Questo giornalino è rivolto a donne e uomini liberi, volenterosi ed entusiasti della vita per la quale
mettono al servizio risorse, talenti, esperienze ed
energie.
Come un raggio di luce sul mondo del volontariato, le “NEWS AVO” hanno l’intento di informare, ma vogliono fare anche chiarezza, portare
buon umore e stimolare a dare sempre di più.
Il volontario AVO già si dedica all’ammalato con
devozione, tenacia e trasporto, ma forse troverà il
proprio modo di lasciarsi ispirare e di tradurre in
azione alcuni di questi spunti di riflessione.
In queste poche pagine, cerchiamo di unire mondi
diversi: dall’informazione alla formazione, dalla
poesie alle esperienze personali, dalla sociologia
alla psicologia.
Mondi complementari e complessi formati da
gente carica di entusiasmo che ha scelto di regalare
qualche ora del suo tempo all’ascolto del prossimo.
Daremo il benvenuto ai vostri contributi e suggerimenti che saremo lieti di condividere per generare nuove e preziose occasioni di riflessione e
incontro.
Buona lettura
E.S.
A CASA LONTANI DA CASA
RITIRO DEL PREMIO
L'assessore Majorino sabato 7 giugno ha consegnato
alle associazioni promotrici del progetto delle case la targa
che il Comune di Milano ha ricevuto nell'ambito
del convegno "città sane"
grazie al progetto
"a casa lontano da casa"
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CORSO N. 112
RESOCONTO DEL CORSO PER NUOVI VOLONTARI AVO N° 112
SVOLTOSI AL PAT NELLE DATE DEL 15 – 22- 29 MARZO E 5 – 12 APRILE 2014
LA PRIMA LEZIONE, 15 MARZO
Dopo il benvenuto ai partecipanti da parte del Direttore Sanitario del
PAT, dr Della Croce, Claudio Bandi ringrazia le direzioni del PAT e
il gruppo di volontari sia della segreteria di via Dezza sia di quelli presenti che hanno sostenuto il compito di organizzare l’evento. Quindi
la nostra Presidente Maria Saraceno, tratta la storia, lo scopo, le istituzioni e gli aspetti organizzativi dell’Associazione. Dopo il coffe
break due volontari di AVO giovani Ivana Musumarra e Riccardo
Moscara presentano un filmato intitolato “Il circo della farfalla” coinvolgente e commovente racconto di come a ogni essere, avvalendosi e
fidandosi di un aiuto che lo renda convinto e consapevole dei propri
mezzi, è data la possibilità di riscatto dal proprio stato anche miserevole e la rinascita a una nuova vita. I due volontari, poi, sollecitano i
presenti con domande, ispirate al filmato, a cui seguono risposte e considerazioni interessanti.
Chiude la giornata Giulio Ciglia volontario del Pini che con il suo
modo di porsi così diretto, la sua esposizione piena di trasporto, mostra
l’immagine della vitalità che deve animare il volontario.
LA SECONDA LEZIONE, 22 MARZO
Apre la dott.ssa Monica Gandelli spiegando i concetti di salute, igiene
e prevenzione, le misure, i mezzi e i metodi da adottare soffermandosi
in particolare sul lavaggio e pulizia delle mani. Quindi, affronta il tema
delle infezioni: come si trasmettono esemplificandone una tipologia,
il “Costridium difficile”. Mostra, poi, alcuni avvisi e protocolli da seguire in caso di infezioni presenti in reparto. Infine ci ricorda norme
di comportamento da tenere con i pazienti e i loro famigliari.
Dopo il coffe break, sempre organizzato in modo esemplare dai volontari ma principalmente dalle volontarie, prende la parola l’infermiere professionale A. Drago. Nel suo intervento definisce la figura
del volontario, la sua missione, il comportamento che deve seguire in
reparto per tutelare la salute del paziente, qual è il rapporto esistente
con la struttura ospedaliera nella sua complessità e quali i divieti che
il volontario è tenuto a rispettare.
Pone, inoltre, un’attenzione particolare nel dettagliare i fattori di rischio che si presentano nei nuclei Alzheimer.
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Conclude con un’espressione che non può che gratificare: “Il volontario è una delle più grandi espressioni d’amore per il prossimo e per
la società che ci circonda”.
LA TERZA LEZIONE, 29 MARZO
Si registra la gradita visita di Francesca Sforza, responsabile Niguarda.
Vittore Formenti inizia sviluppando due temi di interesse fondamentale per chi pensa al volontariato: “L’ascolto e la risposta empatica” e
“La comunicazione interpersonale”. Nel primo mette l’accento sul pericolo che il volontario corre per l’ansia da prestazione: il volere ad ogni
costo dare, fare, dire, mentre l’attenzione deve essere principalmente
rivolta all’ascolto come “strumento terapeutico per eccellenza nell’alleviare la sofferenza”. L’ascolto come “fondamento cui poggia la comunicazione” è aiuto per chi parla perché possa “esprimere
liberamente il proprio stato d’animo”.
La comunicazione è, poi, la “componente essenziale della relazione”
che si esprime in messaggi fra “emittente” e “ricevente” passando attraverso “codici”: un “insieme di segni” come gesti, mimica, messaggi
scritti o disegnati, parole, trasmessi tramite “canali” verbali o non verbali.
Formenti sa catturare l’ascolto e l’interessata partecipazione dei corsisti con abilità.
Segue l’esperienza di Renato Pili, in servizio nel Reparto Sclerosi
Multipla raccontata in modo conciso ma, nel contempo, molto toccante. Si segnala la possibilità di riproporla per il prossimo corso.
LA QUARTA LEZIONE, 5 APRILE
I partecipanti al corso vengono divisi in due gruppi per volontà delle
psicologhe dott.ssa Elisa Andrighi e dott.ssa Valentina Piroli.
La suddivisione consente di sottoporre i due gruppi ad esercizi ben
strutturati. La forma di “esperienza” data a questi esercizi è molto apprezzata.
Viene trattato anche il tema spinoso ma, purtroppo, di attualità, del
“burnout”, le cause del suo insorgere e le successive implicazioni.
La durata degli interventi ha occupato l’intera mattinata anche oltre
il coffe break, concludendosi verso le 12,40.
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CORSO N. 112
RESOCONTO DEL CORSO PER NUOVI VOLONTARI AVO N° 112
SVOLTOSI AL PAT NELLE DATE DEL 15 – 22- 29 MARZO E 5 – 12 APRILE 2014
Anche in questa giornata registriamo la gradita visita di Donata Villano, nuova responsabile del Don Gnocchi.
Nel concludere il resoconto è doveroso rinnovare i ringraziamenti a
tutte le persone che hanno contribuito allo svolgimento del corso 112
iniziando da Laura Cerruti e Egle Ricci che, dopo la conclusione del
corso 111, hanno lasciato l’incarico organizzativo a Simona Civardi
e Claudio Bandi ma che non hanno mai mancato di fare sentire il loro
indispensabile supporto e consiglio.
E’ sicuramente da catalogare come impagabile e contraddistinto da
grande professionalità il lavoro di preparazione dei componenti la Segreteria, cominciando da Marilena per continuare con Angela, Adalisa ed Enrica; queste ultime tre presenti in postazione al tavolo del
ricevimento dei nuovi volontari nelle prime due giornate di lezione
(altre persone della Segreteria, colpevolmente dimenticate, si sentano
accumunate nei ringraziamenti).
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A completamento del resoconto qui di seguito le statistiche che inquadrano, attraverso i numeri, il corso 112.
PRESENZE
CORSO
LA QUINTA LEZIONE, IL 12 APRILE
Intervengono il dott. Sandro Venturoli e la dott.a Laura Cerruti.
Venturoli impegna l’assemblea nella comprensione di come “ Stare insieme e collaborare insieme”. Cercare di sintetizzare la sua erudita
esposizione sarebbe impresa ardua, presuntuosa e pericolosa. Si correrebbe il rischio di tralasciare passaggi importanti, snaturando la consistenza dell’intero contenuto e, forse, falsandone il messaggio. Di
certo l’assemblea dei corsisti è attratta dal modo con il quale il docente
riesce a rendere comprensibili e fruibili concetti di per sé non comuni.
Per chi non avesse mai avuto la facoltà di assistere a questa lezione oppure è trascorso qualche tempo da quando lo ha fatto, vale il consiglio
di leggere la versione integrale; in qualche modo ne ricaverà suggerimenti utili al proprio modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri.
Infine Laura Cerruti chiude il corso e completa, a beneficio dei corsisti, il mosaico della formazione, riprendendo e analizzando alcuni
punti trattati dai precedenti docenti. Il suo intervento, focalizzato sui
temi della comunicazione e dell’ascolto, fornisce all’assemblea importanti spunti di riflessione grazie alla capacità di accompagnare l’esposizione con esempi ricavati dal suo notevole bagaglio di esperienza.
Difficile ricordare ed elencare i nomi di tutti volontari che hanno eseguito i colloqui; anche a loro il sincero ringraziamento con la speranza
di vederli impegnati anche per il prossimo corso.
Per ultimo ma non per questo meno importante la citazione è per il
gruppo di volontari che hanno operato durante le cinque giornate e
che Simona ha avuto la capacità di formare. La maggior parte di loro
presta servizio nella stessa struttura e, da subito si è creato un clima,
come direbbe il dott. Venturoli, di collaborazione e mutuo soccorso.
