Giuseppe Ungaretti Breve biografia di Giuseppe Ungaretti. Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto il 10 febbraio 1888 da Antonio Ungaretti e da Maria Lunardini. Nel 1912 lasciò l’Egitto e andò all’università di Parigi. Nel 1915 partecipò come volontario alla prima guerra mondiale, come soldato semplice nell’esercito italiano. Nel 1916 uscì il primo libro di poesie “Il porto sepolto”. Nel 1919 il libro prese il titolo “Allegria di Naufragi” Nel 1920 si sposò con Jeanne Dupoix. Nel 1922 rientrò in Italia e lavorò presso il ministero degli esteri e aderì subito al fascismo. Nel 1928 si convertì alla fede cattolica e scrisse “La pietà”. Nel 1933 pubblicò la seconda raccolta di poesie “Sentimento del tempo” Nel 1936 andò ad insegnare all’Università di San Paolo del Brasile, ma nel 1939 gli morì il figlioletto Antonietto. Nel 1942 rientrò a Roma, accolto dal regime. Nel 1947 pubblicò la terza raccolta di poesie Il Dolore. Nel 1950 pubblicò la quarta raccolta La terra promessa Nel 1952 pubblicò la quinta raccolta Un grido e paesaggi. Nel 1959 gli morì la moglie, a cui dedicò una poesia. Nel 1960 pubblicò la sesta raccolta Il taccuino del vecchio. Nella notte tra il 1° e il 2° giugno del 1970 Ungaretti nella casa di una sua intima e giovane amica morì. LA PIETA’ di Giuseppe Ungaretti. Nel 1928 in seguito alla crisi spirituale, Ungaretti si converte alla fede cristiana e compone la stupenda e bellissima poesia La PIETA’. Ungaretti stesso ricorda la pubblicazione della poesia: << E’ la prima manifestazione risoluta di un mio ritorno alla fede cristiana che, anche se altre mire prima mi seducevano, nella mia persona dissimulandosi non cessava d’attendere. Nacque, durante la settimana santa, nel monastero di Subiaco, dov’ero ospite del mio vecchio compagno don Francesco Vignanelli, monaco a Montecassino>>. Ungaretti incluse La PIETA’ nella sua seconda opera poetica Sentimento del tempo che pubblicò nel 1933. Ungaretti pubblicò la seconda edizione nel 1936 arricchendola con altre poesie. Sentimento del tempo si compone di 7 sezioni: Prime; La fine di crono; Sogni e Accordi; Leggende; Inni; La morte meditata; L’Amore. LA PIETA’ fa parte della quinta sezione e costituisce la prima di una trilogia sulla stesso argomento e cioè Dio, la religione cristiana e la natura degli uomini. LA PIETA’ è la poesia n° 51 a cui seguono CAINO e LA PREGHIERA che completano in modo omogeneo la riflessione poetica del poeta. Questa poesia, o meglio, questo poemetto o canto - preghiera è di una perfezione assoluta. Essa riesce a sintetizzare in modo originale, drammatico, pietoso, ma anche con tanto pathos e con tanta veemenza tutta la crisi spirituale e la disperazione che il poeta aveva accumulato nei primi 40 anni di vita, come già la aveva descritta lo stesso poeta: << estrema inquietudine, perplessità, angoscia, spavento della sorte dell’uomo>>. Il poeta conduce un dialogo, pieno di rabbia e di disperazione, di dubbi e di richiesta di salvezza a Dio. Nel poemetto – preghiera il poeta parte da se stesso ma alla fine arriva all’uomo bestemmiatore. Un percorso difficile e tortuoso che esplode continuamente in interrogativi senza risposte. La forma del testo è sorprendentemente altissima con l’uso di ampi vuoti fra le tantissime strofe, che sembrano abissi che rendono il poemetto ancor più solenne e ieratico. Il poeta si trova in una crisi spirituale, dopo tanti dubbi su Dio, (Perché bramo Dio) ora è un uomo ferito e vorrebbe andare dove l’uomo è ascoltato per quello che è (cioè nel regno delle anime). Il poeta, allora, intraprende un viaggio poetico interiore per scoprire Dio e si chiede se lui non è degno di tornare in se stesso. Vede la sua anima sballottata qua e là, poi ricomincia con le domande scettiche: << Dio, coloro che t ‘implorano Non ti conoscono che di nome?>>. Poi il poeta invoca Dio a guardare la debolezza degli uomini, ma subito dopo chiede una certezza a Dio. Quindi prega Dio :<< Una traccia mostraci di giustizia>> e richiede di voler conoscere la legge di Dio ed in ultimo supplica Dio che lo liberi dalle sue povere emozioni e dall’inquietudine. Il poeta è ora stanco di urlare senza voce, poiché l’ha persa in tutte le sue suppliche a Dio. Nella seconda parte il poeta, dopo alcune domande sugli uomini e sulle ombre, si chiede con un accoramento struggente e angoscioso se: << La speranza di un mucchio d’ombra E null’altro è la nostra sorte?>>. Bellissimi e drammatici versi che esprimono la perplessità e lo spavento del poeta di andare incontro ad una morte senza salvezza e senza il perdono di Dio. E il poeta si chiede se Dio si riduce a un puro sogno. E conclude che nell’uomo : <<In noi sta e langue, piaga misteriosa>>. Nella terza parte il poeta afferma che: <<La luce che ci punge E’ un filo sempre più sottile.>>. Ma questa breve parte è anche quella più ieratica ed ermetica. Infatti è davvero difficile capire il significato di questi due versi: << Più non abbagli tu, se non uccidi? Dammi questa gioia suprema.