Mercoledì 8 Giugno 2005
GERMANIA
Le relazioni industriali dopo i patti per la competitività
( di Volker Telljohann - Fondazione Istituto per il lavoro, Bologna )
I patti per l’occupazione e la competitività sottoscritti in Germania hanno lasciato il segno sul sistema delle relazioni
industriali. Hanno rappresentato un esempio di concertazione mirata a gestire i processi di ristrutturazione, e quindi,
di contrattazione difensiva. Hanno indubbiamente pesato sulle strutture sindacali di fabbrica, meno sul ruolo
istituzionale delle organizzazioni.
Partendo dalla nostra precedente analisi della nuova generazione dei patti per l’occupazione e la competitività, (vedi
Analisi “Germania – I patti per l’occupazione e la competitività”), vorremmo, con questo contributo, approfondire le
riflessioni sull’impatto di queste tendenze di decentramento della contrattazione sul sistema di relazioni industriali in
Germania.
Partecipazione e conflitto
Per migliorare l’efficienza della gestione dei processi di ristrutturazione si cerca di favorire il coinvolgimento dei
sindacati e delle strutture di rappresentanza a livello aziendale per poter arrivare a soluzioni consensuali. Il dialogo
sociale rappresenta quindi uno strumento strategico nell’ambito delle politiche occupazionali.
Il fatto che in molti casi le strutture di rappresentanza dei lavoratori abbiano subito una perdita di potere negoziale e
siano, quindi, costrette ad accettare degli scambi iniqui per poter difendere i livelli occupazionali, non significa
necessariamente che anche il loro ruolo istituzionale si sia indebolito. Il coinvolgimento delle strutture di rappresentanza
nelle strategie aziendali di ristrutturazione può, al contrario, portare ad un consolidamento del loro ruolo istituzionale.
Dal punto di vista del management le strutture di rappresentanza servono per garantire la legittimità delle strategie di
ristrutturazione e per organizzare il consenso fra i dipendenti. Se, da un lato, questo tipo di approccio può implicare
un’estensione delle esperienze di partecipazione, dall’altro, deve essere chiaro che il coinvolgimento dei rappresentanti
dei lavoratori avviene di solito in una situazione di crisi aziendale, dove si trovano in una posizione difensiva e dove la
loro rappresentatività e quindi la capacità di organizzare il consenso diventa un fattore importante per la qualità del
risultato del loro coinvolgimento. La capacità di difesa delle posizioni conquistate nel passato è stata, infatti, superiore
nel settore automobilistico, caratterizzato da elevati livelli di sindacalizzazione e da una forte capacità di mobilitazione,
piuttosto che alla Siemens dove il sindacato e le strutture di rappresentanza a livello aziendale sono relativamente
deboli. L’accordo molto discusso della Siemens sembra confermare che, per ottenere accordi complessivamente
accettabili serve, oltre alle capacità di partecipazione e negoziazione, anche una consolidata capacità di mobilitazione.
In sintesi la logica che sta alla base dei patti per l’occupazione e la competitività consiste nella necessità di una
concertazione efficace per poter gestire i processi di ristrutturazione. Attraverso il coinvolgimento delle strutture
sindacali il management riconosce i limiti delle regole del mercato ‘puro’. Se per il sindacato il suo coinvolgimento
rappresenta da un lato una fonte di riconoscimento, dall’altro implica la sfida di dover confrontarsi con le ragioni del
management. Dal punto di vista delle rappresentanze dei lavoratori diventa quindi decisivo saper interpretare e valutare i
progetti manageriali.
Dal momento che il management sceglie la via del coinvolgimento per legittimare il progetto di ristrutturazione le
rappresentanze dei lavoratori devono decidere quale ruolo assumere. Anche se sembra ragionevole accettare il
coinvolgimento, rimane in ogni caso da chiarire quale carattere esso debba assumere: un coinvolgimento
prevalentemente formale e nell’ambito di un progetto prestabilito dal management o un coinvolgimento reale in un
processo ancora aperto. Esiste quindi la possibilità di assumere un ruolo reattivo e difensivo che si pone l’obiettivo di
limitare i danni o di tentare di partecipare sulla base di una strategia propositiva. In quest’ultimo caso l’approccio alla
ristrutturazione implica che il management fornisca anticipatamente informazioni esaurienti. Da parte delle
rappresentanze invece sono richieste competenze specifiche che possano garantire una loro autonomia progettuale.