Per tutta la durata del corso si sono chiamati per nome, pertanto è
bello ricordarli in questo modo: Cesira, Paola (moglie di Francesco),
Francesco (marito di Paola), Francesco Mascioli (per distinguerlo dal
Riz), Federico, Luigi, Graziella, Linda Rosa (quale il nome?), Manuela, Maria tutti del PAT e Gianluigi dal Pini.
SUDDIVISIONE PER ETÀ
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CORSO N. 112
RESOCONTO DEL CORSO PER NUOVI VOLONTARI AVO N° 112
SVOLTOSI AL PAT NELLE DATE DEL 15 – 22- 29 MARZO E 5 – 12 APRILE 2014
SCELTA OSPEDALI
Corso G.Pini CTO Besta Don Gnocchi Policlinico S.Giuseppe S.Paolo PAT Niguarda Galeazzi S.Raffaele Garbagnate Sesto S.Giovanni S.Donato M. Sacco Segreteria Tot.
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7
4
6
4
14
6
9
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0
9
1
1
1
0
0
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5
3
1
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4
10
7
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1
1
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Il corso 112:
Il coffee break
Le interviste
ai presenti
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CORSO N. 112
LAVORARE INSIEME, OVVERO FIDARSI L’UNO DELL’ALTRO!
DOTT. SANDRO VENTUROLI
L’uomo è soLo, sostanzialmente e “naturalmente” solo. Entriamo in
questo mondo, e ne usciamo, soli e senza portarci dietro nulla di “consistente, evidente o visibile”. Le emozioni che ci attraversano, le percezioni
che ci orientano appartengono solo a noi, trovano ragioni nella nostra
biografia, sono impregnate delle nostre esperienze, sono proiettate nella
direzione dei nostri sogni e desideri. Da esse scaturiscono le strategie che
adottiamo per affrontare la vita, le situazioni, le persone. Nulla può colmare questa solitudine. Non vi è persona, ambizione, oggetto che possa
“riempire” la solitudine. E’ la condizione dell’uomo ed è il luogo della sua
libertà. La libertà di scegliere come condurre la propria vita. E’ il luogo
più profondo dell’uomo. Per dirla con Viktor Frankl, la libertà è radicata
nella nostra più intima dimensione spirituale. Solo l’uomo, tra i viventi,
è capace di pensare su di sé. Per dirla con Haidegger : è l’unico vivente
che sa di morire e, per questo capace di porsi domande di senso: perché
la morte, perché la sofferenza, il dolore, l’ingiustizia, ecc.? Questa libertà
l’abbiamo voluta e cercata separandoci da Dio, rifiutando la condizione
di creatura e appropriandoci della vita, della nostra vita.
Allo stesso tempo l’uomo è “costitutivAmente” interdipendente e solo nella relazione con l’ambiente e con gli altri uomini costruisce la propria identità e sperimenta la propria unicità. L’uomo si
costituisce, si identifica, fa consapevolmente esperienza di sé e trova se
stesso solo attraverso la relazione con l’altro, non certo guardandosi allo
specchio, o rimuginando sul proprio isolamento! Definisce i propri confini
e, specialmente, ciò che contengono, vale a dire chi siamo e la concretezza della nostra umanità. Tra il primo inspiro (quando entriamo in questo mondo) e l’ultimo espiro (quando ne usciamo definitivamente), non
vi è un solo pensiero, azione, emozione, percezione, ragionamento che
non sia in relazione con qualcuno (a noi contemporaneo, o che ci parla
dal passato) o con qualcosa attorno a noi. Il nostro pensiero prende
forma attraverso il linguaggio del luogo in cui siamo nati. Senza il linguaggio, il codice linguistico che apprendiamo nei primi tre anni della nostra
vita, non sarebbe comunicabile o prenderebbe una forma senza forma.
Ma quel che origina e riempie il nostro pensiero è molto di più della
forma che prende. Già gli antichi sapevano questo. La Filo-sofia cerca di
ridurre ai codici linguistici il pensiero trasformandolo in pensiero “razionale”; la Sofia si incunea nei codici linguistici evidenziando i significati del
mondo interiore in modo non sempre comprensibile razionalmente.
La qualità delle nostre relazioni, il tipo di ascoltatori e dicitori che siamo,
l’immagine che abbiamo di noi stessi, il modo in cui ci rappresentiamo e
desideriamo che gli altri ci vedano, quel che temiamo gli altri vedano di
noi, la qualità del nostro agire è originata da questa tensione, anche se
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non ne siamo sempre consci perché raramente ci fermiamo a pensare, raramente viviamo da umani,
consapevoli dalla nostra umanità.
Ci adattiamo, uniformiamo, omologhiamo, standardizziamo, adeguiamo,
massifichiamo, conformiamo cercando di esorcizzare la solitudine,
illudendoci che ciò sia possibile.
Ci accontentiamo dell’evidenza: è
il grande limite del razionalismo nell’epoca del dominio della ragione di
Kantiana memoria.
Ma per affrontare il tema della relazione e della relazione collaborativa
in particolare dobbiamo riappropriarci della nostra umanità rispondendo
ad un’altra domanda e verificando se diamo lo stesso significato alla parola uomo.
chi è L’uomo?
Ognuno di noi è portatore di una visione antropologica, di una idea di se
stesso e degli altri e della qualità delle relazioni che ci legano. Non occorre avere fatto studi universitari in materia, l’abbiamo respirata e metabolizzata attraverso le persone che ci hanno introdotto e preparati a
stare in questa porzione di mondo, l’abbiamo introiettata con il linguaggio
e il significato delle parole, ci orienta al di là della consapevolezza che
abbiamo dei nostri comportamenti quotidiani.
L’uomo ha prodotto nell’arco dei secoli solo quattro risposte organiche e
sistemiche alla domanda radicale su di sé, nelle diverse culture e tutte
prima di Cristo.
1) l’uomo è soma, corpo e nient’altro che corpo. E’ una visione lineare o
unidimensionale. L’uomo sarebbe il frutto di una selezione durissima e
casuale, durata centinaia di migliaia di anni, conclusasi circa trentamila
anni fa stabilizzandoci nella struttura psicofisica in cui siamo da allora e
presumibilmente resteremo per i prossimi trentamila anni. Ognuno di
noi è un insieme di organi ben compaginati profondamente interdipendenti l’uno dagli altri, ognuno di essi è finalizzato a uno scopo vitale che
realizza in modo eccellente. Quando questa comunicazione tra i nostri
organi è buona siamo nel benessere, quando è ingrippata siamo nel malessere. Quando siamo nel benessere non abbiamo bisogno di nulla e
siamo autosufficienti, quando siamo nel malessere serve qualcuno che
ci riconduca al benessere. Nel tempo abbiamo chiamato questo personaggio “medico”, una figura che nel passato conteneva in sé sia l’azione
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CORSO N. 112
curativa, sia quelle di guarigione. Anche quella espressione impalpabile
e indescrivibile che chiamiamo emozioni sarebbero riconducibili a soma,
al nostro sistema neurofisiologico (così diciamo noi, gli antichi parlavano
di terra-acqua-aria, a cui tutto era ricondotto e tornava e partiva). Prima
della nostra entrata in questo mondo non vi è nulla e dopo la nostra
uscita ancora non vi è nulla. Ciò che lega questo uomo agli altri uomini è
sempre e solo strumentale: cacciamo insieme perché ci sono animali
troppo grossi per noi; difendiamo insieme il nostro territorio, i nostri
averi, i nostri piccoli, perché ci sono i predatori, ci diamo delle regole perché altrimenti ci scanneremmo per ottenere ognuno il massimo per sé.
Questa è la prima idea che l’uomo ha avuto di se stesso, è la più antica
eppure è tornata ad essere cosi moderna!
Quando l’individuo ha bisogno di essere rimesso in sesto ha bisogno di
servizi. Il medico è come l’orologiaio che sostituisce o aggiusta i pezzi del
corpo-orologio.
2) l’uomo è Soma e Psiche o Anima. Questa è la visione binaria o bidimensionale dell’uomo. Furono Platone e Aristotele che introdussero questa definizione e distinzione all’interno dell’uomo. Già nell’antichità gli
esseri umani avevano percepito che in sé non vi era solo corporeità ma
anche immaterialità. Non solo fame ma anche paura, non solo freddo
ma anche emozioni, non solo terra, acqua e aria ma anche mistero, non
solo cose materiali misurabili ma anche cose non misurabili, difficilmente
classificabili: la rabbia, la paura, l’apprensione, la tristezza, la gioia.
L’anima per Platone sopravviveva alla vita terrena dell’uomo, quella di
Aristotele no. In questa idea Platonica di eternità vi sta il rifiuto istintivo
e archetipico dell’uomo verso la morte.
Questa era una visione dicotomica che scaturiva dalla riflessione su di sé.
Siamo gli unici viventi capaci di fare questo. Oltre al corpo e al suo funzionamento quel che ci accomuna umanamente è anche la dimensione
emotiva, simile in tutti gli esseri seppure ciascuno è diverso dall’altro.
