Piano formativo
Sommario
“Realizzare i diritti dell’apprendimento:
per un sistema stabile di formazione continua
della CGIL Marche”
Percorso
“Gestire il processo formativo in CGIL Marche:
politiche, metodi e strumenti”
Dispensa 2.
Dare valore all’esperienza
Mettere in trasparenza e rappresentare
gli apprendimenti individuali
come condizione per costruire i nuovi diritti
1. Rappresentare, riconoscere, certificare gli apprendimenti: un
problema di diritti ..........................................................................
3
1.1 Verso un nuovo modello di scambio fra economia e società? ....
3
1.2 Verso i diritti dell’apprendimento? ..................................................
7
1.3 Rappresentare, riconoscere, certificare: tre problemi politici .......
12
2. La trasparenza: cos’è e a cosa può servirci ...................................
19
2.1 I diversi significati della parola “trasparenza” .................................
19
MATERIALE AD USO INTERNO
2.2 Il campo della trasparenza ..................................................................
20
2.3 Alcuni aspetti di metodo: narrazione e rappresentazione .............
25
2.4 Approfondimento: la trasparenza “per sé” ed il bilancio delle
competenze ..........................................................................................
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2.5 Approfondimento: la trasparenza nel rapporto fra individuo, sistema educativo e mercato del lavoro: il libretto formativo del
cittadino ................................................................................................
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Allegati
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Il Libretto Formativo del Cittadino
Il CV di supporto alla biografia cognitiva
Una matrice generica di messa in trasparenza degli apprendimenti
a cura di Marco Ruffino ed Emanuela Gatto - Koinè srl
[email protected]
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Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 1
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 2
1. Rappresentare, riconoscere, certificare gli
apprendimenti: un problema politico e di diritti
1.1 Verso un nuovo modello di scambio fra economia e società?
Il paradigma teorico dell’economia “post fordista” o, in tempi più recenti, “della conoscenza e dell’apprendimento” (knowledge & learning economy) si caratterizza fra l’altro per proporre un nuovo modello globale
di scambio fra economia e società. Da un lato, l’economia “chiede” alla
società un comportamento attivo e flessibile, rivolto ad interiorizzare il
cambiamento come caratteristica strutturale di funzionamento “adeguazionista” dei mercati del lavoro alle mutevoli (ed imprevisibili) esigenze
del sistema produttivo. Dall’altro, è proposto in contropartita un nuovo
concetto di sicurezza sociale, basato sulla garanzia di disporre individualmente degli entitlements (i titoli di accesso) e delle provisions (le risorse
cui accedere) necessari per sostenere/anticipare i cambiamenti richiesti
lungo il corso dell’intera vita attiva, della quale è fortemente incentivato
l’allungamento di durata. Le risorse in questione sono essenzialmente di
tipo immateriale, sintetizzabili ai nostri fini nella triade “capitale di sapere, capitale relazionale e capitale sociale”, al contempo fattori produttivi e condizioni di cittadinanza. Lo scambio alla base della flexicurity è
infine teorizzato – ormai già da un decennio – come prodotto di una
“naturale convergenza” di interessi fra impresa e lavoro, entrambi necessitati a sostenere continuamente l’innovazione delle conoscenze ed il
rafforzamento delle capacità di apprendimento, come risposta allo spostamento della competizione dal costo del prodotto al valore in esso incorporato ed alla (conseguente) condizione di incertezza strutturale dei
mercati. La knowledge & learning economy si pone così come risposta alla
“fine del lavoro” annunciata negli anni ‘90, attraverso una duplice ridefinizione: i) del rapporto fra individuo e occupazione e ii) dell’identità
del lavoro stesso. La flessibilità non si limita agli aspetti prestazionali e
contrattuali, ma si spinge a ridefinire la rappresentazione stessa degli
impieghi, rendendone mutevoli i contenuti e disarticolandone i confini
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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di categoria. Ad una concezione del lavoro come possesso di un’identità di mestiere, intrinsecamente “rigida”, si contrappone, nei modelli di
competenza di stampo liberista, una logica puramente prestazionale
(“essere capace di ... (fare ciò di cui il mercato ha bisogno)”, ben più che “essere
un ...(lavoratore appartenente ad una precisa famiglia professionale)”). E’ il riferimento all’“essere imprenditore di sé stesso”, mettendo a frutto il proprio “capitale individuale di sapere” ed impegnandosi nella sua continua manutenzione, in ragione delle richieste emergenti dell’economia.
