivisibile la priorità di verificare l’estendibilità dei risultati precedentemente ottenuti prima di includere nuove variabili nella ricerca. La concettualizzazione della coerenza Considerato il problema della scelta delle variabili indipendenti, un’altra questione controversa è quella della loro concettualizzazione: in particolare, gli studiosi hanno lungamente dibattuto sulla natura del fit (compatibilità, o coerenza) tra i contesti di marca ed estensione. La soluzione adottata da Aaker e Keller nel 1990, nonché nelle repliche successive, è la compatibilità tra categorie di prodotto originaria e di estensione. Si tratta, tuttavia, di una soluzione assolutamente superata e per certi versi anacronistica, che riconduce e riduce la marca unicamente alla sua categoria di prodotto di riferimento. Nella prima parte, invece, si è visto come il brand sia ben di più, dotato, nello schema successivo dello stesso Keller, di una immagine propria che trascende quella della categoria di prodotto di riferimento. Il merito di aver colmato questo vuoto va a Broniarczyk e Alba, che in uno studio del 199443 hanno dimostrato l’importanza delle associazioni specifiche al brand nell’estensione di marca. Ad oggi, uno studio sull’estensione di marca nella prospettiva del consumatore non può prescindere dalla considerazione delle specificità del brand rispetto alla sua categoria di appartenenza; più in generale, considerata la recente evoluzione teorica, deve interpretare correttamente il fit nel modello utilizzato, incorporandolo in maniera aggiornata ed efficace. 43 BROZNIARCZYK, S.M.; ALBA, J.W. (1994), “The Importance of the Brand in Brand Extensions”, Journal of Marketing Research, Vol. 31, pp. 214-228. 135 CAPITOLO 4 Nella terza e ultima parte del lavoro si cercheranno di risolvere questi nodi, costruendo un modello anzitutto soddisfacente sul piano teorico; si presenterà poi lo studio condotto che, compatibilmente con gli strumenti a disposizione, ne rappresenta la diretta traduzione empirica; infine, i risultati ottenuti consentiranno di esporre le personali conclusioni sulla valutazione delle estensioni di marca da parte del consumatore. 136 PARTE III 5. CARATTERISTICHE DELLO STUDIO 5.1. Scopo della ricerca rifocalizzare l’obiettivo 5.2. Il modello di regressione riconsiderare le premesse e rinnovare 5.3. Marche e nuovi prodotti gli oggetti di indagine 5.4. Metodo di indagine il questionario CARATTERISTICHE DELLO STUDIO 5.1 SCOPO DELLA RICERCA Lo studio empirico che ci si accinge a presentare si colloca idealmente nel filone di ricerca di cui il capitolo precedente ha presentato un estratto: l’oggetto di indagine è pertanto la strategia di brand extension, osservata nella prospettiva del consumatore. In senso lato, si tratta ancora una volta di interrogarlo e comprendere, grazie alla costruzione di un modello di regressione e all’utilizzo di marche note ed estensioni ipotetiche, come questi percepisca un’estensione di marca e formi le sue valutazioni. Più puntualmente, questo studio si rapporta in maniera duplice rispetto alla ricerca precedente: se da un lato ne fa propri molti assunti e concetti, incorporandoli in maniera aggiornata, dall’altro, con alcuni sostanziali elementi di novità, cerca di apportare un contributo originale. Per quanto concerne il primo aspetto, si sono già individuate le due dimensioni sulle quali si è mossa la ricerca passata sull’estensione di marca nella prospettiva del consumatore. Agendo in ampiezza, alcuni studiosi hanno testato nei loro modelli un numero di ipotesi crescente, cercando di spiegare il successo di una brand extension con un gran numero di fattori. In questo studio, tuttavia, si riflette su un numero di variabili esplicative pari allo studio originale, per diversi motivi: innanzitutto, coerentemente con il focus del lavoro e con lo strumento utilizzato per l’indagine, il questionario, si ritiene poco corretto un modello che si basi su argomenti che esulano dalle percezioni del consumatore. In secondo luogo, si condivide l’auspicio, già riportato, di soffermarsi ancora a riflettere sulla natura dei driver conosciuti prima di incorporarne di nuovi. Infine, si trova poco conveniente riflettere su ipotesi che, verificandosi solo in determinate circostanze di mercato o per fattispecie di marche, avrebbero scarsa predittività a livello generale. Generalizzare i risultati precedenti è stato esattamente lo scopo di chi, con repliche fedeli, ha operato in profondità rispetto allo studio originale di Aaker e Keller: tuttavia, se l’obiettivo è largamente condivisibile, le applicazioni hanno difettato, progressivamente nel tempo, di efficacia e spendibilità pratica, perché alcuni dei fondamenti su cui i due ricercatori si basavano si 141 CAPITOLO 5 sono nel frattempo evoluti. Si spiegheranno i modi in cui lo studio ha cercato di riconsiderare questi concetti in maniera aggiornata, presentando le soluzioni adottate per i “punti controversi” enunciati nello scorso capitolo. Il contributo più spiccatamente originale di questo studio empirico, tuttavia, si concreta nel tentativo di dare spessore alla ricerca sul consumatore, focalizzandosi ancora di più su di esso: oltre a studiare le relazioni strutturali tra le sue percezioni, si verificherà se esse dipendono, e in quale modo, da chi è il consumatore rispetto a ciò che osserva. In altre parole, catturando questa sorta di “identità di marketing del consumatore” in una logica di estensione di marca, si verificherà se e come il suo punto di vista influisca sulla sua prospettiva. 5.2 IL MODELLO DI REGRESSIONE 5.2.1 Le variabili dipendenti Il successo della strategia di brand extension coincide, nella prospettiva del consumatore, con un atteggiamento positivo di questo verso il nuovo prodotto proposto dalla marca esistente. Si è visto come molte ricerche precedenti abbiano formalizzato questo atteggiamento come una risultante di due fattori: la qualità attesa dell’estensione di marca e la propensione all’acquisto della stessa (dalla lettura degli articoli non è chiaro se fosse data per scontata in tutti l’intenzione di acquisto da parte del rispondente nella classe di prodotto dell’estensione). Si è scelto di mantenere nel modello questi due fattori, perché entrambi catturano in modo diverso l’atteggiamento del consumatore. Tuttavia, come si è precedentemente argomentato, non si condivide la scelta di accorparli in un’unica variabile: si trova più corretto mantenere due variabili separate e utilizzare modelli di regressione diversi su diverse parti del campione. Il modello presenta quindi due variabili dipendenti: la qualità dell’estensione di marca attesa dal consumatore, che è riscontrabile indistintamente presso l’intero campione interrogato, poiché tutti 142 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO possiedono delle idee o aspettative legittime su un nuovo prodotto proposto da una marca nota; la propensione all’acquisto del nuovo prodotto, che invece, secondo questa impostazione, ha senso solo se domandata ai consumatori della categoria del prodotto in questione. Si verificherà e confronterà con la ricerca precedente il rapporto tra le due variabili e quello tra queste e le variabili esplicative. 5.2.2 Le variabili indipendenti Qualità della marca originaria Scegliere le variabili indipendenti del modello di regressione significa ipotizzare quali percezioni del consumatore determinino il suo atteggiamento verso l’estensione di marca. Dalla ricerca precedente si è fedelmente mutuata l’ipotesi che la qualità della marca originaria percepita dal consumatore abbia un’influenza diretta sul suo atteggiamento verso l’estensione di marca. Questa ipotesi è stata formulata per la prima volta nel 1990 nello studio di Aaker e Keller, senza però trovare conforto nei risultati ottenuti dai due; tutte le repliche successive, tuttavia, ne hanno dimostrato la veridicità, facendo della qualità del brand originario uno dei driver più “condivisi” del successo di una brand extension nella prospettiva del consumatore: a parità di altri elementi, un nuovo prodotto di una marca ritenuta “di qualità” è meglio accolto di uno proposto da una marca che gode di meno stima. Bisogna osservare che la percezione di “qualità” del consumatore non dipende solo dagli attributi tangibili dei prodotti della marca, ma dalla sua immagine in generale. Coerenza Un altro risultato della ricerca precedente è che l’atteggiamento positivo del consumatore verso un’estensione di marca ha una sua determinante fondamentale dal rapporto di coerenza di questa con la marca originaria. A ben guardare, anzi, nelle ipotesi di molti degli studi analizzati il rapporto di 143 CAPITOLO 5 coerenza (o compatibilità, fit), non si sarebbe dovuto stabilire tra il brand e la sua estensione, ma tra le rispettive categorie di prodotto. Si è detto della necessità di superare questa impostazione, per abbracciarne una che non riduca unicamente la marca alla classe di prodotto che rappresenta. La categoria di appartenenza, che rappresenta certamente un’associazione importante per un brand, non esaurisce tutto il significato che questo riveste nella mente del consumatore. Una marca, infatti, nasce come prodotto e si stacca progressivamente da esso assumendo un’immagine propria, nella quale l’associazione relativa al prodotto può giocare un ruolo anche subalterno: è banale ricordare, a questo proposito, le marche di lusso, connotate nella mente del consumatore alla luce del loro significato simbolico prima che funzionale. Un concetto moderno ed evoluto di brand riconosce il valore e l’entità delle sue associazioni specifiche, e così deve fare anche il concetto di “coerenza con l’estensione” che si sceglie di adottare nel modello di regressione. Tuttavia, si dissente parzialmente dalla scelta di alcuni studiosi di “suddividere la coerenza” con la categoria di estensione in due parti, l’una relativa alla categoria di provenienza e l’altra alle specificità del brand44. Si trova più corretto interrogare il consumatore chiedendogli di quantificare la coerenza complessiva tra il brand e la categoria di prodotto nella quale è ipotizzato esso si voglia estendere: all’interno di questa, la coerenza tra le categorie avrà un peso relativo variabile, il cui valore predittivo (in ottica di regressione) è tuttavia già contenuto nel valore complessivo espresso. Si è scelto, per confermare questo costrutto relativo al fit, di far giudicare al consumatore sia la coerenza tra la categoria della marca originaria e la categoria di estensione che quella tra il brand e la categoria di estensione (che, analogamente agli studi precedenti, è l’unica informazione data circa l’ipotetico nuovo prodotto): ci si attende, innanzitutto, una correlazione significativa tra le due entità, che dovrebbe essere tanto più alta quanto più la marca è connotata dai prodotti che contraddistingue; inoltre, le variabili dipendenti dovrebbero risultare maggiormente correlate al fit complessivo (e come tale comprensivo anche delle associazioni specifiche 44 BUSACCA B., BERTOLI G., LEVATO F. (2006), “Brand extension & brand loyalty”, Atti del V Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Venezia 20-21 Gennaio. 144 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO del brand) che a quello tra categorie di prodotto. Già da un’analisi preliminare, pertanto, ci si attende una conferma della rilevanza della coerenza tra il brand e la categoria di estensione, seconda delle variabili esplicative del modello. 5.2.3 Le variabili di stratificazione: la matrice degli atteggiamenti di consumo La scelta del campione Il capitolo precedente ha abbondantemente approfondito le problematiche di definizione delle caratteristiche del campione: nonostante tutti gli studiosi fossero concordi nel reputare corretti i criteri di notorietà e rilevanza delle marche scelte per gli intervistati, ciascuna indagine aveva nella pratica operato scelte di campionamento diverso. Si è anche spiegato come questi criteri, oltre che condizione necessaria per l’indagine, rappresentino da soli, se rispettati rigorosamente, la garanzia di validità del campionamento. Il problema della definizione del campione è stato delicato in quanto, alla volontà di dare all’analisi compiuta una validità non solo “metodologica” ma anche di risultati, si è dovuta considerare la raggiungibilità, con i mezzi a disposizione, del campione stesso. Per questo motivo, le scelte delle caratteristiche degli intervistati, delle marche e nuovi prodotti oggetto di indagine sono andate di pari passo. Per motivi di ordine teorico e pratico si è scelto di intervistare un campione di individui “giovani”, con un’età variabile dai 18 ai 30 anni e senza distinzioni di sesso. Come si vedrà nell’ultimo paragrafo del capitolo, che a partire dal questionario costruito e distribuito descrive nel dettaglio tutte le “traduzioni operative” di queste scelte, si sono poi determinate quattro categorie di prodotto per le quali questa fascia di età nutre interesse: abbigliamento sportivo, motori di ricerca su Internet, birra, telefoni cellulari. I brand effettivamente testati sono leader nelle rispettive di categorie, e per questo, 145 CAPITOLO 5 come si vedrà, indubbiamente noti e rilevanti per il campione intervistato. Gli intervistati sono stati raggiunti nel territorio del Veneto, in particolar modo nella provincia di Venezia. La struttura interna del campione Dal punto di vista demografico, il campionamento su un unico strato di popolazione, raggiungibile con relativa facilità, dovrebbe garantire numerosità di intervistati e validità pari alle precedenti indagini. L’elemento di maggior novità che si apporta alla ricerca con questo studio, tuttavia, riguarda proprio il maggior peso teorico che viene dato all’identità degli intervistati: nella fattispecie, si ritiene che alcune loro caratteristiche che potremmo definire “di marketing” potrebbero avere un ruolo nel determinare le risposte. Un caso banale è già stato presentato per mostrare un limite degli studi descritti: il fatto che un individuo consumi o meno un prodotto si rifletterà direttamente sulla sua probabilità di acquisto del medesimo. A titolo di esempio, non è corretto chiedere ad un astemio la sua probabilità di acquisto del nuovo vino marchiato Heineken. Si tratta di una considerazione già importante perché, se implementata, può correggere un vizio di fondo della ricerca; ma aldilà di questo caso limite, si ritiene interessante verificare se e in che modo gli atteggiamenti precostituiti di consumo degli individui determinino in qualche misura i suoi giudizi sulle estensioni di marca e la maniera in cui li formano. Le variabili indipendenti del modello, cioè la qualità percepita della marca originaria e la coerenza percepita di questa con l’estensione, potrebbero, a seconda dei casi, avere un peso diverso nello spiegare l’atteggiamento complessivo dei consumatori verso l’estensione di marca. Si costruiranno, a partire dal questionario, degli strati di campione statistico in base agli atteggiamenti degli intervistati verso le marche originarie e le categorie di estensione. Prima di procedere, giova ricordare che il campione degli intervistati non corrisponde al campione statistico utilizzato dal modello, 146 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO che come nelle ricerche precedenti è uguale al numero degli intervistati per il numero di estensioni di marca che ciascuno è chiamato a giudicare. L’atteggiamento di consumo verso la categoria di estensione è misurato sulla base della frequenza di consumo o di utilizzo (a seconda del tipo di bene) del prodotto, su tre livelli: non consumatore/utilizzatore (livello 0), consumatore/utilizzatore poco frequente (livello 1), consumatore/utilizzatore molto frequente (livello 2). L’atteggiamento di consumo verso la marca originaria è invece misurato sulla base del legame “affettivo” del consumatore con la marca, anche questo su tre livelli: non consumatore/utilizzatore consumatore/utilizzatore “semplice” della della marca marca (livello (livello 0), 1), consumatore/utilizzatore “fedele”, “coinvolto” rispetto alla marca (livello 2). Se la frequenza di consumo è un concetto che non richiede spiegazioni, è opportuno chiarire il significato della base della seconda variabile. Essa misura uno stato d’animo, un atteggiamento appunto, che va oltre il mero consumo: si scopre se un consumatore consuma un certo brand e se, in caso positivo, il suo consumo rispecchia un “legame affettivo con la marca”, una “fedeltà cognitiva” oltre che comportamentale nei confronti del brand. Non si deve correre il rischio di considerare queste variabili come quantitative: si tratta infatti di due variabili di stratificazione, che congiuntamente individuano la posizione di ciascuna osservazione statistica fornita dagli intervistati nella matrice della fig. 5.1. 147 CAPITOLO 5 Fig 5.1: Matrice degli atteggiamenti di consumo Consumatori “fedeli” 2 Consumatori “semplici” 1 Non consumatori Atteggiamento verso la marca Atteggiamento verso la categoria di estensione 0 Consumatori molto frequenti Consumatori poco frequenti Non consumatori 2 1 0 Ogni osservazione statistica sarà caratterizzata dall’atteggiamento di consumo rispetto alla categoria di estensione e dall’atteggiamento di consumo verso la marca: così, se l’estensione “a” della marca “x” si trova nella casella in basso a sinistra della matrice, significa che l’intervistato che ha fornito l’osservazione è un consumatore frequente della categoria di prodotto “a” e non consuma la marca “x”; se si trova nella casella in alto a destra, l’intervistato è un consumatore fedele della marca “x” e non consuma la categoria “a”. 148 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Grazie a questo strumento, si potrà strutturare l’analisi di regressione su diverse porzioni del campione statistico, per verificare le eventuali differenze nei pesi delle determinanti dell’accettazione della brand extension. Considerando l’intera matrice, cioè tutte le osservazioni fornite dagli intervistati, si otterrà una situazione identica a quella degli studi precedenti, cioè indifferenziata sul piano degli atteggiamenti di consumo (fig. 5.2). L’unica variabile dipendente da considerare con questo dataset, pertanto, sarà la qualità attesa dell’estensione di marca, perché, come si è spiegato, ha poco significato domandare la probabilità di acquisto di un prodotto a chi non lo consuma (a meno di obiettivi più specifici, che verranno peraltro considerati nelle conclusioni). Fig. 5.2: Consumatori indifferenziati Atteggiamento verso la marca Atteggiamento verso la categoria di estensione 2 1 0 2 1 0 n.b.: le aree grigie sono quelle effettivamente considerate nell’analisi. 149 CAPITOLO 5 Per considerare efficientemente la variabile probabilità di acquisto, invece, si dovranno escludere dal dataset le osservazioni contenute nella casella di destra della matrice (non consumo/utilizzo del prodotto della categoria di estensione), come da tabella 5.3. Fig. 5.3: Consumatori della categoria di estensione Atteggiamento verso la marca Atteggiamento verso la categoria di estensione 2 1 0 2 1 0 150 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Oltre a questa prima scomposizione del campione statistico, che “corregge” un errore della ricerca precedente, la matrice consente di strutturare l’analisi in altri modi: per esempio, si potrà verificare l’andamento delle variabili dipendenti ed esplicative limitatamente ai consumatori “fedeli” alle marche che si estendono, come da fig. 5.4. Fig. 5.4: Consumatori fedeli alla marca Atteggiamento verso la marca Atteggiamento verso la categoria di estensione 2 1 0 2 1 0 Utilizzando la matrice in modi come questi, si potranno scoprire eventuali relazioni sottostanti al modello di regressione comunemente utilizzato per esplorare le percezioni del consumatore rispetto alle estensioni di marca. Poiché si opererà non soltanto sul campione statistico nella sua interezza ma anche su sue singole porzioni, l’esigenza che questo fosse numeroso è stata particolarmente pressante: si sono riusciti ad ottenere 223 questionari compilati, pari a 3568 osservazioni statistiche. Questo numero garantirà un numero di record adeguato non soltanto per le analisi compiute al massimo livello di aggregazione, ma anche per i singoli frammenti di campione di volta in volta utilizzati. 