Erano tempi in cui dominava la durezza delle condizioni materiali, la concretezza delle leggi di sopravvivenza, in cui le comunità si costruivano attorno a scopi condivisi: di aggressione, di difesa, di sopravvivenza. Negli
ultimi due secoli, con la organizzazione della psicologia anche questa visione ha trovato piena attuazione. Gli esseri umani, in particolare nel
mondo occidentale hanno sempre meno dimestichezza, nelle relazioni
quotidiane e ordinarie con la dimensione emotiva e al contempo ricorrono sempre di più a psicoterapeuti o guru dei rapporti umani. E’ evidente che, se l’uomo è composto da Soma e Psiche, le relazioni non sono
solo strumentali e alla ricerca di soddisfare istinti di sopravvivenza o di
piacere, ma devono tenere conto anche di questa dimensione che caratterizza cosi intensamente il nostro pensare e agire. Questa persona si relaziona non solo cercando di soddisfare bisogni primari, ma anche alla
ricerca di un armonia con se stesso e con gli altri.
3) l’uomo è Soma, Psiche e Nous. E’ la visione ternaria o tridimensionale.
Fin dall’inizio l’uomo Sapiens Sapiens ha introdotto il culto dei morti, ha
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dipinto sulle pareti delle caverne il ciclo della vita. Molto prima dei Greci
si era fatto domande sulla vita, la morte propria e dei propri vicini, sulla
sofferenza e il dolore. Cercava spiegazioni al decorrere del tempo, ai cambiamenti delle condizioni ambientali. Cercava risposte con la ragione
mentre incideva le pareti delle caverne, con il sole, la luna e gli animali,
o elaborava risposte che si sono organizzate nelle grandi religioni umane:
buddismo, taoismo, confucianesimo, induismo, animismo. La più antica
ha più di cinquemila anni, molto prima dei Greci, molto prima di Cristo.
La dimensione spirituale dell’uomo è naturalmente dentro noi.
Oggi ognuna di queste dimensioni dell’uomo ha un esperto, lo specialista
che ne conosce a fondo i meccanismi di quanto è visibile e misurabile:
il medico;
lo psicoterapeuta per Psiche o Anima che descrive i meccanismi e i percorsi funzionali della dimensione consapevole del nostro agire, ma descrive per simboli traslati da antiche culture la nostra dimensione
profonda, rispetto alla quale siamo ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Immaginiamo di tutto e conosciamo pochissimo;
la guida spirituale o il guru per Nous, anche perché spesso gli altri due
specialisti non riconoscono questa dimensione come presente antropologicamente in natura;
il terapeuta dal greco significa: ”curatore dell’anima”, non guaritore ma
curatore. Chiudere ferite è importante. Quando sono aperte tutte le
energie sono concentrate lì. Quando sono chiuse, le energie sostengono
i nostri progetti e i nostri sogni.
Voi nell’attività di volontariato svolgerete in questo senso un’attività terapeutica nel lenire alcune ferite delle persone di cui vi occuperete.
4) La parola cura e curare ci introduce alla quarta e ultima visione antropologica.
Secondo questa visione, il processo che ha portato all’uomo, in mezzo
agli altri esseri viventi, non è casuale ma fa parte di un disegno. C’è un
artefice, un creatore all’origine di tutto, e quello che unisce gli esseri
umani sarebbe questa origine comune che ci renderebbe tutti fratelli. E’
il modello antropologico delle religioni rivelate: Ebraismo, Cristianesimo,
Islam. Non è un’idea di divinità che l’uomo ha elaborato guardando dentro se stesso e utilizzando la propria intelligenza ma è un Dio che si è rivelato. E’ il cristianesimo che introduce nella storia delle comunità umane
il concetto di “pari valore” tra gli esseri umani e di “cura reciproca” come
paradigma dell’interdipendenza. E’ una rivoluzione quella che è iniziata
duemila
anni fa. Nessuna delle culture precedenti o contemporanee al
L'assessore Majorino sabato 7 giugno
ha consegnato
alle associazioni
cristianesimo
conosceva
questi indicatori per definire la qualità dei rappromotrici del progetto targa
porti
di una
comunità e di tutta la comunità umana. Dal concheall’interno
il Comune di Milano
ha ricevuto
nell'ambito
del convegno
"città sane"
cetto
di cura
e di eguale
valore (che nulla toglie alla unicità di ciascuno)
grazie al progetto
sono, nell’arco
dei
secoli,
sorte tutte quelle esperienze che hanno portato
"a casa
lontano
da casa"
all’attuale concetto di solidarietà sociale e di Welfare nelle società occidentali.
Ognuno decida in quale di queste quattro visioni si riconosce con la con-
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CORSO N. 112
sapevolezza che queste dicono la qualità delle relazione che vogliamo
avere con noi stessi e con gli altri.
Ciò Che da identità
è l’appartenere a una Comunità
L’uomo è relazione e al di fuori della relazione semplicemente non è! A
partire da quella relazione fondamentale con la madre che ci aiuta a superare i primi due anni di vita sperimentando o meno il nostro valore
come persona che merita di essere amata e acquisendo un codice linguistico che ci permette di comunicare quel che proviamo e sentiamo
con gli altri e ci aiuta a mettere ordine nei nostri pensieri.
Escluso il primo inspiro (quando usciamo dal ventre materno) e l’ultimo
espiro (quando usciremo da questa vita) e la fase di passaggio dalla fanciullezza alla condizione adulta (quando dobbiamo trovare il nostro personalissimo equilibrio tra corpo e anima, tra soma e psiche) che
chiamiamo adolescenza, non vi è un solo istante della nostra vita,
un’azione o pensiero, che non sia in relazione con qualcuno o qualcosa
che con codici culturali, giuridici e comportamentali ci connette con tutte
le generazioni che ci hanno preceduti e ci rendono attori nel consolidamento delle basi su cui poggeranno quelle che ci seguiranno.
La relazione con gli altri e la concreta appartenenza a una comunità ci
sono necessarie per la costruzione della nostra identità personale e sociale allo stesso modo in cui l’aria lo è per i nostri polmoni.
Solo emigrando nella follia è possibile emanciparsi dall’interdipendenza
relazionale.
Noi non viviamo con questa consapevolezza, immersi come siamo in una
cultura diffusa che ci illude sull’autosufficienza e autoreferenzialità come
obiettivo perseguibile di emancipazione dall’interdipendenza reciproca.
Se fossimo consapevoli del valore dell’interdipendenza ci verrebbe spontaneo lavorare insieme e invece dominano difficoltà, diffidenze, incomprensioni, delusioni in ogni gruppo di lavoro.
Dobbiamo domandarci perché e se è possibile ridurre le difficoltà che
spesso sperimentiamo nel lavorare con gli altri.
anChe il lavoro è una partiColare forma di relazione, sia
il lavoro retribuito sia quello non retribuito (il lavoro volontario).
È mia profonda convinzione che i volontari debbano riconoscere a
se stessi tutte le altre retribuzioni (auto gratificazione, stima di sé e
presunzione di sé, ecc.) accettando l’umile consapevolezza che il lavoro volontario non è riconducibile al concetto di gratuità: dimensione questa che è inaccessibile a noi esseri umani, condizionati
come siamo da una cultura e mentalità mercantile, che trova espressione solo nello scambio. Noi al massimo siamo capaci di scambi diseguali.
Entrambe le dimensioni lavorative hanno caratteristiche comuni:
❁Competenze professionali che richiedono conoscenze specifiche e set-
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toriali maggiori di quelle che servono per svolgere compiutamente le
funzioni richieste;
❁Capacità di concentrarsi su quel che si sta facendo rinviando ai momenti adatti questioni attinenti la vita privata e la sfera delle relazioni
personali;
❁Capacità di ragionamento astratto (non basta fare bene il proprio lavoro ma occorre che quel che faccio comunichi con chi lavora vicino a
me);
❁fedeltà al rapporto come responsabilità rispetto al funzionamento
dell’organizzazione
❁riconoscimento della posizione gerarchica che non è solo una questione di ruoli ma del come dalla posizione in cui si è si vede sempre e
solo una parte e non il tutto;
❁imparare a lavorare insieme perché non siamo noi a scegliere le persone con cui lavorare.
Questo ultimo punto è quello che ci interessa per i nostri ragionamenti.
Nella vita personale siamo noi a scegliere le persone con cui relazionarci
in modo continuativo e impegnativo (amici, amori, interessi) oppure veniamo scelti (coloro che ci mettono al mondo o decidono di amarci), ma
nelle attività organizzate non è così.
IL Lavoro che voI fate sI esprIme In queLLa partIcoLare
forma dI reLazIone che è La reLazIone d’aIuto!
Voi lavorate insieme per aiutare persone in condizioni di fragilità.
Le ragioni che spingono a questa scelta sono di vario tipo: etiche, culturali, ecc. ma tutte riconducibili alla dimensione dell’amore verso gli altri
esseri umani e al sentirsi coinvolti dalle sofferenze dei propri simili.
Nelle lingue di origine latina si usa la parola amore in modo indifferenziato riferendosi a vari e diversi oggetti: per gli animali, per oggetti e prodotti culturali, per la natura, per le persone.
