G. Alberti
Dieta parca e salute
pag. 153 e seg.
LA" DIETA PARCA"
DA SENECA AL CORNARO E AL FLETCHER
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1!
“Abbiamo visto, avendo dovuto soffermarci ad anticipare, per comodità di
esposizione, la portata e il valore del “vitto pitagorico”, qual fosse la diaeta parca
secondo Pitagora.
Molto egli derivò, siccome è fama, dagli Egizi, ma anche, se non esclusivamente, dai
suoi celebrati maestri Talete miletese e Faracide di Siro.
Nel già citato lavoro Fonti greco-latine della dietetica rediana scrivevamo che
costoro, “con le loro anticipazioni ·sperimentali, donarono i primi germi di quelle
regole dell'astinenza soggetto e oggetto di molteplici studi nonché di adattamenti alla
vita monastica fin dai primi tempi del Cristianesimo”.
Porfirio, in De Abstinentia (lib. IV), alle sacre pratiche egiziane fa risalire senz'altro
quelle adottate da Pitagora come si legge nelle Ricerche filosofiche sugli Egizi; egli
poi sostenne che il regime vegetale è più atto a dare salute perfetta e acutezza
d'ingegno filosofico.
Giamblico nella Vita di Pitagora dice che Pitagora bandì i cibi i quali mentre son
causa di turbamento del corpo oscurano lo spirito e lo rendono “più pesante”.
Nei primordi di Roma come nell'antica Sparta, a dir vero, s'era ecceduto nel
contrario. Lucrezio (lib. V) ricorda: allora sovente la scarsezza del vitto toglieva la
vita a' corpi infermi mentre ora spesso li uccide 1'abbondanza de' cibi. E volendo
tenersi in vita con prudenza e con senno è gran tesoro per l'uomo il viver parco e in
letizia.
Una limitazione anche eccessiva era conosciuta riferendosi all'austerità della dieta
Spartana. Uno straniero, dice Plutarco (in Licurgo), avendo veduto spartani assisi a
mensa ed altri caduti sul campo di battaglia, osservava ch'era più facile sopportare
una tal morte e non una tal vita. Licurgo però aveva eliminato dai loro pasti le cose
superflue, e quindi se i Lacedemoni vivevano in estrema frugalità era questa una loro
virtù ché non vi erano costretti.
Torna sempre dominatore vittorioso il ·concetto di desiderio e timore regolati dalla
ragione che trionfa. Trionfo manifesto financo nel precetto epicureo di dover secondo
ragione rinunciare a quei piaceri che son fonte di dolore (A. Sacheli, Lineamenti
epicurei nello stoicismo di Seneca).
Riferisce il Sacheli: “Abbiamo un frammento di lettera (bisogna sfrondar la leggenda
di Epicuro ricercatore di piaceri e riportarla a quella di “allontanatore” delle cause di
dispiacere) in cui Epicuro dice ad un amico: mandami un po' di cacio conservato,
perché possa quando voglia scialarmela; e di un'altra in cui mette l'amico al corrente
dei suoi godimenti: tutto trabocca il mio corpo di piacere, quando vivo a pane e
acqua e sputo sui piaceri di una vita sontuosa, non per essi medesimi ma per gli
incomodi che vi si accompagnano. Si vede da ciò, - osserva lo stesso Sacheli, quanta ragione avesse Seneca di definire quella di Epicuro una voluptas sobria et
sicca”.
Effetto anche questo di virtù che per Seneca ha per base la moderazione.
!
2!
Un recente libretto del dott. Paul Carton, Le Naturisme dans Sénèque, offre molte
ricerche comparate su l'opera del filosofo romano, i cui insegnamenti precorsero
quelli di varie scuole moderne.
Diceva: “È una grande fortuna la povertà regolata sulla legge di natura. E questa
legge limita i nostri bisogni a non patir la fame, la sete, il freddo. Ognuno può
agevolmente procurarsi ciò che la natura richiede. È per l'ansia del superfluo che ci si
affatica; chi s'accontenta della sua povertà è ricco”.
Seneca aveva riconosciuto che le malattie son generate o favorite dagli errori nella
condotta e dai vizi umani: dagli eccessi che si commettono in più come in meno
nell'alimentazione e nell'attività. Dei due eccessi, il più frequente ed il peggiore
ammetteva fosse quello della nutrizione. “Dacchè, invece di placare la fame si cercò
d'eccitarla e s'inventarono mille stimoli a soddisfare la ghiottoneria; quel che per il
bisogno era un alimento divenne un peso per la sazietà. Da ciò il pallore, il tremolio
de' nervi pervasi dal vino, le magrezze per indigestione più deplorevoli di quelle
cagionate dalla fame; da ciò il passo incerto e traballante come nell'ebrezza, il ventre
gonfio per la sciagurata abitudine di ricevere oltre misura”. E Seneca definisce i
sintomi delle suddette malattie: “innumerevoli supplizi della mollezza”.
Da questi flagelli si era esenti, egli soggiunge, avanti di essersi lasciati sedurre dalle
delizie. Il lavoro induriva il corpo e lo si stancava alla corsa, alla caccia, agli esercizi
fisici, ai quali seguiva un'alimentazione che la sola fame sapeva render gradevole. E
non c'era bisogno d'un così grande apparato di medici e di rimedi. Qualsiasi
indisposizione era semplice come la sua .causa: la molteplicità delle pietanze ha
moltiplicato le malattie. Alimenti eterogenei debbono necessariamente combattersi e
alterare le digestioni con le loro diverse tendenze. Non può dunque sorprendere che
da materie discordanti nascano malattie capricciose e varie, e che elementi di
contraria natura, concentrati sopra un solo punto, rigurgitino all'esterno.