Questo metodo che implica per quanto riguarda il management la rinuncia alle sue tradizionali prerogative sembrerebbe
più idoneo a creare una fiducia reciproca ed a garantire la credibilità degli attori coinvolti. I casi analizzati sembrano,
comunque, fornire ancora pochi elementi in questa direzione.
Nei casi di crisi aziendali si può verificare inoltre che i patti per l’occupazione e la competitività dopo periodi
relativamente brevi non siano più in grado, di garantire l’adeguamento dell’impresa al contesto di competizione in
rapido mutamento, e vi è la necessità di ridefinirne i contenuti. Se, in generale, tali patti sono anche una garanzia di
legittimità sia per i rappresentanti dei lavoratori che per il management, è evidente che la necessità di un riadeguamento
e quindi di ulteriori concessioni può avere solo conseguenze negative per la credibilità degli attori aziendali che,
talvolta, si trasformano in una crisi di legittimazione.
Il ruolo del conflitto industriale
L’analisi dei processi di ristrutturazione mostra come le minacce di delocalizzazione e le richieste di riduzione dei livelli
retributivi portino ad un aumento di conflittualità. Per quanto riguarda le case automobilistiche è necessario sottolineare
che tutti gli accordi sono stati raggiunti dopo significative attività di sciopero. Ma anche nei casi Philips, Bosch,
Siemens e Deutsche Bahn i processi di negoziazione sono stati accompagnati da attività di protesta e/o sciopero.
Analizzando più dettagliatamente gli scioperi si nota che essi sono, innanzitutto, il risultato del conflitto fra dipendenti e
management; ma in alcuni casi essi sono anche segno di orientamenti divergenti del sindacato, da un lato, e le strutture
di rappresentanza, dall’altro.
Per quanto riguarda le divergenze fra il sindacato e la sua base, alcuni scioperi, per esempio quello alla Opel o alla
DaimlerChrysler sembrano dimostrare non solo l’insoddisfazione nei confronti di una strategia sindacale di tipo
cooperativo che implica, a livello aziendale, una contrattazione orientata a concessioni sostanziali per quanto riguarda i
livelli di retribuzione e le condizioni di lavoro, ma anche il crescente dissenso rispetto alla mancanza di adeguate forme
di democrazia sindacale.[1] Più in generale, l’incremento delle attività di sciopero sembra indicare una crescente
insofferenza dei dipendenti nei confronti di una strategia delle `alleanze aziendali´.
L’aumento della conflittualità sembrerebbe indicare che oggi i patti per l’occupazione e la competitività siano meno
accettati di quanto non lo fossero negli anni novanta. Questa tendenza si può notare soprattutto nei casi in cui vengono
stipulati diversi patti a breve distanza di tempo. In questi casi i patti, più che rappresentare uno strumento eccezionale
per superare una crisi aziendale, vengono utilizzati sistematicamente come strumento del management nella
competizione fra stabilimenti all’interno dei gruppi transnazionali per decidere dove indirizzare gli investimenti futuri.
Sempre più spesso i gruppi transnazionali decidono gli investimenti sulla base dei risultati dei loro processi di
benchmarking a livello internazionale o legano le loro decisioni di investimento a procedure di competizione interna. In
un tale contesto le `alleanze aziendali´ servono a migliorare la competitività del singolo stabilimento puntando sulla
riduzione del costo del lavoro e sull’estensione delle varie forme di flessibilità per garantire in questo modo un ulteriore
incremento della produttività del lavoro. Il risultato è che vengono richieste sempre più concessioni in intervalli sempre
più brevi. Si può quindi sostenere che i patti per l’occupazione e la competitività non sono più solo uno strumento per
superare situazioni di crisi aziendali, ma si stanno trasformando sempre più spesso in uno strumento strategico nelle
mani del management, orientato a migliorare la redditività e la competitività attraverso l’aumento della flessibilità e la
riduzione del costo del lavoro. Tali politiche manageriali possono anche implicare la richiesta di una riduzione del costo
del lavoro in aziende altamente redditizie, come abbiamo visto nel caso della Siemens-VDO. Un tale approccio diventa
sempre meno condivisibile per i dipendenti e le loro strutture di rappresentanza e rischia di accentuare ulteriormente la
conflittualità.
La discussione sull'orario di lavoro
In Germania la pressione delle aziende, delle associazioni imprenditoriali e del mondo politico in favore di un
allungamento dell’orario di lavoro ha portato nel frattempo a risultati concreti e tangibili, sia in termini di
flessibilizzazione, sia in termini di allungamento dell’orario di lavoro.