Questo movimento ideologico fondato sulla valorizzazione dell’incertezza e sulla ridistribuzione molecolare del rischio di impresa
porta in potenza ad alcune rilevanti conseguenze, fra le quali:
- la modificazione del concetto di rappresentanza del lavoro, a
mano a mano che muta la sua rappresentazione. Da un lato si
sfaldano i confini di categoria (e crescono in parallelo le difese neocorporative), dall’altro avanzano già da tempo le spinte alla disintermediazione, soprattutto da parte di chi dispone di un significativo
capitale di sapere e di forti capacità di apprendimento (knowledge
worker), e come tale è orientato ad utilizzare la flessibilità come risorsa cognitiva e relazionale, in modo poco solidaristico;
- lo spostamento del “punto di ancoraggio dei diritti” dall’identità
collettiva del lavoro ai singoli individui. Altrimenti detto, mentre la
categoria “occupazione” è storicamente definita a partire dallo statuto del lavoro stabile, le categorie “occupabilità” e
“adattabilità” si definiscono essenzialmente a partire dal
comportamento atteso dal soggetto verso il mercato del lavoro
ed i dispositivi di facilitazione dell’accesso;
- conseguentemente, l’emergenza del concetto di “diritto ad apprendere lungo il corso della vita”, elemento centrale dell’ipotesi
di new deal fra economia e società. Un diritto individuale ed attivo,
nel senso che implica l’adozione di un comportamento di ricerca ed
una capacità personale di “deframmentare” le singole occasioni di
lavoro e di apprendimento, reinterpretandole nella chiave unitaria
della “biografia cognitiva”. Un diritto post fordista che assume,
non senza ambiguità, anche forti connotazioni di dovere, differenziandosi in ciò dalla tradizionale lettura positivista dell’emancipazione – individuale e collettiva – attraverso la possibilità di accedere
alla conoscenza.
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Ovviamente, tutto ciò è valido molto più con riferimento al paradigma
teorico che ai comportamenti dei sistemi produttivi che, anche nei Paesi del “primo mondo”, mantengono importanti presenze del tradizionale modello fordista di divisione del lavoro. E’ però fondamentale comprendere come il tema dello scambio attorno all’accesso all’apprendimento sia ormai presente, come riferimento costitutivo, in tutte le policies economiche e sociali. Per quanto riguarda l’Europa, basta riferirsi
alla strategia di Lisbona, in cui si ritrovano strettamente intrecciati, sotto il comune richiamo ad “un’economia ed una società basate sulla conoscenza”, le riforme strutturali, il completamento del mercato interno, la modernizzazione del modello di welfare e la risposta ai problemi di esclusione sociale. Senza entrare nel merito, è utile ricordare le forti inerzie
attuative che tale disegno ha incontrato, tanto da portare cinque anni
più tardi ad una severa (quanto inusuale) autocritica e ad un rilancio del
“partenariato per la crescita e l’occupazione”, che oggi vede una crescente
convergenza delle politiche nazionali ed europee, ad iniziare dai Fondi
Strutturali e dai diversi programmi di orizzonte 2007-2013. Il richiamo
alle criticità vuole sottolineare come vi sia ancora un ampio spazio per
interpretare ed orientare il paradigma (i cui esiti non sono scontati), evitando che assuma una esclusiva strumentalità neo-liberista da “pensiero
unico”.