E prosegue, sempre rivolto a Lucillo: “Le nostre malattie sono innumerevoli, non
devi stupirtene: conta i nostri cuochi. Gli studi son trascurati, i professori di scienze
liberali salgono ad una cattedra senza uditori. Le scuole d'eloquenza e la filosofia son
deserte; ma quale affluenza alle cucine! Qual numerosa gioventù assedia i fornelli dei
dissipatori ...”.
Vitupera quindi Seneca la cucina complicata, l'impiego di elementi putrescibili, e le
disarmonie alimentari, le miscele stravaganti che da molti vengono inflitte ai loro
stomachi. Le descrive ed esclama: “Fino a quando l'approvvigionamento d'una sola
tavola arriverà su tante navi e da più d'un mare? Basta poca terra a nutrire un bove, e
una foresta a parecchi elefanti: ed un uomo vuol per sé la terra ed il mare. E come? In
un corpo tanto esiguo, la natura ha messo uno stomaco così insaziabile da farci
superare in avidità gli animali più grandi e più voraci!”
Poi ritorna a spiegare che la natura ha voluto favorire tali esuberanze e ch'essa offre
sempre all'uomo il necessario, senza obbligarlo a sforzi· di ricerche fuor di misura ed
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3!
a maniere d'alimentazione tanto raffinate, essendo scarso il numero delle cose
necessarie alla nostra vita.
Deplora che le donne siano afflitte dalla pericolosa mania d'imitare gli uomini e
partecipare agli stessi vizi d'intemperanza e di logorio fisico; ricorda che “il principe
e fondatore della medicina” ha detto: “Le donne non sono soggette né alla caduta dei
capelli né alla gotta alle gambe. Ebbene ora i loro capelli cadono e le loro gambe
soffrono di gotta. Non è la costituzione delle donne ch'è cambiata; è invece cambiata
la loro vita: avendo gareggiato d'eccessi con gli uomini hanno dovuto subire le
infermità degli uomini. Com'essi vegliano, e com'essi bevono, li sfidano all'orgia e
vomitano il superfluo per il loro stomaco, e masticano neve per rinfrescare gli
intestini brucianti. E tutto ciò perché ci siamo allontanati dalla moderazione naturale
che dà per limite al desiderio il bisogno”. Dobbiamo, egli dice, mangiare per placare
la fame, bere per estinguere la sete e pagare alla voluptas il solo tributo necessario.
Un metodo di vita proficuo al fisico ed al morale è di non compiacere il corpo oltre
quanto basti per la salute. Anche per gli alimenti più sani l’abuso di quantità può
trascinare a disordini gravi.
Seneca, pur non essendo medico, possedeva una così chiara concezione delle
necessità alimentari, fisiologiche e ponderate, per lunga esperienza, sul proprio
organismo; e perchè egli era seguace della dottrina di Pitagora, da esperienza e
dottrina era indotto a ritenere che poche persone, “sia all'esterno che all'interno d'esse
medesime, si regolino secondo ragione: la moltitudine, come gli oggetti che seguono
la corrente dei fiumi, non cammina, ma è trascinata... A noi spetta dunque
determinare ciò che vogliamo e perseverare”.
Seneca, a dir vero, adottò tardivamente il vegetarismo pitagorico: pure afferma
(Epistole, 108) che dopo un anno il nuovo regime gli era divenuto non solo facile ma
delizioso; e gli sembrò che le sue attitudini intellettuali si fossero maggiormente
sviluppate.
Altri precursori romani: Orazio, Giovenale, Marziale, avevano in varia maniera, ma
con egual proposito, recato contributi di argomenti e di osservazioni a prò della
frugalità. Più chiaro e dimostrativo è il parlare di Orazio nella seconda satira del libro
secondo. Non dispiaccia se questa satira si riproduce qui intera, ché riassumerla
equivarrebbe a toglierle una gran parte della sua meravigliosa bellezza:
“Quale e quanto grande virtù sia, o cari, il viver con poco (il discorso non è mio, ma
sono dottrine del campagnuolo Ofello, un filosofo alla buona, grossolano
argomentatore), dovete imparare non tra lo splendore dei vasellami e delle mense,
quando gli occhi sono abbagliati dagli esagerati fulgori, e l'animo inclinato alle false
apparenze ricusa i beni migliori, ma considerare qui con me a stomaco digiuno.
Perché questo? Lo dirò se potrò. Ogni giudice corrotto è poco adatto ad esaminare la
verità. Dopo avere inseguito una lepre od essere disceso stanco da un indomito
destriero, oppure se abituato alla greca, ti riescono gravi gli esercizi romani, sia che ti
alletti la palla veloce, mentre l'ardore soavemente inganna il peso della fatica, o ti
!
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attiri il disco, fendi col disco l'aria; quando la fatica ti avrà reso meno schizzinoso,
assetato, affamato come sei, disprezza se puoi i cibi volgari, e non bere se non miele
dell’Imetto stemperato nel vino Falerno.