Si può affermare che la Germania ormai sia caratterizzata da un’estesa flessibilità dell’orario di lavoro. Per quanto
riguarda le ore effettivamente lavorate, si può constatare che nel 2003, con 39, 6 ore settimanali la media tedesca si è
ormai assestata al di sopra di quella dei paesi della zona dell’Euro, che è di 39,4 ore.[2] Secondo i contratti collettivi
vigenti, nel 2004 l’orario di lavoro medio era di 37,6 ore settimanali. Sondaggi recenti confermano, infatti, che ormai
solo il 13 % degli occupati a tempo pieno lavora secondo gli orari standard previsti dal contratto collettivo. La tendenza
ad un allungamento delle ore effettivamente lavorate viene confermata per il 2004 anche dai dati dell’Istituto federale di
statistica e si dimostra un’inversione rispetto al trend storico, che dal 1991 era caratterizzato invece da una diminuzione
dell’orario di lavoro.
La richiesta di un’estensione generalizzata dell’orario di lavoro sembra quindi avere una forte valenza ideologica,
soprattutto perché molte aziende non lavorano al massimo delle loro capacità. In questi casi un allungamento dell’orario
di lavoro metterebbe ovviamente a rischio dei posti di lavoro. Le aziende potrebbero avere bisogno piuttosto di una
certa flessibilità dell’orario di lavoro. Ma anche le possibilità di rendere l’orario di lavoro flessibile sono già
ampiamente presenti nei contratti collettivi di categoria. Nel settore metalmeccanico per esempio è possibile, nonostante
l’orario settimanale di 35 ore, estendere la settimana lavorativa fino a 50 ore. In fasi meno impegnative l’orario di lavoro
può essere ridotto fino a 29 ore la settimana. Soltanto alla BMW vengono applicati più di 300 modelli di orario di
lavoro flessibile.
In generale le prassi a livello aziendale dimostrano l’utilizzo diffuso di un corridoio che va da 30 a 40 ore. Questo può
significare che, nel caso in cui il lavoro supplementare venga pareggiato nell’arco dell’anno, di norma non vengano
previste maggiorazioni degli straordinari da pagare. IG Metall si dimostra inoltre flessibile rispetto all’orario di lavoro
dei dipendenti altamente qualificati. Se il mercato del lavoro è vuoto si accettano tempi di lavoro più lunghi. Per
mansioni particolarmente gravose invece si spinge per tempi di lavoro più brevi. Già nel 2000 anche l’allora presidente
dell’associazione dei datori di lavoro sosteneva che la regolazione in materia di orario di lavoro è talmente flessibile che
solo chi è ignorante o in malafede può sostenere che i contratti collettivi non permettono l’adattamento dell’orario di
lavoro alle specifiche esigenze aziendali.
Casi come la Siemens e la DaimlerChrysler sono perciò da considerare espressione di una strategia più ampia messa in
atto dalle associazioni imprenditoriali che ha come vero scopo non tanto la flessibilizzazione dell’orario di lavoro ma
l’abbattimento del costo del lavoro attraverso un aumento degli orari senza adeguamento salariale. Come viene
evidenziato dall’Istituto di scienza economica e sociale della Fondazione Hans Böckler, che fa capo al DGB, l’aumento
dell’orario di lavoro da 35 a 40 ore senza adeguamento salariale, come stabilito nell’accordo firmato alla Siemens nel
2004, corrisponde ad una riduzione della retribuzione oraria del 14 per cento circa. In altri casi in cui si lavora a regime
ridotto, per esempio alla Opel, è stata decisa una riduzione sia dell’orario di lavoro, sia del salario. Il vero obiettivo è
quindi sempre la riduzione del costo del lavoro, sia in caso di allungamento, sia in caso di riduzione dell’orario di
lavoro. Anche un allungamento generalizzato dell’orario di lavoro contrattuale non cambierebbe l’orario di lavoro
effettivo ma solo il livello di retribuzione.
I sindacati metalmeccanici francesi e tedeschi sottolineano che accordi come quelli siglati alla Bosch e alla Siemens
rappresentano soluzioni che vengono applicate solo in determinati stabilimenti in seguito ad una valutazione
approfondita della situazione competitiva delle aziende. Queste soluzioni dovrebbero rimanere delle eccezioni e non
estendibili agli altri stabilimenti dei rispettivi gruppi e tanto meno a tutto il settore. Va ricordato inoltre che si tratta di
soluzioni temporanee, finalizzate a mantenere l’insediamento e l’occupazione. I sindacati, quindi, non intendono
mettere in discussione la settimana a 35 ore.