difficilmente potrà comprendere da adulto i propri bisogni e “riannodare” con l’apprendimento formale: ciò può portare all’istituzione
di dead locks segreganti, soprattutto dove il lavoro si accompagna a
dequalificazione e precarizzazione. Prevale dunque il rischio di una
progressiva organizzazione della società attorno ad uno “spartiacque
cognitivo”, di cui il digital divide è solo un aspetto;
•
quanto sopra visto, pone l’esigenza di affrontare il rapporto fra
dimensione individuale e dimensione collettiva del diritto,
stanti i rischi di competizione accanita fra singoli per accedere a risorse di apprendimento scarse o comunque lontane dall’originaria
matrice solidarista dell’innalzamento per tutti del livello di istruzione. Garantire eguaglianza delle chances cognitive porta a dover riconsiderare, oltre ai meccanismi di accesso (p.e. i metodi di selezione),
le pedagogie e lo stesso rapporto fra formal e non formal learning. Ovvero l’intero assetto delle istituzioni educative e formative. Ciò a
fronte dell’insufficienza delle attuali tecnologie di ridistribuzione dei
titoli di accesso, che rischiano di alimentare il cognitive divide, (lo spartiacque cognitivo), più che favorire i processi inclusivi;
•
Porre al centro del welfare attivo il diritto/dovere ad apprendere lungo
il corso della vita ha implicazioni profonde, che giustificano e determinano l’emergenza nelle norme e nel linguaggio comune delle categorie
della trasparenza, del riconoscimento e della certificazione. Prima di entrare in argomento, richiamiamo in particolare tre punti rilevanti, fra
loro correlati:
infine, il diritto ad apprendere interessa in profondità la qualità del
lavoro e della sua organizzazione, a fronte dell’evidenza che la
parte saliente della costruzione di una professionalità avviene se e
dove il dispositivo cognitivo coincide con un dispositivo produttivo
forte. Al fianco delle riforme dei sistemi educativi e formativi e della
loro integrazione con i contesti di lavoro, il lifelong learning richiede
una learning organization, cioè un luogo in cui la produzione di beni e
di servizi sia anche produzione e circolazione di sapere, a cui possano partecipare tutti i lavoratori.
il modello economico learning oriented ha molte più possibilità – rispetto al fordismo – di generare rilevanti dinamiche di esclusione
sociale. La centralità assegnata all’individuo ha come contropartita il
trasferimento su di esso di una forte auto-responsabilità nei confronti del proprio apprendimento, pena la sua marginalizzazione dai
segmenti ricchi del mercato del lavoro. Non vi è però eguale dotazione di risorse individuali di fronte all’apprendimento, tanto per caratteri intrinseci che per la path dependence (la dipendenza dal percorso
svolto) soggettivamente maturata a partire già dai percorsi dell’educazione di base. Chi in età evolutiva non ha “imparato ad imparare”,
Con tutte le sue ambiguità, il tema del diritto ad apprendere sposta
dunque il welfare attivo dal riferimento del “workfare” (che non affronta
la contraddizione data dalla crescente precarizzazione del lavoro) a
quello del “learnfare”, cioè della garanzia di effettivo accesso di tutti gli
individui – nei tempi e nei modi coerenti con i loro bisogni e caratteristiche – ad opportunità di apprendimento coerenti con le esigenze dell’economia ed i progetti personali di vita, dagli esiti dotati di un effettivo valore di scambio. Il learnfare oggi non c’è, nemmeno nei Paesi a
maggior tradizione in materia. Potrebbe anche non esserci mai, potrebbe essere una negativa illusione teorizzarlo e cercare di costruirne le
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condizioni. Nondimeno, questa è oggi la prospettiva che ci viene offerta, rispetto alla quale si tratta di essere criticamente attivi, cercando di
produrne una interpretazione originale, che parta dalla centralità del lavoro e dei lavoratori. Prendere il learnfare a riferimento delle politiche
sociali significa interpretare in modo non subalterno lo spazio aperto
dalla strategia di Lisbona. Si tratta, riprendendo il premio Nobel per
l’economia Amartya Sen, di “andare oltre la nozione di capitale umano, dopo
averne riconosciuto tutta la rilevanza e portata” (di andare senz’altro oltre la
sola nozione di capitale), assumendo la prospettiva di un “welfare delle
capacitazioni” (cioè della possibilità individuale e collettiva di agire il diritto ad apprendere), più che un semplice welfare delle competenze.
1.2 Verso i diritti dell’apprendimento?
Come si è visto, uno dei termini essenziali dello scambio fra economia
e società della conoscenza è la sicurezza per tutti di poter disporre individualmente delle risorse di adattabilità, fra le quali hanno un ruolo primario quelle necessarie per adeguare la dotazione di sapere, secondo
modalità di accesso coerenti con le caratteristiche dei singoli soggetti
interessati. Garantire tale sicurezza richiede l’istituzione di un nuovo insieme di diritti, che possiamo denominare “diritti dell’apprendimento”, parte delle più complessive condizioni di cittadinanza. E’ subito
importante precisare come – allo stato attuale – la nozione di diritto
vada intesa più in senso socio-politico che strettamente giuridico, non
esistendo – né in Italia, né nei Paesi Europei – un vero e proprio corpus
normativo in materia. Non si tratta solo di un ritardo dell’azione legislativa, quanto dell’oggettiva difficoltà di definire il campo del discorso, in
ragione delle caratteristiche proprie della conoscenza e dell’apprendimento.