“È fuori il dispensiere e 1'oscuro mare in tempesta difende i pesci; del pane con del
sale basterà a calmare i latrati dello stomaco. Donde e come credi che sia ciò
avvenuto? Non già nel profumo di
costose vivande sussiste il piacere,
ma in te stesso. Procacciati tu
stesso con la fatica il condimento;
ad uno pingue e pallido per la
crapula non potranno piacere né le
ostriche né lo scauro o il migratore
logopodo. Qualora tuttavia ti si
imbandisca un pavone sarà più
difficile ch'io ti persuada a non
voler solleticare il palato con
questo piuttosto che con una
gallina, sedotto come sei da vane
apparenze, perché l'uccello raro si
vende a peso d'oro e spiegando la variopinta coda fa bella mostra di sé ; come se
abbia a che vedere colla sostanza della cosa. Forse che puoi cibarti di codeste penne,
che tu ammiri? Cotto hai forse la stessa bellezza? Sebbene non ci sia punto differenza
nel sapore della carne, ammettiamo pure che tu preferisca quella a questa lasciandoti
illudere dalla diversa apparenza. Donde hai si fine gusto da distinguere se questo
“lupo” che boccheggia sul piatto sia stato preso nel Tevere? in alto mare? Se fu
gettato fra i ponti o presso la foce del Tevere? Tu lodi, o pazzo, una triglia di tre
libbre che poi devi dividere in tante parti. Ti seduce l'apparenza, lo vedo, perché,
dunque, hai in odio i lupi che son pur grandi? Certo perché questi son per natura
grandi, le triglie, invece, piccole. Uno stomaco che sia raramente digiuno disprezza i
cibi volgari. Vorrei vederne uno grande disteso in un gran piatto, dice una gola degna
delle rapaci Arpie. Ma voi propizi, o scirocchi, fate imputridire le loro pietanze.·
Sebbene il cinghiale ed il rombo anche freschi puzzino, poiché la soverchia
abbondanza fa nausea al loro stomaco ammalato, quando essendo pieno preferisce i
ravanelli e le enule in insalata. E non furono ancora sbanditi del tutto dalle mense dei
ricchi i cibi dei poveri; anche oggi infatti c'è posto per le uova di poco prezzo e per le
olive mature. Or non è molto aveva fama la mensa del banditore Gallonio per lo
storione. E che? forse i mari nutrivano allora meno i rombi? Era sicuro il rombo ed
era sicura la cicogna nel suo nido finché ve li insegnò l'inventore pretorio. Se uno
adunque sentenziasse che gli smerghi arrosto sono gustosi, la gioventù romana, docile
al male, gli darà ascolto. La spilorceria sarà ben diversa, a giudizio di Ofello, dalla
frugalità, poiché invano eviterai quel vizio, per volgerti malamente ad altro. Avidieno,
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a cui fu giustamente affibbiato il soprannome di Cane, mangia olive di cinque anni e
cornioli selvatici e si guarda bene dal versare quel vino che non sia svanito, e benché
celebri in bianca toga, l'indomani delle nozze, il suo natalizio od altra solennità, versa
egli stesso a gocce sui cavoli, da un' recipiente di corno di due libbre, dell'olio, di cui
non potresti neppure sopportar l'odore, mentre è generoso invece di cattivo aceto.
Qual modo di vita vorrà dunque seguire il saggio e quale di costoro prenderà ad
imitare? Di qui incalza il lupo, di là il cane, come dicono. Sarà pulito fino al punto da
non dar fastidio colla sporcizia e non apparirà per l'uno o per l'altro rispetto degno di
biasimo quanto al genere di vita.
“Egli non sarà rigidamente severo cogli schiavi, come il vecchio Albuzio,
nell'assegnare a loro i vari uffici, né così trascurato come Nevio, da offrire acqua
sporca ai convitati, grave difetto anche questo. Sta ora a sentire quali e quanti
vantaggi porti con sé una vita temperata. Anzitutto godrai salute; poiché quanto riesca
nociva all'uomo la varietà del cibo lo puoi arguire pensando a quelle semplici
vivande, che altra volta hai digerito bene: mentre mescolando il lesso coll'arrosto, le
conchiglie coi tordi, i succhi dolci si cambieranno in bile ed un viscido catarro
altererà le funzioni dello stomaco. Vedi come ogni convitato si alza pallido da un
pranzo svariato? Che anzi il corpo gravato dai disordini del giorno innanzi opprime
anche l'animo ed avvilisce questa particella del soffio divino. L'altro dopo aver date al
sonno le membra rifocillate, in men che si dice si alza vigoroso ai doveri a lui
prescritti. Questi almeno potrà talvolta permettersi qualche cosa di meglio, sia al
ricorrere di un giorno solenne, sia che voglia ristorare il corpo estenuato, e col
crescere degli anni, la debole età richieda maggiori riguardi; che si potrà mai
aggiungere a codesta mollezza da cui ti lasci cogliere anzi tempo mentre sei giovane
e forte, qualora ti sopravvenga una cattiva salute o ti colga la pesante vecchiaia? Gli
antichi lodavano il cinghiale anche stantio, non per mancanza di naso, ma, credo,
perché l'ospite arrivando inaspettato lo divorava più di gusto, sebbene andato a male,
che non, mentre era ancor fresco, l'ingordo padrone. M'avesse fatto nascere la terra
fra gli eroi della prima età! Tieni in qualche conto la buona fama, che, più dolce
d'ogni canto, suona all'orecchio dell'uomo? I grandi rombi e i gran piatti portano
insieme col danno un grande disonore. Aggiungi l'ira dello zio, dei vicini, il disgusto
di te stesso e il desiderio della morte pur vano, poiché ti mancherà, quando ne avrai
bisogno, un asse, il prezzo d'un laccio. “Giustamente” dice un tale “si può
rimproverare Trausio con codeste parole; ma io ho grandi rendite e ricchezze pi li che
bastanti per tre re”. Non hai dunque dove meglio tu possa impiegare ciò che ti
sopravanza ? Perché mentre tu sei ricco altri vivono nella povertà senza loro colpa?