151 CAPITOLO 5 Declinare l’analisi in base agli atteggiamenti del consumatore aggiunge ad essa spessore, mantenendone intatte ampiezza (le variabili considerate, sebbene “interpretate e aggiornate”, sono quelle su cui la ricerca passata ha trovato convergenza) e profondità (grazie ad un numero adeguato di osservazioni statistiche). Nel capitolo conclusivo si riprenderà la matrice degli atteggiamenti di consumo alla luce di una sua potenziale applicazione “manageriale”, che ha le sue premesse nella natura di questo studio ma che in parte lo trascende. 5.2.4 L’equazione del modello Descritte tutte le variabili del modello di regressione, se ne riporta l’equazione di base: Qualità attesa estensione di marca = β0 + + β1 qualità percepita della marca originaria + + β2 coerenza percepita tra il brand e la categoria di estensione Questo semplice modello, che comprende pertanto due variabili esplicative, è verificabile sulla totalità del campione statistico e in ogni sua singola porzione. Si verificheranno, tuttavia, anche ulteriori relazioni tra le altre variabili considerate. 152 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO 5.3 MARCHE E NUOVI PRODOTTI 5.3.1 La scelta delle marche note Dando ora per scontate le caratteristiche del campione di intervistati, che ricordiamo essere dei “giovani”, affrontiamo il problema della determinazione delle marche e delle estensioni su cui si sono chieste le valutazioni. Si è deciso di testare quattro marche e quattro estensioni per ciascuna marca. Le prime, si ricorderà, dovevano sottostare innanzitutto al vincolo di rilevanza: il primo passo, pertanto, è stato quello di individuare quattro categorie di prodotto per le quali i rispondenti nutrissero interesse e sulle quali potessero riflettere con una certa consapevolezza. Si sono così scelte le categorie dell’abbigliamento sportivo, dei motori di ricerca su Internet, della birra e dei telefoni cellulari. Si tratta di prodotti o servizi con i quali i giovani hanno un rapporto di consumo o utilizzo frequente o, in caso contrario, di non consumo comunque consapevole: in altre parole e a titolo di esempio, si ritiene che anche i giovani poco avvezzi all’utilizzo di Internet sappiano che cos’è un motore di ricerca. Determinate le categorie di prodotto, la fase successiva è stata scegliere il brand da testare all’interno di ciascuna. Il secondo vincolo da soddisfare, la notorietà, ha indirizzato il processo di scelta verso dei brand leader di categoria, che fossero indubbiamente conosciuti da tutti. Nella categoria dell’abbigliamento sportivo, la marca scelta è stata NIKE: si tratta di un brand globale, il cui logo col “baffo” è noto a tutti i giovani e che, specialmente con riferimento all’ultimo quindicennio, si è sempre contraddistinto per i forti investimenti in comunicazione, in particolare nel campo della pubblicità in televisione. Si tratta di una marca che dovrebbe destare opinioni controverse, proprio alla luce della sua globalità e per il tamtam avvenuto in epoca ancora recente sui fenomeni di sfruttamento minorile che l’avrebbero coinvolta. Tra i motori di ricerca su Internet si è optato per lo standard, GOOGLE: si è detto nella prima parte del lavoro della crescita del suo valore, sull’onda di un aumento dell’utenza che si può considerare pari alla diffusione della rete 153 CAPITOLO 5 stessa. Per comprenderne la penetrazione tra gli utenti di Internet, si pensi che i navigatori del web anglosassoni arrivano a sostituire il verbo cercare con il verbo to google. Si tratta inoltre di una marca che ha saputo estendersi in molteplici categorie di servizio online, facendo leva sulla sua elevata credibilità (il nome del brand infatti è spesso utilizzato come endorser) e soprattutto sul suo già enorme bacino di utenti: tra i tanti servizi lanciati negli ultimissimi anni, si ricordi la posta elettronica Gmail, le mappe stradali Google Maps, le viste dal satellite Google Earth. Tra le marche di birra, la scelta è caduta su HEINEKEN, per ulteriori motivi rispetto alla sua ovvia notorietà. In primo luogo, nella scelta si sono considerate le marche finora utilizzate dalla ricerca, e tra tutte Heineken è l’unica a rispettare appieno i requisiti necessari nella realtà in cui si opera. In secondo luogo, questo brand si è evoluto negli ultimi anni diventando molto più di una marca di birra: ha investito molto in comunicazione, specialmente in eventi e rassegne musicali (la manifestazione Heineken Jammin’ Festival su tutti), per diventare la “birra del divertimento” e un “momento di aggregazione” prima ancora di un prodotto. In questo modo, con riferimento agli obiettivi del lavoro, Heineken è una marca su cui anche chi non è un consumatore frequente di birra può riflettere con una certa consapevolezza e legittimità: uno dei casi di brand non di lusso in cui le associazioni non relative alla categoria di prodotto di riferimento hanno un peso rilevante nell’immagine complessiva. Nella categoria dei telefoni cellulari, il brand scelto è stato NOKIA: presente in tutti i segmenti di mercato e con un numero molto alto di modelli, la quota di mercato che detiene è elevatissima. In un settore che si muove con decisione verso l’integrazione in un unici apparecchi di funzioni che un tempo richiedevano specializzazione (comunicazione di vario tipo, ascolto musica, fotografia, ecc.), si testeranno invece eventuali estensioni del leader in categorie vicine e lontane. Le quattro marche scelte per l’indagine sono pertanto Nike, Google, Heineken e Nokia. 154 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO 5.3.2 La determinazione delle estensioni ipotetiche Una volta scelte le marche, si sono determinate con criterio di vario tipo le ipotetiche estensioni su cui interrogare il consumatore, come si illustrerà caso per caso. Va notato che questa fase è stata portata a termine di pari passo con la predisposizione della prima parte del questionario, e le scelte delle estensioni hanno considerato, pur non essendone mai condizionate, esigenze di carattere computazionale. Si tornerà su questo aspetto più “pratico” nel prossimo paragrafo, mentre ora si elencheranno una ad una le classi di estensione determinate, evidenziandone quando utile o interessante qualche caratteristica specifica. Si deve osservare che, queste ipotetiche estensioni di marca, pur essendo gli “oggetti dell’indagine”, ne rappresentano a ben guardare un mezzo: una sorta di pretesto per provocare nella mente del consumatore un insieme di percezioni del quale scoprire l’eventuale struttura. Anche se di volta in volta si potranno compiere delle analisi specifiche, ciascun giudizio fornisce un’osservazione assolutamente confrontabile con le altre. L’estensione di marca rappresenta l’etichetta delle percezioni del consumatore su di essa. Nike • LETTORE MP3: chi fa sport, e in particolare jogging, ascolta spesso musica in cuffia; infatti, Nike e Apple hanno di recente lanciato insieme “Sport Kit”, un piccolo sistema che tramite sensori sincronizza la musica dell’iPod con l’attività fisica svolta dall’utente. • PALESTRE: l’appeal “globale” del brand è potenzialmente spendibile per aprire una grande catena di palestre. • JEANS: ipotesi di abbigliamento casual e non sportivo. • BEVANDE ENERGETICHE: comuni associazioni all’”energia fisica”. 155 CAPITOLO 5 Google • BEVANDE ENERGETICHE: ipotesi di estensione volutamente forzata. Potenziale leva nell’onomatopea “goggle goggle” utilizzata in alcuni fumetti. • LIBRERIE: altra ipotesi, concettualmente meno estrema, di tentativo di estensione offline. • RADIO ONLINE: dopo Google Video e l’acquisizione di YouTube, ipotesi di un servizio online di catalogazione e selezioni musicali. • TELEFONO CELLULARE: ipotesi formulata sulla scorta di una voce di corridoio circolata nel dicembre 2006, secondo la quale Google avrebbe in programma il lancio di un telefono (in collaborazione con Orange) che integrerebbe i servizi già offerti. Heineken • POPCORN: ipotesi direttamente derivata dallo studio di Aaker e Keller. • VINO: come la precedente, derivata dallo studio di Aaker e Keller. • PUB: in alcuni luoghi d’Italia Heineken possiede già dei pub; si approfitta dell’assenza e della pressoché totale non notizia di questi nei luoghi dove è avvenuta l’indagine per verificare se l’estensione, come si prevede, raggiunge o meno dei punteggi elevati. • VILLAGGI VACANZE: dopo l’impegno profuso nel patrocinio e nell’organizzazione di eventi dedicati ai giovani, si testa l’ipotesi di un’estensione che faccia ugualmente leva sull’aggregazione. 156 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Nokia • VILLAGGI VACANZE: ipotesi di estensione piuttosto difficile, coerente con il pay-off “connecting people”. • FOTOCAMERA DIGITALE: estensione vicina alla categoria dei telefoni cellulari, che già la incorporano in numerosi modelli. • NAVIGATORE SATELLITARE: leva sulla connettività. • COMPUTER PORTATILE: l’associazione alla portabilità propria di una marca di telefoni cellulari, oltre che quella più ovvia alla tecnologia, potrebbe essere sfruttabile in questa ipotesi di estensione. 5.4 METODO DI INDAGINE 5.4.1 Natura e struttura del questionario Lo strumento utilizzato per raccogliere la percezioni del consumatore è, analogamente alle precedenti ricerche, il questionario. La predisposizione di questo ha dovuto considerare diversi aspetti, e la sua articolazione finale costituisce il risultato di tre precise istanze. Innanzitutto, cosa ovvia ma non scontata, si è cercato di porre le domande in modo tale che gli intervistati le comprendessero nel modo più corretto con riferimento alle ipotesi del lavoro; in questo modo, si è cercato di assicurarsi che potessero fornire risposte attendibili rispetto agli obiettivi dello stesso. In secondo luogo, si è cercato di non eccedere in onerosità per i rispondenti, sia in termini di tempo che di difficoltà di comprensione. Per entrambi gli aspetti e in particolare per il secondo, tuttavia, va considerato il vantaggio derivante dal campione utilizzato per l’indagine: oggi, i giovani sono spesso abituati a rispondere a questionari, e spesso dotati di un livello di istruzione 157 CAPITOLO 5 mediamente più alto di persone appartenenti ad altre fasce di età. Questo ha consentito di “spingere un po’ più in là” la soglia della difficoltà del questionario, perchè aderisse al meglio agli obiettivi dei quali era stato investito. È rimasta invece immutata e rispettata la condizione di massima chiarezza delle domande poste, che si sono formulate in modo tale da non lasciare spazio a fraintendimenti. La dimestichezza dei giovani con Internet ha consentito di utilizzare con successo anche questo strumento per la somministrazione e la raccolta dei questionari. Il terzo aspetto considerato nella stesura del questionario, meno rilevante ma citato per completezza e correttezza, si riferisce ad esigenze di tipo pratico: nella prospettiva (e nella speranza) di riuscire a raggiungere un gran numero di persone e ottenere così una gran mole di dati, si è ragionato in modo tale che l’ordine delle domande riducesse l’onerosità della successiva fase di immissione dei dati stessi nel foglio elettronico. Tuttavia, tale necessità ha avuto un ruolo soltanto nella prima parte del questionario, non essendo le successive influenzabili in tal senso. La prima pagina del questionario è riservata a una brevissima presentazione e guida per il rispondente. Viene anche lasciata al consumatore la facoltà di scrivere il nome e un recapito telefonico o e-mail. Questa voce è stata inserita come soluzione ex ante all’eventualità di questionari incompleti, per rendere possibile, qualora compilata, un successivo contatto. Il questionario è di fatto strutturato in due parti: nella prima si rilevano gli atteggiamenti di consumo (cioè le variabili di stratificazione del modello di regressione) e la coerenza percepita tra le categorie di prodotto originaria e di estensione; nella seconda si ricavano i valori che riassumono le percezioni del consumatore su ciascuna estensione di marca. I prossimi due paragrafi descriveranno le due parti logiche, descrivendone una per una le domande ed evidenziandone la rispondenza alle premesse teoriche. 158 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Fig. 5.5: Prima pagina del questionario Questo questionario riguarda un’indagine su marche e nuovi prodotti che sto compiendo per la mia tesi. Ti verrà chiesto di descrivere alcune tue abitudini di consumo e il tuo atteggiamento verso alcune marche. Nel caso di domande con risposte multiple, ti prego di scegliere tra le possibilità proposte quelle che più si avvicinano al reale, voltando pagina solo dopo aver risposto a tutte le domande. Se lo compili a computer, ti chiedo gentilmente di sostituire una “x” al pallino nelle domande a scelta multipla. Una volta compilato, ti chiedo di rimandarmelo a [indirizzo e-mail], meglio se salvato con il tuo nome. Ti ringrazio per la collaborazione. Gabriele _____________________________________________________________ (facoltativo) Nome e Cognome N° tel. Indirizzo e-mail 5.4.2 La rilevazione degli atteggiamenti di consumo La prima domanda che viene posta riguarda le abitudini di consumo del rispondente rispetto alle categorie di prodotto originarie e di estensione. Si è scelto di inserire anche le prime sulla scorta del fatto che una di esse, i telefoni cellulari, è anche di estensione: poiché l’inserimento delle altre tre non appesantiva il questionario, si è propeso per il mantenere viva la possibilità di considerazioni non previste al momento della redazione. 159 CAPITOLO 5 Fig. 5.6: Rilevazione delle frequenze di consumo/utilizzo 160 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Questa prima domanda a risposte multiple cattura la “variabile di stratificazione dell’atteggiamento di consumo verso le categorie di prodotto/servizio” e contempera più esigenze: osservando categoria per categoria, lo stabilire degli intervalli temporali di frequenza sempre informativi rispetto all’obiettivo (si consumatore/utilizzatore, ricordino i tre livelli consumatore/utilizzatore della variabile: poco non frequente, consumatore/utilizzatore molto frequente); formare dei cluster di categorie in base alle frequenze di consumo/utilizzo, in modo da alleggerire la lettura dell’intervistato e rendere più attendibili le risposte alla domanda; non ultimo, ricercare un ordine non troppo dissimile da quello in cui le estensioni saranno giudicate successivamente, per economizzare la fase di trasposizione dei dati nel foglio elettronico e diminuire la possibilità di commettere errori. Ciascuna osservazione assumerà quindi il valore 0, 1, o 2 per la variabile di stratificazione in questione, a seconda che la frequenza della rispettiva categoria di estensione sia espressa da una crocetta nella prima, seconda o terza colonna. Fig. 5.7: Codifica delle frequenze di consumo/utilizzo NUM BRAEXT CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA QUALITA PROP. FIT ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND EXT ACQ. BTC 001 nikmp3 1 0 001 nikpal 1 2 001 nikjea 1 1 001 nikbev 1 0 001 goobev 2 0 001 goolib 2 1 001 goorad 2 1 001 gootel 2 2 001 heipop 1 1 001 heivin 1 2 001 heipub 1 2 001 heivil 1 0 001 nokvil 2 0 001 nokfot 2 0 001 noknav 2 0 001 nokcom 1 0 161 CAPITOLO 5 La domanda successiva mira a classificare le osservazioni sulla base dell’altra variabile di stratificazione, l’atteggiamento verso la marca originaria. Fig. 5.8: Rilevazione degli atteggiamenti verso le marche In questo caso, si sta individuando l’atteggiamento verso Nike. Per farlo viene fornito all’intervistato un set piuttosto comprensivo di marche appartenenti alla sua categoria di prodotto, l’abbigliamento sportivo. Gli si chiede innanzitutto quali utilizza: nel caso non utilizzi Nike, le quattro estensioni di questa marca avranno livello 0 come determinazione della variabile di stratificazione. Nel caso l’intervistato invece sia un utilizzatore del brand, si verifica l’eventualità in cui questo si identifichi con esso. La domanda viene posta in modo forte (“quali marche saresti?”), tale da avere risposta positiva solo in caso di presenza di un effettivo legame con il brand, di un rapporto che trascende il consumo e lo ricopre di un significato più evoluto. Evocare un set di marche è necessario per scoprire se il brand che si sta testando “spicca” davvero sulle altre. Per questo motivo, viene posto a due il limite al numero di marche nelle quali il consumatore può dire di identificarsi: se fossero di più, il significato del suo “sforzo di identificazione” sarebbe inevitabilmente indebolito dalla suddivisione della stessa su più brand. In questo modo, invece, l’intervistato è obbligato a fare una scelta che consente di valutare se considera Nike in maniera davvero speciale rispetto alle altre marche (valore 2 nella variabile) o se, viceversa, ha con essa un rapporto di consumo più semplice (valore 1). 162 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Si osservino due elementi: in primo luogo, per la natura delle categorie di consumo, il limite al numero di marche nelle quale identificarsi è posto pari a due nel caso dell’abbigliamento sportivo e della birra, mentre per quanto riguarda i motori di ricerca e i telefoni cellulari questo è di una sola marca. Inoltre, non è necessario (e non sarebbe peraltro possibile) che il set di marche di volta in volta evocato comprenda tutte le possibili scelte di consumo: l’interesse reale è soltanto verso l’atteggiamento dell’intervistato al brand da testare, e la presenza delle altre marche è strumentale alla rilevazione di questo. Fig. 5.9: Codifica degli atteggiamenti verso le marche NUM BRAEXT CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA QUALITA PROP. FIT ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND EXT ACQ. BTC 001 nikmp3 1 0 1 001 nikpal 1 2 1 001 nikjea 1 1 1 001 nikbev 1 0 1 001 goobev 2 0 001 goolib 2 1 001 goorad 2 1 001 gootel 2 2 001 heipop 1 1 001 heivin 1 2 001 heipub 1 2 001 heivil 1 0 001 nokvil 2 0 001 nokfot 2 0 001 noknav 2 0 001 nokcom 2 0 Dopo la domanda relativa agli atteggiamenti verso le marche, si chiede all’intervistato un giudizio in una scala da 1 a 7 sulla compatibilità tra la categoria di prodotto di cui si sta parlando e le quattro categorie di cui successivamente si verificheranno le estensioni. 