Nonostante queste dichiarazioni in difesa delle 35 ore, sia la realtà francese che quella tedesca sembrano comunque
muoversi nella direzione opposta. In Francia il governo Raffarin ha ormai riformato la legge Aubry del 2000
permettendo adesso una maggiore flessibilizzazione dell’orario di lavoro. Dopo la riforma i lavoratori hanno la
possibilità di lavorare di più e di accumulare le ore di lavoro su un apposito libretto. Le ore lavorate in eccesso possono
essere trasformate in ferie o monetizzate. In questo modo la riforma permette alle aziende una massima elasticità nella
gestione degli orari e dell’organizzazione del lavoro. La Germania invece si caratterizza per la crescente diffusione di
accordi aziendali che stabiliscono l’allungamento dell’orario di lavoro. Secondo i dati dell’Istituto di scienza economica
e sociale del DGB[3] solo nel 2004 sono stati firmati 56 accordi in materia di orario di lavoro, di cui 41 hanno
stabilito un allungamento dell’orario di lavoro senza conguaglio . Di fatto l’accordo firmato alla Siemens
non rappresenta quindi un’eccezione.
Le ripercussioni dei patti per l'occupazione e la competitività sul sistema di contrattazione collettiva
Per quanto riguarda il sistema di contrattazione collettiva è noto che in Germania, dove formalmente non
esiste un secondo livello di contrattazione collettiva, è comunque in atto ormai da anni un processo di
decentramento della contrattazione. Anche se solo nel 2004 con gli accordi firmati alla Siemens e alla
DaimlerChrysler questa tendenza è stata portata a conoscenza di un più vasto pubblico, è da notare che già
nel 2003, sono stati siglati accordi simili in 250 aziende e nel 2004 in altre 390. Sembrerebbe, quindi, che il
sistema di contrattazione collettiva, considerato così rigido da parte delle associazioni imprenditoriali sia
abbastanza elastico da permettere di tener conto delle specifiche situazioni delle aziende.
Per l’IG Metall le regolazioni deroganti dal contratto collettivo di categoria, che formalmente sono state rese possibili
con la stipulazione del contratto del febbraio 2004, possono essere accettate se il contributo dato dai lavoratori su base
negoziale temporanea sia posto nel quadro di un progetto complessivo sostenibile e se la deroga è inevitabile per
scongiurare il pericolo di insolvenza. Per quanto riguarda l’impresa, IG Metall chiede in questi casi di fornire garanzie
in merito all’occupazione, assicurare il mantenimento durevole dello stabilimento e pianificare un adeguato volume di
investimenti per il futuro da poter garantire sia l’innovazione e lo sviluppo dei prodotti, che il miglioramento della
produttività del lavoro.
Diversa è invece ormai la posizione delle associazioni imprenditoriali. Il loro interesse, infatti, non è quello di poter
negoziare deroghe agli standard contrattuali in caso di crisi aziendali. Il loro vero obiettivo è il superamento del concetto
di standard minimo definito dal contratto collettivo di categoria. In quest’ottica il contratto collettivo dovrebbe assumere
il carattere di un accordo quadro che prevede dei margini entro i quali le aziende si possono orientare in modo da
trovare la soluzione più adatta dal punto di vista del miglioramento della loro competitività. L’idea sarebbe di legare gli
standard contrattuali all’andamento dei costi o degli utili della singola azienda e renderli in questo modo variabili. Allo
stesso tempo questo processo dovrebbe essere combinato ad un abbassamento generale degli standard minimi in vigore
fino ad ora. Questo tipo di meccanismo è stato introdotto per esempio negli accordi firmati alla Volkswagen nel 2004 e
alla Opel nel 2005 dove l’erogazione dei bonus è collegata per la prima volta a parametri aziendali e dove anche nel
caso più favorevole il bonus massimo rimarrà comunque al disotto del livello dei bonus precedenti.
Se poi aggiungiamo che i patti per l’occupazione e la competitività con deroghe agli standard contrattuali sono stati
firmati anche in imprese per le quali non si poneva il pericolo di insolvenza si può concludere che il processo di
decentramento della contrattazione collettiva stia avvenendo più sotto il segno dell’erosione sistematica degli standard
contrattuali che non secondo la posizione del sindacato che vorrebbe accettare questi accordi aziendali solo in casi di
crisi e quindi come fenomeni eccezionali e temporanei. È piuttosto probabile che le aziende cerchino sempre più
sistematicamente a derogare agli standard contrattuali per ridurre i costi e migliorare la loro competitività.