Perché gli antichi templi degli dei vanno in rovina? Perché, iniquo, di si grandi
ricchezze non fai parte alla tua cara patria? Tu sarai certo il solo a cui sorriderà
sempre la fortuna. Oggetto di scherno in avvenire ai tuoi nemici! Chi mai nelle
difficoltà potrà pi li sicuramente confidare nelle proprie forze? Colui che avrà
abituato la mente ed il corpo delicato a troppi bisogni, o che contento del poco e
!
6!
timoroso del futuro avrà preparato da saggio in tempo di pace il necessario per la
guerra? E perché. tu abbia maggiore fiducia in queste dottrine, sappi che io conobbi
tenero fanciullo questo Ofello, che non conduceva vita più splendida quando aveva
intere le sue sostanze, di ora, che sono scemate. Lo potresti vedere ancor robusto
fittaiuolo confinato nel poderetto, col bestiame e coi figli, e lo sentiresti narrare:
“Non senza ragione mi accontentai di mangiare nei giorni feriali dei legumi con lo
zampetto di un affumicato prosciutto. E sia che
venisse da me dopo un lungo tempo un ospite,
oppure qualche vicino, commensale gradito,
quando durante le piogge era libero dai lavori,
si stava allegri non con dei pesci procacciati in
città, ma con un pollo ed un capretto; ed alle
frutta le nostre mense erano adorne di uva
appassita, di noci e di fichi secchi. Poi ci si
divertiva a bere, guidati ciascuno dal proprio
criterio, e Cerere invocata, così potesse sorgere
in alti fusti, spianava col vino le rughe della
nostra fronte accigliata. Imperversi e sollevi la
fortuna nuove tempeste; quanto potrà togliermi
di ciò che mi resta? Di quanto a me od a voi, o
figli, riuscì meno lieta la vita, da che venne qui
un nuovo abitatore? Poiché la natura non ha
stabilito come padrone di un terreno veramente suo né lui, né me, né alcuno: egli
cacciò noi; lui potrà cacciare o la sua propria colpa o qualche cavillo legale o in ogni
modo ·all'ultimo lo caccerà un erede di più lunga vita. I campi, che vanno ora sotto il
nome di Umbreno, poco prima di Ofello, non diventeranno proprietà assoluta di
nessuno, ma li godrò ora io, ora un altro. Perciò vivete da forti ed opponete un animo
forte alle avversità della fortuna”.
Il Rinascimento italiano, rimessi in luce i valori spirituali dell'antichità greco-romana,
accese l'aspirazione alla vita felice in un concetto di serenità contrapposta alle
malinconie ascetiche medioevali.
E in quella stessa poté il Cornaro, il gentiluomo veneziano (troppo ormai noto e sul
quale ritorneremo), per un momento logoro dalle intemperanze, salvarsi adottando a
suo modo le regole pitagoriche, le ippocratiche e quelle di Seneca.
Cornaro identifica la vita sobria con l'ordine, secondo ragione e natura, che non lascia
generare “umori soverchi e maligni, né generati invecchiarsi in tale tristizia e
malignità, siccome avviene nei corpi vecchi di quelli che vivono senza regola... La
sobrietà è un ricchissimo tesoro della vita... La vita sobria consiste in queste due
cose: qualità e quantità; la qualità consiste solo in non mangiare cibi né bere vini
contrari al proprio stomaco; la quantità consiste che non si mangi e beva se non
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7!
quanto facilmente può essere digerito”. Neppure Cornaro era medico: parlava in
seguito a lunghe esperienze personali e visse quasi un secolo.
Luigi, o venezianamente Alvise, Cornaro visse precisamente dal 1467 al 1566 e
osservò per molti anni un'alimentazione incredibilmente povera.
A 83 anni scrisse il ben noto trattatello sul Metodo di vivere a lungo seguito da altre
operette sullo stesso soggetto composte a 86, 91, 95 anni.
Ai nostri tempi il metodo di “vita sobria” del Cornaro fu ripreso, come vedremo, dal
Fletcher.
Quale patrocinatore di una benintesa diaeta parca è certo da considerare Francesco
Redi. Un po' per costituzione, un po' per la “regola del vivere” egli si mantenne
“asciutto”. Celiando anzi, e avuto riguardo alla sua figura svelta, scrisse di se
medesimo:
che magro, secco, inaridito e strutto
potrei servir per lanternon di gondola.
Nei suo Consulti troviamo spesso accenni alla diaeta parca.
Per una vertigine tenebrosa in un vecchio (molto probabilmente prodotta o favorita
da ipertensione) il Redi propone che il malato
non si faccia “scrupolo di servirsi di quando
in quando di qualche gentil minestra e assai
brodosa di paste non lievitate, come
sarebbono le lasagne, la semolella, il farro
passato e simili”.
Si può considerare questa come la prima
testimonianza della pratica dietetica (e per
sostituzione parziale o totale della carne) di
quelle paste alimentari che, con l'aggiunta di
glutine, ai nostri tempi costituiscono un
cardine della diaeta parca ricca di proteine (le
quali siano prive di scorie uricogene e
ipertensogene), proteine vegetali nobili utili,
come si sa, in tanti stati morbosi.
Dell'utilità della minestra in casi di disturbi
circolatori con ripercussioni certamente
cerebrali è cenno in una lettera al Padre
Gottignes, seguita, che era crucciato da mala
affezione cerebrale lenta. Il Redi dopo altri
suggerimenti gli dice: “Prenda la mattina a
buonora sei o sette once di brodo di carne
sciocco, e non raddolcito con verun giulebbo
e né meno con zucchero ordinario. Il suo
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8!
desinare sia una buona minestra, talvolta maggiore e talvolta minore secondo
l'appetito maggiore o minore; oltre la minestra, come se fosse un dominicano, si
faccia cuocere un par d'uova e di più prenda un frutto secondo la stagione. La cena
della sera sia una minestra e un solo uovo”.