163 CAPITOLO 5 Fig. 5.10: Valutazione della coerenza tra categorie di prodotto Si tratta esattamente del category-to-category fit teorizzato da Aaker e Keller e incorporato anche in numerose delle ricerche successive. Coerentemente con l’argomentazione già riportata che è sufficiente un punteggio elevato su una delle sue possibili dimensioni (complementarietà, sostituibilità, trasferibilità nei processi produttivi) per avere una valutazione corretta della compatibilità tra categorie, è lasciata libertà all’intervistato sui criteri con cui giudicarla. È fondamentale chiedere all’intervistato il giudizio su questo tipo di coerenza prima che siano introdotte le marche testate, in modo tale che le associazioni specifiche di queste non possano in alcun modo incidere, anche a livello inconscio, sulla “percezione di categoria di prodotto” originaria. Fig. 5.11: Codifica della coerenza tra le categorie di prodotto NUM BRAEXT CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA QUALITA PROP. FIT ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND EXT ACQ. BTC 001 nikmp3 1 0 1 3 001 nikpal 1 2 1 3 001 nikjea 1 1 1 5 001 nikbev 1 0 1 2 001 goobev 2 0 001 goolib 2 1 001 goorad 2 1 001 gootel 2 2 001 heipop 1 1 001 heivin 1 2 001 heipub 1 2 001 heivil 1 0 001 nokvil 2 0 001 nokfot 2 0 001 noknav 2 0 001 nokcom 2 0 164 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Fatta eccezione per quest’ultima variabile, appositamente “isolata” dalle altre, la prima parte del questionario ha quindi il ruolo di identificare l’intervistato in base ai suoi atteggiamenti di consumo, collocando ciascuna delle osservazioni che fornirà in una casella della matrice degli atteggiamenti che si è presentata. 5.4.3 La misurazione delle percezioni sulle estensioni di marca Dopo che l’intervistato ha risposto a queste domande per ciascuna categoria di prodotto, passa alle valutazioni sulle brand extension, richieste considerando una marca alla volta: la prima domanda posta è relativa alla qualità complessivamente percepita della marca originaria. Per questo, come per gli altri giudizi in merito alle variabili esplicative e dipendenti, vengono utilizzate delle scale di Likert da 1 a 7. Fig. 5.12: Valutazione e codifica della qualità percepita della marca _________ NUM BRAEXT CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND 001 nikmp3 1 0 1 3 3 001 nikpal 1 2 1 3 3 001 nikjea 1 1 1 5 3 001 nikbev 1 0 1 2 3 001 goobev 2 0 2 2 001 goolib 2 1 2 6 001 goorad 2 1 2 5 001 gootel 2 2 2 2 001 heipop 1 1 2 5 001 heivin 1 2 2 3 001 heipub 1 2 2 7 001 heivil 1 0 2 2 001 nokvil 2 0 2 2 001 nokfot 2 0 2 5 001 noknav 2 0 2 6 001 nokcom 2 0 2 5 165 QUALITA EXT PROP. ACQ. FIT BTC CAPITOLO 5 Immediatamente dopo questa valutazione sul brand originario, si cerca di evocarne qualche associazione. Lo scopo di questa domanda è sottile: chi avrà scritto i propri pensieri disporrà, nel formulare i giudizi successivi, di un riferimento “veridico” già scritto; al contempo, anche l’intervistato restio a formalizzare le associazioni sarà indotto a una veloce “presa di coscienza” della marca, prima delle imminenti valutazioni sulle estensioni che dovrà fornire. Fig. 5.13: Evocazione delle associazioni alla marca originaria Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a NIKE: Vengono quindi introdotte le ipotetiche estensioni di marca. Si chiede all’intervistato di valutare, ancora una volta su scale 1-7, la qualità attesa di ciascun prodotto/servizio, la probabilità di acquisto/utilizzo dello stesso, la coerenza percepita tra le estensioni e la marca originaria. Si tratta del brandto-category fit che verrà incorporato nel modello di regressione: la coerenza “complessiva” tra il brand e la sua ipotetica estensione, che nella teorizzazione di questo lavoro comprende al suo interno la coerenza tra le due categorie di prodotto/servizio di riferimento e quella tra le altre associazioni della marca, specifiche, e la nuova categoria. 166 CARATTERISTICHE DELLO STUDIO Fig. 5.14: Valutazione e codifica delle estensioni di marca NUM BRAEXT CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND QUALITA EXT PROP. ACQ. FIT BTC 001 nikmp3 1 0 1 3 3 4 1 3 001 nikpal 1 2 1 3 3 3 1 3 001 nikjea 1 1 1 5 3 4 2 4 001 nikbev 1 0 1 2 3 4 1 2 001 goobev 2 0 2 2 7 001 goolib 2 1 2 6 7 001 goorad 2 1 2 5 7 001 gootel 2 2 2 2 7 001 heipop 1 1 2 5 5 001 heivin 1 2 2 3 5 001 heipub 1 2 2 7 5 001 heivil 1 0 2 2 5 001 nokvil 2 0 2 2 7 001 nokfot 2 0 2 5 7 001 noknav 2 0 2 6 7 001 nokcom 2 0 2 5 7 Si lascia infine la possibilità all’intervistato di suggerire egli stesso un’estensione per la marca, giudicandola con gli stessi parametri. 167 CAPITOLO 5 Fig. 5.15: Suggerimento di un nuovo prodotto Ripetute le domande sulle estensioni di marca anche per le restanti tre marche, l’intervistato avrà terminato di compilare il questionario e completato tutte le osservazioni necessarie per il modello di regressione. Fig.5.16: Codifica completa del questionario 001 NUM BRAEXT CONS. CONS. CONS. FIT QUALITA ORIGINE EXT BRAND CTC BRAND QUALITA EXT PROP. ACQ. FIT BTC 001 nikmp3 1 0 1 3 3 4 1 3 001 nikpal 1 2 1 3 3 3 1 3 001 nikjea 1 1 1 5 3 4 2 4 001 nikbev 1 0 1 2 3 4 1 2 001 goobev 2 0 2 2 7 3 1 2 001 goolib 2 1 2 6 7 5 7 7 001 goorad 2 1 2 5 7 5 4 5 001 gootel 2 2 2 2 7 4 1 2 001 heipop 1 1 2 5 5 5 4 4 001 heivin 1 2 2 3 5 2 1 3 001 heipub 1 2 2 7 5 6 6 7 001 heivil 1 0 2 2 5 4 1 2 001 nokvil 2 0 2 2 7 4 1 2 001 nokfot 2 0 2 5 7 7 6 6 001 noknav 2 0 2 6 7 7 5 7 001 nokcom 2 0 2 5 7 7 5 4 I dati raccolti per ciascun intervistato sono stati poi trasposti in un unico foglio elettronico visivamente simile alla fig. 5.16, pronti per l’elaborazione. Per questa fase si è utilizzato in piccola misura Microsoft Excel e in gran parte il software statistico R. I risultati, corredati delle modalità di ottenimento, sono presentati nel prossimo capitolo. 168 6. RISULTATI DELLO STUDIO 6.1. Gli atteggiamenti di consumo il campione nella matrice 6.2. Analisi preliminare un primo sguardo ai risultati 6.3. Analisi di regressione la struttura delle percezioni del consumatore 6.4. Le estensioni di marca suggerite le idee degli intervistati RISULTATI DELLO STUDIO 6.1 GLI ATTEGGIAMENTI DI CONSUMO 6.1.1 Gli atteggiamenti verso marche e categorie di estensione La prima analisi da compiere è quella delle caratteristiche di consumo del campione degli intervistati, con riferimento alle marche e alle classi di prodotto su cui sono stati interrogati. Comprendere da subito gli atteggiamenti verso le marche è importante per due ordini di motivi: in primo luogo, per avere una conferma circa la bontà delle scelte operate nel determinare i brand da testare; in secondo luogo, per cominciare a scoprire la struttura dell’insieme di osservazioni nei termini di una delle due dimensioni della “matrice degli atteggiamenti” presentata nel capitolo scorso. In questa prima analisi degli atteggiamenti di consumo si considerano come unità statistiche i 223 individui: in seguito, e in particolare nell’analisi di regressione, esse saranno i set di giudizi forniti, pari a 223 x 16 = 3568 osservazioni. Tab. 6.1: Qualità percepita e atteggiamento verso le marche________________ MARCA QUALITA' MEDIA PERCEPITA ATTEGGIAMENTO VERSO LA MARCA Non consumatori Consumatori "semplici" Consumatori "fedeli" GOOGLE HEINEKEN NIKE 6.20 4.77 5.10 1,35% 32,73% 27,80% 34,53% 42,27% 42,15% 64,13% 25,00% 30,04% NOKIA 6.10 18,92% 24,77% 56,31% TOTALE 5.55 20,16% 35,92% 43,92% Guardando i valori totali, ci si accorge innanzitutto di come la qualità percepita dei brand da parte degli intervistati sia decisamente elevata: un punteggio di 5.55 in una scala da 1 a 7 è da ritenersi senza dubbio significativo della qualità complessiva del set di marche testato. Osservando i singoli brand, si nota una leggera 171 spaccatura: Google e Nokia, CAPITOLO 6 rispettivamente con 6.20 e 6.10, sono considerati di qualità eccellente, mentre Nike e Heineken, con 5.10 e 4.77, raggiungono un punteggio medio meno elevato anche se comunque buono. Questi risultati si possono anche interpretare come un indicatore di correttezza delle scelte operate nella determinazione delle marche, che si ricorderà essere state fatte con i criteri della notorietà e della rilevanza: riesce difficile immaginare che il consumatore attribuisca qualità mediamente molto elevate a marche che non conosce in una certa misura. Un risultato “meno sbilanciato sulla scala” non sarebbe stato informativo in questo senso, ma qualità elevate (e viceversa molto basse) lasciano presupporre una conoscenza discreta degli oggetti delle domande. Fig. 6.1: Atteggiamento verso le marche_________________________________ Gli atteggiamenti verso le marche mostrano innanzitutto una grande quantità di osservazioni fornite da consumatori “fedeli alla marca” in ipotetica estensione: il 43,9% sul totale. Il dato origina in primo luogo dalla grande quantità di “utilizzatori fedeli” dei brand Google (64,13%) e Nokia (56,31%): più della metà degli intervistati si riconosce in almeno una di queste marche. 172 RISULTATI DELLO STUDIO È significativo notare che solo due su 223 intervistati hanno dichiarato di non utilizzare Google, dato certamente determinato dall’età del campione: anche nel caso dello strato “non consumatori”, quindi, questa marca ha più delle altre contribuito a determinare il risultato, complessivamente basso, del set di brand, pari al 20,16%. Una osservazione su cinque, pertanto, non proviene da consumatori o utilizzatori delle marche testate. Il restante 35,92% delle osservazioni è fornito dai consumatori che fanno uso delle marche senza riconoscersi o avere con queste un particolare legame “affettivo”. Heineken e Nokia (entrambe sopra il 42%) sono i brand che hanno il maggior numero di consumatori “semplici”, oltre ad una distribuzione più uniforme anche negli altri strati: potremmo dire, in questo senso, che il dato sull’atteggiamento di consumo degli intervistati verso le marche conferma la “spaccatura della qualità” a cui ci siamo già riferiti in precedenza. Del resto, il consumo di una marca è un fenomeno spiegabile in una sua parte molto rilevante dalla qualità percepita della marca stessa. A questo proposito, si potrebbe introdurre un altro elemento di criticità, dato dal consumo della rispettiva categoria delle marche originarie. Tuttavia, sebbene questo dato possa in un certo senso aiutare a ponderare il consumo della marca, o a “depurarlo” dai non consumatori della classe di prodotto di appartenenza, si sposterebbe eccessivamente il focus di questa analisi preliminare: gli atteggiamenti di consumo sono infatti variabili di stratificazione, ed interessa studiarli non in modo intrinseco ma nella misura in cui potranno connotare le prospettive di valutazione delle estensioni di marca. È pertanto più che sufficiente osservare, in questo primo momento, un andamento crescente piuttosto definito della percezione di qualità della marca originaria all’aumentare di livello nella variabile di stratificazione dell’atteggiamento di consumo verso la marca stessa. Le associazioni fornite dagli intervistati approfondiscono il significato di “qualità” dato dal giudizio numerico fornito dagli intervistati per caratterizzare in modo più ricco la percezione della marca. Google e Nokia, le marche considerate migliori del set, hanno rimarcato la loro qualità anche negli attributi che si sono viste assegnate: la prima in termini di “facilità”, “velocità” 173 CAPITOLO 6 di utilizzo, “reperibilità di qualunque informazione”; la seconda in termini di “affidabilità”, “resistenza”, “semplicità”. In particolare con riferimento a Nokia, si tratta di associazioni positive che dovrebbero essere generalmente spendibili per le eventuali estensioni “tecnologiche” del brand. La codifica delle associazioni a Nike e Heineken è invece più complessa, vista la specificità di molti degli attributi espressi, talora anche discordi nel merito. Nike, a questo proposito, è stata spesso ricordata per le sue “pubblicità”, ma a una percezione diffusa di “qualità dei prodotti” hanno fatto da contraltare idee riconducibili ad un “cattivo rapporto qualità/prezzo” e all’essere “fuori moda” o “non più al passo coi tempi”. Ancora, è emerso il carattere “globale” del brand ed alcuni atteggiamenti negativi legati allo “sfruttamento dei bambini” nei processi di produzione. Heineken, analogamente, ha avuto nel suo sapore un punto controverso, essendo dai detrattori considerata “dal gusto cattivo”; molti la considerano una birra ”standard”, “giovane” e ne citano la “freschezza”. La seconda variabile di stratificazione utilizzata per identificare le osservazioni fornite dagli intervistati è l’atteggiamento di consumo verso le categorie di prodotto di ipotetica estensione delle marche, misurato in termini di frequenza. Questa rilevazione è funzionale al successivo studio degli atteggiamenti verso le estensioni di marca, e non è quindi tra gli scopi del lavoro analizzare i consumi con profondità. Si osservi dalla tab. 6.2 che, a livello aggregato, gli intervistati hanno fornito delle osservazioni distribuite piuttosto uniformemente sui tre livelli di consumo: non consumatori, consumatori poco frequenti e consumatori molto frequenti sono presenti tutti in modo numeroso, con una prevalenza dei primi e dei terzi. 174 RISULTATI DELLO STUDIO Tab. 6.2: Gli atteggiamenti di consumo verso le categorie di estensione CONSUMO NELLA CATEGORIA CATEGORIA DI ESTENSIONE BEVANDE ENERGETICHE COMPUTER PORTATILE FOTOCAMERA DIGITALE JEANS LIBRERIE LETTORE MP3 NAVIGATORE SATELLITARE PALESTRE POPCORN PUB RADIO ONLINE TELEFONO CELLULARE VILLAGGI VACANZE VINO TOTALE Non consumatori Consumatori poco frequenti Consumatori molto frequenti 71,6% 39,5% 19,7% 0,9% 13,1% 19,7% 79,8% 47,1% 53,2% 2,7% 63,5% 2,2% 47,7% 11,7% 37,0% 21,6% 15,2% 31,4% 21,5% 63,5% 30,0% 11,2% 13,5% 43,2% 30,5% 23,0% 0,9% 30,2% 35,6% 26,4% 6,8% 45,3% 48,9% 77,6% 23,4% 50,2% 9,0% 39,5% 3,6% 66,8% 13,5% 96,9% 22,1% 52,7% 36,6% 6.1.2 La matrice degli atteggiamenti di consumo Le analisi delle due variabili di stratificazione vanno integrate per comprendere come il campione delle osservazioni ottenute dagli intervistati si articola nelle due corrispondenti dimensioni: in questo modo, si potrà anche verificare se lo studio potrà, come si auspica, essere “declinato” su singole frazioni del campione. La fig. 6.2 presenta la matrice degli atteggiamenti di consumo con all’interno delle singole caselle le rispettive percentuali del totale delle osservazioni. 175 CAPITOLO 6 Fig. 6.2: Il campione secondo la matrice degli atteggiamenti di consumo Atteggiamento verso la marca Atteggiamento verso la categoria di estensione 2 1 0 2 1 0 15,9% 11,5% 16,6% totale consumatori 43,9% "fedeli" 13,5% 9,4% 12,9% totale consumatori 35,9% "semplici" 7,1% 5,5% 7,6% totale non consumatori 20,2% marca totale consumatori molto frequenti totale consumatori poco frequenti totale non consumatori 36,5% 26,4% 37,1% La percentuale di osservazioni provenienti da consumatori (poco o molto frequenti) delle categorie di estensione è il 66.9%: si tratta di 2232 delle 3547 osservazioni complessive45. Questa è pertanto la numerosità del campione per il quale si potrà utilizzare anche la variabile propensione all’acquisto come dipendente, senza timore di includere delle osservazioni che potrebbero fornire informazioni poco significative. I consumatori “fedeli” (variabile di stratificazione “atteggiamento verso la marca” di livello 2) rappresentano il 43,9% del campione, pari a 1558 osservazioni statistiche. Una percentuale così larga non era prevedibile con 45 Delle 3568 osservazioni ottenute, 21 hanno dei valori mancanti nelle variabili di stratificazione e sono state escluse. 176 RISULTATI DELLO STUDIO precisione ma auspicabile: poiché si compiranno delle analisi soltanto su questa frazione del campione, la sua numerosità è un’importante discriminante per la validità dei risultati che si otterranno. Utilizzare il modello solo su questo strato pone in essere, di fatto, una replica degli studi precedenti con riferimento esclusivo ai consumatori più “legati affettivamente” al brand: i rispettivi risultati avranno pertanto, aldilà del loro rapporto con quelli generali dell’intero campione, un significato proprio, limitato a questo tipo di consumatore. La struttura di base delle osservazioni statistiche, cioè il suddividersi del campione all’interno della matrice degli atteggiamenti, è pertanto “favorevole”: essa consente, insieme alla necessaria numerosità delle osservazioni stesse, di compiere come auspicato nel capitolo precedente anche delle analisi a un livello di aggregazione minore di quello complessivo. 6.2 ANALISI PRELIMINARE 6.2.1 I risultati medi delle estensioni di marca Prima di analizzare il rapporto tra le variabili osservate, è utile osservarne i singoli punteggi a livello di brand extension. La tab. 6.3 ricapitola le qualità attese delle estensioni di ciascuna marca: si può osservare in maniera semplice, senza strutturarli, quali sarebbero gli atteggiamenti dei consumatori verso i nuovi prodotti ipoteticamente lanciati da Nike, Google, Heineken, Nokia. Il campione di intervistati raggiunti sembra non avere atteggiamenti particolarmente negativi verso alcuna delle estensioni ipotetiche di Nike, accogliendone anzi la catena di palestre in modo molto positivo. Se Google proponesse radio online queste sarebbero ben accolte, mentre, tra le estensioni offline, solo le librerie sembrerebbero poter raccogliere consensi, a differenza di telefoni cellulari e soprattutto bevande energetiche. La qualità attesa dei pub Heineken è molto elevata, mentre quella delle altre estensioni 177 CAPITOLO 6 è mediocre, o addirittura molto bassa nel caso del vino. Nokia sembrerebbe avere buon gioco nel lancio dei nuovi prodotti “tecnologici” testati, incontrando invece problemi se decidesse di proporre dei villaggi vacanze. Si sono utilizzati una terminologia e dei condizionali “all’insegna della cautela”, coerentemente con la natura della variabile che si sta osservando: si ricordi che si tratta di un giudizio di qualità attesa accordata dai consumatori a prodotti rispetto ai quali non è stata fornita alcuna informazione. Si è misurata una sorta di predisposizione verso le estensioni di marca, reazione che potrebbe mutare con ulteriori o successive specificazioni. Come si è già detto, si osserva il primo momento dell’atteggiamento verso l’estensione: una condizione che, sebbene verosimilmente necessaria, nulla dice circa la possibile evoluzione dello stesso in seguito ad un lancio “reale” e non ipotetico del nuovo prodotto. Tab. 6.3: Qualità delle estensioni di marca MARCA QUALITA' EXT. ESTENSIONE JEANS 5,54 4,09 3,96 LETTORE MP3 3,68 RADIO ONLINE TELEFONO CELLULARE 4,99 4,14 3,25 BEVANDA ENERGETICA GOOGLE 2,02 PUB POPCORN HEINEKEN 5,61 3,69 2,96 VINO HEINEKEN 1,95 NAVIGATORE SATELLITARE COMPUTER PORTATILE 5,44 5,30 5,05 VILLAGGI VACANZE NOKIA 2,76 PALESTRE NIKE GOOGLE HEINEKEN NOKIA BEVANDA ENERGETICA LIBRERIE VILLAGGI VACANZE FOTOCAMERA DIGITALE 178 RISULTATI DELLO STUDIO La tab. 6.4 presenta i risultati medi ottenuti dalle sedici estensioni in modo più completo, per ciascuna delle variabili (non di stratificazione) osservate. L’ordine è decrescente in base alla qualità attesa. I pub Heineken sono l’estensione (che abbiamo detto essere più che ipotetica, anche se non nel territorio di indagine) con la qualità complessivamente attesa più alta (5,61), e anche l’unica ad avere un punteggio medio di compatibilità brand-to-category (BTC) superiore a 6. Come previsto, si tratta di un’estensione accolta con largo consenso dal campione, in virtù della coerenza (anche se questo rapporto di causalità è da dimostrare) tra il prodotto e l’immagine del brand e un luogo di aggregazione come il pub. Tab. 6.4: Risultati medi delle estensioni di marca QUAL. EXT. PROP. ACQUISTO QUAL. BRAND FIT BTC FIT CTC BEVANDA ENERGETICA GOOGLE 5,61 5,54 5,44 5,30 5,05 4,99 4,14 4,09 3,96 3,69 3,68 3,25 2,96 2,76 2,02 5,30 3,52 3,78 4,31 3,82 3,83 3,56 2,65 2,83 2,77 2,35 2,22 2,20 1,94 1,48 4,77 5,10 6,10 6,10 6,10 6,20 6,20 5,10 5,10 4,77 5,10 6,20 4,77 6,10 6,20 6,12 5,73 5,34 5,27 5,00 4,95 3,67 4,54 3,35 3,28 3,12 2,68 2,78 1,96 1,27 6,77 6,42 4,46 5,04 4,61 4,90 3,59 4,82 3,12 4,27 4,47 3,78 3,36 3,27 1,30 VINO HEINEKEN 1,95 1,65 4,77 1,99 2,87 MEDIA TOTALE 4,03 3,01 5,55 3,82 4,19 DEVIAZIONE STANDARD 1,22 1,06 0,64 1,49 1,34 ESTENSIONE DI MARCA PUB HEINEKEN PALESTRE NIKE NAVIGATORE SATELLITARE NOKIA FOTOCAMERA DIGITALE NOKIA COMPUTER PORTATILE NOKIA RADIO ONLINE GOOGLE LIBRERIE GOOGLE BEVANDA ENERGETICA NIKE JEANS NIKE VILLAGGI VACANZE HEINEKEN LETTORE MP3 NIKE TELEFONO CELLULARE GOOGLE POPCORN HEINEKEN VILLAGGI VACANZE NOKIA 179 CAPITOLO 6 Le palestre Nike sono un’altra estensione di marca dalla quale gli intervistati si aspetterebbero un’elevata qualità (5,54). Insieme alle estensioni “tecnologiche” di Nokia (navigatore satellitare, fotocamera digitale, computer portatile), i pub Heineken e le palestre Nike sono le uniche estensioni ad avere un punteggio medio superiore a 5 per la qualità attesa. Si tratta anche delle uniche osservazioni con punteggi medi di BTC superiori a 5: questa prima, sommaria analisi sembrerebbe quindi confermare un rapporto stretto tra l’atteggiamento del consumatore verso il nuovo prodotto proposto da una marca nota e il relativo rapporto di fit. Anche nelle ultime posizioni della tabella, ci si accorge che le ultime tre estensioni sono le uniche ad avere un punteggio medio di BTC minore di 2. Tuttavia, l’ordine delle estensioni, per qualità attesa complessiva decrescente, non sarebbe lo stesso se si fosse utilizzato il criterio della coerenza BTC decrescente, e servono pertanto strumenti più adatti per formulare conclusioni sull’entità del rapporto tra queste due variabili. Dai risultati medi si può osservare anche come i punteggi medi della probabilità d’acquisto siano stabilmente inferiori a quelli della qualità attesa: per comprendere la natura di questo dato, tuttavia, bisognerà analizzarlo alla luce della stratificazione del campione, in un momento successivo. È utile invece confrontare, già da subito con il supporto della tab. 6.5, il rapporto tra i due tipi di coerenza presenti nel modello. 