Dal punto di vista sindacale i patti per l’occupazione e la competitività rappresentano un approccio difensivo alla
contrattazione; non esiste più il legame tradizionale fra contrattazione collettiva e miglioramento della posizione dei
lavoratori. La geometria dei contratti collettivi è mutata profondamente in quanto i patti per l’occupazione e la
competitività sono fondamentalmente caratterizzati da concessioni più o meno unilaterali. In questo contesto la strategia
sindacale si definisce sempre più in una logica difensiva, orientata a limitare le deroghe agli standard contrattuali.
Secondo un’indagine dell’associazione imprenditoriale del settore metalmeccanico, Gesamtmetall, fino all’inizio del
2005 125 aziende avrebbero fatto richiesta di negoziare delle deroghe agli standard contrattuali e in 113 casi il
sindacato, l’IG Metall, avrebbe acconsentito.[4] Qui troviamo oltre ai già menzionati 41 casi di allungamento
dell’orario di lavoro senza conguaglio anche 39 casi in cui viene ridotta la tredicesima, 9 casi in cui viene
ridotta la retribuzione mensile e 6 casi in cui viene eliminata la parte extracontrattuale della retribuzione.[5]
Come contropartita in 59 casi le aziende rinunciano a licenziamenti per motivi aziendali, solo in 11 casi
vengono assicurati futuri investimenti, in 7 casi vengono fornite garanzie di mantenimento di stabilimenti ed
in 6 casi vengono garantiti dei livelli occupazionali. Il dato più indicativo è comunque che in 47 casi le
aziende non forniscono risposte rispetto ad una eventuale contropartita. La mancanza di una risposta indica
probabilmente l’assenza di una contropartita che significherebbe che in più di un terzo dei casi registrati ci
troviamo di fronte a concessioni unilaterali.
Il 2004 sarà ricordato come un anno in cui è avvenuto un salto qualitativo per quanto riguarda l’erosione degli standard
stabiliti dai contratti collettivi di categoria, in particolar modo rispetto all’orario di lavoro e ai livelli di retribuzione. Di
fronte a questa situazione l’autorevole settimanale Die Zeit (47/2004) scrive che i lavoratori stanno assistendo ad un
“esautorazione epocale” del sindacato, mai stato così debole dal dopoguerra ad oggi.
Se da un lato è vero che la globalizzazione della competizione e le conseguenti minacce di delocalizzazione di siti
produttivi hanno portato ad una erosione del contratto collettivo di categoria attraverso un processo di decentramento e
di flessibilizzazione della contrattazione collettiva, dall’altro lato, c’è comunque anche la necessità di fare delle
differenziazioni. Nella valutazione dei patti per l’occupazione e la competitività è, infatti necessario distinguere i casi in
cui vengono stabilite delle deroghe agli standard del contratto collettivo di categoria e i casi nei quali vengono
concordati deterioramenti dei livelli retributivi e delle condizioni di lavoro, senza tuttavia mettere in discussione gli
standard minimi stabiliti dal contratto collettivo di categoria.
Contrariamente rispetto ai risultati dell’accordo raggiunto alla Siemens, per quanto riguarda ad esempio le case
automobilistiche, i patti per l’occupazione e la competitività non implicano in genere un’erosione del contratto collettivo
ma solo un avvicinamento agli standard definiti dal contratto collettivo di categoria. Il fatto che i risultati siano
tendenzialmente più positivi nel caso delle case automobilistiche è probabilmente dovuto anche all’alto livello di
sindacalizzazione e alla capacità di mobilitazione. Viceversa troviamo i patti per l’occupazione e la competitività meno
favorevoli per i dipendenti: spesso infatti contengono deroghe agli standard dei contratti collettivi in realtà aziendali con
minor tasso di sindacalizzazione. Particolarmente difficile è la situazione nelle piccole e medie imprese, in cui gli
accordi possono essere anche caratterizzati da concessioni senza nessun tipo di contropartita da parte del management.
La qualità dei patti per l’occupazione e per la competitività sembra quindi dipendere non solo dalla situazione
economica dell’impresa ma anche dai rapporti di forza esistenti nelle rispettive imprese.
