ISTITUTO COMPRENSIVO DI ALBINEA (RE)
Classi terze A-C-E
Villa Rossi 2012
“Tra barche, acqua, terre e … patrie lontane”
Letture:
- F. Fontana: “Il canto degli emigranti”
- Ispettorato Immigrazione USA: “Relazione,
ottobre 1912”
Brani musicali:
- Vangelis, da 1492, Conquest of Paradise: “Light
and Shadow”
- Anonimo: “Mamma mia dammi cento lire”
- G. Ungaretti: “In memoria”
- K. Jenkins: “Hymn”
- G. Ungaretti: “I fiumi”
- G. F. Händel, dal Rinaldo: “Lascia ch’io pianga”
- S. Quasimodo: “Lamento per il Sud”
- J. Horner - W. Jennings: “My heart will go on”
- D. Abdelkader: “La ballata di riva”
- E. Cannio - A. Califano:“‘O surdato ‘nnamurato”
“Tra barche, acqua, terre e … patrie lontane”
“Tra barche, acqua, terre e … patrie lontane” è il titolo del nostro progetto didattico; proposta che
tratta tematiche riguardanti vicende migratorie legate al nostro paese: eventi che si fondono, con
diverse connotazioni, nel passato e nel presente, unitamente a genti e popoli diversi, tra fame e
guerre mai estinte.
Mediante alcuni brani letterari e musicali, tenderemo a far emergere alcune peculiarità della nostra
identità culturale: consuetudini, costumi, aspetti emozionali e comportamentali che, a torto o a
ragione, in positivo o in negativo, fanno ormai parte, nell’immaginario, di luoghi comuni o di
stereotipi riconducibili a noi italiani.
È però, questa, anche l’identità collettiva di un paese rievocata e consolidata da memorie individuali
o da percorsi esistenziali di massa lontani, talvolta tragici, talvolta coronati da successo. Una
consapevolezza che ha costituito e che rappresenta il terreno su cui cresce e si modella il presente,
affinché si possano comprendere e riscoprire valori universali come la conoscenza, l’accoglienza,
l’accettazione, il confronto, l’adattamento, l’integrazione: requisiti che implicano e richiedono
azioni reciproche, concrete e feconde, tra autoctoni e “nuovi arrivati”.
Quando Albert Einstein sbarcò negli Stati Uniti, come tutti gli emigrati, ricevette un modulo da
compilare. Tra le molte domande alle quali bisognava rispondere ce ne era una che chiedeva: “A
quale razza appartieni?”
E lui rispose: “A quella umana!”
Ferdinando Fontana, 1881
“Il canto degli emigranti”
“Noi siamo pecore, figli di pecore”.
Di generazione in generazione i lupi si scaldano con la nostra lana e si cibano con la nostra carne.
Un giorno vennero a dirci che in un paese molto vasto, ma molto lontano, noi avremmo potuto
campare meno peggio.
Oh pecore, pecore – ci gridarono - badate che c’è il mare da attraversare.
E noi lo attraverseremo
E se fate naufragio e vi annegate?
Meglio morire d’un colpo che agonizzare tutta la vita.
Oh povere pecore, ma voi non sapete che in quel paese molto vasto e molto lontano ci sono delle
malattie tremende.
Nessuna malattia potrebbe essere più tremenda di quella che noi soffriamo di padre in figlio: la
fame”.
Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulla nave degli emigranti
“Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi,
i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. E’ un
avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che
cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie
volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante.
L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto gli
emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura,
occorrendo, si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le
deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni
e la pulizia è difficile.”
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni
agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano
quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma, sovente, davanti alle chiese, donne
vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce
di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere, ma, soprattutto, non hanno
saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di
vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.
Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a
lavorare.
Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano, purché le famiglie rimangano unite, e non
contestano il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal Sud
dell’Italia.
Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.
Ottobre 1912: relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione al Congresso
Americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti.
Giuseppe Ungaretti
In memoria
I versi che compongono In memoria sono incentrati su un fatto riguardante la sfera personale