180 RISULTATI DELLO STUDIO Tab. 6.5: Coerenza BTC e coerenza CTC FIT BTC FIT CTC BTC - CTC BEVANDA ENERGETICA GOOGLE 6,12 5,73 5,34 5,27 5,00 4,95 3,67 4,54 3,35 3,28 3,12 2,68 2,78 1,96 1,27 6,77 6,42 4,46 5,04 4,61 4,90 3,59 4,82 3,12 4,27 4,47 3,78 3,36 3,27 1,30 -0,65 -0,69 0,88 0,23 0,39 0,05 0,08 -0,28 0,23 -1,00 -1,35 -1,10 -0,59 -1,31 -0,03 VINO HEINEKEN 1,99 2,87 -0,88 MEDIA TOTALE 3,82 4,19 -0,37 ESTENSIONE DI MARCA PUB HEINEKEN PALESTRE NIKE NAVIGATORE SATELLITARE NOKIA FOTOCAMERA DIGITALE NOKIA COMPUTER PORTATILE NOKIA RADIO ONLINE GOOGLE LIBRERIE GOOGLE BEVANDA ENERGETICA NIKE JEANS NIKE VILLAGGI VACANZE HEINEKEN LETTORE MP3 NIKE TELEFONO CELLULARE GOOGLE POPCORN HEINEKEN VILLAGGI VACANZE NOKIA Si può notare come l’ordine delle estensioni, che si è mantenuto come nella tab. 6.4 decrescente per qualità complessivamente attesa, fornisca una possibile interpretazione delle differenze tra la coerenza tra brand originario e categoria di estensione e quella tra categorie. Escluse le prime due estensioni, che hanno punteggi di coerenza tra categorie nettamente più alti di tutte le altre estensioni, la tabella si può quasi perfettamente scomporre in due parti: quella superiore, in cui le differenze tra fit brand-to-category e fit category-to-category sono positive, e quella inferiore, dove invece sono negative. Si ricordi il “rapporto concettuale” esistente tra queste due coerenze: la prima comprende la seconda, nel senso che la coerenza tra categoria di prodotto originaria e categoria di prodotto di estensione contribuisce, con un peso variabile, alla coerenza complessiva tra il brand e il prodotto di estensione. Questa suddivisione, abbinata all’ordine per qualità 181 CAPITOLO 6 decrescente delle estensioni, lascia ipotizzare (o meglio, re-ipotizzare) un ruolo reale delle associazioni specifiche del brand, che in termini di coerenza con il prodotto di estensione vanno a costituire la parte di fit BTC diversa da quella CTC. In altre parole, sembrerebbe che le associazioni specifiche contribuiscano effettivamente alla determinazione delle percezioni sulla brand extension. È importante notare che si tratta di valori medi, che poco dicono sull’effettivo rapporto tra le due coerenze a livello di singolo giudizio: è tuttavia una prima conferma della ragionevolezza del costrutto teorico iniziale, che dovrà essere confortata da analisi successive con strumenti più adeguati. 6.2.2 Le variabili La tab. 8.4 ha presentato, per ciascuna variabile del modello, la media e la varianza. Per comprenderne al meglio la distribuzione marginale si può utilizzare unitamente a questi indici di posizione anche il box-plot (o diagramma scatola-baffi), uno strumento che cattura visivamente anche la dispersione delle variabili. Poiché le variabili utilizzano tutte le stesse scale di misura, è utile raffigurarne insieme i rispettivi diagrammi. I box rappresentano l’intervallo dove sta la “metà centrale” delle osservazioni: iniziano e terminano rispettivamente con il primo e terzo quartile della distribuzione, cioè con i valori che si trovano in corrispondenza del 25% e del 75% della frequenza. Lo scarto interquartilico è appunto la differenza tra il terzo e il primo quartile, e rappresenta un indice di dispersione spesso significativo. La tacche dentro ai box rappresentano la mediane delle distribuzioni, mentre i “due baffi”, che partono dal primo e dal terzo quartile, arrivano rispettivamente al più piccolo e al più grande dei valori osservati, fino alla lunghezza massima di 1,5 volte il box. Se ci sono dei valori che non risultano compresi in questo intervallo, essi vengono segnalati come punti isolati. Viceversa, se nessun punto viene visualizzato, significa che i baffi terminano con i valori estremi della distribuzione. 182 RISULTATI DELLO STUDIO Fig. 6.3: Box-plot delle variabili indipendenti ed esplicative Si osserva innanzitutto una grande variabilità delle osservazioni, con tutti i “baffi” dei diagrammi a comprendere, con l’eccezione della variabile qualità del brand originario, gli estremi della scala di valutazione. Questa variabile ha una dispersione molto minore delle altre: un gran numero di consumatori ha valutato 5 o 6 la qualità complessiva brand testati, e viceversa molto pochi hanno giudicato la stessa con un valore pari o inferiore a 3. La bassa deviazione standard della variabile (0,64) trova pertanto, insieme alla sua percezione complessiva “elevata”, una conferma grafica. Le rimanenti variabili sono molto disperse, come è evidente anche dall’ampiezza dello scarto interquartilico. 183 CAPITOLO 6 Del resto, si tratta dell’unico dato che, con la scelta del set di brand, si è almeno in parte determinato ex ante, mentre era prevedibile rilevare percezioni molto diverse tra loro per le altre variabili. E’ naturale che queste mutino sensibilmente in base alla fattispecie di consumatore e soprattutto di extension brand: ciò che sarà importante verificare, ai fini dello studio, è la presenza di relazioni strutturali all’interno dei gruppi di percezioni organizzate fornite dalla singola osservazione statistica. In questo senso, pur restando nell’ambito della ancora necessaria analisi descrittiva, ci si avvicina al focus del problema utilizzando dei box-plot “condizionati”: nella fig. 6.4 si illustra come cambiano posizione e dispersione della principale variabile dipendente del modello di regressione, la qualità attesa dell’estensione di marca, al cambiare delle due variabili indipendenti. Sia all’aumento della qualità percepita del brand originario che a quello della compatibilità tra questo e la categoria di estensione, si nota uno spostamento “in crescita” dei box-plot: sembrerebbe pertanto esserci un legame tra le due variabili che verranno utilizzate come esplicative nel modello di regressione e quella dipendente. Tuttavia, si notano delle sostanziali differenze nei due box-plot, sia per quanto riguarda l’andamento degli indici di posizione che per quanto concerne la variabilità: le mediane e i quartili della qualità attesa dall’extension, infatti, crescono in modo più deciso e continuo all’aumentare del fit BTC che all’aumentare della qualità percepita del brand originario; lo scarto interquartilico è inoltre molto più grande per la qualità del brand che per il fit BTC, così come sono più lunghi i rispettivi “baffi” del diagramma. Queste caratteristiche fanno presupporre che l’atteggiamento verso l’estensione dipenda maggiormente dalla sua compatibilità con la marca originaria che dalla qualità percepita di questa. 184 RISULTATI DELLO STUDIO Fig. 6.4: Boxplot della variabile qualità attesa al variare di quelle indipendenti 185 CAPITOLO 6 Condizionando il box-plot della qualità attesa dell’extension alla compatibilità tra categoria di prodotto di provenienza e categoria di estensione (fig. 6.5), si nota come, per le considerazioni svolte in precedenza, sembri esserci anche in questo caso un legame diretto, positivo, tra le due variabili. Fig. 6.5: Boxplot della qualità attesa dell’estensione al variare del fit CTC Il prossimo paragrafo, che descrive la struttura di correlazione tra le variabili osservate, consentirà di addentrarsi maggiormente nei rapporti esistenti tra di esse, e di rivedere o avvalorare un’ultima volta le ipotesi su cui si fonda il modello di regressione utilizzato. 186 RISULTATI DELLO STUDIO 6.2.3 La struttura di correlazione La tab. 6.6 riporta le correlazioni tra le variabili che si ottengono senza escludere alcuna osservazione statistica dal dataset. È utile rilevare quali sono le correlazioni alte in valore assoluto e osservare i rapporti tra alcune specifiche coppie di variabili. Tab. 6.6: Matrice di correlazione (tutti i consumatori) CTC QUAL.BRA ACQUISTO BTC 1.000 -0.007 0.447 0.385 0.556 QUAL.BRA -0.007 1.000 0.178 0.168 0.058 QUAL.EXT 0.447 0.178 1.000 0.660 0.757 ACQUISTO 0.385 0.168 0.660 1.000 0.645 BTC 0.556 0.058 0.757 0.645 1.000 CTC QUAL.EXT Innanzitutto, si osserva che la correlazione tra le due variabili dipendenti del modello di regressione, qualità attesa e propensione all’acquisto dell’estensione, è 0,660, pari allo studio di Aaker e Keller. Va premesso che poiché ci si sta riferendo anche ad osservazioni fornite da individui non consumatori delle classi di prodotto di estensione, si ritiene poco corretto, aldilà della correlazione, utilizzare nella specifica regressione anche la variabile probabilità di acquisto; nonostante questa possibilità non sia in discussione, si tratterebbe comunque di una correlazione che, sebbene rilevante, non pare sufficiente: dissuaderebbe quindi dall’operare come Aaker e Keller, accorpando cioè le due variabili con una media aritmetica che riassuma l’atteggiamento del consumatore verso l’estensione di marca. La tab. 6.7 presenta la matrice di correlazione che si ottiene escludendo dal dataset le osservazioni provenienti da non consumatori della categoria di prodotto di estensione (variabile consumo della categoria di estensione = 0). 187 CAPITOLO 6 Tab. 6.7: Matrice di correlazione per consumatori della categoria di estensione CTC QUAL.BRA ACQUISTO BTC 1.000 -0.003 0.446 0.408 0.543 QUAL.BRA -0.003 1.000 0.167 0.151 0.061 QUAL.EXT 0.446 0.167 1.000 0.718 0.765 ACQUISTO 0.408 0.151 0.718 1.000 0.707 BTC 0.543 0.061 0.765 0.707 1.000 CTC QUAL.EXT Come era lecito attendersi, la correlazione tra le due variabili dipendenti aumenta, passando a 0,718: se un individuo consuma o utilizza un certo prodotto, è più naturale che il ritenerlo di qualità elevata si traduca in un acquisto. Non sarebbe stato corretto attendersi da questa correlazione valori prossimi all’unità o molto più alti di questo: la decisione di acquisto, infatti, dipende anche da fattori che esulano dall’atteggiamento verso il prodotto, ed esulano in particolare dalla “percezione di qualità” dello stesso, variabile scelta per concettualizzarlo. Per esempio, percezioni di “prezzo potenzialmente elevato” o questioni di principio (comprare Nike, per motivi già ricordati, è poco etico per alcuni consumatori) possono incidere sensibilmente sulla probabilità di acquisto di un nuovo prodotto, nonostante si attenda da esso una qualità elevata. Questa “non comparabilità” delle due variabili spinge, anche dopo aver escluso dal dataset i non consumatori delle classi di prodotto di estensione, a mantenerle separate senza accorparle in un unico indicatore. La tab. 6.8 illustra come, restringendo ulteriormente il dataset per comprendere solo i consumatori molto frequenti delle classi di prodotto di estensione (variabile consumo della categoria di estensione = 2), la correlazione tra qualità attesa e probabilità di acquisto dell’estensione cresce ancora, ma di una quantità che si può considerare irrisoria. 188 RISULTATI DELLO STUDIO Tab. 6.8: Matrice di correlazione per consumatori molto frequenti del prodotto CTC QUAL.BRA ACQUISTO BTC 1.000 -0.016 0.441 0.427 0.535 QUAL.BRA -0.016 1.000 0.167 0.130 0.036 QUAL.EXT 0.441 0.167 1.000 0.721 0.759 ACQUISTO 0.427 0.130 0.721 1.000 0.711 BTC 0.535 0.036 0.759 0.711 1.000 CTC QUAL.EXT Si osservino ora, tornando alla tab. 6.6, le correlazioni della qualità attesa dall’estensione di marca con le variabili che saranno le indipendenti del modello di regressione: essa è pari a 0,178 con la qualità percepita del brand originario, e più alta con entrambe le variabili fit (0,447 con la compatibilità CTC e addirittura 0,757 con quella BTC). Questo conferma la sensazione, avuta esaminando i box-plot condizionati, che l’atteggiamento verso l’estensione sia più legato alla coerenza percepita con la marca originaria che alla qualità percepita della marca stessa. Sempre con riferimento alla matrice delle correlazioni del dataset nella sua integrità (ma è una considerazione che si può applicare anche alle sue parti già estrapolate), le due coerenze sono ovviamente molto correlate (0,535): si ritiene che lo siano nella misura in cui l’associazione alla classe di prodotto pesa nell’immagine complessiva del brand che il consumatore va a rapportare all’estensione. Ferma restando la convinzione che il fit che meglio predice l’atteggiamento verso l’estensione di marca sia quello brand-to-category, verificheremo anche la bontà di modelli di regressione che contengano il fit category-tocategory. Si consideri ora la tab. 6.9, che presenta la matrice di correlazione che si ottiene estraendo dal dataset le osservazioni che provengono da una categoria di consumatori di particolare interesse: i clienti “fedeli”, “legati 189 CAPITOLO 6 affettivamente” alle marche che si estendono (variabile atteggiamento verso la marca = 2). Tab. 6.9: Matrice di correlazione per consumatori “fedeli” alla marca CTC QUAL.BRA ACQUISTO BTC 1.000 -0.024 0.499 0.439 0.562 QUAL.BRA -0.024 1.000 0.108 0.054 0.040 QUAL.EXT 0.499 0.108 1.000 0.700 0.806 ACQUISTO 0.439 0.054 0.700 1.000 0.714 BTC 0.562 0.040 0.806 0.714 1.000 CTC QUAL.EXT Innanzitutto, si nota che per i clienti “fedeli” la correlazione tra qualità attesa dell’estensione di marca e probabilità di acquisto della stessa è leggermente più alta di quella a livello aggregato (0,700 contro 0,660). Inoltre, si osservino i valori evidenziati e si confrontino con i rispettivi della tab. 8.6: a una diminuzione della correlazione della qualità attesa dell’estensione con la qualità percepita della marca originaria corrisponde un aumento delle correlazioni della stessa variabile con i due fit. La medesima considerazione si può fare anche per l’altra variabile dipendente, la probabilità di acquisto. 6.3 ANALISI DI REGRESSIONE 6.3.1 Il dataset intero: tutti i consumatori Si presentano ora i risultati delle analisi di regressione compiute con il software statistico R. Si sono utilizzati modelli diversi, con una diversa miscela di variabili dipendenti ed esplicative, ed applicati su frazioni diverse del campione, in base alle variabili di stratificazione. 190 RISULTATI DELLO STUDIO Nelle prime analisi compiute si sono considerare tutte le osservazioni statistiche: pertanto, si sono utilizzate le valutazioni delle estensioni di marca fornite dai rispondenti a prescindere dal rapporto di consumo di questi con le marche e le categorie di prodotto di estensione. Si è innanzitutto testato il seguente modello di regressione, che traduce in termini di equazione il costrutto teorizzato del presente lavoro: Atteggiamento verso l’estensione = β0 + + β1 qualità percepita della marca originaria + + β2 coerenza tra brand e categoria di estensione Si è pertanto esaminato se la qualità attesa dell’estensione dipende dalla qualità percepita della marca originaria e dalla coerenza di questa con la categoria di estensione. Precisamente, si sono verificate le seguenti ipotesi: H1: Elevate percezioni di qualità rispetto alla marca originaria sono associate ad atteggiamenti più positivi verso l’estensione; H2: La coerenza tra la marca e la categoria di prodotto coinvolta ha una diretta influenza positiva sull’atteggiamento verso l’estensione. L’output di R è il seguente: Call: lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset) Coefficients: (Intercept) QUALITA.BRA 0.2392 0.2087 BTC 0.6911 La sezione Call contiene la funzione del modello utilizzato, mentre la sezione Coefficients riporta i valori dei parametri stimati per le due variabili esplicative del modello (oltre che la stima dell’intercetta, il cui significato è però da chiarire), che sono entrambe positive. Facendo un rapido summary dell’oggetto creato, tuttavia, si può specificare meglio l’entità dei parametri e 191 CAPITOLO 6 capire se il modello è da considerarsi valido oppure no. Dopo aver ribadito la funzione del modello, il nuovo output riporta alcune informazioni interessanti: Call: lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset) Residuals: Min 1Q -5.32941 -0.84698 Median 0.05286 3Q 0.74400 Max 5.65222 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) 0.23924 0.10304 2.322 0.0203 * QUALITA.BRA 0.20870 0.01716 12.161 <2e-16 *** BTC 0.69114 0.01018 67.910 <2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.242 on 3354 degrees of freedom (211 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.5922, Adjusted R-squared: 0.592 F-statistic: 2436 on 2 and 3354 DF, p-value: < 2.2e-16 La sezione Residuals riporta alcuni indici di posizione dei residui della regressione: il valore minimo, il primo quartile, la mediana, il terzo quartile e il valore massimo. Nella sezione Coefficients, dopo il valore dei parametri (Estimate), si possono leggere i corrispondenti errori standard (Std. Error), i valore dei test t (t value) calcolati sotto le ipotesi nulle che i valori dei parametri siano nulli e i valori p (Pr(>|t|)), cioè i massimi valori dell’errore di primo tipo che porta ad accettare l’ipotesi nulla. Infine, dal numero di asterischi nell’ultima colonna si apprende visivamente in modo rapido il livello di significatività del test: in questo caso, i tre asterischi indicano che, oltre che positivi, i parametri β1 e β2 sono anche significativi. Va osservato che la stima del valore dell’intercetta, peraltro meno significativa delle altre, non ha alcun senso al di fuori del range di valori osservati per le variabili indipendenti: nella fattispecie, andrebbe considerata solo per valori di β1 e β2 nell’intervallo di numeri interi 1-7. Per giudicare la bontà del modello di regressione, ci possiamo riferire al coefficiente di determinazione R2, pari a 0,59 e quindi superiore a tutti gli studi sull’argomento considerati. 