Anche differenziando fra i diversi tipi di patti aziendali rimane comunque il fatto che si tratta di accordi firmati dai
sindacati che si trovano in una posizione difensiva, posizione che permette poco spazio di azione. Il consiglio di azienda
della Siemens ha infatti parlato di trattative sotto ricatto indicando, con quest’affermazione, lo spostamento dei rapporti
di forza a favore della multinazionale.
In un tale contesto in cui imprese altamente redditizie riescono attraverso minacce di delocalizzazione a costringere il
sindacato a fare concessioni e accettare deroghe agli standard contrattuali collettivi minimi diventa sempre più
discutibile parlare ancora di un processo di “decentramento controllato” in quanto una parte, ovvero i consigli di azienda
ed i sindacati, è esposta in modo arbitrario alle minacce della controparte. Diventa quindi difficile per il sindacato
circoscrivere l’utilizzo di deroghe agli standard minimi ai casi effettivamente di emergenza. Di conseguenza si pongono
ormai seri dubbi rispetto alla stabilità del sistema di contrattazione collettiva tedesco.
I consigli di azienda sono infatti ben consapevoli che la loro forza dipende anche dalla qualità e dalla vincolabilità dei
contratti collettivi di categoria. Di conseguenza, i consigli di azienda sono piuttosto scettici rispetto ad un ulteriore
decentramento della contrattazione collettiva. In un sondaggio dell’Istituto di scienza economica e sociale della
Fondazione Hans Böckler l’80 % dei consigli di azienda considerano un ulteriore decentramento della contrattazione
collettiva in modo ambivalente o genericamente problematico.
Come sostiene anche Bispinck[6], la politica del “decentramento controllato” non sembra affatto adatta a
stabilizzare il sistema di contrattazione collettiva tedesco. Un tale approccio implica invece il rischio di
muoversi sempre di più nella direzione di una contrattazione competitiva fra gruppi dello stesso settore o
anche fra stabilimenti dello stesso gruppo. Ai tempi di un’Unione europea allargata una tale tendenza
sembra particolarmente pericolosa.
Come abbiamo visto alla base dei patti per l’occupazione e la competitività sta la minaccia di trasferire la produzione
e/o di indirizzare investimenti futuri verso paesi con un minore costo del lavoro. Il management mette quindi i vari
stabilimenti di un gruppo in diretta competizione fra di loro. Visto che la riduzione dei costi ottenuta grazie al patto per
l’occupazione e la competitività porta ad un vantaggio competitivo nei confronti delle altre imprese del rispettivo settore
alla fine anche queste imprese saranno costrette a ridurre i loro costi. Esiste quindi il rischio che in questo modo si metta
in moto uno spiraglio verso il basso. Nell’industria automobilistica solo nel 2004/05 ci sono stati i casi della
DaimlerChrysler, della Volkswagen e poi della General Motors. Poi, in primavera del 2005 si è aggiunto il patto per
l’occupazione e la competitività firmato all’Audi che aveva chiuso il 2004 con risultati ancora migliori di quelli del
2003. La prossima richiesta di riduzione dei costi del lavoro da parte di un'altra casa automobilistica sembra solo una
questione di tempo.
La tendenza sempre più sfrenata verso il dumping sociale implica che il contratto collettivo di categoria perde sempre di
più la sua funzione di solidarietà fra i lavoratori e di garantire una competizione leale fra le aziende dello stesso settore.
A livello macroeconomico le deroghe agli standard retributivi contribuiscono alla tendenza che gli incrementi salariali
reali percepiti dai lavoratori sono mediamente più bassi di quelli contrattati dai sindacati. Questo fenomeno mina
ovviamente i tentativi delle federazioni sindacali europei di coordinare la politica contrattuale a livello europeo in modo
da evitare una competizione fra le economie nazionali basata sul dumping contrattuale.
Questo significa che esiste il rischio che il contratto collettivo perda la sua funzione di stabilire degli standard minimi
per tutti i lavoratori di una determinata categoria. Si potrebbe ipotizzare che questo problema sia di più difficile
soluzione in sistemi di rappresentanza a canale doppio dove le rappresentanze dei lavoratori godono di una più elevata
autonomia rispetto al sindacato esterno che non in sistemi a canale unico dove siamo di fronte ad una più forte
integrazione fra rappresentanze aziendali ed organizzazioni sindacali.
I patti per l’occupazione e la competitività possono quindi minare norme e standard definiti dai contratti collettivi e
contribuire, più in generale, ad una pressione crescente che ha come obiettivo il cambiamento dei sistemi di regolazione
trasferendo più competenze di regolazione a livello aziendale.