Si notino qui le parole “come se fosse un dominicano” presumibilmente dirette a
ricordare al gesuita la più stretta regola, nei riguardi dell'uso della carne, dei seguaci
di San Domenico.
Dopo varie prescrizioni ad un cardinale podagroso conclude: “Nel tempo ·di questi
medicamenti, si mangi minestre mattina e sera e le minestre siano assai brodose e
semplici, ma quasi sempre vi sia qualche erba, come lattuga, borragine, indivia,
zucca, ecc. Le carni per lo più siano cotte lesse, e per lo più la sera, invece di carne,
si mangi dell'uova o qualche altra bagatella. Delle frutte se ne può mangiare a mattina
e sera di tutte le sorti, in quantità modesta e conveniente, e cotte e crude, secondo che
le porta la' stagione. L'uso delle buone frutte e ben maneggiato non è quella cotanto
enorme e nociva cosa, come noi altri medici crediamo, anzi i frutti furono prodotti
per la sanità degli uomini che sanno servirsene a tempo e in regolata quantità, lontano
dalla strabocchevole ripienezza”.
(Allora, come del resto un cinquantennio fa, alcuni medici erano contro le frutta. Il
Redi, acuto osservatore, era anche lui buon consumatore di frutta).
Avvenuto il parto della figlia di Cosimo III manda al medico curante i richiesti
consigli e fra questi che il vino “bene annacquato, sia nella dovuta convenientissima
parsimonia; siccome in questa dovuta convenientissima parsimonia deve essere
ancora il mangiare; perché, caro signor Dottore, la maggiore parte de' mali che
vengono alle parturienti, soglion provenire dal troppo copioso vitto de' primi giorni
dopo il parto, ne' quali giorni il volgo crede che si abbia a mangiare copiosamente per
riempire, come egli dice, il vòto. Chieggo di nuovo perdono del mio troppo libero
parlare ... “.
Vediamo in questi celebri consulti che nella dietetica curativa suggerita dal Redi,
sono implicite quella preservatrice e la conservatrice.
Una dama isterica ed ipocondriaca implora salute dal Nostro ed egli conclude la
risposta così: “Insomma in decimo secondo luogo io dico a vostra signoria
illustrissima, che ella se ne stia allegramente, perché coll'allegria e tranquillità
d'animo ella ricupererà la sanità perfettamente. Si faccia di quando in quando qualche
clistere, ma tal clistere sia semplice, o di puro brodo o di pura acqua di fontana, con
aggiungervi tre o quattro once di zucchero bianco, un poco di butirro ed un poco di
sale. Nel mangiare pigli la minestra mattina e sera, e sia assai brodosa e umida, alle
volte sia di semplice pane bollito o stufato· ovvero grattato, alle volte sia minestra di
erbe, come di indivia, di borrana, di lattuga o di cocuzza”.
Egli stesso, come leggiamo nella Vacchetta (o libro di ricordi) che è una specie di
scartafaccio per appunti domestici, attingeva per molto al regno vegetale
specialmente in tarda età. Vi si legge in data 23 settembre 1694 :
!
9!
“Il ser.mo Granduca mio signore mi mandò a donare due poponi vernini venuti di
Spagna i quali erano dolcissimi; uno era di midolla rossa e uno bianca ...”.
E ancora: “A dì 25 settembre 1694. Il Serenissimo Granduca mio signore mi mandò
di nuovo un altro popone vernino di quegli venuti di Spagna. Era grossissimo,
nell'interno di colore rossissimo e sommamente dolcissimo”.
E infine, pochi mesi prima della morte avvenuta nel marzo del 1697 si trova scritto:
“A dì 15 novembre 1696. Arrivarono qui tutte le civaie che il Bali Gio Batta mio
fratello mandò d'Arezzo insieme con la mostarda e sapa e altro... Quest'anno non
mandò pere perché in Arezzo non ve n'erano state...”.
Dopo quasi un secolo ritorna, come abbiamo visto, per Antonio Cocchi mugellano,
non meno illustre forse del Redi, per i Consulti ricalcati talvolta, su quelli del “gran
padre della medicina toscana”, sotto l'attenzione dei medici il “vitto pitagorico”.
Le scoperte del secolo XIX, nella raffica positivistica, inseguono anzi la chimera
dell'alimentazione in pillole. Intorno al 1850 si divulgano in Italia le teorie del Liebig
che portavano a rivalutare la dieta vegetariana che è tanta parte della diaeta parca.
Vero è che il Liebig non faceva che ripetere (veggasi più avanti in Appendice) le
affermazioni di I. B. Beccari. Nell'ultimo quarto del secolo vengon di moda gli studi
sul digiuno; se ne approfondiscono alcuni lati. Anche qui il precursore era stato il
Beccari col suo De Longis jejuniis. Cetti e Succi fanno le spese organiche
(guadagnandoci anzi in danaro) di ben condotte esperienze.
Nasce poi e si afferma dal principio del Novecento l'idea “dell'alimentazione ridotta”.