192 RISULTATI DELLO STUDIO Questa prima analisi, pertanto, supporta entrambe le ipotesi testate: la qualità attesa di un’estensione di marca sembra in primo luogo dipendere positivamente dalla coerenza tra brand e categoria di prodotto di estensione (coefficiente pari a 0,69 e significativo); in subordine, dalla qualità percepita della marca originaria (coefficiente pari a 0,21, anche questo significativo). Il costrutto teorico su cui si fonda il modello è da ritenersi valido, e come, espresso dal coefficiente di determinazione, esaurisce una quota piuttosto rilevante della variabilità dell’atteggiamento del consumatore verso le estensioni di marca. Si presentano ora i risultati di due analisi di regressione che incorporano l’altra variabile di coerenza misurata, cioè quella tra le categorie di prodotto, di provenienza e di estensione, coinvolte. Questi modelli contravvengono volutamente al concetto di fit teorizzato in questo lavoro per cercare di dimostrarne la validità. Nel primo dei due modelli si è aggiunto il fit category-to-category alle altre due variabili indipendenti, ottenendo questi risultati: Call: lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC + CTC, data = dataset) Residuals: Min 1Q -5.370319 -0.829780 Median 0.008312 3Q 0.718238 Coefficients: Estimate Std. Error t value (Intercept) 0.15173 0.10700 1.418 QUALITA.BRA 0.21030 0.01718 12.241 BTC 0.66795 0.01225 54.536 CTC 0.04016 0.01196 3.358 --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 Max 5.719548 Pr(>|t|) 0.156251 < 2e-16 *** < 2e-16 *** 0.000793 *** ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.241 on 3338 degrees of freedom (226 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.5931, Adjusted R-squared: 0.5927 F-statistic: 1622 on 3 and 3338 DF, p-value: < 2.2e-16 193 CAPITOLO 6 Come si evince dall’output di R, i parametri presenti anche nel precedente modello mantengono praticamente intatto il loro valore, mentre il fit CTC è prossimo allo zero: questa regressione sembrerebbe avvalorare l’idea che, tra le due coerenze, il predittore corretto per la qualità attesa di un’estensione di marca sia il fit di questa con la marca originaria e non con la rispettiva categoria di prodotto. Nel secondo modello, invece, si è provato a sostituire il fit BTC con quello CTC, utilizzandolo come unico “indicatore di coerenza” e ricalcando così in maniera piuttosto fedele alcuni degli studi precedenti. I risultati sono stati i seguenti: Call: lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + CTC, data = dataset) Residuals: Min 1Q -4.5620 -1.2833 Median 0.1437 3Q 1.2740 Max 5.5372 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) 0.77963 0.14613 5.335 1.02e-07 *** QUALITA.BRA 0.27869 0.02356 11.831 < 2e-16 *** CTC 0.40451 0.01365 29.629 < 2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.708 on 3359 degrees of freedom (206 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.2318, Adjusted R-squared: 0.2313 F-statistic: 506.7 on 2 and 3359 DF, p-value: < 2.2e-16 Il fit CTC è positivo e significativo: la coerenza tra le categorie coinvolte nell’estensione ha un’influenza diretta positiva sull’atteggiamento del consumatore verso il nuovo prodotto. Tuttavia, osservando il coefficiente R2, si nota che questo modello è molto meno soddisfacente del primo dal punto di vista della variabilità spiegata: questo si spiega perché la coerenza category-to-category prende in considerazione e rapporta all’estensione soltanto una delle associazioni alla marca presenti nella mente del 194 RISULTATI DELLO STUDIO consumatore, la classe di prodotto appunto. Trascura tutta la parte di brand image che trascende il prodotto e che contribuisce in maniera significativa determinare la coerenza della marca con la categoria di estensione, catturata invece dal fit BTC. In fase di analisi preliminare, si è determinata a livello di singola estensione di marca la differenza tra i due tipi di fit: si è quindi osservata una sorta di “regola”, che faceva intuire un ruolo reale della parte “non classe di prodotto” dell’immagine del brand nello spiegare l’atteggiamento verso l’estensione di marca; questa impressione è stata così confermata dalle successive analisi di regressione, che hanno indicato la coerenza BTC, che considera anche le associazioni specifiche del brand, come miglior predittore per l’oggetto di indagine. Per avvalorare ulteriormente la tesi, si è considerata la possibilità di verificare la relazione tra la qualità attesa dell’estensione di marca e gli “scarti di fit” di cui sopra (operando ovviamente a livello di singola osservazione), che certo sono, secondo l’impostazione adottata, strettamente legati alle associazioni specifiche. Tuttavia, nonostante un’analisi sommaria indicasse un’effettiva dipendenza della prima entità dalla seconda, si è ritenuto questo modo di operare a ben guardare poco corretto: si studierebbe infatti una variabile le cui determinazioni sono misurate per differenza, e per questo non corrispondenti in senso stretto alle percezioni del consumatore. Si è ragionevolmente certi del rapporto, più volte descritto, tra i due soggetti della coerenza con l’estensione (la classe di prodotto e il brand nel suo complesso); ciononostante, sarebbe più corretto procedere ad un’autonoma individuazione del punto di partenza (le associazioni specifiche al brand) e successivamente misurarne la coerenza con l’oggetto di indagine (l’ipotetica estensione di marca), in modo analogo a come operato per la classe di prodotto. Si tornerà su questo aspetto in fase conclusiva. 195 CAPITOLO 6 6.3.2 I consumatori delle categorie di estensione Si presentano ora i risultati delle analisi di regressione applicate solo sulle osservazioni statistiche provenienti da individui consumatori delle categorie di estensione (variabile di stratificazione “consumo della categoria di estensione” ≠ 0). Nei termini della matrice degli atteggiamenti di consumo, pertanto, si è esclusa dal campione l’ultima colonna a destra. Si è prima di tutto verificato se le stime dei parametri del modello base (qualità attesa dell’estensione come variabile dipendente, qualità percepita della marca e coerenza di questa con la categoria di estensione come esplicative) subiscono variazioni considerando solo questa frazione del campione: Call: lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset.consumatoriest) Residuals: Min 1Q -5.17748 -0.84484 Median 0.02105 3Q 0.71245 Max 5.52368 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) 0.41640 0.12493 3.333 0.000874 *** QUALITA.BRA 0.18426 0.02088 8.823 < 2e-16 *** BTC 0.69140 0.01261 54.808 < 2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.205 on 2098 degrees of freedom (143 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.6004, Adjusted R-squared: 0.6001 F-statistic: 1576 on 2 and 2098 DF, p-value: < 2.2e-16 Il parametro relativo al fit brand-to-category è pressochè identico a quello ottenuto in corrispondenza di tutte le osservazioni; le differenze riguardano la qualità percepita della marca, che ha qui un coefficiente leggermente più basso (0,18 contro 0,21) e l’intercetta, che qui è significativa e riporta una stima di 0,42. La qualità attesa da un’estensione (che per le ipotesi qui 196 RISULTATI DELLO STUDIO testate ha per i consumatori delle categorie di estensione una media sostanzialmente uguale a quella della totalità degli individui: 4,05 contro 4,03) sembrerebbe quindi essere per questa parte del campione leggermente meno legata alla qualità percepita della marca originaria. Lo scopo dell’esclusione dei non consumatori della categoria di estensione dal dataset, tuttavia, è la possibilità di scoprire con un modello di regressione se e come le variabili indipendenti scelte spiegano, oltre che la qualità attesa dell’estensione, la scelta di consumo o utilizzo della stessa. Si sono pertanto mantenute come esplicative le variabili della qualità percepita della marca e il relativo fit con la classe di prodotto di estensione, e si è sostituita alla variabile dipendente qualità attesa dell’estensione la rispettiva propensione all’acquisto. Call: lm(formula = ACQUISTO ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset.consumatoriest) Residuals: Min 1Q Median -4.5894 -0.6315 -0.0827 3Q 0.8988 Max 6.0441 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) -0.21053 0.14290 -1.473 0.141 QUALITA.BRA 0.16891 0.02389 7.069 2.11e-12 *** BTC 0.65966 0.01444 45.682 < 2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.379 on 2098 degrees of freedom (143 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.5102, Adjusted R-squared: 0.5097 F-statistic: 1093 on 2 and 2098 DF, p-value: < 2.2e-16 Dall’output di R si osserva che le variabili indipendenti spiegano anche la probabilità di acquisto dell’estensione di marca oltre che la sua qualità attesa, come era lecito attendersi dall’elevata correlazione tra le due variabili. I coefficienti sono ugualmente significativi e simili (la qualità del brand ha un coefficiente di 0,17 e il fit BTC 0,66), tuttavia il coefficiente di determinazione, 197 CAPITOLO 6 0,51, è più basso che nella precedente analisi: questo significa che le variabili scelte, nel caso della propensione all’acquisto, hanno complessivamente un minor potere predittivo. L’acquisto, come suggerito in fase di analisi preliminare, è un comportamento più complesso, che dipende in maggior misura da altre percezioni ed elementi, e questa considerazione si può estendere anche alla probabilità con la quale il consumatore prevede di eseguirlo. Ottenuti questi risultati, è interessante provare a verificare in che misura la propensione all’acquisto dipende dalla qualità attesa dell’estensione di marca. Per farlo, è sufficiente utilizzare un modello di regressione semplice, con la qualità attesa come variabile esplicativa della propensione all’acquisto del nuovo prodotto/servizio, in primo luogo sull’intero dataset: Call: lm(formula = ACQUISTO ~ QUALITA.EXT, data = dataset) Residuals: Min 1Q -4.01758 -0.75148 Median 0.02534 3Q 1.00388 Max 5.02534 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) 0.30084 0.05658 5.318 1.12e-07 *** QUALITA.EXT 0.67382 0.01263 53.334 < 2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.469 on 3542 degrees of freedom (24 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.4454, Adjusted R-squared: 0.4452 F-statistic: 2845 on 1 and 3542 DF, p-value: < 2.2e-16 Come previsto, la qualità attesa da un’estensione di marca spiega la relativa probabilità d’acquisto (coefficiente significativo di 0,67), ma il coefficiente R2 di 0,45 fa capire che essa non è l’unica determinante delle scelte. Si osservino i risultati ottenuti applicando il medesimo modello alle osservazioni provenienti dai consumatori delle categorie di estensione: 198 RISULTATI DELLO STUDIO Call: lm(formula = ACQUISTO ~ QUALITA.EXT, data = dataset.consumatoriest) Residuals: Min 1Q -4.43243 -0.69572 Median 0.05163 3Q 1.06226 Max 5.05163 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) 0.20103 0.06736 2.984 0.00287 ** QUALITA.EXT 0.74734 0.01501 49.791 < 2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.359 on 2228 degrees of freedom (14 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.5267, Adjusted R-squared: 0.5265 F-statistic: 2479 on 1 and 2228 DF, p-value: < 2.2e-16 Nel campione dei consumatori dei prodotti di estensione, crescono sia il coefficiente della qualità attesa (0,74) che il coefficiente di determinazione del modello (0,53), tuttavia rimane non spiegata una grande quota della variabilità della probabilità di acquisto. Dalle relazioni di questa variabile con le altre si desumono pertanto due importanti elementi: in primo luogo, un’ulteriore conferma circa la correttezza di scelta di non accorpare in un unico indicatore, come fatto da studi precedenti, qualità attesa dell’estensione di marca e propensione all’acquisto della stessa; e di conseguenza, una preferenza per la prima come misura dell’atteggiamento del consumatore verso l’oggetto di indagine, perchè si ritiene che l’acquisto sia un comportamento da studiare considerando anche elementi che trascendono le percezioni del consumatore. 6.3.3 I consumatori “fedeli” alla marca Si prendono ora in considerazione soltanto le osservazioni statistiche fornite da intervistati con un “legame affettivo” particolare verso le marche oggetto di estensione (variabile “atteggiamento verso la marca” = 2). Si parla di consumatori “fedeli” non alludendo ad una fedeltà comportamentale verso la 199 CAPITOLO 6 marca, bensì ad un atteggiamento di consumo caratterizzato da convinzione ed attaccamento al brand. Con riferimento alla matrice degli atteggiamenti di consumo, si scarteranno pertanto la prima e la seconda riga dal basso, corrispondenti a chi non fa uso della marca e a chi la consuma senza che il suo atto abbia un particolare significato in termini di “legame” con essa. Si è applicato alla frazione di dataset considerato il modello “base”, con qualità attesa dall’estensione come variabile dipendente e qualità del brand originario e fit brand-to-category come esplicative: Call: lm(formula = QUALITA.EXT ~ QUALITA.BRA + BTC, data = dataset.fedeli) Residuals: Min 1Q -5.300735 -0.824982 Median 0.002288 3Q 0.567435 Max 4.781065 Coefficients: Estimate Std. Error t value Pr(>|t|) (Intercept) 0.27195 0.21794 1.248 0.212 QUALITA.BRA 0.17273 0.03454 5.001 6.39e-07 *** BTC 0.73788 0.01394 52.914 < 2e-16 *** --Signif. codes: 0 ‘***’ 0.001 ‘**’ 0.01 ‘*’ 0.05 ‘.’ 0.1 ‘ ’ 1 Residual standard error: 1.13 on 1490 degrees of freedom (67 observations deleted due to missingness) Multiple R-Squared: 0.6567, Adjusted R-squared: 0.6562 F-statistic: 1425 on 2 and 1490 DF, p-value: < 2.2e-16 L’output di R rivela innanzitutto un coefficiente di determinazione più alto rispetto al corrispondente modello applicato al dataset nella sua integrità (0,67 contro 0,59): l’atteggiamento dei consumatori “fedeli” alla marca è pertanto spiegato particolarmente bene dalle due variabili utilizzate. L’aumento di affidabilità del modello, tuttavia, non è l’unica differenza, perché sono diversi anche i coefficienti associati alle variabili esplicative: in particolare, ad un ribasso del parametro relativo alla qualità percepita della marca originaria (0,17 contro 0,21) corrisponde un aumento di quello della coerenza tra marca e categoria di prodotto di estensione (0,74 contro 0,69). 200 RISULTATI DELLO STUDIO Questo dato induce a ritenere che per i consumatori molto legati ad una marca conti di più la coerenza tra questa e l’estensione proposta e meno la qualità percepita della marca rispetto agli altri. Si può ipotizzare che questo tipo di consumatore, “data per scontata” la qualità del brand, rifletta in modo più accurato sulla natura dell’estensione, e in particolar modo sul suo rapporto con la marca. Questa possibilità meriterebbe di essere approfondita con uno studio più specifico sulle percezioni questa categoria di consumatori, con marche ed estensioni scelte ad hoc e misurazioni effettuate su scale che consentano di far risaltare in modo più chiaro le differenze dai consumatori “più semplici”. La possibilità emersa in questa analisi di regressione non è priva di implicazioni dal punto di vista strategico, che verranno analizzate in fase conclusiva. 6.3.4 Il modello nella matrice degli atteggiamenti di consumo Osservata la fattispecie dei consumatori molto legati alla marca, si presenta ora in modo più completo come il modello base si declina sulle dimensioni date dagli atteggiamenti di consumo. La fig. 6.6 riporta l’ormai nota matrice con all’interno alcune informazioni, relative alle osservazioni contrassegnate dalla particolare combinazione di atteggiamento verso la marca e atteggiamento di consumo della categoria di estensione: dall’alto al basso, troviamo in ciascuna casella le medie dei punteggi della qualità attesa delle estensioni e della qualità percepita delle marche originarie; i valori dei parametri delle variabili indipendente, qualità percepita del brand originario e fit BTC; il coefficiente di determinazione, indicatore della bontà nel modello nella particolare combinazione degli atteggiamenti di consumo. Lo scopo di questa raffigurazione è avere a disposizione su uno stesso diagramma i risultati ottenuti applicando il medesimo modello di regressione su frazioni diverse del campione, per poterli così confrontare. Va premesso che si tratta di un’operazione per certi versi licenziosa, in quanto si potrebbe ipotizzare che i risultati risentano della specificità delle osservazioni 201 CAPITOLO 6 contenute in ciascuna delle caselle: tuttavia, alla luce del numero di osservazioni complessivamente molto elevato e della natura delle stesse nel modello (“etichette” di un insieme strutturato di percezioni), si ritiene che le informazioni desumibili possano essere significative. Nell’ottica del confronto, dopo aver osservato che i punteggi di medi del fit BTC non variavano sostanzialmente lungo le dimensioni della matrice, si è scelto di non riportarli all’interno delle caselle. Fig. 6.6: Il modello nella matrice degli atteggiamenti di consumo Consumatori “fedeli” Consumatori “semplici” Non consumatori Atteggiamento verso la marca Atteggiamento verso la categoria di estensione 2 1 0 Consumatori molto frequenti Consumatori poco frequenti Non consumatori 2 1 0 Qual.ext = 4,28 Qual.bra= 6,10 Qual.ext = 4,08 Qual.bra= 6,12 Qual.ext = 4,09 Qual.bra= 6,14 βQual.bra= 0,17 βBTC= 0,73 βQual.bra= n.s. βBTC= 0,72 βQual.bra= 0,25 βBTC= 0,76 R2= 0,66 R2= 0,62 R2= 0,67 Qual.ext = 4,02 Qual.bra= 5,42 Qual.ext = 3,81 Qual.bra= 5,37 Qual.ext = 3,92 Qual.bra= 5,50 βQual.bra= 0,24 βBTC= 0,65 βQual.bra= n.s. βBTC= 0,66 βQual.bra= 0,30 βBTC= 0,65 R2= 0,51 R2= 0,54 R2= 0,50 Qual.ext = 4,18 Qual.bra= 4,42 Qual.ext = 3,79 Qual.bra= 4,35 Qual.ext = 3,89 Qual.bra= 4,54 βQual.bra= 0,31 βBTC= 0,68 βQual.bra= 0,24 βBTC= 0,68 βQual.bra= 0,30 βBTC= 0,60 R2= 0,62 R2= 0,68 R2= 0,60 202 RISULTATI DELLO STUDIO Osservando le righe, si nota innanzitutto come la qualità media percepita delle marche originarie diminuisca al decrescere di livello nell’atteggiamento verso la marca: essendo questa una variabile di stratificazione, non sarebbe corretto verificarne la correlazione con la qualità, ma si può senz’altro parlare di stretto rapporto tra le due entità. Del resto, si è già detto del peso rilevante della qualità percepita nello spiegare le scelte di consumo e il legame con una marca. La variabile dipendente del modello, la qualità attesa dell’estensione, è tendenzialmente più alta nella parte superiore della matrice, ma le dispersioni per ciascuna colonna, che sono molto basse, trattengono dal concluderne rapporti stretti con la stratificazione operata sulla base dell’atteggiamento verso la marca. Aldilà dei punteggi medi, è interessante soprattutto verificare come variano all’interno della matrice i parametri del modello di regressione e la sua bontà. Con riferimento a quest’ultima, si osservino i coefficienti di determinazione, che sono più bassi degli altri nella seconda riga: sembrerebbe che le variabili indipendenti del modello spieghino complessivamente meglio l’atteggiamento verso le estensioni dei non consumatori e dei consumatori “fedeli” rispetto ai consumatori semplici. Il peso dei driver non considerati, pertanto, è maggiore per chi consuma una marca senza avere con essa un legame speciale, e questo delicato strato di individui meriterebbe uno studio ad hoc. Ancora in termini di bontà del modello, l’atteggiamento verso la categoria di estensione non sembra invece rappresentare una discriminante. Si osservino ora i valori dei parametri delle due variabili indipendenti. Quello del fit BTC, innanzitutto, mantiene sempre un valore pari ad almeno il doppio di quello della qualità della marca originaria: a prescindere dagli atteggiamenti di consumo, pertanto, la qualità attesa di un’estensione è sempre spiegata maggiormente dal suo rapporto di coerenza con la marca originaria che dalla qualità percepita di questa. Il peso relativo delle due variabili, tuttavia, cambia con gli atteggiamenti degli intervistati verso la marca. In particolare, si osservino prima i consumatori “fedeli” e poi i non consumatori, gli strati dove il modello si applica meglio: si nota che, in tutte e tre le colonne, a una leggera diminuzione del parametro del fit BTC si 203 CAPITOLO 6 contrappone un lieve rialzo di quello della qualità percepita del brand originario. Dai risultati si direbbe che per i consumatori “fedeli” di una brand che si estende (che viste le considerazioni di cui sopra, possono anche essere osservati alla luce dei loro elevati punteggi nella qualità percepita delle marche) conti di meno la qualità di questo: si può ipotizzare che essa venga data per scontata per concentrarsi maggiormente sulla coerenza della marca con la categoria di estensione. Si noti che il parametro della qualità percepita della marca originaria è non significativo in due delle tre caselle della seconda colonna, relativa ai consumatori poco frequenti della categoria di estensione. A parte questo dato, tuttavia, la stratificazione dei rispondenti basata sul consumo della categoria di prodotto di estensione, preziosa nei precedenti paragrafi quando si era considerata la probabilità di acquisto, non sembra fornire chiavi di lettura delle aspettative di qualità delle estensioni di marca. In fase conclusiva, quando la matrice degli atteggiamenti verrà riconsiderata alla luce di una sua possibile applicazione strategica, questa dimensione tornerà ad essere importante. 