Le ripercussioni del decentramento della contrattazione collettiva sulle relazioni industriali
La crescente tendenza verso il decentramento della contrattazione implica, dal punto di vista sindacale, altre sfide
ancora. La prima riguarda l’identificazione dei titolari della contrattazione aziendale. Visto che i consigli di azienda che
non sono una struttura sindacale hanno una funzione nel sistema di rappresentanza e di codeterminazione, ma non nel
sistema di contrattazione collettiva si pone la domanda su quale sarà il ruolo del sindacato rispetto alla contrattazione
aziendale e come sarà organizzata in prospettiva la cooperazione fra strutture sindacali e consigli di azienda.
Sicuramente il sindacato non vorrà lasciare il ruolo di contrattazione a livello aziendale solamente ai consigli di azienda,
visto che queste strutture teoricamente possono anche essere composte esclusivamente da non iscritti al sindacato. Per il
sindacato, il decentramento della contrattazione significa, quindi, dover ridefinire il suo ruolo ed il suo rapporto con le
strutture di rappresentanza a livello aziendale. In generale, il decentramento della contrattazione significa un nuovo
compito per il sindacato e, quindi, anche la necessità di dedicare più risorse all’attività sindacale a livello aziendale così
come alla formazione dei membri dei consigli di azienda.
Se si dovesse arrivare ad una formalizzazione di un secondo livello di contrattazione, il vero nodo da sciogliere
riguarderebbe il diritto di sciopero. Oggi il consiglio di azienda, che viene costituito sulla base della legge sulla
costituzione aziendale, non rappresenta una struttura sindacale e formalmente non avrebbe nessun ruolo di
contrattazione collettiva. Di conseguenza, i consigli di azienda non possono indire scioperi, anzi, la legge richiede sia
dai consigli di azienda, sia dal management un atteggiamento cooperativo. Dal punto di vista della regolazione della
contrattazione collettiva l’obbligo di pace sociale dopo la stipula di un contratto collettivo di categoria vieta gli scioperi
fino alla scadenza di questo contratto. Sarebbe vietato quindi anche indire degli scioperi a livello decentrato per motivi
aziendali. Per questo motivo nel caso dell’Opel gli scioperi sono stati giustificati come “partecipazione ad assemblee di
informazione”. L’IG Metall stessa ha annunciato che di fronte a queste tendenze di decentramento intende rafforzare la
sua posizione a livello aziendale e sviluppare un potere contrattuale a livello decentrato.
L’associazione imprenditoriale del settore metalmeccanico, Gesamtmetall, considera il decentramento della
contrattazione collettiva un fenomeno ambivalente. Da un lato, ci si auspica il decentramento per trovare risposte
nell’ambito della contrattazione collettiva che tengano conto delle specifiche situazioni aziendali; dall’altro lato, si
avverte il rischio che un decentramento troppo accentuato possa significare mettere a rischio la pace sociale a livello
aziendale. Visto che la funzione di contrattazione è necessariamente legata anche al diritto di sciopero, il presidente di
Gesamtmetall, Kannegiesser, prevede che se i consigli di azienda assumano il ruolo di contrattazione a livello aziendale
essi perdono la loro classica funzione di partecipare alla ricerca di compromessi e, quindi, il carattere partecipativo delle
relazioni industriali verrebbe messo a rischio.[7] Kannegiesser si pronuncia quindi contro una trasformazione del
ruolo dei consigli di azienda e di conseguenza anche contro un trasferimento troppo esteso di competenze
contrattuali alle strutture di rappresentanza a livello aziendale. L’introduzione formale di un secondo livello
di contrattazione potrebbe anche implicare la nascita di sindacati aziendali e quindi la frammentazione delle
organizzazioni di rappresentanza. Per evitare un tale scenario secondo Kannegiesser il contratto collettivo di
categoria dovrebbe mantenere la sua funzione guida e dovrebbe essere applicabile da tutte le aziende della
categoria. Solo l’adattamento alle peculiarità aziendali dovrebbe secondo il parere di Kannegiesser essere
materia di una contrattazione a livello aziendale. Il presidente di Gesamtmetall si pronuncia quindi
chiaramente contro una troppa accentuata aziendalizzazione della contrattazione per evitare tendenze di
aziendalismo e di conflitto non controllabili.