Nel greco invece si usano più sostantivi per indicare i diversi modi di
amare:
❤erao: indica l’amore che trascina fuori da sé, la passione verso qualcuno o qualcosa; noi abbiamo ridotto questo termine a erotismo intendendo la genitalità (che è prerogativa maschile) che è solo una
componente e nemmeno maggioritaria della passione;
❤stergo: indica l’amore di consuetudine di familiarità per quelle persone
che compongono il tessuto quotidiano dei nostri affetti, riferendoci
alle quali useremmo difficilmente la parola amore e della cui importanza ci rendiamo conto solo quando ci vengono a mancare;
❤fileo: indica l’amore di amicizia; l’amicizia è elettiva infatti l’amico si
sceglie, si protegge, si capisce, si giustifica; a lui consentiamo comportamenti che in chiunque altro liquideremmo con giudizi pesantissimi;
❤agapao: indica l’amore di carità, quell’amore che ci consente di fare
qualcosa per qualcuno anche se non proviamo nessuno sentimento
per lui, senza aspettarsi nulla in cambio, nemmeno la gratitudine;
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CORSO N. 112
Sono importanti queste distinzioni perché ci permettono di collocare
nella giusta posizione i sentimenti che si muovono dentro ognuno nel lavorare insieme e la qualità delle relazioni che possiamo desiderare e costruire con le persone con cui lavoriamo e condividiamo lo scopo
dell’organizzazione in cui siamo.
Proprio perché non sono io a scegliere le persone con le quali lavorerò
posso trovarmi a dover interagire con chi sento lontanissimo dalle mie
sensibilità e percezioni sino alla diffidenza o all’indifferenza quando non
sia avversione.
Può esservi erao nel lavoro volontario e appassionarmi a quel che faccio
ma devo domandarmi qual è l’oggetto della mia passione: la sofferenza
da lenire? Sentirmi migliore? L’umanità ferita su cui sento l’esigenza di
curvarmi? La storia dell’altro e la consapevolezza che ogni biografia mi
svela nuovi particolari nel mistero della vita? Ma anche il desiderio di essere riconosciuto, stimato, valorizzato, ammirato.
Può esservi stergo nel lavoro volontario nella confidenzialità che si costruisce attraverso la consuetudine e anche familiarità con alcune persone anche se non si condivide con esse la vita.
Può esservi fileo nel lavoro volontario con colleghi o con pazienti come
avviene in qualunque luogo, ma l’amicizia non dovrebbe mai impedire
l’apertura e la capacità di relazione con tutti gli altri colleghi e pazienti.
Vi è sempre agapao nel lavoro volontario poiché dovrei imparare a mettermi in relazione con tutti coloro che incontro anche se non provo nulla
per loro e farlo senza aspettarmi nulla in cambio.
Questi quattro sostantivi riunti in una persona e per una persona definiscono l’amore pieno, intenso, profondo tra un uomo e una donna.
LAVORARE INSIEME È UN ARTE DA IMPARARE
Lo strumento principale per esprimere quest’arte siamo noi stessi con la
nostra capacità di metterci in relazione con gli altri attraverso comunicazione e ascolto.
Ognuno di noi è come uno strumento musicale in grado di suonare tutte
le note e sfumature consentite. Se ogni strumento di un’ orchestra si
esprimesse, contemporaneamente agli altri, solo attraverso le sue possibilità vi sarebbe una grande confusione anziché una sinfonia.
Occorre accordare gli strumenti, decidere quali sono le note che si incontrano con le altre per trasformare ciò che ogni strumento è in grado di esprimere in una musica che nessuno strumento da solo potrebbe suonare.
Anche noi dobbiamo accordarci l’uno agli altri per lavorare bene insieme
e trovare sfumature e tonalità che consentano di cogliere la bellezza originale di ognuno e la forza che scaturisce dall’agire colmando l’uno i limiti
dell’altro.
Vi sono degli impedimenti che discendono dall’individualismo che respiriamo e alla fine ci condiziona:
☞ usare noi stessi come unità di misura della capacita lavorativa degli
altri;
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☞ fidarci solo di noi stessi nell’affrontare problemi e imprevisti;
☞ non riconoscere il nostro limite e l’incapacità che ne consegue ad affrontare alcune situazioni;
☞ non riconoscere le nostre antipatie e fobie che ci impediscono di cogliere capacità e risorse dell’altro;
☞ giustificare ogni nostro comportamento, pensiero e giudizio;
☞ misurare e giudicare i comportamenti degli altri.
In questo caso siamo strumenti che suonano solo e sempre le stesse note
con le stesse tonalità.
Vi sono atteggiamenti che facilitano ma richiedono addestramento per
diventare apprendimento:
✔ fidarci dell’altro e del suo modo di stare nelle situazioni anche se diverso dal nostro;
✔ riconoscere il valore della diversità e farne esperienza allargando il nostro orizzonte di conoscenza;
✔ accettare il limite come condizione dell’uomo (siamo limitati nella durata, nella conoscenza, nella capacità di azione, nei sentimenti, nell’amore, nulla in noi è illimitato) e accettarlo come valore perché il mio
limite è lo spazio e il luogo coperto dall’altro cosi come il limite dell’altro è lo spazio che copro io, il limite non è handicap;
✔ cercare la responsabilità, che quasi sempre c’è nel comportamento dell’altro che provoca sofferenze alle mie sensibilità (quante volte aizziamo i demoni nell’altro, con la nostra fretta e superficialità);
Occorre addestrarsi non ci viene spontaneo questo atteggiamento.
Le supervisioni, le riunioni di verifica, il darsi appuntamenti di chiarimento servono appunto a questo, a non lasciare cadere le sensazioni
sgradevoli, facendole sedimentare strato su strato nel profondo dell’anima, senza più saper riconoscere da dove provengono quei miasmi
venefici che tanto ammorbano, a volte, il nostro umore e il nostro cuore.
Dovremmo imparare a farlo anche nella vita ogni volta che siamo di
fronte a questioni importanti.
Quanti litigi, quante incomprensioni, quante delusioni a causa di cose
dette in modo affrettato nei momenti sbagliati.
L’APE E LA MOSCA
Vi è una differenza fondamentale tra questi due insetti: L’ape ha la capacità di scorgere in una discarica l’unico fiore che c’è; la mosca in un campo
di fiori meraviglioso è capace di vedere solo l’unica cacca. Noi siano prevalentemente mosche, ci dilettiamo ad elencare i difetti di quelli che incontriamo nelle diverse situazioni e circostanze. Dobbiamo imparare a
diventare api perché quando lavoriamo insieme collaboriamo con le capacità non con i difetti dell’altro. I difetti non ci riguardano, non sono persone che abbiamo scelto. In questo modo potremmo imparare a
conoscere la bellezza della diversità, l’arricchimento che ne viene, anziché
sentirla come peso.
Sandro Venturoli
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
SAN GIUSEPPE
GASTROSCOPIA TRANS-NASALE
E COLONSCOPIA ROBOTICA
Il 18 febbraio all’Ospedale San Giuseppe Il dr. Felice Cosentino,
responsabile dell’Unità Operativa di Gastroenterologia
ed Endoscopia Digestiva ha tenuto un’interessante lezione a noi volontari
sulle tecniche innovative adottate nel suo reparto.
Il dr. Cosentino e la sua equipe sono oggi all’avanguardia per quel che riguarda
l’utilizzo di strumenti endoscopici per la diagnosi e la chirurgia non invasiva.
La dispepsia (cattiva digestione) può essere di due tipi. Una legata a una sindrome
da stress (tipica dei paesi occidentali), che causa pesantezza, bruciore, gonfiore
e che è data da alimentazione sbagliata e da disagi psicologici, l’altra legata a
patologie vere e proprie. Se c’è sanguinamento, dimagrimento e vomito si fa
un’ecografia addominale per controllare tutti gli organi, pancreas, fegato, coledoco dove sovente si trovano calcoli che si
possono asportare in laparoscopia.
Se necessario si continua con la gastroscopia, che ora si esegue attraverso il naso ed è completamente indolore. Con questo
strumento non solo si fa diagnosi, ma si eseguono anche interventi sulla mucosa gastrica asportando polipi e tumori allo
stadio iniziale. Il dr.Cosentino si è soffermato sull’helico­
bacter che è da eliminare con l’antibiotico solo nei casi
di forti gastriti e di familiarità con il tumore gastrico.
Per finire ci ha parlato della colonscopia robotica ese­
guita con AXEL, innovativo strumento che non provoca
pressioni e stiramenti sul viscere e non necessita di al­
cuna sedazione. Altra novità è la possibilità , in San Giu­
seppe di sottoporsi, un’ora prima dell’esame alla
idro­colon­wash, (purtroppo a pagamento), senza dover
eseguire le fastidiosa preparazione a base di purganti.
E’ importante andare sul blog del dottore per saperne
di più su una dieta chiamata FOD MAP che egli consiglia
di seguire quando si hanno disturbi intestinali.
Elisabetta Scevola
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
SAN PAOLO
Il cestino
In servizio entro sempre nelle camere con un po’ di
apprensione e paura che svanisce subito quando
guardo le persone ammalate che mi rispondono
con un sorriso.
Una sera entro nella camera singola dove di solito,
in Medicina II, ci stanno le persone con situazioni
difficili, tracheotomie, interventi complessi.
Angela, la chiamerò così, ma non è il suo nome
vero, mi aspettava con ansia… mi sorride e mi
indica di prendere un cartello sul comodino.
Poi finalmente capisco, aveva fatto l’alfabeto e mi
voleva parlare...