6.4 LE ESTENSIONI DI MARCA SUGGERITE Nella sezione del questionario dedicata alle singole marche, è stata data agli intervistati la possibilità di suggerire loro stessi una estensione di marca. Si è detto che questo modo di operare, nell’ottica di chi si ponga come obiettivo l’effettivo ottenimento di suggerimenti di nuovi prodotti, è poco efficace46: infatti si sono ottenuti, su un totale di 892 richieste (una per marca su ogni questionario, quindi quattro per ogni intervistato), soltanto 185 suggerimenti. I prodotti suggeriti sono stati riportati in un foglio elettronico e codificati in maniera tale da essere raggruppabili e confrontabili. Si sono escluse le estensioni con punteggi di qualità attesa molto bassi (1 o 2), in quanto esse 46 KELLER, K.L., BUSACCA, B. E OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. Titolo originale: Strategic Brand Management (2003), II ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. 204 RISULTATI DELLO STUDIO costituiscono una risposta evidentemente “forzata” che non si può considerare un effettivo suggerimento. Si presentano per ciascuna marca le estensioni citate e ritenuti “credibili” da almeno due intervistati. Questo paragrafo costituisce una sorta di “postilla” ai risultati ottenuti dallo studio sulla brand extension nella prospettiva del consumatore. Il prossimo capitolo è dedicato alle conclusioni che da questo si possono trarre, con particolare riferimento al suo contributo originale: in questo senso, oltre a mettere in risalto i risvolti dello studio e le necessarie cautele da adoperare nelle deduzioni, si suggerirà una possibile applicazione strategica della “matrice degli atteggiamenti di consumo”. Tab. 6.10: Le estensioni di marca suggerite per Google GOOGLE Numero di suggerimenti Suggerimento personal computer abbigliamento navigatore satellitare sistema operativo accessori informatici servizi di spedizione negozio online giornale online altri suggerimenti 5 4 4 3 3 2 2 2 17 totale 42 Il brand Google ha ottenuto 42 suggerimenti di estensione ritenuti credibili: il “personal computer”, principale strumento di navigazione su Internet (e quindi di utilizzo del motore di ricerca Google) è stato citato 5 volte; per l’”abbigliamento” e il “navigatore satellitare”, entrambi citati 4 volte, hanno probabilmente giocato a favore la celebrità del logo, che lo renderebbe accattivante su t-shirt o affini, e l’associazione alla “ricerca”. 205 CAPITOLO 6 Tab. 6.11: Le estensioni di marca suggerite per Heineken HEINEKEN Numero di suggerimenti 14 3 2 2 19 Suggerimento abbigliamento diversi tipi di birra snack salati bibite analcoliche altri suggerimenti totale 40 Ben 14 delle 40 estensioni suggerite per Heineken riguardano capi di ”abbigliamento” peraltro già venduti in occasione di eventi come Heineken Jammin’ Festival o affini. Alcuni hanno pensato ad ipotesi di estensione più vicine, all’interno della categoria originaria (proponendo quindi “diversi tipi di birra”) o fuori da essa (“bibite analcoliche” o “snack salati” che non siano popcorn). Tab. 6.12: Le estensioni di marca suggerite per Nike NIKE Suggerimento attrezzatura da sci telefono cellulare biciclette arredamento attrezzatura da palestra abbigliamento non sportivo racchette da tennis porta lettore mp3 altri suggerimenti totale 206 Numero di suggerimenti 6 3 3 3 3 2 2 2 28 53 RISULTATI DELLO STUDIO Molti dei 53 suggerimenti di nuovi prodotti per Nike riguardano prodotti sportivi “tecnici”: tra gli altri, “attrezzatura da sci” (6 citazioni), “biciclette” (3), “attrezzatura da palestra” (3), “racchette da tennis” (2). Sono state citate anche estensioni che non riguardano il mondo dello sport, come per esempio oggetti da “arredamento” (3) o “telefoni cellulari” (3). Tab. 6.13: Le estensioni di marca suggerite per Nokia NOKIA Numero di suggerimenti 17 8 2 2 15 Suggerimento lettore mp3 elettrodomestici supporti digitali abbigliamento altri suggerimenti totale 44 Nokia ha ricevuto complessivamente 44 suggerimenti di estensione ritenute qualitativamente accettabili. Di queste, ben 17 sono di un “lettore mp3”, ed è una dato che non stupisce, essendo anzi stata questa una delle estensioni “tecnologiche” vagliate per l’inserimento nel questionario: si tratta infatti, analogamente alla fotocamera digitale, di un prodotto che svolge una funzione sempre più spesso adempiuta anche dai telefoni cellulari, categoria originaria di Nokia. Il brand ha ricevuto anche molti suggerimenti riguardanti “elettrodomestici” (8, suddivisi principalmente in TV e impianti hi-fi). 207 7. CONSIDERAZIONI FINALI 7.1. Conclusioni dello studio comprendere i risultati 7.2. Implicazioni manageriali tradurre in azione 7.3. La matrice degli atteggiamenti uno strumento strategico? 7.4. Limitazioni e ricerca futura cautele e auspici CONSIDERAZIONI FINALI 7.1 CONCLUSIONI DELLO STUDIO I risultati ottenuti e presentati nello scorso capitolo consentono di trarre alcune conclusioni significative sul modo in cui il consumatore si rapporta ad un’estensione di marca. Compresa la prospettiva del consumatore, il capitolo ne descrive le implicazioni per l’impresa e suggerisce una applicazione strategica di uno strumento metodologico approntato per questo studio, cioè la matrice degli atteggiamenti di consumo. Il lavoro si conclude quindi con alcuni auspici per la ricerca futura. Si presentano ora singolarmente le conclusioni a cui è giunto questo studio sulla brand extension nella prospettiva del consumatore. L’atteggiamento del consumatore verso un’estensione di marca è influenzato positivamente dalla sua percezione di qualità della marca originaria. I risultati dimostrano che un’estensione beneficia della positività delle associazioni alla marca originaria. L’ipotesi originale di Aaker e Keller, che curiosamente non ha trovato supporto soltanto nel loro studio, riceve pertanto una conferma da questo lavoro: se un brand è considerato qualitativamente elevato, riuscirà a trasferire sui suoi nuovi prodotti questo vantaggio di cui gode e, a parità di altre condizioni, a favorire l’atteggiamento del consumatore verso gli stessi. L’atteggiamento del consumatore verso un’estensione di marca è influenzato positivamente dalla sua percezione di coerenza tra la marca e la categoria di estensione. L’immagine della marca ha un ruolo fondamentale in una strategia di brand extension. Nella fattispecie, il rapporto di coerenza tra la marca e la categoria dove essa intende estendersi è rilevante al punto da costituire condizione necessaria per l’accettazione del nuovo prodotto. Se il consumatore ritiene che tra le due entità non ci sia coerenza di alcun tipo, non avrà un atteggiamento positivo verso l’estensione. Per comprendere la natura di questa coerenza, è fondamentale partire dal presupposto che essa è soggettiva, perchè soggettive sono le percezioni dei consumatori sul brand, cioè l’immagine che questi rapporta al nuovo 211 CAPITOLO 7 prodotto. Nella prima parte di questo lavoro si è approfondito il concetto di brand equity, e mostrato come la varietà delle associazioni che possono comporre la brand image sia tale da renderne molto difficile una codifica; ne consegue che il rapporto di coerenza tra il brand e la categoria di prodotto può essere costituito su basi molto diverse. La classe di prodotto, sebbene sia un’associazione preponderante nell’immagine di molte fattispecie di marca, non la esaurisce: si potrebbe ritenere questa affermazione tautologica, perché il concetto stesso di brand equity implica il riconoscimento di un valore aggiunto della marca rispetto a ciò che contraddistingue, cioè il prodotto. La coerenza con la categoria di estensione a cui ci si riferisce non ha come soggetto, come in molti degli studi precedenti, la classe di prodotto originaria, ma tutte le associazioni che compongono l’immagine del brand. Questo studio dimostra che se l’insieme di percezioni della marca che ha il consumatore è coerente con il prodotto di estensione, questi avrà verso lo stesso un atteggiamento positivo; viceversa, si attenderà un nuovo prodotto di bassa qualità. Gli atteggiamenti di consumo verso la marca e verso la categoria di estensione influiscono sul modo in cui il consumatore percepisce l’estensione. In particolare, essi incidono non solo sul merito delle percezioni (la qualità del brand, la coerenza…), ma anche sul modo il cui il consumatore le organizza. Per cercare di prevedere come un consumatore si rapporta ad un’estensione di marca, non si può pertanto prescindere da una precedente definizione del suo rapporto con il brand originario e con la categoria di prodotto dove esso si estende. Le percezioni di qualità della marca e di coerenza tra questa e la categoria di estensione spiegano la qualità attesa di un’estensione soprattutto per i consumatori che hanno atteggiamenti di consumo molto definiti verso il brand. Chi non consuma il brand o, viceversa, ha con esso un rapporto che trascende il mero consumo, ha un atteggiamento verso i nuovi prodotti 212 CONSIDERAZIONI FINALI maggiormente prevedibile con i criteri della qualità percepita della marca e della coerenza percepita di questa con la categoria di estensione. I medesimi criteri non spiegano nella stessa misura l’atteggiamento di chi consuma la marca senza “riconoscersi in essa”, cioè gli individui al cui atto di consumo non è assegnabile un significato più profondo: evidentemente questo tipo di consumatore, con una posizione meno definita e più problematica rispetto alla marca, ne giudica le estensioni riferendosi in misura maggiore ad altri elementi. Nel giudicare un’estensione di marca, un consumatore che ha con questa un rapporto di consumo permeato di “affetto” tende a darne per scontata la qualità e a verificarne maggiormente il rapporto di coerenza con la categoria di estensione. Rispetto agli altri, i consumatori che “si riconoscono” in una marca ne giudicano le estensioni facendo riferimento in misura maggiore alla percezione di coerenza. Evidentemente, chi ha un rapporto consolidato e non in discussione con una marca tende a non riconsiderarne la premessa di qualità (che è certo una delle determinanti del suo atteggiamento di consumo) e a concentrarsi maggiormente sul nuovo prodotto. Così, la sua percezione di coerenza ha un ruolo ancora più importante nello spiegare il suo atteggiamento complessivo verso l’estensione di marca. 7.2 IMPLICAZIONI MANAGERIALI Per approntare una strategia di brand extension, comprendere la prospettiva di osservazione della stessa da parte del consumatore è fondamentale. Nonostante le conclusioni a cui è giunto questo lavoro siano significative e spendibili anche su piani “tattici” di maggior dettaglio, è a livello strategico che esse hanno più implicazioni: quasi per definizione, il brand richiede ampio respiro per costruire e spiegare il suo valore. Con particolare riferimento al suo ruolo di marketing, la marca richiede del tempo perché la sua immagine si sedimenti nella mente del consumatore. Così, in termini di 213 CAPITOLO 7 branding, qualunque lezione appresa sul consumatore va tradotta in azione assumendo un orizzonte strategico, che è necessità prima di virtù. Si è dimostrato che la qualità percepita del brand e la coerenza delle sue associazioni con il nuovo prodotto sono molto importanti per determinarne la sorte: la prima implicazione strategica è quindi l’esigenza di conoscere perfettamente il proprio brand, che non risiede nella carta intestata dell’impresa ma nella mente dei consumatori. Non si può presumere di compiere azioni ottime di branding se non si conosce ottimamente l’insieme organizzato di percezioni che costituisce il brand. Un risultato come questo, che dimostra quanto siano rilevanti le associazioni alla marca, denuncia, a prescindere dalle strategie di branding che l’impresa intende attuare, l’importanza di avere piena coscienza delle associazioni stesse. In tal senso, questo studio sulla brand extension ha la sua prima implicazione in una sfera che trascende questa fattispecie di strategia per abbracciare la gestione strategica della marca in senso più lato: l’unico modo per disporre davvero del brand è conoscere come esso è percepito nella mente del consumatore. In caso contrario, si correrà il rischio di gestire un marchio, dal significato in tutto o in parte svilito. In questo studio si è dimostrato che il consumatore non giudica la coerenza tra brand ed estensione sulla base delle rispettive classi di prodotto, ma sulla base di tutte le associazioni alla marca. Due marche appartenenti alla stessa categoria di prodotto potrebbero avere possibilità anche molto diverse di estendersi nella medesima classe, alla luce delle rispettive associazioni specifiche. È importante non confondere il concetto di “specificità delle associazioni” e quello di posizionamento distintivo: un’associazione può essere ininfluente nel contesto originario della marca (e non contribuire a posizionarla) ma potrebbe altresì costituire un elemento rilevante in quello di estensione. Quindi, sebbene il processo di posizionamento di un brand miri proprio a stabilire e a controllare le associazioni nella mente del consumatore, in una logica di brand extension i due concetti sono sottilmente diversi. A ben guardare, dalla necessità di riporre attenzione all’immagine del brand nella sua totalità deriva una seconda implicazione, l’esigenza di 214 CONSIDERAZIONI FINALI controllare in particolar modo le associazioni specifiche della marca: la categoria di prodotto, specialmente nei beni a largo consumo, ha spesso un ruolo preponderante nell’immagine di marca, tuttavia ne rappresenta anche l’associazione più “ovvia”, che difficilmente potrà sfuggire di mano all’impresa. Viceversa, le associazioni specifiche sono più varie e devono essere monitorate con costanza: oltre che per il loro ruolo basilare nel contesto originario, per il peso sostanziale che possono avere in una logica di estensione di marca, quella di questo lavoro. Dalla significatività dei coefficienti del modello di regressione ottenuti, desumiamo quindi l’esigenza di una conoscenza puntuale e precisa della brand image: la sua coerenza percepita con la categoria di estensione rappresenta una condizione necessaria per estendere la marca. Detto questo, e ricordato come le associazioni al brand non si modifichino facilmente in tempi brevi, si potrebbe dedurre che la coerenza sia una percezione “data” e non modificabile, quantomeno nel breve periodo. In questo caso, un’impresa che volesse ampliare la propria gamma di prodotti utilizzando i propri brand non avrebbe altra scelta che “leggerli” nella mente dei consumatori e verificare con quali classi di prodotto essi sono compatibili. La strategia di estensione di marca verrebbe, nel suo momento seminale, totalmente privata di creatività e ridotta ad una semplice operazione di matching. Tuttavia, questa costituirebbe una lettura manageriale “pessimistica”; dalla significativa positività dei coefficienti di cui sopra deriva invece un’altra implicazione per l’impresa: dischiusa per un brand di qualità una possibilità di estensione, esso deve saper agire per aumentare il proprio fit con il prodotto, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione a livello strategico e tattico. Riferendosi per semplicità alle leve classiche del marketing mix, per raggiungere questo obiettivo l’impresa ne ha sicuramente a disposizione almeno tre: innanzitutto il prodotto, che dovrà valorizzare le associazioni del brand forti, uniche, positive e coerenti, trascurando le altre; la distribuzione, che potrà avvicinare il brand alla classe di prodotto di estensione per esempio sfruttandone i canali; la comunicazione, che dovrà essere anch’essa imperniata sugli elementi di coerenza. 215 CAPITOLO 7 Va inoltre ricordato che l’impresa potrebbe scegliere di estendere la propria marca facendo leva, per l’occasione, su associazioni secondarie, cambiando cioè le basi di percezione del consumatore. Si guardi, a titolo di esempio, al co-branding per il lancio di un nuovo prodotto: tra i suoi vantaggi, questa strategia (che abbiamo visto essere leggibile anche come una modalità di estensione) ha anche quello di ovviare alla mancanza di fit tra ciascuna immagine delle marche e la nuova classe di prodotto. Infatti, mediante questa strategia si pone di fatto in essere un nuovo brand, che può beneficiare delle associazioni di ciascuna delle sue componenti e il cui fit con la nuova classe di prodotto è maggiore di quello di ciascuno dei partecipanti alla collaborazione. Riassumendo, la significativa positività dei parametri che spiegano la “predisposizione” del consumatore verso l’estensione di marca ha un’interpretazione duplice: da un lato, essi indicano che per ogni ipotetica estensione potrebbero esistere delle soglie critiche in termini di qualità e coerenza percepiti, che l’impresa deve appurare per verificare la praticabilità della strategia; dall’altro, essi recano una misura dell’importanza di percezioni del consumatore, soprattutto in termini di fit, che l’impresa dovrà saper amplificare con gli strumenti a propria disposizione. Una quarta, importante e più puntuale implicazione deriva ancora dalla natura del fit, ed in particolare dal suo essere legato alla specificità del brand prima che alla classe di prodotto di provenienza. Questo significa che l’impresa dovrà valutare tra le possibilità di estensione prescindendo dalla vicinanza della categoria di prodotto di estensione con il suo core business: la coerenza tra classi di prodotto non si traduce necessariamente in una coerenza tra brand e nuovo prodotto, perché questa deriva anche dalle altre associazioni. Ciò significa che un’impresa potrebbe scoprire che un suo brand è coerente e quindi estendibile in categorie di prodotto anche molto lontane da quelle in cui opera tradizionalmente. Per non sprecare opportunità di crescita, è quindi importante che il management sia attento e disposto a valutare tutte le opzioni strategiche che si dimostrano praticabili in termini di mercato, pur non essendo “nelle corde dell’impresa”. Ancora una volta, 216 CONSIDERAZIONI FINALI un’alleanza di marketing potrebbe rappresentare la soluzione più adatta a fronteggiare situazioni simili: si è detto che grazie ad un co-branding “simbolico” si può sopperire a gap di coerenza o di credibilità; qualora invece queste già ci siano ma manchino i sufficienti know-how, potrebbe essere utile avviare collaborazioni di tipo funzionale, che prevedano la realizzazione congiunta del nuovo prodotto. La rete di relazioni dell’impresa potrebbe quindi rivelarsi molto importante nelle sue politiche di innovazione di prodotto. Ulteriori implicazioni derivano dalla differenza dei risultati ottenuti dallo studio per le diverse tipologie di consumatori: in generale, sia che l’impresa stia valutando una possibile estensione di marca perché “tecnologicamente accessibile”, sia che essa derivi direttamente da un’indagine di mercato, le conclusioni rimarcano la necessità di prestare attenzione alle peculiarità del consumatore. Più in particolare, l’atteggiamento verso la marca è una caratteristica che può determinare sia l’accettazione del prodotto (come era normale aspettarsi) sia il modo in cui il consumatore ne giudica la qualità. Un’estensione che abbia come target la clientela “fedele”, affettivamente legata alla marca, dovrà essere supportata in termini di marketing in modo peculiare, focalizzandosi ancora di più sulla coerenza tra il brand e il nuovo prodotto piuttosto che sulla qualità della marca, che il consumatore non metterà in discussione. Aldilà del caso specifico, che andrebbe approfondito con uno studio ad hoc, c’è evidenza della necessità di “declinare” tutte le azioni di branding, ed in particolare dei nuovi prodotti, sulla base delle caratteristiche del consumatore: a partire dai test di mercato per giungere alle azioni tattiche di comunicazione, l’impresa non dovrà mai prescindere dalle caratteristiche del proprio interlocutore, riferendosi ai “consumatori” piuttosto che al “consumatore”. Il prossimo paragrafo, riprendendo la matrice degli atteggiamenti di consumo e analizzandola sotto una luce diversa, offre alcuni spunti in tal senso. 