La competizione fra stabilimenti dello stesso gruppo e il ruolo dei Cae
Già negli anni novanta si sono verificati casi di ristrutturazione a livello europeo che hanno visto, almeno formalmente,
il coinvolgimento delle strutture di rappresentanza dei lavoratori. Rispetto al contesto italiano uno dei casi più noti
riguarda il processo di ristrutturazione alla Electrolux alla fine degli anni novanta. In questo caso il management centrale
aveva messo in competizione fra di loro i vari stabilimenti europei e anche i rispettivi delegati presenti nel Cae. Di
fronte a questa sfida lanciata dal management centrale il Cae non riusciva a sviluppare una strategia alternativa e
condivisa e, di conseguenza, non era in grado di influenzare le decisioni del management centrale: i problemi principali,
infatti, riguardavano sia l’insufficiente coesione interna del Cae, sia il mancato coordinamento fra il Cae e le
organizzazioni sindacali a livello europeo.
Nei patti per l’occupazione e la competitività firmati recentemente si nota che solo nel caso della General Motors è stato
coinvolto il Comitato aziendale europeo. Tutti gli altri casi sono stati gestiti esclusivamente a livello nazionale. Il Cae
che già a partire dal 2000 aveva assunto un ruolo di negoziazione[8] anche nel processo di ristrutturazione del
2004/05 ha firmato un accordo quadro che rappresentava un punto di riferimento comune per i seguenti
processi di negoziazione a livello nazionale. Il caso della General Motors ha dimostrato che per poter
sviluppare una strategia basata su una solidarietà a livello europeo è indispensabile una stretta cooperazione
fra le federazioni sindacali ed i comitati aziendali europei così come un’integrazione fra le strutture di
rappresentanza a livello europeo, nazionale ed aziendale. L’esperienza positiva del Cae della General
Motors è dovuta anche al grado di coesione interna raggiunto. Secondo il presidente del Cae della General
Motors all’interno della struttura di rappresentanza europea si sono consolidati nel corso degli anni principi
di lavoro che sono la trasparenza, la franchezza e la lealtà. Per quanto riguarda la cooperazione con la
Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) è da notare che per la prima volta un gruppo di monitoraggio
è stato costituito presso la Fem con il compito di accompagnare il processo di ristrutturazione. Secondo il
presidente del Cae il lavoro di questo gruppo ha migliorato notevolmente la cooperazione fra Cae e Fem.
Nel caso della General Motors le attività di protesta e di sciopero hanno riguardato vari paesi europei. Dal punto di vista
sindacale gli scioperi e le azioni di protesta avevano soprattutto la funzione di dimostrare l’esistenza di una solidarietà
fra le maestranze, sia a livello nazionale, sia a livello europeo.
Nel caso della Volkswagen siamo invece di fronte ad una strategia nazionale che proprio dal punto di vista del bisogno
di un coordinamento a livello europeo potrebbe essere considerata inadeguata. È, infatti, probabile che l’accordo abbia
delle ripercussioni anche al di fuori della Germania e quindi secondo gli orientamenti della Fem sarebbe stata
auspicabile almeno una discussione preventiva a livello europeo. Il tentativo di trovare soluzioni isolate a livello di
singolo stabilimento o a livello nazionale favorisce infine tendenze di competizione fra singole realtà produttive o fra i
vari contesti nazionali come successe per esempio nel sopramenzionato caso della Electrolux.
[1] Cfr. B. Rehder, Tanz auf der Rasierklinge, in „Mitbestimmung“, 3/2005, vol. 51, 16-20.
[2] Cfr. http://www.eiro.eurofound.eu.int/2005/03/update/tn0503104u.html
[3] Cfr. R. Bispinck, Tarifstandards unter Druck – Tarifpolitischer Jahresbericht 2004, in „WSI Mitteilungen“, 2/2005,
vol. 58, 59-68.
[4] Ibidem. È molto probabile che il numero reale delle aziende che hanno fatto richiesta di negoziare delle deroghe agli
standard contrattuali sia molto più elevato di quello rilevato da Gesamtmetall che si basava sulle risposte delle aziende
associate nel settore metalmeccanico.
[5] L’indagine prevedeva la possibilità di indicazioni plurime.
[6] Cfr. Bispinck, op. cit.
[7] http://www.gesamtmetall.de
[8] Cfr. V. Telljohann, La globalizzazione, i processi di ristrutturazione ed il ruolo delle relazioni di lavoro, in F.
Garibaldo, V. Telljohann (a cura di), Prospettive delle condizioni sociali e ruolo del lavoro nella società italiana,
Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2004, 99-137.
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Le relazioni industriali dopo i patti per la competitività