>> Nella quarta parte il poeta scopre la natura maligna e delittuosa degli uomini, dai quali non possono uscire che limiti. L’uomo attaccato sul vuoto però non teme la sua vita su questa terra, né teme la sua condizione umana né teme la sua avventura terrena e dell’uomo malvagio, lo seduce il suo grido di terrore. E questo grido di terrore fa pensare immediatamente al dipinto di Edvard Munch “Urlo” del 1893. L’ultima strofa si chiude con il riconoscimento da parte di Ungaretti della natura malvagia dell’uomo il quale per pensare Dio <<non ha che le bestemmie. >> Il riconoscimento della natura malvagia degli uomini è riconfermata subito dopo nella poesia CAINO, mentre la volontà di chiedere a Dio misericordia e perdono per i peccati degli uomini è confermata dalla poesia che segue La PREGHIERA, la quale dopo aver deprecato la natura malvagia e la superbia degli uomini chiede a Dio di essere Lui la misura e il mistero e chiude la poesia con un immagine celeste e metafisica: <<Vorrei di nuovo udirti dire Che in te finalmente annullate Le anime s’unificheranno E lassù formeranno, Eterna umanità Il tuo sonno felice>>. LA PIETA’ (Testo della poesia). Sono un uomo ferito. E me ne vorrei andare E finalmente giungere, Pietà, dove si ascolta L’uomo che è solo con sé. Non ho che superbia e bontà. E mi sento esiliato in mezzo agli uomini. Ma per essi sto in pena. Non sarei degno di tornare in me? Ho popolato di nomi il silenzio. Ho fatto a pezzi cuore e mente Per cadere in servitù di parole? Regno sopra fantasmi. O foglie secche, Anima portata qua e là… No, odio il vento e la sua voce Di bestia immemorabile. Dio, coloro che t’implorano Non ti conoscono più che di nome? M’hai discacciato dalla vita. Mi discaccerai dalla morte? Forse l’uomo è anche indegno di sperare. Anche la fonte del rimorso è secca? Il peccato che importa, Se alla purezza non conduce più. La carne si ricorda appena Che una volta fu forte. È folle e usata, l’anima. Dio guarda la nostra debolezza. Vorremmo una certezza. Di noi nemmeno più ridi? E compiangici dunque, crudeltà. Non ne posso più di stare murato Nel desiderio senza amore. Una traccia mostraci di giustizia. La tua legge qual è? Fulmina le mie povere emozioni, liberami dall’inquietudine. Sono stanco di urlare senza voce. 2 Malinconiosa carne Dove una volta pullulò la gioia, Occhi socchiusi del risveglio stanco, Tu vedi, anima troppo matura, Quel che sarò, caduto nella terra? È nei vivi la strada dei defunti, Siamo noi la fiumana d’ombre, Sono esse il grano che ci scoppia in sogno, Loro è la lontananza che ci resta, E loro è l’ombra che dà peso ai nomi, La speranza d’un mucchio d’ombra E null’altro è la nostra sorte? E tu non saresti che un sogno, Dio? Almeno un sogno, temerari, vogliamo ti somigli. È parto della demenza più chiara. Non trema in nuvole di rami Come passeri di mattina Al filo delle palpebre. In noi sta e langue, piaga misteriosa. 3 La luce che ci punge È un filo sempre più sottile. Più non abbagli tu, se non uccidi? Dammi questa gioia suprema. 4 L’uomo, monotono universo, Crede allargarsi i beni E dalle sue mani febbrili Non escono senza fine che limiti. Attaccato sul vuoto Al suo filo di ragno, Non teme e non seduce Se non il proprio grido. Ripara il logorio alzando tombe, E per pensarti, Eterno, Non ha che le bestemmie. Il poemetto esprime il travaglio interiore del poeta in modo freddo e rabbioso, distaccato ma pieno di gesti e di posture calde e impetuose, poiché la materia è calda e appassionante. La lexis della poesia è altissima, solenne, impeccabile, ieratica, imperturbabile, non mostra segni di cedimenti né verso un vittimismo pauroso né verso un sentimento di vigliaccheria, né verso la vita brutale e crudele. I vuoti tra le strofe sono dei vuoti abissali che esprimono tutto il desiderio di arrivare a Dio. Le pause lunghe danno al poemetto un tono alto e aulico, freddo e maestoso, tanto da essere un Inno elegiaco che potrebbe essere cantato come un coro religioso. Il poemetto si conclude con la riaffermazione dell’uomo bestemmiatore, per dire che la natura umana è passionale, violenta, crudele, vitale, feroce. La forma del poemetto è perfetta perché è scritta in brevi versi e piccole strofe lapidarie, laconiche, essenziali, epigrafiche, spezzate ma non frantumate, piene di pathos e di pietas. Ogni spazio tra i versi è un vuoto abissale, quale quello che separa gli uomini da Dio. Come scrive Andrea Cortellessa: <<Troviamo infatti che nella raccolta del ’33 “ogni verso è come durevolmente inciso e bloccato in un suo spazio. È un verso-strofa”>>. Tutto ciò rende il poemetto un coro liturgico e drammatico rivolto a Dio per essere ascoltati. Giuseppe Ungaretti G e Biagio Carrubba i u Il grande poeta e il suo modesto ammiratore vi ricordano che e La Pietà dovrebbe essere la prima grande virtù tra gli uomini, s ma entrambi sono sicuri che Dio sarà pietoso con gli uomini. Modica mercoledì 9 agosto 2006