217 CAPITOLO 7 7.3 LA MATRICE DEGLI ATTEGGIAMENTI Nella convinzione che uno studio efficace sulla strategia di brand extension nella prospettiva del consumatore non possa prescindere da una analisi più profonda dello stesso rispetto alla ricerca passata, si è approntata la matrice degli atteggiamenti di consumo: essa ha consentito, oltre ad ovviare ad alcuni difetti ricorrenti nei modelli precedenti, di declinare lo studio su strati di consumatori diversi, per verificarne le eventuali peculiarità. Si ritiene, tuttavia, che questo strumento possa essere utilizzabile con finalità che in parte trascendono quelle conoscitive: in questo senso, se ne suggerisce in questa sede un’applicazione manageriale, potenzialmente utile ad un’impresa con obiettivi di crescita che stia valutando la possibilità di una strategia di brand extension. La fig. 7.1 ripropone la matrice degli atteggiamenti mettendo in evidenza all’interno di essa tre “aree” distinte. Con riferimento ad una fattispecie di estensione di marca, caratterizzata dal brand e dalla categoria del nuovo prodotto, queste aree corrispondono innanzitutto a tre tipologie di consumatori diversi: nell’area A ci sono i consumatori della marca che sono anche consumatori molto frequenti della tipologia di prodotto in questione; nell’area B ci sono i consumatori della categoria di estensione che non hanno alcun rapporto con la marca; nell’area C, infine, ci sono i consumatori “fedeli” della marca che consumano poco o per niente i prodotti della categoria di estensione. 218 CONSIDERAZIONI FINALI Fig. 7.1: La matrice degli atteggiamenti come strumento di marketing Atteggiamento verso la categoria di estensione Consumatori “fedeli” Consumatori poco frequenti Non consumatori C Consumatori “semplici” A Non consumatori Atteggiamento verso la marca Consumatori molto frequenti B Si consideri ora un caso tipico: un’impresa con obiettivi di crescita e con un brand in portafoglio ritenuto dall’elevato potenziale, che stia valutando se estenderlo in una categoria di prodotto. A ben guardare, le tre aree descritte si collegano per essa a tre specifici obiettivi, target o modalità di crescita: • gli individui A fanno già parte del portafoglio clienti dell’impresa, e alcuni di questi sono anche molto legati al brand; tutti sono dei consumatori molto frequenti dei prodotti o servizi a cui il management sta pensando per l’estensione. È evidente che, per queste 219 CAPITOLO 7 caratteristiche, gli individui di quest’area rappresentano una clientela potenziale imprescindibile per l’impresa, al punto da poter essere considerati un test discriminante: se i “migliori” consumatori possibili non accogliessero positivamente l’estensione di marca, difficilmente individui con posizioni di consumo più problematiche, nell’una o nell’altra dimensione della matrice, avrebbero a riguardo reazioni migliori. In questo senso, se i consumatori presenti in quest’area non sono probabilmente sufficienti a garantire una risposta sufficiente alla strategia, certamente ne potrebbero spesso rappresentare, almeno nei presupposti di marketing, una condizione necessaria, quantomeno per beni di largo consumo. • gli individui B, invece, sono dei consumatori anche molto frequenti della categoria di prodotto nella quale vorrebbe estendersi il brand, ma che ad oggi non hanno con esso alcun tipo di rapporto. Qualora l’impresa intendesse crescere attirando nuovi clienti nell’orbita del brand, questa area sembrerebbe rappresentare il target prioritario, perché contiene gli individui che, a parità di condizioni, pur non consumando la marca avrebbero più probabilità di farlo in futuro vista la loro predisposizione al consumo nella categoria di estensione. Tuttavia, è opportuno verificare la credibilità della marca: se si tratta di prodotti ad alto coinvolgimento, un consumatore esperto molto difficilmente accorderà fiducia ad un brand considerato senza credito per quella categoria. Nei prodotti di largo consumo, invece, l’alta frequenza nel consumo potrebbe non corrispondere necessariamente ad elevate esigenze. Nel caso l’impresa voglia utilizzare la strategia di brand extension per espandere la base di clienti della marca, quindi, dovrà valutarne l’immagine presso questi con riferimento particolarmente preciso alla natura del prodotto. • gli individui C sono tutti consumatori fedeli del brand che il management vorrebbe estendere, ma consumano poco o addirittura 220 CONSIDERAZIONI FINALI per nulla i prodotti della categoria di estensione: per il secondo motivo, si tratta di consumatori difficilmente conquistabili o sui quali l’impresa difficilmente potrebbe fare affidamento. Tuttavia, si tratta a ben guardare di una clientela dall’alto valore potenziale, perché se il brand riuscisse ad indurre o incrementare il consumo di questi individui, sarebbe poi almeno in parte sottratto al pericolo costante di concorrenti, che finora non sono riusciti nel suo stesso intento. Lo strumento per raggiungere questo difficile obiettivo è ovviamente il grande appeal di cui la marca gode presso questi consumatori: certo la loro predisposizione e ricettività è buona, e in molti casi l’impresa ha la possibilità di raggiungerli facilmente. L’obiettivo è pertanto ambizioso, ma la possibilità di perseguirlo merita di essere verificata con attenzione. L’utilità della matrice per il management è in primo luogo la capacità dello strumento di fare chiarezza sul mercato dell’estensione di marca: utilizzando due semplici ma significative dimensioni, si riescono a delineare diverse fattispecie di consumatori potenziali, anche molto distinte come si è esemplificato. Le “tre aree” non coincidono volutamente con le caselle della matrice per far intuire visivamente la possibilità di combinare questa ed altre analisi e raggiungere maggiori livelli di dettaglio. Si ritiene infatti che questo strumento sia molto duttile, costituendo una “griglia” che può essere riempita in modi anche molto diversi: con riferimento al suo obiettivo, questo studio ha catturato alcune percezioni dei consumatori, ma l’impresa potrebbe anche decidere di misurarne altre, per scoprire le differenze tra i vari consumatori e scegliere più consapevolmente come caratterizzare nel dettaglio la nuova proposta. La fase in cui questo strumento sembra spiegare maggiormente la propria forza è proprio quella dei test di mercato, o addirittura dei “pre-test”. Si descrive di seguito un esempio chiarificatore di applicazione della matrice, costruito, senza pretese di plausibilità reale, intorno ad un’ipotesi di estensione considerata in questo studio. 221 CAPITOLO 7 Si ipotizzi che Nokia, forte dei know-how acquisiti nella produzione di telefoni cellulari con possibilità di scattare fotografie digitali, stia valutando l’opportunità di lanciare uno o più modelli di fotocamera. Decide di effettuare un pre-test di mercato, interrogando il consumatore con modalità simili a quelle utilizzate nel presente lavoro: nella fattispecie, per misurare in modo inequivocabile quale sarebbe la reazione del mercato a questo nuovo prodotto, sceglie di chiedere agli intervistati la loro probabilità di acquisto. Ciascun rispondente indica pertanto i suoi atteggiamenti di consumo (verso Nokia, ad oggi concentrata sui telefoni cellulari, e verso la categoria delle fotocamere digitali) e la sua probabilità di acquisto del nuovo prodotto. Ottenuti i dati (che si suppongono rispecchiare in larga scala quelli rilevati nel presente studio) il management li analizza e rileva che gli individui C, prima ancora di quelli A, sono quelli con la probabilità d’acquisto più elevata. Gli individui B, invece, hanno un punteggio medio inferiore. Si tratta di un risultato verosimilmente interpretabile in questo modo: chi utilizza molto frequentemente una fotocamera digitale è spesso un appassionato di fotografia, esigente e scettico sul fatto che un produttore di telefoni cellulari riesca a proporre fotocamere di buon livello. Viceversa, chi non utilizza o utilizza poco le fotocamere digitali è mediamente meno esigente. Inoltre, la generale sensazione che si tratti di un prodotto sempre meno costoso fa sì che le eventuali resistenze dovute al prezzo di chi ancora non ha una fotocamera diminuiscano in continuazione. Questi elementi rendono gli individui C più possibilisti degli altri sull’acquisto di una fotocamera prodotta da Nokia, marca alla quale sono molto legati. A questo punto, visto il grande numero di consumatori fedeli su cui può contare, Nokia sceglie di rivolgere la propria attenzione a questi, e sfruttare in modo particolare il proprio appeal su chi ancora non possiede una fotocamera. Per determinare in modo più puntuale che prodotto realizzare, può ora compiere dei test di mercato veri e propri, contenendo i costi grazie alla scelta dei luoghi e i modi più adatti: per esempio, estraendo dei premi tra chi collabora sul sito Nokia, presso i Nokia Point, tramite coupon allegati alle confezioni dei telefoni cellulari. In questo modo, riesce a determinare con precisione le caratteristiche desiderate dai 222 CONSIDERAZIONI FINALI consumatori target, che poi implementerà nel proprio prodotto e, più in generale, nelle sue scelte di marketing. Se Nokia avesse scoperto che gli individui a più alto potenziale sono i B, si sarebbe viceversa indirizzata su un prodotto pensato per quel consumatore, compiendo dei test di mercato nei “luoghi della fotografia”: negozi specializzati, portali dedicati ad appassionati e quant’altro. Ancora, un’impresa potrebbe decidere dove effettuare i test di assegnando ai risultati di ciascuna modalità un peso pari alla dimensione del rispettivo mercato potenziale. Questo caso inventato esemplifica un possibile utilizzo della matrice degli atteggiamenti di consumo. A ben guardare, tuttavia, essa costituisce di fatto uno strumento di segmentazione ad hoc per la strategia di brand extension: potrebbe essere utilizzato anche in fasi successive a quella della progettazione del prodotto, e fare da guida, qualora le sue dimensioni risultassero basi significative nella misurazione di specifiche percezioni, anche per scelte di distribuzione, prezzo o altro. In altre parole, la matrice degli atteggiamenti si presta ad essere utilizzata e dovrebbe essere verificata dall’impresa come possibile architettura di marketing per ogni scelta nell’ambito di una strategia di brand extension. 7.4 LIMITAZIONI E RICERCA FUTURA Lo studio presentato è certamente suscettibile di miglioramenti e presenta delle limitazioni, che pur non minandolo nella validità dei risultati devono essere riportate. Alcune corrispondono a delle semplici cautele da tenere in considerazione, mentre altre si collegano direttamente a degli approfondimenti possibili per la ricerca futura. Tra le prime, vanno necessariamente ricordate le specificità dello studio: la zona di indagine, le caratteristiche del campione di intervistati, gli stimoli scelti per indurre l’insieme di percezioni misurato. 223 CAPITOLO 7 La misurazione su scala 1-7 è stata scelta per le proprietà positive della scala di Likert, ma andrebbe verificata la possibilità di utilizzare altre tecniche e modalità di misurazione. L’utilizzo di più item per indagare su una stessa percezione è da valutare attentamente caso per caso, perché in alcuni casi potrebbe accrescere la precisione delle determinazioni, ma espone inevitabilmente al rischio di distorsioni: se ne ha un esempio nella ricerca precedente, che ha misurato l’atteggiamento del consumatore verso l’estensione utilizzando congiuntamente indicatori dimostratisi non sinergici. Questo studio ha cercato di sviluppare la ricerca sull’estensione di marca mettendo ancora di più il consumatore al centro dello studio. Si sono individuate due basi, i cosiddetti atteggiamenti di consumo, utili a caratterizzarlo. Questa direzione di ricerca non dovrebbe essere trascurata in futuro, cercando ulteriori logiche nelle caratteristiche di marketing degli individui che potrebbero sottostare alle sue percezioni. Inoltre, alcuni dei risultati peculiari raggiunti, come quelli relativi ai consumatori “fedeli” alla marca, andrebbero approfonditi e studiati con indagini ad hoc. L’obiettivo del lavoro è stato comprendere come il consumatore valuti complessivamente una brand extension: in tal senso, l’ampio spazio che è stato dato all’analisi del concetto di coerenza è servito a determinare il modo di misurarla più idoneo a spiegare gli atteggiamenti del consumatore. Si è scelto di misurare il fit nella sua integrità (fit BTC), e la significatività e l’elevato valore del relativo parametro testimoniano come la misurazione effettuata sia stata adeguata. Certamente, sarebbe interessante riuscire a strutturare in modo approfondito la brand image e a comprendere il singolo apporto delle sue componenti (in primo luogo ciò che “è classe di prodotto” e ciò che non lo è) all’atteggiamento verso l’estensione di marca. La difficoltà è crescente nella misura in cui si ritiene imprescindibile mantenere come oggetto di indagine le percezioni “autonome” del consumatore. Per la correttezza complessiva, è fondamentale riferirsi alle associazioni nella mente dello specifico consumatore, e solo in seguito provvedere ad aggregazioni che consentano di formulare conclusioni. Si ritiene che gli studi che predeterminano le associazioni alla marca (sebbene sulla base di giudizi 224 CONSIDERAZIONI FINALI del consumatore) a cui in seguito far riferire la totalità degli intervistati47 corrano il rischio di misurare delle “percezioni medie”, in realtà fittizie rispetto al singolo rispondente. La crescente familiarità degli individui con la tecnologia potrebbe favorire in futuro significativi miglioramenti in ricerche analoghe a questa: nella fattispecie, questionari elettronici potrebbero consentire all’intervistato di rispondere a domande formulate sulla base delle risposte precedenti, senza aumentare la complessità totale. Il rispondente, per esempio, si troverebbe di volta in volta ripresentate le associazioni già indicate in autonomia. Una precodifica molto comprensiva delle stesse, che non neghi tuttavia la possibilità di indicare le proprie percezioni liberamente, potrebbe certo essere utile: in ogni caso, per un corretto studio sul consumatore è requisito fondamentale giudicare ogni osservazione nella totalità e integrità delle sue determinazioni, senza mediarne alcuna. 47 Cfr. BUSACCA B., BERTOLI G., LEVATO F. (2006), “Brand extension & brand loyalty”, Atti del V Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Venezia 20-21 Gennaio 2006. 225 IL QUESTIONARIO ALLEGATO N°1: IL QUESTIONARIO Questo questionario riguarda un’indagine su marche e nuovi prodotti che sto compiendo per la mia tesi. Ti verrà chiesto di descrivere alcune tue abitudini di consumo e il tuo atteggiamento verso alcune marche. Nel caso di domande con risposte multiple, ti prego di scegliere tra le possibilità proposte quelle che più si avvicinano al reale, voltando pagina solo dopo aver risposto a tutte le domande. Se lo compili a computer, ti chiedo gentilmente di sostituire una “x” al pallino nelle domande a scelta multipla. Una volta compilato, ti chiedo di rimandarmelo a [indirizzo e-mail], meglio se salvato con il tuo nome. Ti ringrazio per la collaborazione. Gabriele _____________________________________________________________ (facoltativo) Nome e Cognome N° tel. Indirizzo e-mail 227 ALLEGATO N°1 Sei un consumatore/utente di queste categorie di prodotto/servizio? Con quale frequenza? ABBIGLIAMENTO SPORTIVO Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana MOTORI DI RICERCA ONLINE Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana BIRRA Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana PALESTRE Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana JEANS Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana BEVANDE ENERGETICHE Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana LIBRERIE Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana RADIO ONLINE Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana POPCORN Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana VINO Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana PUB Ο mai Ο al massimo qualche volta al mese Ο almeno una volta a settimana VILLAGGI VACANZE Ο mai Ο una volta negli ultimi 5 anni Ο due o più volte negli ultimi 5 anni FOTOCAMERA DIGITALE Ο mai Ο al massimo un giorno Ο al mese più giorni al mese NAVIGATORE SATELLITARE Ο mai Ο al massimo un giorno Ο al mese più giorni al mese COMPUTER PORTATILE Ο mai Ο al massimo qualche volta a settimana Ο ogni giorno TELEFONO CELLULARE Ο mai Ο al massimo qualche volta a settimana Ο ogni giorno LETTORE MP3 Ο mai Ο al massimo qualche volta a settimana Ο ogni giorno 228 IL QUESTIONARIO Tra queste marche di ABBIGLIAMENTO SPORTIVO, dimmi quali utilizzi. Scegli inoltre, se ce ne sono tra quelle che utilizzi, quali saresti se tu fossi una marca di abbigliamento sportivo (massimo 2). Utilizzo Identificazione Utilizzi REEBOK? Ο sì Ο no saresti REEBOK? Ο sì Ο no Utilizzi ADIDAS? Ο sì Ο no saresti ADIDAS? Ο sì Ο no Utilizzi ASICS? Ο sì Ο no saresti ASICS? Ο sì Ο no Utilizzi NIKE? Ο sì Ο no saresti NIKE? Ο sì Ο no Utilizzi PUMA? Ο sì Ο no saresti PUMA? Ο sì Ο no Utilizzi FILA? Ο sì Ο no saresti FILA? Ο sì Ο no Sempre con riferimento all’ABBIGLIAMENTO SPORTIVO, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra questa categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può aiutare pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di immagine, ecc.. LETTORE MP3 PALESTRA BEVANDE ENERGETICHE JEANS _________________________________________________________________________ Tra questi MOTORI DI RICERCA, dimmi quali utilizzi. Scegli inoltre, se ce n’è uno tra quelli che utilizzi, quale saresti se tu fossi un motore di ricerca (massimo 1). Utilizzo Identificazione Utilizzi YAHOO? Ο sì Ο no saresti YAHOO? Ο sì Ο no Utilizzi ALTAVISTA? Ο sì Ο no saresti ALTAVISTA? Ο sì Ο no Utilizzi MSN? Ο sì Ο no saresti MSN? Ο sì Ο no Utilizzi EXCITE? Ο sì Ο no saresti EXCITE? Ο sì Ο no Utilizzi GOOGLE? Ο sì Ο no saresti GOOGLE? Ο sì Ο no Utilizzi VIRGILIO? Ο sì Ο no saresti VIRGILIO? Ο sì Ο no Sempre con riferimento ai MOTORI DI RICERCA, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra questa categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può aiutare pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di immagine, ecc.. BEVANDE ENERGETICHE CATENA DI LIBRERIE OFFLINE 229 RADIO ONLINE TELEFONO CELLULARE ALLEGATO N°1 Tra queste marche di BIRRA, dimmi quali consumi. Scegli inoltre, se ce ne sono tra quelle che consumi, quali marche saresti se tu fossi una birra (massimo 2). Consumo Identificazione Consumi BUDWEISER? Ο sì Ο no saresti BUDWEISER? Ο sì Ο no Consumi HEINEKEN? Ο sì Ο no saresti HEINEKEN? Ο sì Ο no Consumi TENNENT'S? Ο sì Ο no saresti TENNENT'S? Ο sì Ο no Consumi STELLA ARTOIS? Ο sì Ο no saresti STELLA ARTOIS? Ο sì Ο no Consumi FRANZISKANER? Ο sì Ο no saresti FRANZISKANER? Ο sì Ο no Consumi MORETTI? Ο sì Ο no saresti MORETTI? Ο sì Ο no Sempre con riferimento alla BIRRA, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra questa categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può aiutare pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di immagine, ecc.. POPCORN VINO PUB VILLAGGIO VACANZE _________________________________________________________________________ Tra queste marche di TELEFONI CELLULARI, dimmi quali utilizzi o hai utilizzato di recente. Scegli inoltre, se ce n’è una tra quelle che utilizzi o hai utilizzato di recente, quale saresti se tu fossi una marca di telefoni cellulari (massimo 1). Utilizzo Identificazione Utilizzi MOTOROLA? Ο sì Ο no saresti MOTOROLA? Ο sì Ο no Utilizzi SAMSUNG? Ο sì Ο no saresti SAMSUNG? Ο sì Ο no Utilizzi NOKIA? Ο sì Ο no saresti NOKIA? Ο sì Ο no Utilizzi LG? Ο sì Ο no saresti LG? Ο sì Ο no Utilizzi SIEMENS? Ο sì Ο no saresti SIEMENS? Ο sì Ο no Utilizzi SONY ERICSSON? Ο sì Ο no saresti SONY ERICSSON? Ο sì Ο no Utilizzi ALCATEL? Ο sì Ο no saresti ALCATEL? Ο sì Ο no Sempre con riferimento ai TELEFONI CELLULARI, giudica in una scala da 1 a 7 la coerenza tra questa categoria e i seguenti prodotti/servizi (1 = per nulla coerenti, 7 = molto coerenti). Ti può aiutare pensare se possono essere utilizzati insieme o come sostituti, se hanno affinità produttive o di immagine, ecc.. VILLAGGIO VACANZE FOTOCAMERA DIGITALE NAVIGATORE SATELLITARE 230 COMPUTER PORTATILE IL QUESTIONARIO Considera ora la marca di abbigliamento sportivo NIKE. In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità (1 = pessima, 7 = ottima)? Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a NIKE: Ipotizza che NIKE cominci a produrre questi nuovi prodotti/servizi. Danne un giudizio in termini di qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto del prodotto/utilizzo del servizio (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa per te rappresenta NIKE e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente). Se credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra. LETTORE MP3 Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: PALESTRA Qualità attesa: Probabilità di andarci: Coerenza: JEANS Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: BEVANDE ENERGETICHE Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni NIKE potrebbe commercializzare. Prodotto/ /Servizio Qualità attesa: Probabilità di acquisto/utilizzo: 231 Coerenza: ALLEGATO N°1 Considera ora il motore di ricerca GOOGLE. In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità (1 = pessima, 7 = ottima)? Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a GOOGLE: Ipotizza che GOOGLE cominci a produrre questi nuovi prodotti/servizi. Danne un giudizio in termini di qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto del prodotto/utilizzo del servizio (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa per te rappresenta GOOGLE e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente). Se credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra. BEVANDA ENERGETICA Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: CATENA DI LIBRERIE OFFLINE Qualità attesa: Probabilità di utilizzo: Coerenza: RADIO ONLINE Qualità attesa: Probabilità di utilizzo: Coerenza: TELEFONO CELLULARE Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni GOOGLE potrebbe commercializzare. Prodotto/ /Servizio Qualità attesa: Probabilità di acquisto/utilizzo: 232 Coerenza: IL QUESTIONARIO Considera ora la marca di birra HEINEKEN. In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità (1 = pessima, 7 = ottima)? Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando ad HEINEKEN: Ipotizza che HEINEKEN cominci a produrre questi nuovi prodotti/servizi. Danne un giudizio in termini di qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto dei prodotti/utilizzo dei servizi (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa per te rappresenta HEINEKEN e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente). Se credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra. POPCORN Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: VINO Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: PUB Qualità attesa: Probabilità di andarci: Coerenza: VILLAGGIO VACANZE Qualità attesa: Probabilità di andarci: Coerenza: Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni HEINEKEN potrebbe commercializzare. Prodotto/ /Servizio Qualità attesa: 233 Probabilità di acquisto/utilizzo: Coerenza: ALLEGATO N°1 Considera ora la marca di telefoni cellulari NOKIA. In una scala da 1 a 7, come ne giudichi complessivamente la qualità (1 = pessima, 7 = ottima)? Scrivi liberamente qualche caratteristica, attributo, idea che ti viene in mente pensando a NOKIA: Ipotizza che NOKIA cominci a produrre questi nuovi prodotti. Danne un giudizio in termini di qualità attesa (1= pessima, 7 = ottima) e valuta la tua probabilità di acquisto del prodotto/utilizzo del servizio (1 = altamente improbabile, 7 = molto probabile). Giudica inoltre la coerenza tra cosa per te rappresenta NOKIA e questi prodotti/servizi (1 = molto poco coerente, 7 = molto coerente). Se credi, aiutati con le caratteristiche che hai scritto sopra. VILLAGGIO VACANZE Qualità attesa: Probabilità di andarci: Coerenza: FOTOCAMERA Qualità DIGITALE attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: NAVIGATORE SATELLITARE Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: COMPUTER PORTATILE Qualità attesa: Probabilità di acquisto: Coerenza: Se credi, puoi suggerire e giudicare negli stessi termini un nuovo prodotto o servizio che ritieni NOKIA potrebbe commercializzare. Prodotto/ /Servizio Qualità attesa: Probabilità di acquisto/utilizzo: 234 Coerenza: BIBLIOGRAFIA BIBLIOGRAFIA AAKER, D. A. (2002), Brand Equity. La gestione del valore della marca, Franco Angeli. Titolo originale: Managing Brand equity. Capitalizing on the value of a brand name (1991), The Free Press, New York. AAKER D. A., KELLER K. L. (1990), “Consumer evaluations of brand extensions”, Journal of Marketing, Vol.45, Gennaio, 27-41. AAKER D. A., KELLER K. L. (1990b), Managing brand equity: the impact of multiple brand extensions, Working Paper, University of California, at Berkeley. AAKER D. A., KELLER K. L. (1993), “Interpreting cross-cultural replications of brand extension research”, International Journal of Marketing, 10. ACHENBAUM A. A. (1993), “The Mismanagement of Brand equity”, paper presentato all’ARF Fifth Annual Advertising and Promotion Workshop, 1 febbraio. ALEXANDRE-BOURHIS N. (1994), L'évaluation des extensions de marque par les consommateurs: une étude empirique, Working Paper No. 49, IAE-Caen France. ANDERSON J. R. (1983), The Architecture of Cognition, Cambridge, Harvard University Press. BAIETTI I. (2000), “Dalla brand Identity alla site identity: l’influenza della comunicazione off-line sulla site image e sulla brand image”, Convegno le “Tendenze del Marketing in Europa”, 2000. 235 BIBLIOGRAFIA BARRETT, J., LYE, A., VENKATESWARLU, P. (1999), “Consumer perceptions of brand extensions: generalising Aaker and Keller’s model’’, Journal of Empirical Generalisations in Marketing Science, Vol. 4, 1-21. BARWISE, P. (1993), “Introduction to the special issue on brand equity”, International Journal of Marketing, 10, 93-104. BOTTOMLEY P., DOYLE J. (1996), “The formation of attitudes towards brand extensions: testing and generalising Aaker and Keller's model”, International Journal of Research in Marketing, 13 (4), 365-377. BRONIARCZYK S., ALBA J. (1994), The Importance of The Brand in Brand Extension”, Journal of Marketing Research, Maggio, 214-228. BOTTOMLEY P., HOLDEN S. (2001), “Do we really know how consumers evaluate brand extensions? Empirical generalizations based on secondary analysis of eight studies”, Journal of Marketing Research, 38 (4), 494-500. BOUSH D., LOKEN B. (1991), “A process tracing study of brand extension evaluation”, Journal of Marketing Research, vol. 28, n. 2, 16-28. BUSACCA B., BERTOLI G. (2006), “Co-branding e valore della marca”, Atti del III Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Parigi 28-29 Novembre 2003. BUSACCA B., BERTOLI G., LEVATO F. (2006), “Brand extension & brand loyalty”, Atti del V Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Venezia 20-21 Gennaio 2006. 236 BIBLIOGRAFIA CANTONE L., CALVOSA P., RISITANO M. (2003), “La misurazione delle leve generatrici del valore di marca nella prospettiva customer-based. I risultati di un’indagine empirica e le implicazioni manageriali”, Atti del III Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Parigi 28-29 Novembre 2003. COLLESEI U. (2000), Marketing, Cedam, Padova. COLLESEI U., RAVÀ V. (2004), La comunicazione d’azienda, Isedi, Torino. COLLESEI U., ISEPPON M. (2003), “Strategie di crescita della marca”, Atti del III Congresso Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, Parigi 28-29 Novembre 2003. DACIN P., SMITH D. (1994), “The effect of brand portfolio characteristics on consumer evaluations of brand extensions”, Journal of Marketing Research, 31 (Maggio), 229-242. FARQUHAR P.H. (1989), “Managing Brand Equity”, Marketing Research, 1, 2433. FARQUHAR P. H., HERR P., FAZIO R. (1990), “A relational model for category extensions of brands”, Advances in Consumer Research, Vol. 17, 856-860. FARQUHAR P. H., HAN J. Y., IJIRI Y. (1991), Recognizing and Measuring Brand Assets, MSI Report 91-119, Cambridge, Marketing Science Institute. GÜRHAN-CANLI Z., MAHESWARAN D. (1998), “The Effects of Extensions on Brand Name Dilution and Enhancement”, Journal of Marketing Research, 35, 464-473. 237 BIBLIOGRAFIA HOLDEN S., BARWISE P. (1996), Generalizing from replication studies: an exploratory case study, Working Paper 96-004, Australian Graduate School of Management. KAPFERER J. N. (1997), Strategic brand management, Kogan Page, Londra. KAPFERER J. N. (2002), Reinventare la marca, Franco Angeli, Milano. KELLER, K. L., (1993), “Conceptualizing, Measuring, and Managing CustomerBased Brand Equity”, Journal of Marketing, vol. 57 (Gennaio), 1-22. KELLER, K. L., BUSACCA, B., OSTILLIO, M.C. (2006), Gestione e sviluppo del brand, Egea. Titolo originale: Strategic Brand Management (KELLER, K. L., 2003), II ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. KELLER K. L., AAKER D. A. (1992), “The effects of sequential introduction of brand extensions”, Journal of Marketing Research, 29 (Febbraio), 35-50. KIRMANI A., SOOD S., BRIDGES S. (1999), “The ownership effect in consumer responses to brand line stretches”, Journal of Marketing, Vol. 63 (Gennaio), 88-101. KOTLER P. (2003), Marketing Management, XI ed., Upper Saddle River, Prentice Hall. LANE V. R. (2000), “The impact of ad repetition and ad content on consumer perceptions of incongruent extensions”, Journal of Marketing, Vol. 64 (Aprile), 80-91. LOKEN B., JOHN D. (1993), “Diluting brand beliefs: when do brand extensions have a negative impact?”, Journal of Marketing, Vol. 57 (Luglio), 71-84. 238 BIBLIOGRAFIA MUTHUKRISHNAN A., WEITZ A. (1990), “Role of product knowledge in evaluation of brand extension”, Advances in Consumer Research, Vol. 18 (Maggio), 408-413. NEDUNGADI P., HUTCHINSON J. W. (1985), “The Prototypicality of Brands: Relationships with Brand Awareness, Preferente, and Usage”, in E.C. Hirschman, M. B. HOLBROOK (a cura di), Advances in Consumer Research, vol. 12, Provo, Association for Consumer Research. NIJSSEN E., HARTMAN D. (1994), “Consumer evaluations of brand extensions: an integration of previous research”, in Proceedings of the 23rd Annual Conference of the European Marketing Academy, J. BLOEMER, J. LEMMINK, H. KASPER, eds. Maastricht, The Netherlands: European Marketing Academy, 673-683. OGIBA E. F. (1988), "The Dangers of Leveraging," Adweek (4 Gennaio), 42. PARK C.W., MILBERG S., LAWSON R. (1991), “Evaluation of brand extensions: the role of product level similarity and brand concept consistency”, Journal of Consumer Research, 18, Settembre, 185-193. PARK C., SRINIVASAN V. (1994), “A survey-based method for measuring and understanding brand equity and its extendibility”, Journal of Marketing Research, 31, 241-288. PHILLIPS S. (1990), “Chiquita May Be a Little Too Ripe”, Business Week, 30 aprile. QUELCH J., KENNY D. (1994), “Extend Profits, not Product Lines”, Harvard Business Review, Vol. 72 (4), 153-164. 239 BIBLIOGRAFIA RANGASWAMY A., BURKE R., OLIVA T. (1993), “Brand equity and the extendibility of brand names”, International Journal of Marketing, n° 10 (Gennaio), 61-75. REDDY, S.K., HOLAK S., BHAT S. (1994), “To extend or not to extend: success determinants of line extensions”, Journal of Marketing Research, 31, 243-262. REEVES R. (1961), Reality in Advertising, Knopf, New York. RIES A., TROUT J. (1981), Positioning: The Battle for Your Mind, McGraw-Hill, New York. ROEDDER JOHN D., LOKEN B. (1993), “Diluting Brand equity: The Impact of Brand Extension”, Journal of Marketing, Luglio. ROSELIUS (1971), “Consumer Ranking of Risk Reduction Methods”, Journal of Marketing, 35 (Gennaio), 56-61. SIMON, C. J. E SULLIVAN M. W. (1993), “The Measurement and Determinants of Brand Equity: a Financial Approach”, Marketing Science, vol. 12, (Inverno), 28-52. SMITH D., PARK C. (1992), “The effects of brand extensions on market share and advertising efficiency”, Journal of Marketing Research, vol. 29, 3, 296-313. SRIVASTAVA K., SHOCKER A. (1991), Brand equity: a perspective on its meaning and measurement, MSI Report No. 91-124, Cambridge, MA, Marketing Science Institute. SULLIVAN M. W. (1992), “Brand Extensions: When to Use Them”, Management Science, 38, n. 6, Giugno. 240 BIBLIOGRAFIA SUNDE L., BRODIE J. (1993), “Consumer evaluations of brand extensions: further empirical results”, International Journal of Marketing, 10, 47-53. SWAMINATHAN V., FOX R.J., REDDY S.K. (2001), “The impact of brand extension: introduction on choice”, Journal of Marketing, 65, 1-15. TAUBER E. M. (1981), “Brand Franchise Extension: New Product benefits from Existing Brand Names”, Business Horizons, 2, 36-41. TAUBER E. M. (1988), “Brand leverage: strategy for growth in a cost-control world”, Journal of Advertising Research, Agosto/Settembre, 26-30. UNIVERSITY OF MINNESOTA CONSUMER BEHAVIOR SEMINAR (1987), “Affect Generalization to Similar and Dissimilar Brand Extensions”, Psychology and Marketing, 4 (Autunno), 225-37. URBAN G. L., HAUSER J. (1993), Design and Marketing of New Products, II ed., Upper Saddle River, Prentice-Hall. VESCOVI T. (2005), La pianificazione di marketing, Il Sole 24Ore, Milano. VÖLKNER F., SATTLER H. (2006), “Drivers of Brand Extensions success”, Journal of Marketing, vol. 70 (Aprile), 18-34. WARD J, LOKEN B. (1986), “The Quintessential Snack Food: Measurement of Prototypes”, in R. J. LUTZ (a cura di), Advances in Consumer Research, vol. 13, Association for Consumer Research. WYER R. S. JR., SRULL T. K. (1989), “Person memory and Judgement”, Psychological Review, 96, n. 1. 241 BIBLIOGRAFIA ZARA C. (a cura di) (1997), La marca e la creazione del valore d'impresa, ETAS Libri. 242 RINGRAZIAMENTI RINGRAZIAMENTI Desidero ringraziare prima di ogni altro la mia famiglia. Mamma Consuelo e Papà Ennio mi hanno reso la vita facile, consentendomi di non preoccuparmi che dei miei obiettivi, e mettendomi sempre nella condizione migliore per cercare di raggiungerli. Senza il loro aiuto attivo, il loro esempio silenzioso, la loro presenza costante, non starei tagliando un traguardo così importante e desiderato. Questa tesi è dedicata ai miei nonni, che se ne sono tutti andati nel corso di questi cinque anni. So quanto tenessero ai miei studi e alla mia felicità, e la loro fiducia mi ha sempre infuso consapevolezza e voglia di ripagarla. Ognuno di loro ha avuto un ruolo nella mia crescita, oggi qui hanno tutti un posto speciale. Mia zia Federica ha rappresentato nei momenti di dubbio e difficoltà la “voce giovane” della mia famiglia, e per questo, oltre al suo affetto, mi ha fornito un supporto insostituibile. Per questa tesi ho ricevuto un contributo tangibile da parte del Prof. Tiziano Vescovi, che mi ha ascoltato e consigliato più volte nella fase di concepimento dell’idea oltre che in quella dell’esecuzione. Ringrazio anche il Prof. Andrea Pastore, per la sua grande disponibilità. Ad entrambi va inoltre il merito di aver indotto, con i rispettivi corsi di marketing e statistica, la mia volontà di provare a strutturare una tesi di questa natura. Un ringraziamento enorme va inoltre a tutte le 223 persone che hanno partecipato all’indagine rispondendo al mio questionario: senza di loro, lo studio sarebbe rimasto solo sulla carta. Ringrazio inoltre coloro che, a fasi alterne, mi hanno dato preziose opinioni o si sono più frequentemente annoiati ascoltando i miei monologhi sulle strategie di marca. 243 RINGRAZIAMENTI Desidero ringraziare le persone che, in vari modi, mi sono state vicine in questi anni, contribuendo in modo indiretto alla riuscita dei miei studi: Tomaso e i miei amici e amiche di Mestre: non posso nemmeno cimentarmi in un elenco, perché per mia fortuna sono davvero tanti e importanti. I momenti di divertimento, gioia, disimpegno che abbiamo vissuto insieme mi hanno fatto rifiatare; quelli di difficoltà mi hanno fatto maturare. Marta, per questo e qualcosa di più. Tutti i “musicisti”, tra virgolette e non solo, con cui in questi anni ho condiviso ore e ore di rock: in particolare Alberto e gli Overture, i Reverie, i Cool Cats, che mi hanno dato modo di sfogarmi, esprimermi e qualche volta deprimermi con una chitarra al collo. I compagni di università di questi anni, che sono spesso cambiati ma con cui ho trascorso momenti di studio e di pausa spesso molto più piacevoli di altri. I miei “amici estivi”, di Lignano e recentemente Roma, che ogni anno mi hanno ricaricato le batterie. Un pensiero va anche a Martina: oggi posso candidamente ammettere che cinque anni fa ha avuto un ruolo determinante nella mia decisione di iscrivermi in questa università. Oltre che di momenti che non scorderò mai, ha parte del merito di questa scelta fortunata. 244 RINGRAZIAMENTI Infine, sento di dover ringraziare chi mi ha infuso a volte leggerezza e più spesso passioni a cui non saprei rinunciare: Gli Who, i Van Halen, Le Orme, gli Helloween e i Gamma Ray, Ligabue e tutta la musica vissuta e ascoltata di quarant’anni: è stata la colonna sonora di un viaggio non sempre in discesa. John Carpenter, David Cronenberg, George A. Romero e tutti gli altri sceneggiatori e registi (non solo horror!) che mi hanno fatto emozionare davanti a schermi piccoli e grandi. Jack Kerouac e il suo entusiasmo Sulla Strada, che mi ha ricordato quanto può essere piena una giornata. 245 247