dell’autore: la poesia rievoca la sfortunata vita dell’amico Moammed Sceab, suicida nel 1913, con
cui il poeta aveva condiviso l’indirizzo di Parigi, all’albergo di rue des Carmes.
Moammed Sceab si toglie la vita perché si sente senza radici. Esule in Francia e nel proprio paese,
subisce una crisi di identità. Rimane come sospeso tra la tradizione che ha lasciato alle spalle e il
nuovo orizzonte culturale, non sufficientemente interiorizzato. La condizione di Moammed
rispecchia molto da vicino quella del poeta che, pur di origine italiana, era nato in Egitto, da dove
era successivamente emigrato in Francia. Anche il poeta si era sentito “senza patria” in rue des
Carmes.
Giuseppe Ungaretti
In memoria
Locvizza, 30 settembre 1916
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.
Giuseppe Ungaretti
I fiumi
Lasciandosi cullare dalle onde dell’Isonzo, il fiume nei cui pressi si sono combattute tante battaglie
della prima guerra mondiale, Ungaretti ritorna indietro nel tempo, ricordando altri corsi d’acqua che
hanno caratterizzato la sua vita. Con grande nostalgia, riaffiora il passato del poeta, visto il dramma
della guerra che ne caratterizza il presente. Lo scrittore rammenta il Serchio, che simboleggia
Lucca, città d’origine dei genitori, il Nilo, che rimanda alla sua città natale Alessandria d’Egitto, la
Senna, fiume parigino sulle rive del quale trascorse parte della sua giovinezza. Questo
componimento rappresenta la presa di coscienza, da parte dell’autore, dell’assurdità della guerra, di
come essa turbi anche l’armonia della natura e renda tutto incerto e precario.
Giuseppe Ungaretti
I fiumi
Cotici, 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
Salvatore Quasimodo
Lamento per il Sud
Il poeta, vivendo da molto nel Nord, non sente più lo “strappo” dalla sua terra natia, ed ormai, al
mare, alla gente ed ai paesaggi siciliani, si è sostituita la natura del settentrione, il viso della sua
donna, le nebbie. Con un forte grido il poeta rivendica, però, la sorte della sua patria ed esprime una
aspra denuncia per le condizioni in cui si trova. Lo sdegno del poeta è sincero, ma discorde: da una
parte i suoi ricordi dolci e pieni d’amore, dall’altra la realtà attuale cruda e colma di risentimento.
Solo i ricordi lo riporteranno ancora nel Sud.
Salvatore Quasimodo
Lamento per il Sud
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve …
Il mio cuore è ormai su queste praterie
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte di una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Abdelkader Daghmoumi
La ballata di Riva
L’autore di questa poesia è originario del Marocco. Ha conseguito una laurea in Italia, dove vive e
lavora. In questi versi esprime la delusione che gli immigrati spesso provano quando vedono i loro
sogni spezzati, infranti, traditi e la diffidenza con cui spesso sono accolti; però, soprattutto, il poeta
esprime la speranza che la diversità portata da un’altra cultura sia per l’Italia un dono, e che
l’incontro tra culture diverse sia un arricchimento per tutti.
Daghmoumi Abdelkader
La ballata di riva
Noi siamo i figli della sabbia,
del sole e dei fiori,
siamo i figli del mare.
Siamo venuti dai campi e dalle grandi città.
Noi ragazzi dai mille sogni spezzati,
infranti e traditi,
col cuore tenero e con gli occhi asciutti e bruni,
noi dalla chioma color pece,
siamo venuti a ballare nelle vostre piazze luminose,
nelle vostre case.
Siamo venuti a ballare per i vostri occhi
stanchi e immobili come specchi.
Siamo i bambini nati da gocce d’acqua di fiume in secca
che fino a ieri scorreva lento.
Siamo spighe di grano piene e forti
siamo venuti a cantarvi le nostre canzoni d’amore.
Canzoni dolci come mandorle e miele.
Le canteremo ad alta voce
finché toccheremo i vostri cuori
per poi cantarle piano, piano
assieme, nelle vostre case,
nelle vostre piazze,
nelle vostre città.
“Tra barche, acqua, terre e … patrie lontane”
Guida all’ascolto dei brani musicali
Light and Shadow
La colonna sonora del film “1492: la conquista del Paradiso”, realizzato nel 1992 in occasione del
cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America, è stata composta da Vangelis, un noto
compositore contemporaneo di origine greca.
La musica del brano “Light and Shadow”, luce ed ombra, infonde all’ascoltatore un grande senso di
maestosità e di inquietudine al tempo stesso. Sembra quasi di udire gli idiomi e le voci degli uomini
e delle donne che hanno solcato, nei secoli, le acque profonde e pericolose dell’oceano.
Su navi negriere trasudanti dolore, prima, e su piroscafi colmi di speranza, poi, la meta era sempre
la stessa: le Americhe.