Diceva Silvestro Baglioni, nel libro scritto· in collaborazione con Luigi Luciani, poco
dopo aver licenziato (1914) come revisore il grande Trattato di Fisiologia:
“Il regime alimentare medio, fondato sui dati statistici raccolti da Voit, da Atwater, da
Tigerstedt, fu generalmente accettato dai fisiologi, dagl'igienisti, da medici, dagli
economisti fino a pochi anni or sono. Ma se ben si riflette, il valore di questi dati
consiste essenzialmente in una pura e semplice constatazione di fatti, dai quali non è
strettamente logico ricavare le leggi fisiologiche che presiedono al fenomeno
dell'alimentazione; regolandola secondo i vari bisogni della nutrizione, che è la base
del benessere fisico, intellettuale e morale della popolazioni; in altre parole, essi ci
recano la nozione della composizione, delle quantità e del valore energetico
complessivo degli alimenti, che gli europei e gli americani presi a soggetti di
ricerche, sogliono arbitrariamente assumere per sostentarsi; ma non dimostrano che
veramente il loro regime alimentare rappresenti il fabbisogno ideale, vale a dire la
dieta più adatta a conservare a lungo lo stato nutritivo ed energetico meglio
confacente all'umana economia.
“Se è vero che gli animali viventi allo stato di natura, scelgono i loro alimenti guidati
dall'istinto, non si può dire altrettanto dei popoli civilizzati, nei quali l'istinto
originario non ha libero gioco, essendo cacciato in seconda linea da appetiti derivati
dal più elevato sviluppo dell'attività psichica. È innegabile la possibilità che il regime
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adottato comunemente dalle nostre popolazioni, rappresenti, almeno in parte, il
portato di cattive abitudini; trasmesse e rincalzate per eredità da una lunga serie di
generazioni, come l'uso e l'abuso dell'alcole, del tabacco, di alcuni alcaloidi, che
certamente non sono compresi nella categoria dei principi alimentari naturali.
William Robert (osserva il Chittenden). ha detto che il palato è la coscienza dietetica,
ma ha anche soggiunto che i palati degeneri sono molto numerosi; e noi possiamo
con ragione domandarci se un erroneo sistema di vita non abbia, in linea generale,
pervertita la nostra coscienza dietetica. L'abitudine di soddisfare ad ogni occasione il
nostro appetito, di obbedire ad ogni capriccio del nostro palato fino alla sazietà, senza
preoccuparsi né punto né poco dei bisogni fisiologici del nostro corpo, può bene ed in
modo molto naturale, aver costituito una falsa regola di vita, ben lontana dalle vere
leggi dell'alimentazione.
Per dare un fondamento scientifico alla supposizione che le nostre popolazioni, nella
grande maggioranza, mangiano assai più di quanto è fisiologicamente utile era
necessario sottoporle al controllo sperimentale. Invece di studiare il regime dietetico
di individui che possono non solo scegliere ad arbitrio la natura degli alimenti ma
anche la quantità dei medesimi, bisognava studiare individui che volontariamente si
sottoponessero a regimi speciali nei laboratori”.
In queste righe del Baglioni si riconosce agevolmente qualche eco della morale, in
questo caso “morale dietetica”, di Seneca.
Appunto i fondatori di regole religiose, come abbiamo potuto rilevare dai loro criteri
normativi, si son preoccupati di liberare gli ascritti dal retaggio “vizioso” deviatore in
senso anti fisiologico degli appetiti, in quanto si riferisce alla nutrizione; di spogliarli
cioè delle abitudini alimentari “del secolo”.
L'esperimento, sia pure empirico, grossolano, della diaeta parca c'era dunque già da
secoli. Nel secolo ventesimo doveva farsi un esperimento veramente scientifico in
proposito.
Appunto il Chittenden, al principio del secolo XX (1903), aveva studiato
direttamente nei laboratori di fisiologia dell'Università di Yale un soggetto sottomesso
ad alimentazione ridotta; cioè a una peculiare diaeta parca.
Questo soggetto era Orazio Fletcher; egli s'era lasciato ampia libertà di scelta degli
alimenti, talché il suo regime dietetico riusciva assai vario; ma restando, in definitiva,
assai parco.
Egli vi s'era, del resto, abituato da lunghi anni: aveva notato che i suoi concittadini
nord americani mangiavano troppo.
Per tutto il gennaio del 1903 Orazio Fletcher fu sotto l'osservazione di Chittenden.
Pesava kg. 1,940; alla fine del mese il suo peso era immutato con un consumo di
proteine di meno della metà della razione media data dal Voit; non ci fu alcuna
compensazione per un più largo consumo di glicidi o carboidrati (cioè farinacei e
zuccheri) e grassi.
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Nel febbraio il Fletcher stabilizzò la sua diaeta parca in modo che non superasse i 45
grammi dI proteine al giorno: i grassi e i carboidrati (farinacei e zuccheri) furono
assunti “in quantità così limitata da far raggiungere alla dieta quotidiana un valore di
poco superiore alle 1600 calorie”.
Si pensi ·che le cifre medie date dal Voit per l'uomo normale con attività normale
erano di gr. 118 di proteine e di 3000 calorie.
Si sottomise il Fletcher a un certo lavoro fisico paragonabile a quello dell'operaio e
del soldato.
Per quanto egli non praticasse da molti mesi altro esercizio fisico che quello
consentito dalla quotidiana breve
passeggiata, pure poté eseguire i succitati
esercizi senza difficoltà e stanchezza.
Il Chittenden rimase assai meravigliato e si
domandò : “Possediamo noi un concetto ben
chiaro delle reali esigenze del corpo per
quanto concerne l'alimentazione quotidiana?