E parliamo tanto... lei 20 anni, mi indicava lettera
dopo lettera e io rispondevo con la voce. Lei ci
sentiva benissimo, solo non poteva parlare perché
aveva la tracheotomia e respirava male. Angela era disabile, non camminava,
aveva un braccio rotto perché era caduta dalla carrozzina e me lo raccontava ridendo, mi trasmetteva buonumore con la sua simpatia. Abbiamo chiacchierato a
lungo di tutto, della vita, di normalità... Angela era piena di vita.
Poi prima di andarmene mi fece vedere una cosa che aveva fatto lei per ingannare
il tempo in ospedale... con un normale bicchierino di plastica, con un paio di forbici e
con l’unica mano che aveva, tagliando tutto
intorno il bordo ed intrecciandolo aveva
fatto un cestino, un grazioso piccolo cestino. Le dico “ma che brava che sei” e lei
mi risponde “te lo regalo, tienilo sul comodino così ti ricorderai di me”.
Elsa e Loredana
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PROGRAMMA DI FORMAZIONE OSPEDALE SAN PAOLO
LE LEZIONI DI PADRE ESTERINO (NUMERO 4)
CHE SI TERRANNO PRESSO LA CAPPELLA AL PRIMO PIANO DELL’OSPEDALE SAN PAOLO,
GIOVEDÌ DALLE ORE 17 ALLE ORE 18
IL TUMORE
Ci sono alcuni miti che circondano i malati di tumore che sono da sfatare:
1) Mito della paura: alla diagnosi di un tumore si pensa subito a morte vicina, ma oggi se si riesce a curare preventivamente
la malattia si può guarire e ritornare alla vita normale. Alcuni tumori sono debellati (vedi tumore al seno); inoltre la medicina con le nuove terapie riesce a far condurre una vita accettabile anche a chi non riesce a guarire completamente.
2) Mito del dolore: il 50% dei pazienti colpiti da tumore non sentono nessun dolore, il 10% hanno dolori sopportabili, il 40%
vanno incontro a dolori importanti. Oggi con la terapia del dolore si mantiene sotto controllo la sofferenza. Bisogna tenere
conto anche della sofferenza interiore ascoltando il malato e creando un rapporto umano (quello che manca oggi in
alcuni ospedali).
3) Mito delle mutilazioni: può essere vero che nel caso di alcuni tumori (seno, colon) si debba procedere a togliere alcune
parti del corpo, ma oggi esistono interventi post-operatori di ricostruzione plastica.
Ci sono poi modi diversi di informare i pazienti della loro malattia: presso gli anglosassoni usano una verità aperta fornendo
al malato ogni spiegazione sul male e sulle conseguenze. Nel caso di cultura latina si cerca di nascondere o sminuire la
verità dei fatti.
L'informazione va data perchè il malato ha DIRITTO DI SAPERE ma il medico deve avere l'accortezza di comunicare in
maniera umana e dare sempre ma proprio sempre spazio alla speranza.
Dinanzi allo stato d'animo del malato si riscontrano:
1) paura dell'ignoto nell'affrontare il male
2) paura di sentirsi abbandonato
3) paura di diventare un peso per gli altri
4) paura del distacco dalla vita
5) paura della sofferenza
6) paura della trasformazione del proprio corpo, per esempio alla caduta dei capelli in seguito alla chemioterapia.
L'atteggiamento che deve tenere il volontario vicino a questo paziente è quello di ascoltarlo con attenzione e rassicurandolo
dicendo che oggi ci sono molte cure che possono aiutarlo e quindi di affidarsi ai medici che lo hanno in cura, ascoltarlo per
far si che il malato riesca ad esprimere quello che sente. Tenere un atteggiamento affettuoso che faccia capire la nostra vicinanza emotiva. Sottolineare le posività della famiglia da lui creata e portarlo ad avere coraggio stimolando la sua versione
positiva.
Se un malato si sente solo, non capito, non supportato si lascia andare, rifiuta le cure,
NEI PROSSIMI NUMERI:
perde la fiducia.
- Malati di alzheimer e depressione
Attenzione non si parla di dare illusione ma speranza, un gesto affettuoso, una semdire
- Dialogo con il malato grave: cosa
plice carezza.
vita
la
ro
dent
gio
viag
un
- Il lutto:
- Alla ricerca del senso della vita
vissute
- Dialogo aperto sulle esperienze
nell’arco dell’anno in reparto
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
BESTA
CONVEGNO SULLA MEDICINA DI GENERE
“TUTTA CUORE E CERVELLO”
La Sclerosi Laterale Amiotrofica
in un’ottica di genere
Il Convegno si è aperto con i saluti istituzionali dei rappresentanti della Regione Lombardia e dell’Istituto
Neurologico Carlo Besta.
E’ quindi iniziata la lectio magistralis “La SLA tra passato e futuro” tenuta dal Prof. Mario Melazzini, Presidente della Fondazione AriSLA, egli stesso affetto da
questa patologia.
Sono quindi seguite le tre sessioni del Convegno.
La prima riguardante “Diagnosi e Terapie”, nella quale
Epidemiologi, Clinici e Studiosi di Genetica hanno illustrato e spiegato quali potrebbero essere le origini di
questa terribile malattia neurodegenerativa, che colpisce i motoneuroni bloccando progressivamente tutti i
muscoli, ma non togliendo la capacità di pensare e la
volontà di rapportarsi con gli altri.
La seconda sessione ha affrontato il tema della ricerca,
la quale deve essere seria e convalidata da risultati
scientifici certi. Sono state illustrate le attuali più avanzate conoscenze sulla malattia e le nuove ipotesi patogenetiche.
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La terza sessione ha avuto come tema “Vivere con la
SLA”: si sono succedute toccanti testimonianze di donn
ammalate di SLA.
I relatori hanno molto insistito sull’approccio di genere
alla malattia quale elemento determinante nell’erogazione delle cure mediche e nello sviluppo di politiche
sanitarie e familiari.
I rappresentanti delle Associazioni AISLA (che svolge attività di “Informazione, assistenza, ricerca e formazione”) e AriSLA (che ha finanziato 36 progetti di ricerca
scientifica) hanno presentato le loro attività a favore
degli ammalati.
E’ stato evidenziato quanto sia importante il ruolo dello
Psicologo nel comunicare al paziente e ai suoi familiari
il manifestarsi della malattia.
Altrettanto importante è il ruolo dei media nella divulgazione di informazioni concernenti la malattia e le conseguenti terapie.
Felicita Parolari
A questa manifestazione hanno collaborato la Direzione Generale Salute della Regione Lombardia, Eupolis
Lombardia e la Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta. Milano, 13 Marzo 2014
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
CTO
UN GIORNO IN CORSIA
Nel momento in cui indosso il mio camice bianco
pronta a espletare il servizio di volontaria, cerco in quel
preciso istante di farmi piccola nel tentativo di essere poi
all’altezza di un giusto ed equilibrato contatto con le persone
ricoverate presso la struttura ospedaliera. Mi spoglio dei miei
problemi personali e indosso il sorriso più bello e quando riesco
a strapparne uno mi sento appagata e penso che, anche fosse solo
per un attimo, la giornata di quel degente forse sarà più leggera da
affrontare.
Ci sono persone che ti accolgono a fatica perché forse sono passata
nel momento sbagliato, perché forse la sofferenza fisica e morale è
troppo forte e non c’è il desiderio di interloquire o semplicemente perché
è giusto così e, a me, non resta altro che prenderne atto con la ripromessa
di ritornarci in un altro giorno. Ma è pur vero che incontro spesso persone
che hanno piacere di raccontarsi ed io catturo sempre con curiosità e simpatia i loro racconti.
Ecco Mario, volontario della CRI (nome di fantasia per proteggere la sua
privacy).
Mario mi accoglie con un buongiorno pieno di speranza ed entusiasmo e,
seppure a fatica per la posizione costretta da flebo e protesi, incomincia a
raccontarmi la sua esperienza di volontario. Il suo entusiasmo, quasi adolescenziale, inganna certamente la sua età. Racconta che nel 1969 nasce la sua
bimba che a soli 4 mesi viene ricoverata d’urgenza per un malore. Quell’esperienza sarà fondamentale per la sua vita perché, racconta che la sua
incompetenza e incapacità di soccorrere la bambina lo rese tanto vulnerabile
da decidere di rendersi utile non solo per la sua famiglia ma anche per tutte
le persone in difficoltà. Nasce così l’esigenza di diventare un volontario
della CRI e l’esperienza acquisita poi negli anni lo premiò salvando la vita
di una bimba di 3 anni aggredita da un cane. Lui comprese subito in quell’istante la gravità della situazione, peraltro sottovalutata da altri operatori
soccorsi in quella circostanza. Accompagnò personalmente la bimba con
i genitori in una struttura ospedaliera dando in tempo reale la sua diagnosi
ai medici del pronto soccorso, evitando così il peggio e salvando la vita
della bimba. Poi un attimo di silenzio quasi tombale e tra qualche lacrima e con la voce soffocata dall’emozione, racconta il suo orgoglio
di nonno di due bellissime bimbe; la prima di sua figlia e la seconda
di quella bimba ormai donna di cui lui è stato anche testimone di
nozze.
Mario mi saluta fiero di dirmi che ancora oggi è orgoglioso di appartenere al corpo volontario della CRI.
Ringrazio Mario e tutte le persone che incontro durante il mio
servizio perché forse loro non sanno che toccano la mia anima
ogni volta che mi avvicino per una stretta di mano, per un
sorriso, per una carezza o semplicemente per specchiarmi
nei loro occhi.