Mamma mia dammi cento lire
“Mamma mia dammi cento lire” è un canto della tradizione popolare del Nord Italia, databile verso
il 1850 circa. Di autore ignoto, pare sia stato ispirato dalla ballata “La maledizione della madre”, in
cui si narra la storia di una giovane che, per amore, abbandona la casa materna per poi concludere
la sua misera esistenza in un naufragio. L’America era l’America, era il nuovo mondo, il simbolo
della libertà, e non offriva soltanto lavoro: dava a tutti l’opportunità di diventare ricchi e famosi.
Per l’America si partiva con i bastimenti, le vecchie navi a vapore, e dall’Unità d’Italia in poi
furono diversi milioni gli italiani emigrati all’estero. Questo esodo di massa ispirò la nascita delle
prime canzoni che ci narrano la nostalgia del paese natio con crudezza e dolore, attraverso il
dramma dell’emigrazione visto dalla parte di chi l’ha vissuto e sofferto; “Mamma mia dammi cento
lire”, che ne racconta l’epopea attraverso le diverse versioni a noi note, ne diventò il simbolo.

Hymn
Songs of Sanctuary è la prima raccolta musicale del compositore gallese Karl Jenkins. Realizzato
nel 1995, l’album include anche il brano “Hymn”. Come in molti pezzi musicali di questo autore, la
composizione non prevede un testo strutturato e comprensibile, ma un insieme di sillabe e fonemi
inventati dallo stesso Jenkins, il quale attribuisce alle voci, pur traboccanti di sfumature e nuance
suggestive, una funzione neutra, puramente strumentale. Malinconico e delicato, il brano si dipana
come una leggera brezza speziata d’oltreoceano.

Lascia ch’io pianga
Georg Friedrich Händel, compositore tedesco del periodo Barocco, è considerato uno dei più grandi
musicisti della storia della musica. “Lascia ch’io pianga” è una celeberrima aria tratta dal suo
Rinaldo, un’opera su libretto di Giacomo Rossi, basata su alcuni episodi narrati nella Gerusalemme
Liberata di Torquato Tasso.
Almirena, prigioniera in catene, piange la sua dura sorte, desiderando la libertà:
Lascia ch’io pianga
mia cruda sorte,
e che sospiri la libertà.
Il duol infranga queste ritorte
de’ miei martiri sol per pietà.
Let me weep
my cruel fate,
and I sigh for liberty.
May sorrow break these chains
of my sufferings, for pity’s sake.
Nelle vicende narrate nei melodrammi spesso emergono, impetuose, le emozioni e i sentimenti
peculiari del genere umano.
L’amore, la sofferenza, la paura, la speranza erano passioni comuni a tutti gli emigranti, i quali
tentavano di mantenere un legame profondo con la madrepatria, anche cantando le arie d’opera
della propria terra.

My heart will go on
Nell’immaginario collettivo, il naufragio per antonomasia è riconducibile a quello del Titanic, ma
moltissime furono le tragedie accadute in mare nei primi decenni del ‘Novecento. Naturalmente, al
trasporto degli emigranti erano assegnate carrette galleggianti con una vita media di navigazione
altissima. Si trattava di piroscafi in disarmo, chiamati “vascelli della morte”, i quali non potevano
contenere più di 700 persone, ma spesso ne caricavano più del doppio. Queste navi partivano senza
la certezza di arrivare a destinazione.
My heart will go on è il brano musicale portante del film Titanic. Composto da James Horner su
testo di Will Jennings è stato portato al successo dalla cantante canadese Céline Dion nel 1997. La
canzone, coinvolgente e passionale, si spinge nelle note più acute del registro vocale femminile.

‘O surdato ‘nnammurato
Se nella sciagura del Titanic, la più grande tragedia di tutti i tempi della storia della Marina Civile,
persero la vita 1523 dei 2223 passeggeri imbarcati, quest’anno sono stati quasi duemila i decessi di
emigranti naufragati nel Mediterraneo. Molti di loro si sarebbero potuti salvare, ma pochi sono
intervenuti. La maggior parte di quelle persone, soprattutto donne e bambini, la cui resistenza è più
fragile, proveniva dalla Libia, quindi da una zona di guerra che dava loro il diritto di ricevere
rifugio e ospitalità in Europa. Infatti, non erano emigranti clandestini, ma profughi.
‘O surdato ‘nnammurato, Il soldato innamorato, è una delle più famose canzoni in lingua
napoletana, scritta dal poeta Aniello Califano e musicata da Enrico Cannio nel 1915.
La canzone descrive la tristezza di un soldato che combatte al fronte durante la Prima Guerra
Mondiale e che soffre per la lontananza dalla donna della quale è innamorato. Le parole esprimono
malinconia e scoramento, ma la musica è briosa e trascinante.
Nelle vecchie stive dei bastimenti, durante le lunghe traversate oceaniche, c’era sempre chi la
proponeva… con un giro di danza.
ISTITUTO COMPRENSIVO DI ALBINEA (RE)
Classi terze A-C-E
Docenti:
Mario Bonacini
Stefano Cugini
Antonella Grande
Alessia Pilastri
Simonetta Zanoni
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