Seguiamo noi veramente il sistema migliore
e più economico per mantenere il corpo in
perfetto stato fisiologico? Il caso Fletcher
deve ritenersi come affatto singolare, dovuto
a un'eccezionale lentezza del ricambio
materiale, oppure qualsiasi individuo in età
matura è capace di sostenere a lungo senza
danno, anzi con beneficio della sua salute un
regime alimentare ridotto a circa la metà di
quello ritenuto dal Voit come normale? Era
avvenuto al Fletcher come al Cornaro. A 40
anni lo stato della sua salute era diventato
precario: “Era incapace” è scritto nelle sue
Confessioni “di occuparsi di affari, di
frequentare circoli, di vivere la battagliera
vita sociale. Quantunque nella sua
giovinezza si fosse allenato all'atletismo e il
suo vivere fosse stato sempre confortato da tutti gli agi, pure era ridotto a un tale
disordine fisico che le Compagnie si rifiutarono di assicurarlo. L'inattesa inabilità,
con un così grave avvertimento pel futuro, fu un tal colpo alla sua speranza di vivere
a lungo, che lo condusse a fare un grande sforzo personale in cerca di una via di
salvezza... Accortosi che il guasto della sua macchina dipendeva specialmente dal
troppo mangiare trovò il mezzo di guarirsi coll'aiuto di un'alimentazione economica
come fece Luigi Cornaro e il metodo per ottenere con una piccola quantità di cibo
molto maggior godimento di quello che possa dar la tavola meglio imbandita”.
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Ricerche di conferma furono perseguite dal danese Hindhede. Esse confermano
difatti la conclusione fondamentale tratta dalle esperienze sul Fletcher, che cioè la
quantità di proteine che ordinariamente si suole ingerire, è assai superiore a quella
che è veramente e strettamente necessaria all'uomo adulto, e dimostrano che l'eccesso
della ingestione di sostanze azotate non solo non è utile, ma nociva alla umana
economia.
“Le ricerche, condotte su larga base sperimentale, durarono parecchi mesi. Fu
determinata non solo la quantità totale di azoto introdotta con gli alimenti ed
eliminata colle deiezioni (urine e feci), ma si tenne conto altresì dell'emissione
dell'acido ·urico, dell'acido fosforico, dell'attività muscolare e psichica, del numero
relativo degli eritrociti del sangue, delle oscillazioni giornaliere del peso del corpo,
dello stato generale degli individui soggetti agli esperimenti”.
L'Hindhede corroborò dunque i risultati ai quali era giunto Chittenden.
“È dunque un pregiudizio, secondo Chittenden” commentano Baglioni e Luciani “che
il nostro vigore fisico e mentale, e la nostra resistenza alle malattie siano accresciuti
da un'abbondante dieta carnea. Si può invece argomentare che, essendo i prodotti
intermedi del ricambio materiale delle proteine eminentemente tossici (basi
puriniche, creatina e acido urico), quando si introduce giornalmente una quantità
eccessiva di carne, circolano col sangue per l'organismo e in forte quantità questi
prodotti che possono riescir nocivi, attossicando specialmente i centri nervosi.
Aggiungasi un'altra importante riflessione: per digerire tutte le proteine alimentari,
per trasformare e rendere innocui tutti i prodotti intermedi del loro metabolismo, per
eliminare infine attraverso i reni tutti i prodotti finali (urea, acido urico, creatina,
ecc.) che da esse si formano, noi siamo costretti a impiegare una quantità enorme di
lavoro glandulare, che è in parte a scapito della funzione dei tessuti più elevati della
vita di relazione, quali il muscolare e il nervoso”.
Ma lasciamo parlare lo stesso Chittenden : “Dallo studio dei risultati ottenuti dalle
mie ricerche” così conclude: “emerge evidentemente che uomini giovani e vigorosi,
educati a forti esercizi ginnastici e largo uso dei muscoli (come quelli del gruppo
degli studenti), possono soddisfare tutti i bisogni veramente fisiologici dei loro
organismi, e conservare la loro forza e vigoria, come la loro capacità al lavoro
mentale, con una quantità di alimenti proteici pari alla metà o a un terzo di quello che
ordinariamente si consuma da uomini di simil genere”.
“Per completare l'esposizione dei risultati ottenuti dal Chittenden, giova insistere sul
fatto che tutti gli individui compresi nei tre gruppi durante il lungo periodo di
esperimenti (dopo raggiunto il nuovo equilibrio dell'azoto corrispondente
all'alimentazione ridotta) non subirono ulteriore diminuzione del loro peso, né
accusarono il più lieve malessere: anzi molti di loro notarono un miglioramento nella
loro salute, sicché finito l'esperimento preferirono di persistere nel regime alimentare
ridotto”.
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“La dottrina dell'alimentazione ridotta o economica” concludevano Baglioni e
Luciani “ha certamente un grande e sicuro avvenire perché ormai fondata su un
complesso di fatti innegabili scientificamente accertati. Se ora è grande in molti la
ripugnanza ad accettarla, gli è perché contraddice bruscamente alle nostre abitudini
inveterate ed ereditariamente rinsaldate, perché tende a vietare, o almeno a porre un
freno, ai piaceri che noi ci procuriamo tenendo lungamente in attività il nostro senso
gustativo. La masticazione e l'insalivazione prolungata dei boli alimentari che i
fletcheriani raccomandano, io ritengo sia utile principalmente per prolungare al
possibile le sensazioni gustative, in guisa da procurare a noi stessi con poco cibo la
stessa quantità di godimento che gli ingordi ricercano ingoiando avidamente una
doppia o tripla dose· di vivande”.
Sono ricorsi sin qui frequentemente i termini di proteine, carboidrati, azoto proteico,
ecc. Per chi non sia addentro delle questioni di biochimica alimentare o per chi non
abbia seguito l'evoluzione della nomenclatura non sarà male dare un po' di
spiegazione.
Proteine o proteidi o protidi sono le sostanze alimentari di primaria fondamentale
importanza. L'organismo perde continuamente proteine: le sue proteine cellulari si
usurano; esse debbono esser reintegrate con l'alimentazione.