Rosalba Festa
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
PINI
UN QUARTO DI SECOLO DI SERVIZIO AL PINI
Prendo spunto dal grazioso e utile taccuino che ci è stato dato in
ricordo della giornata. Immagino che in questo libretto possa esserci e raccontata la storia dell’AVO, e, in particolare, dell’AVO al
Pini.
Persone, avvenimenti, momenti gioiosi o tristi, difficoltà superate,
magari con lunghe e ripetute conversazioni telefoniche (qualche
marito dice che i volontari AVO parlano troppo a lungo, in altri termini, si ripetono) si susseguono passando davanti ai miei occhi
come in un film. Non sono più in forza al Pini e, con non poca nostalgia, posso sinceramente affermare che i rapporti di amicizia e
le confidenze fatte e ricevute, mi hanno fatto sempre sentire membro di una grande famiglia.
Sul taccuino ci sono però anche tanti fogli bianchi, dove continuare
a raccontare la storia.
Ora però torno alla realtà e tento di scrivere una breve cronaca
della bellissima giornata, non riassumendo tutto che è stato detto,
ma evidenziando, di ogni intervento, qualcosa che mi ha colpito.
In aula magna erano presenti quasi tutti i volontari del Pini e tanti
di altri ospedali, ex volontari ed anche, cosa che ha fatto molto
piacere a tutti, i responsabili dell’Istituto al più alto livello.
Laura, che guida la squadra dei volontari con competenza e con il
suo brutto carattere (così dice spesso di sé...) e con filosofia, è stata
moderatrice e presentatrice in modo efficace e calibrato. Ha ringraziato tutti i presenti, in servizio e non, ha ricordato quelli che
hanno guidato prima di lei la squadra del Pini, citando in particolare Mariolina, già responsabile dell’ospedale oltre che presidente
di AVO Milano rivolgendo anche un pensiero anche ai volontari
che non sono più con noi.
Maria Saraceno, nostra presidente, ha affabilmente parlato della
realtà dell’Associazione precisando quante presenze (3.564) e relative ore (9.300 circa) sono state donate nell’anno passato.
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Il dott. Tropiano, direttore Generale dell’Istituto, che ha parlato
anche in nome del dott. Buccino, direttore sanitario e del dott. Malaguti, direttore amministrativo, ha ringraziato per l’opera dei volontari collegandola con un pensiero di Einstein “la grandezza di
un uomo si misura con quanto dà, piuttosto da ciò che pretende”.
La dott.sa Taverriti, responsabile dell’URP, oltre a ringraziare anche
per la collaborazione a riorganizzare l’URP, ha definito i volontari
una “falange macedone” concludendo il suo intervento “continuate così”.
La signora Cappadona, coordinatrice dirigente infermieri Sitria,
che era infermiera quando AVO ha cominciato al Pini, condividendo la nostra esperienza sin dall’inizio, definisce i volontari “un
piccolo esercito e braccio destro del caposala”.
Il coordinatore infermieri STU, sig. Marchese, dice “25 auguri per
ogni anno in cui siamo presenti”.
La prof. Continisio, docente di storia delle dottrine politiche all’Università Cattolica, ci ha intrattenuti in modo affascinante su
“Pane e Uguaglianza” partendo dalla preistoria, attraverso la rivoluzione francese, per arrivare ai giorni nostri. Mi piace riportare
alcune frasi che mi sono sembrate indicative:
Non c’è uguaglianza senza dignità
Non c’è democrazia che uguagli chi non ha da mangiare
Il volontario porta avanti una società più giusta (Ravizza)
La marcia del pane, marcia delle donne, è il vero inizio della democrazia
Il volontario fa politica, perché “fare politica” vuole dire fare per il
cambiamento del mondo.
Dopo la consegna della targhetta di fine tirocinio a tre volontarie, abbiamo terminato la nostra serata attorno a un ricco e ottimo buffet
freddo integrato da un risotto gentilmente offerto dalla direzione del
Pini e da una dolcissima torta alla frutta.
Egle
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
Le nostre firme
PINI
1989 - 20
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A.V.O.
20 Marz
Aula Magn o 2014
a - G. Pini
“UN QUA
RTO DI S
EC
OLO”
di presenza
e servizio
Istituto “G
aetano PIN
I”
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
PINI
Un po’ della nostra storia...
25 anni fa un piccolo gruppo avviava il servizio AVO al G. PINI; da quella data tante
cose sono cambiate: siamo diventati “tanti”;
abbiamo aperto il nostro servizio non solo
in corsia ma in Pronto Soccorso, Ambulatori
ecc; abbiamo seguito e ci siamo adeguati ai
cambiamenti della Sanità, dell’Ospedale e
anche dei Volontari sempre con professionalità, serietà, amore e attenzione per i malati.
Abbiamo costruito e consolidato buone
relazioni con Medici, Infermieri e Personale
ospedaliero, consapevoli dei diversi ruoli,
ma nella certezza che la collaborazione possa
proseguire sempre attiva per il bene degli
Utenti dell’Istituto PINI.
Un particolare affettuoso ricordo e ringraziamento a tutti coloro che hanno lasciato il
servizio, ma che, con il cuore, rimangono
sempre Volontari AVO Pini.
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
PINI
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
POLICLINICO
In qualità di volontario ospedaliero ho avuto modo di operare in tre reparti
quali la Medicina d’urgenza, la Geriatria e il Pronto Soccorso che mi hanno
offerto l’opportunità di vivere esperienze diverse.
Cosa ha significato e cosa significa per me fare il volontario?
Ritengo che il volontariato sia un atteggiamento interiore rappresentato da
cose indispensabili:
Essere disponibili: è un mattone importante senza il quale non avrei potuto
costruire la dimensione di aiuto che mi ha consentito di avvicinarmi al
prossimo per soddisfare i suoi bisogni. Offrirsi senza tornaconto ha significato per me fare il primo passo per sviluppare empatia e creare immediatamente un rapporto positivo con il paziente.
Cercare di condividere la sofferenza ma in modo appropriato: l’impatto
con lo stato di sofferenza, lo scontrarsi con il dolore e talvolta la morte è
sempre stato per me molto duro. Mi ha creato spesso un forte senso di
sconforto e quasi sempre di impotenza. Mi sono accorto che non c’è aiuto
materiale né comunicazione verbale che insegni a lenire questo dolore. Le
prime volte, il troppo coinvolgimento mi creava un senso di malessere. Ho
compreso che se volevo donare un po’ di serenità dovevo essere per prima
cosa anch’io sereno e non mostrarmi preoccupato; avrei dovuto presentarmi con uno stato d’animo diverso per poter trasmettere meglio al malato
il bisogno di sicurezza, di affetto, di considerazione, di accettazione e giustificazione della malattia.
Rispettare il paziente: questo atteggiamento si impone perché ogni malato
ha la sua dignità che nel contesto del ricovero ospedaliero tende a perdersi
a causa della malattia e delle sue condizioni. Il paziente diventa così una
persona “dipendente” per ogni cosa: le terapie, gli esami diagnostici, l’alimentazione, l’igiene e spesso anche per la deambulazione.
A completare il quadro si aggiunge la grande spersonalizzazione (ricordo
lo sconforto che provai quando mi accorsi che i pazienti venivano identificati con dei numeri e non con i loro nomi) aggravata talvolta anche dal
comportamento poco riverente di qualche infermiere e dall’assenza di una
sistemazione logistica decorosa.
La mia esperienza nel reparto di geriatria mi ha reso poi consapevole del
fatto che ancor più grave è il disadattamento dell’anziano, persona in genere poco propensa ai cambiamenti che talvolta vede l’ospedale come l’anticamera dell’ospizio o peggio ancora della morte.
Il malato sente quindi bisogno di aiuto per svolgere alcune funzioni fondamentali. Spesso ho quindi cercato di integrare i servizi prestati dal personale infermieristico, come ad esempio aiutare a mangiare, a
bere, a curare l’aspetto fisico...
Ho pensato che avrei potuto aiutare il malato anche
a tornare a sentirsi “persona” e non solo un caso
clinico. Come? Fornendogli informazioni ad
esempio sull’organizzazione del reparto,
aiutandolo a mantenere il contatto con la
famiglia (è sufficiente una telefonata)
e offrendomi per ascoltare timori,
problemi di lavoro e in breve tutto
ciò che appartiene alla vita lasciata
fuori dall’ospedale.
Quali sono state le maggiori difficoltà che ho incontrato?
All’inizio ricordo che subentrarono domande e dubbi: cosa
diranno gli infermieri e i
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medici della mia presenza? E poi sarò veramente in grado di svolgere il
mio servizio? Come reagirà il paziente di fronte alla mia offerta di aiuto?
Poi ho cominciato a notare che gli infermieri e i medici erano troppo impegnati per accorgersi di me e d’altronde mi ero ricordato di essere in corsia per integrare il loro lavoro, non per sostituirli e quindi in teoria non
avrei dovuto incontrare delle difficoltà.
L’altro problema è sicuramente stato quello legato al rapporto con il paziente che ha sempre rappresentato il tema più importante del mio impegno.
Pensavo fosse sufficiente presentarsi dicendo nome e cognome, l’appartenenza all’associazione e il motivo della visita. Non è stato sempre così.
