ACCONTENTARSI
PER ESSERE
CONTENTI?
Leggendo il brano proposto, tratto da “Ouvres et
lettres” di Renè Descartes, ci siamo poste tre
domande:
• 1. Qual è la tesi di Cartesio?
• 2. Può essere considerata valida anche oggi?
• 3. Se sì, a che conclusioni porta?
Il nostro scopo
è rispondere
a queste tre
domande,
e in particolare
capire se
le parole di
Cartesio
possono ancora
guidarci
nelle nostre
vite.
QUAL E’ LA TESI DI
CARTESIO?
• Il primo problema che
sorge alla lettura del
brano è definire la virtù
di cui parla inizialmente
Cartesio(“… ci testimoni
che non abbiamo mai
mancato di risoluzione
di virtù”).
Visto il contesto
storico in cui è
vissuto (Francia, fine
XVII secolo)
possiamo pensare
che la virtù a cui si
riferisce sia quella di
matrice cristiana,
più o meno
condivisa dalla
mentalità comune
della sua epoca.
Egli non critica questa
virtù in modo radicale,
ma anzi afferma che
“da sola è sufficiente a
renderci contenti di
questa vita”. Senza
l’ausilio della ragione
essa è però fallace,
può cioè
involontariamente
“portare a delle cose
cattive”. Solo
attraverso il “retto uso
della ragione” si può
essere certi che la
virtù non sbagli.
PUO’ ESSERE CONSIDERATA VALIDA ANCHE
OGGI?
Dalla redazione di “Ouvres
et lettres” sono passati
quasi quattrocento anni.
Cartesio e il razionalismo
sono stati ampiamente
messi in discussione (basti
solo pensare all’empirismo e
al relativismo) per giungere
a conclusioni anche
diametralmente opposte alle
sue.
• A nostro
parere però,
pur tenendo
conto di
quanto i
concetti di
virtù e
ragione siano
cambiati, la
distinzione
che Cartesio
fra “virtù da
sola” e virtù
suffragata
dall’ausilio
della ragione
è ancora
valida.
Affermiamo ciò alla
luce di una società che
è diventata società di
massa. La virtù
“sufficiente a renderci
contenti” è troppo
spesso unicamente
quella condivisa dalla
maggioranza di chi ci
circonda e la ragione,
intesa come incessante
mettere in dubbio ogni
cosa, è spesso vista
come una perdita di
tempo proprio rispetto
a quell’essere
“contenti”.
SE SI’, A CHE CONCLUSIONI PORTA?
Posto che anche noi, come
Cartesio, riteniamo che si
possa giungere a questo
essere “contenti” ( oggi
forse diremmo
“realizzati”)
semplicemente seguendo
una virtù comune e
condivisa ci chiediamo se
possa avere più senso
arrivarci per mezzo della
ragione.
Qual è la scelta migliore:
vivere accettando
implicitamente che “ le
cose che abbiamo
giudicato essere le
migliori” ( o che gli altri
hanno giudicato per noi
essere tali) potrebbero
invece essere “cattive”o
convivere con il “genio
maligno” che ci porta a
mettere in dubbio ogni
cosa?
In entrambi i casi si può condurre
una vita proficua non solo per sé ma
anche per gli altri. Il nostro obiettivo
non è demonizzare la prima scelta
né assolutizzare questa distinzione.
Farlo significherebbe non
tenere conto delle
emozioni. In particolare
nel mondo contemporaneo
esse sono considerate di
primaria importanza e
assumono grande rilievo
nelle nostre vite.
A volte usare la ragione
per scandagliare fino in
fondo ciò che ci circonda
più che “fornirci una vera
conoscenza del bene” apre
voragini di dolore in cui
l’intelletto non può
illuminare più nulla.
Anche sul piano
sociale un tipo di
pensiero divergente
può ad esempio
portare a una
condanna collettiva
o all’emarginazione.
Riteniamo quindi che, benché, la ragione porti a virtù e a
verità più autentiche, non si possa chiedere all’uomo di
farne sempre uso, poiché questo ha conseguenze che a
volte un individuo può non essere in grado di affrontare.
Grazie per
l’attenzione.
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