Alimenti proteici sono la carne, il pesce, le uova, il latte; questi provengono dal regno
animale. Specialmente le carni, come abbiamo più volte accennato, sono, in eccesso,
nocive per gli adulti (per gli organismi in via di sviluppo, come del resto abbiamo
visto esaminando le varie regole religiose, la diaeta parca subisce temperamenti).
Nella diaeta parca le proteine carnee tendono a esser sostituite dalle proteine meno
tossiche del pesce, del latte, e per il loro minor tenore proteico, dalle uova.
Accanto alle proteine animali ci sono, spiegammo a più riprese, le proteine vegetali
dei cereali e dei legumi. Queste commenda la diaeta parca.
E qui bisognerebbe aprire un altro importante capitolo. Ma ce la sbrigheremo
rapidamente essendo la questione del “vegetarianismo relativo” strettamente
connessa con la diaeta parca.
Senza entrare nei particolari della teoria vegetariana assoluta si può dire sia ormai
risolta la questione della superiorità fisiologica e igienica del regime prevalentemente
vegetale su quello prevalentemente animale.
La riduzione al minimo - ripetiamo, per l'adulto - delle proteine carnee, la loro
sostituzione parziale di piccola proporzione con le proteine del pesce, delle uova;
l'adozione delle proteine vegetali nobili, quali quelle del glutine e derivati, e di quelle
meno nobili dei legumi, permettono di attuare una diaeta parca soddisfacente e
sufficiente ai bisogni comuni.
La grande questione della isovalenza delle proteine vegetali nobili a quelle della
carne sembra ormai risolta; in appendice riportiamo uno studio riassuntivo sui protidi
(sotto questa nuova denominazione si comprendono le albumine o sostanze
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albuminoidi della vecchia nomenclatura, le proteine di ogni provenienza) che
rischiarerà vari aspetti di essa questione.
Per concludere diremo che la nostra razione può esser contenuta entro valori modesti
per quanto riguarda la quota proteica: ch'essa può esser ridotta a poche proteine
animali scelte tra le meno capaci di produrre scorie tossiche (pesce, e, salvo casi
particolarissimi, uova e latte); che le proteine vegetali nobili potendo entrare nel
“primo piatto” acconciamente unite a verdure e ortaggi possono al caso risolvere il
problema del “piatto unico”.
Che insomma ai vantaggi “empirici” della diaeta parca quali erano noti se ne
possono aggiungere altri accertati per via scientifica, quali quelli legati all'apporto
vitaminico e salino.
La diaeta parca razionalmente istituita eseguita è veramente condizione e premessa
di buona salute specialmente per gli adulti a partire dalla constans aetas. Quindi, o
lettore, ove la osserverai, ti si può, se ormai sei entrato in questa età, augurare,
fondatamente, di star sano”.
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Ecco una newsletter del 23.12.2011 che mi è arrivata da “Le Scienze”
MENO CALORIE PER MANTENERE GIOVANE IL CERVELLO
Grazie a una ricerca dell’Università Cattolica di Roma è stato possibile riscontrare gli
effetti benefici della restrizione alimentare sulla degenerazione delle capacità
cognitive, confermando la correlazione nota da tempo che riguarda gli effetti benefici
sulla longevità dell’organismo nel suo insieme (red)
Che l’alimentazione e in particolare l’introito calorico fosse legato alla longevità era
noto da tempo grazie ai risultati di numerose ricerche in questo campo. Non era
invece conosciuto l’effetto sull’invecchiamento del cervello, evidenziato da una
recente ricerca italiana, frutto della collaborazione tra l’Istituto di Patologia generale
e quello di fisiologia umana dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Roma. In
particolare, nella sperimentazione su topi di laboratorio, si è scoperto che una
molecola denominata CREB1, che risulta correlata alla longevità e al corretto
funzionamento del cervello è attivata dalla restrizione calorica. In sostanza, un
diminuito introito alimentare è correlato a una minore invecchiamento del cervello e
a una minore degenerazione cognitiva rispetto agli animali nutriti in modo normale.
Con il termine “restrizione” calorica si intende, in termini sperimentali, che gli
animali possono consumare fino al 70 per cento del cibo che assumono
quotidianamente. Tipicamente, in queste condizioni i topi di laboratorio non
sviluppano né obesità né diabete; per contro mostrano migliori prestazioni cognitive e
di memoria, oltre a essere meno aggressivi. Inoltre, presentano un minori rischio di
insorgenza di malattia di Alzheimer, o un suo ritardo nel tempo, rispetto agli animali
ipernutriti. Il gruppo della Cattolica di Roma ha ora scoperto che la CREB1 – già
nota per il suo coinvolgimento nelle funzioni mentali quali i processi di memoria,
l’apprendimento e il controllo dell’ansia, e per il fatto di diminuire i suoi effetti con
l’età – media gli effetti sul cervello della restrizione calorica attivando a sua volta un
altro gruppo di molecole collegate alla longevità, le sirtuine. A riprova del ruolo della
CREB1, si è riscontrato che i roditori che ne sono mancanti mostrano i deficit tipici
degli animali ipernutriti.
“La nostra scoperta ha importanti implicazioni per lo sviluppo di future terapie per
mantenere giovane il cervello e per prevenire la degenerazione e i processi
d’invecchiamento”, ha spiegato Giovambattista Pani, primo autore dello studio
apparso sui Proceedings of the National Academy of Sciences USA (PNAS). “Oltre a
ciò, il nostro studio getta una luce sulla correlazione tra le malattie del metabolismo,
quali il diabete o l’obesità, e il declino delle capacità cognitive”.
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dieta parca e salute