Ricordo che una volta mi presentai a un paziente chiedendogli come stesse
di salute. Mi rispose freddamente: “Vorrei vedere lei al mio posto cosa risponderebbe!” la sfortuna volle che, proprio quella mattina mi ero presentato con il viso abbronzato e in pieno benessere, conseguenza di una
escursione che avevo fatto il giorno precedente in montagna, la mia grande
passione. Mi sentii raggelare e pensai subito di aver commesso un errore
imperdonabile: quello di chiedere ad un malato ricoverato in ospedale informazioni sul suo stato di salute come se l’incontro fosse avvenuto con
un amico per strada.
Da quella frase, mi sentii crollare l’ospedale addosso; ebbi difficoltà a rispondere e pensai che avrei fatto meglio a cambiare il tipo di volontariato.
Ipotizzai anche di svincolarmi dalla “gaffe” sgusciando invisibilmente
dalla stanza, poi pensai che non sarebbe stato dignitoso. Non so come, ma
in quel momento mi venne in mente che tempo addietro ero stato anch’io
ricoverato in ospedale e così presi coraggio e gli dissi di aver fatto anch’io
quell’esperienza e che “capivo” il suo stato di sofferenza. Lui smorzò il
tono aggressivo e cominciò a farmi domande sui motivi del mio ricovero
e così cominciai a entrare in sintonia... Mi ero salvato in corner imparando
una grande lezione, quella di non far mai ad un malato ricoverato domande
dirette sul suo stato di salute ma, eventualmente approcciarlo con un:
“Oggi va un pochino meglio?”
Inoltre avevo compreso che “condividere” lo stato del paziente mi avrebbe
aiutato a creare un po’ di distensione e serenità; trasferire il concetto di
aver provato sulla propria pelle l’esperienza della malattia era riuscito in
quel caso a potenziare la comprensione verso la persona sofferente e a relazionarsi meglio.
Ricordo un altro momento difficile.
Un mattino d’estate, entrai nella stanza in cui era ricoverata una signora
discendente della casa Savoia che vedendomi, prima che io aprissi bocca,
mi apostrofò con un tono scortese: “Voi volontari quando andate in pensione non sapete cosa fare e venite a disturbare i malati... per favore mi
lasci morire in pace!” E rincalzando la filippica: “Non dovreste portare i
camici bianchi, solo i medici possono indossarli. Si ricordi inoltre che solo
gli infermieri stranieri si prendono veramente cura dei malati”.
Considerando che non avevo praticamente aperto bocca, avevo intuito che
il problema non era legato tanto alla nostra figura di volontari quanto piuttosto al suo carattere un po’ difficile.
In un primo momento la mia reazione istintiva fu di rispondere con tutte
le giustificazioni del caso. Poi pensai che la soluzione migliore sarebbe
stata quella di lasciarla sfogare cercando di rispettare il suo vissuto e le
sue convinzioni. Aveva cominciato a raccontarmi aspetti legati alla sua
vita e ai motivi della “rabbia” che sentiva internamente: la sua malattia,
probabilmente in stadio avanzato, la stava progressivamente divorando e
lei si sentiva incapace di reagire e di accettarla.
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
POLICLINICO
Il fatto che avessi ascoltato in silenzio aveva permesso però di smorzare
la sua aggressività e di chiudere poi l’incontro sentendomi dire: “Torni a
trovarmi. Mi raccomando!”
Ricordo un’altra situazione che ho vissuto con grande imbarazzo. Mi trovavo al Pronto Soccorso e precisamente nel corridoio ove erano situate le
sale da visita dei malati in pericolo di vita (bollino rosso). Incontro madre
e figlia che piangono disperate. Intuisco che tutto ciò è dovuto alla grande
preoccupazione per il loro congiunto e alla grande paura di perderlo. Mi
sento in difficoltà perché non so come comportarmi, se lasciarle nel loro
dolore o rivolgere una parola di conforto. Scelgo questa seconda soluzione
con molto tatto. Loro cominciano a parlare e a raccontare i precedenti della
situazione che aveva portato a richiedere l’intervento del 118. Con il racconto, la tensione diminuisce e il ripercorre la storia porta a spostare l’attenzione sui progetti comportamentali futuri nei confronti del loro
congiunto che aveva sempre rifiutato i controlli diagnostici. Parlare delle
motivazioni sul come convincere la persona a prendersi maggior cura di
se stesso, allontana per un attimo il presagio infausto. L’aver molto ascoltato e poco parlato aveva aiutato anche in questo caso a far rinascere un
po’ di speranza e con la speranza un po’ di serenità.
Queste situazioni mi hanno fatto molto riflettere: non ci sono “corsi di formazione” che ci possono aiutare a risolvere con dei modelli preconfezionati alcune situazioni in cui possiamo venirci a trovare. E’ solo la nostra
sensibilità ed esperienza ad aiutarci a seguire il comportamento più opportuno pensando che ogni paziente necessita di un approccio diverso. Bisogna insomma essere un po’ psicoterapeuti. Inoltre piccoli insuccessi
possono rendere il nostro servizio più stimolante e autentico: l’affrontare
e superare queste difficoltà aiuta molte volte a far crescere e maturare la
nostra personalità.
Ho provato sensazioni e soddisfazioni che mi hanno
molto gratificato soprattutto ricordando il
grande spirito di squadra che lega il gruppo
di colleghi a cui appartengo e i numerosi
ringraziamenti ricevuti dai pazienti...
Non dimentico mai anche il piacere
dell’ascolto quando il paziente è contento di parlare. In fondo molto pazienti anziani sono davvero delle
biblioteche viventi!
Se infine mi sento scoraggiato da
qualche fallimento o per non essere riuscito a dare l’aiuto desiderato, mi consolo ricordando la
frase: ”Ciò che facciamo
per noi stessi prima o
poi è destinato a svanire mentre quello
che facciamo per gli
altri è destinato a rimanere nel tempo” e
così finisco per riprendere il cammino come se
mi trovassi ad arrampicarmi
con gioia tra le mie adorate montagne.
Carissima Signorina Malagutti,
si, Signorina, così l’abbiamo sempre chiamata e la chiameremo sempre perché per noi lei è sempre stata la nostra “ Signorina Malaguti”.
Ci ha visto nascere, crescere e diventare grandi, a noi e ai nostri figli,
ora persone adulte che non hanno mai dimenticato la sua vivace,
costante e significativa presenza in tutti i momenti, belli e brutti,
gioiosi e sofferenti della nostra vita. Ricordiamo ancora in modo
vivissimo quando, prima di addormentarci, ci raccontava con
passione le fiabe, soprattutto quella di Cappuccetto Rosso e la
ringraziavamo per tutti i consigli e gli aiuti che ci ha generosamente offerto nel corso degli anni.
Quante volte abbiamo chiesto a mamma e papà della Signorina Malagutti: “ Ci sarà la Signorina a Natale, al compleanno di papà o di mamma ?” Perché volevamo che lei fosse
presente alle feste più importanti della vita, perché l’abbiamo sempre considerata parte integrante della nostra famiglia.
GIORGIO
E’ stata, per tutti un grande esempio d’impegno sociale, politico, di volontariato
in varie forme, precorrendo i tempi, interpretando singolarmente il suo essere
donna attiva e “ pioniera” in molte iniziative. Ancora a quasi 90 anni, andava a
trovare i suoi “vecchietti”. Attenta e stimolatrice di formazione per i giovani e
per gli adulti, ben prima che diventasse “ formazione permanente”, necessaria
fonte per poter essere di autentico servizio per gli altri.
In questi ultimi faticosi anni, siamo stati privati del suo incoraggiamento dei
suoi consigli, a causa della malattia ma abbiamo potuto a nostra volta aiutarla
man mano che si “affidava” a noi, con il supporto umano e professionale indispensabile di Doris e Marcellina, che ringraziamo per la loro disponibilità e competenza.
Oggi che è arrivata al traguardo della vita terrena, ci stringiamo a lei per chiedere
al Signore il dono supremo dell’incontro senza fine nella pienezza della felicità
eterna. Cara Signorina, arrivederci nella sovrabbondanza della beatitudine perfetta!
Mamma Rita, Claudio, Giorgio, Silvano, Paolo con mogli e figli
e papà Franco che ci guarda e protegge dal cielo.
Carissima Antonia, da tempo non frequentavi più l'ospedale, gli anni e gli acciacchi te lo impedivano ma niente ti impediva di occuparti di quelli che
avevano delle necessità. Ti ho conosciuta al mio ingresso in AVO tanti anni fa e siamo entrate subito in sintonia: tu già signora matura mi raccontavi le
tue esperienze come staffetta partigiana prima e come responsabile della D.C. milanese dopo la guerra, io giovane sindacalista e dipendente di banca
che volevo comunqe occuparmi delle sofferenze degli altri senza troppo impegno (per quello avevo scelto l'AVO). Da tempo non ci vedevamo; provvedeva ad informarmi su di te Aurelia che con te oltre all'età aveva condiviso i primi momenti dell'Associazione.
Carissima Antonia, in AVO sono rimasti in pochi ormai a ricordarsi di te ma non importa, tu ci sei stata e ci sarai sempre per chi ti ha conosciuto e non solo.
Penso che il migliore dei modi per ricordarti sia attraverso il ricordo dei tuoi ragazzi, quelli che hai seguito in tanti anni con grande impegno, da parte mia comunque grazie di tutto.
Anna Castiglione
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
DON GNOCCHI
IL SENSO DEL VOLONTARIATO AVO DI DONATA VILLANO,
NUOVA RESPONSABILE DI OSPEDALE DI AVO DON GNOCCHI
Vento di cambiamenti all’AVO Don Gnocchi, dove da poco la nostra cara Isabella Zilocchi, dopo 6 anni in carica come Responsabile di Ospedale presso l’Istituto, cede il posto a Donata Villano. Una di noi, di voi tutti, che ha accettato di aiutarci
ad organizzare sempre meglio il servizio che offriamo ai nostri malati, a coltivare con cura il senso di appartenenza al
gruppo e che ci ricorda quanto sia importante ascoltare chi si ha accanto ogni giorno, non solo quando si indossa il camice
AVO.
Cara Donata, quando è iniziato il tuo cammino in AVO?
Il mio percorso nella” famiglia AVO” e’ iniziato il 18 ottobre 2004 con il corso di formazione. Il 14 dicembre dello stesso
anno ho svolto il mio primo servizio nel reparto di Neurologia Riabilitativa della Fondazione Don Carlo Gnocchi,dove sono
oggi. Ho iniziato come Volontario e poi, proposta dalla referente ospedaliera Isabella Zilocchi, sono diventata Socio AVO
nel 2007, quando questa opportunità era aperta a pochi.Nel 2010 sono stata proposta e poi eletta come Consigliera del
Consiglio Esecutivo AVO Milano.
E ora la carica di Responsabile di Ospedale. Come ti senti in queste vesti?
Mi sento onorata e orgogliosa di intraprendere questo “nuovo cammino”. Penso che questa carica sarà per me la vera
espressione del mio “dare” verso un gruppo di 70 Volontari che ogni giorno “accolgono”le esigenze del malato.Mettersi
prima di tutto in relazione d’aiuto con il proprio Gruppo di Volontari è il primo passo per entrare in empatia con chi ha bisogno di essere “ascoltato e capito”. La fortuna del Volontario AVO sta nell’avere alle spalle un’organizzazione che gli permetta di esprimersi al meglio, e a me è stato chiesto di rivestire all’interno del mio gruppo questo ruolo di guida
nell’espressione dell’essere Volontario.
Il tuo servizio di volontariato cambia in qualche modo?
Assolutamente no. Penso che la mia missione di Volontaria non cambi perchè i principi sono sempre gli stessi. Per me
essere Volontario è esprimermi sia con ruolo sia senza ruolo, nell’ascoltare il malato così come un mio Volontario.
Hai dei progetti futuri che vorresti realizzare al Don Gnocchi insieme ai tuoi Volontari?
Vorrei che i miei Volontari sentissero sempre di più il senso di appartenenza all’AVO come Associazione, senso che a volte
viene dimenticato. Vorrei anche realizzare
un progetto sulla Formazione a cui possano partecipare tutti i Volontari del Don
Gnocchi, perché ritengo che formare e aggiornare il Volontario stimoli sempre di
più la propria missione.
Ti senti di dire qualcosa a tutti i Volontari
che potrebbero fare un giorno il tuo
stesso “passo avanti”?
Non abbiate timore di accettare questo
ruolo,di donare il proprio amore allo
stesso modo sia in corsia sia tra di Noi.
Quando il nostro cuore regala l’amore a
chi ne ha bisogno,non esiste né il ruolo,né
la carica sociale esiste solo “l’altro”.
Alessandra Gilardini e Donata Villano
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
NIGUARDA
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NOTIZIE DAGLI OSPEDALI
NIGUARDA
DOPO 80 ANNI CHIUDE LA GLORIOSA LAVANDERIA DEL NIGUARDA
Seimila chili di biancheria al giorno, per 6 giorni la settimana fin dagli anni ’30, quando l’Ospedale di Niguarda fu
costruito.
Càmici, divise operatorie, tende, lenzuola, asciugamani, pigiami... in un ciclo continuo sono entrati sporchi direttamente dai carrelli trasportatori a una camera chiusa da vetrate e da qua lasciati scivolare attraverso tappeti mobili
all’enorme stanzone tutto tubi e macchinari. E via per il lavaggio, la centrifuga, l’asciugatura, la stiratura. In questo
modo il bucato ancora da lavare non si incontravano mai con quello già lavato. Una preziosa norma di igiene.
“Queste macchine sono state acquistate nel 1990, in occasione della ristrutturazione del capannone” mi racconta il
responsabile, Piermarco Bazzani che è qui dal 2001.
Il fragore e l’attività continua dei cestelli , delle centrifughe, delle stiratrici hanno invaso questo spazio ogni giorno,
anno dopo anno. Fino a Gennaio 2014. Il 30 gennaio tutto quella animazione si è interrotta.
Ora i macchinari stanno lì, immobili e silenziosi in attesa della loro prossima nuova vita. Stanno per essere venduti
come ferro: il servizio è stato esternalizzato.
“In realtà, in questi decenni, già altre volte ci siamo serviti di fornitori esterni, a seconda del succedersi delle varie
amministrazioni” continua il Signor Bazzani “ma per molto tempo il Niguarda è stato l’unico ospedale con una lavanderia interna. E altri ospedali milanesi come il Policlinico, il San Carlo e altri se ne avvalevano, come servizio
a pagamento.
Naturalmente il lavoro è sempre stato molto intenso, ma ci sono stati momenti di emergenza particolari.
Nel 2006 il Policlinico restò all’improvviso privo del proprio fornitore e ci chiese collaborazione, fino alla firma di
un nuovo contratto. E così il nostro normale lavoro quasi raddoppiò e si resero necessarie ore e ore di straordinario.
Come del resto quella volta, qualche anno fa, quando a Niguarda si diffuse una epidemia di scabbia. Il ciclo di ricambio di tutta la biancheria si moltiplicò e ricordo che furono 14 giorni di lavoro consecutivi giorno e notte!”
Ripensando agli eventi di questi anni, torna alla mente un altro caso molto particolare.
Quello di una signora che doveva sottoporsi a un intervento ginecologico. “Solo che soffriva di una gravissima
forma allergica a qualunque detersivo. Non solo i panni da lei indossati dovevano essere purissimi, ma anche ogni
tessuto con cui veniva a contatto, compresi i càmici degli infermieri, le divise dei chirurghi, il corredo della sala
operatoria. La donna arrivò con poche speranze in quanto si era già rivolta ad altri ospedali, ma per tutti la soluzione
era impossibile e da tutti era stata rimandata a casa delusa e amareggiata. Ebbene, al Niguarda ancora una volta si
aguzzò l’ingegno e ci si rimboccò le maniche.
Ogni capo venne riconfezionato in una versione di cotone grezzo, lavato con un detersivo delicato e soprattutto
sciacquato e risciacquato con acqua pura 6, 7, 10 volte. Ore e ore di faticoso lavoro”.
Ma alla fine fu un nuovo successo. La paziente fu operata e guarita. Come è dovere di un grande ospedale.
Un sorriso fra il tenero e il divertito anticipa un altro aneddoto.
“Un giorno un chirurgo venne al capannone e chiese di vedere i tappezzieri (questa struttura si occupava infatti
anche del confezionamento di tendaggi, rivestimenti di divani e cuscini eccetera). Quel solerte chirurgo ci commissionò una fornitura davvero unica. Era arrivato un paziente fortemente obeso che doveva essere operato. Solo che,
una volta sdraiato, sarebbe stato impossibile spostarlo su di un fianco per il peso eccessivo.
Ed è qui che il medico ebbe una intuizione: volle che fossero confezionati dei supporti in gommapiuma, dei cunei
imbottiti, da sistemare qua e là sotto il corpo del paziente. E fornì ogni esatta misura, proporzione, spessore che rendessero possibile la movimentazione in sicurezza”.
Difficile non leggere nello sguardo di chi è coinvolto l’orgoglio e la certezza di far parte di una grande (in ogni
senso) realtà.
E per me che da decenni abito in zona e ho costantemente avuto davanti agli occhi la bianca sagoma dell’ “Ospedale
Maggiore”, è singolare e sorprendente poter vivere finalmente un poco del ‘dietro le quinte’, una delle facce nascoste
ma che stanno alla base della struttura e ne consentono il funzionamento e l’esistenza stessa.
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L’ANGOLO DELLA LETTURA
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Sul punto di morte Alessandro Magno convocò i suoi generali
e dettò loro le sue ultime tre volontà:
Che la sua bara fosse trasportata sulle spalle dei medici del
tempo,
Che i tesori che aveva conquistato (oro, gioielli) fossero sparsi
sulla strada verso la tomba,
Che le sue mani fossero lasciate penzolare fuori dalla bara alla
vista di tutti.
Uno dei generali scioccato da queste insolite ultime volontà
chiese “Qual è il motivo?”
Alessandro rispose: “Voglio che siano proprio i medici a trasportare la mia bara per dimostrare che non hanno potere di
guarigione davanti alla morte.
Voglio il suolo ricoperto dei miei tesori per ricordare che i beni
materiali qui conquistati, qui restano.
Voglio le mie mani al vento perché la gente veda che veniamo
in questo mondo a mani vuote e a mani vuote andiamo via…”
Al termine della nostra vita saremo giudicati solo sull’Amore,
solo questo conta.
(tratto dal libro” L’Amore dall’alba al tramonto” a cura di Fr. Angelo De Padova)
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