La conoscenza è un bene economico strano, che possiede delle proprietà differenti da quelle che caratterizzano i beni convenzionali, ed in
particolare i beni tangibili. In primo luogo la conoscenza è un bene non
escludibile, nel senso che è difficile renderla strettamente controllabile
in modo privato. I brevetti rispondono all’esigenza di protezione limitando l’utilizzabilità economica della conoscenza, ma non certo la possibilità del suo apprendimento e della sua evoluzione in forme originali
da parte di chi l’ha comunque acquisita. Nel momento in cui la conoDispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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scenza è utilizzata, essa diviene almeno in parte visibile e dunque soggetta ad apprendimento da parte di altri. Se da un lato ciò rappresenta
una riduzione del valore per il possessore originario, dall’altro la diffusione attraverso imitazione crea ciò che gli economisti chiamano delle
“esternalità positive”, che consentono ad un maggior numero di agenti
di sviluppare le proprie capacità produttive. Con un innalzamento nel
medio termine del livello complessivo dell’intero sistema. E’ il meccanismo che spiega la capacità competitiva dei distretti, attraverso l’integrazione fra imitazione e specializzazione, pur a fronte della ridotta dimensione degli agenti economici che li costituiscono. Una seconda proprietà che differenzia la conoscenza dai beni ordinari è che essa non si distrugge nell’uso: gli agenti economici non sono rivali per il suo consumo, visto che ognuno di essi può ricorrere senza costo infinite volte
alla stessa conoscenza e un’infinità di agenti possono utilizzare la stessa
conoscenza senza che nessuno ne sia privato. Inoltre, l’uso della conoscenza produce altra conoscenza. In definitiva, la conoscenza è un
bene pubblico cumulativo. Tutto ciò pone un complesso problema
di regolazione (e dunque di diritto) quando la stessa è prodotta in regime di mercato. Il soggetto privato che investe in conoscenza lo fa ovviamente attendendo un significativo ritorno economico; a tale fine cercherà il più possibile di proteggere l’innovazione prodotta, rivendendola ad un prezzo elevato. La massimizzazione del beneficio di un singolo
rischia però in tal modo di determinare un costo economico e sociale
collettivo molto alto, rallentando i processi di innovazione e minando
la stessa eguaglianza dei diritti (si pensi al caso del prezzo dei farmaci
salvavita, in rapporto alle capacità di acquisto da parte dei Paesi del terzo mondo). Proprio perché la conoscenza è un bene non rivale, il valore marginale restituito a chi la produce è sempre minore del valore che
complessivamente ne trae chi la utilizza. Più il costo della conoscenza si
riduce, maggiore sarà il numero di chi potrà utilizzarla (p.e. sotto forma
di prodotti e servizi che la incorporano), ma al contempo minore sarà
l’interesse di chi la produce a sostenere il proprio investimento, in ragione dell’insufficienza del ritorno. Come scrive Dominique Foray, è il
“dilemma della conoscenza”, che richiede di individuare “lo stretto cammino
fra l'obiettivo di preservare gli interessi del creatore e quello di mantenere i benefici
per la società”. Un problema chiave in termini di regolazione e, dunque,
di diritto.
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D’altra parte, l’apprendimento è un processo strettamente individuale,
legato alle capacità cognitive personali: non si può garantire in senso
giuridico che esso avvenga sempre e comunque, né che i suoi risultati
siano adeguati. Il diritto va dunque inteso, in modo necessariamente limitato, come garanzia della presenza di un insieme di condizioni che
rendono possibile ed utile l’apprendimento, rispetto alle caratteristiche
ed alle esigenze di chi del diritto stesso è portatore. Siamo cioè di fronte
ad un diritto che, dovendo rispondere a livelli di capacità cognitiva e
di bisogno differenti da soggetto a soggetto, ha natura eminentemente individuale, restando ovviamente generale dal punto di vista della
sua estensione. Ciò in uno spazio in cui tutti gli individui sono fra loro
potenzialmente in una situazione di competizione, la cui posta è l’accesso a lavori più qualificati e remunerati o – al limite – al bene-lavoro tout
court. A poco vale la considerazione che apprendere è un atto sociale,
che richiede l’istituzione di relazioni basate su lealtà e fiducia reciproche: dal punto di vista delle esigenze di garanzia del diritto, il riferimento all’importanza di “cooperare per competere” non sembra risolvere
spontaneamente i problemi di garanzia dei diversi interessi e necessità
in gioco. Vi sono dunque profondi rischi che si istituiscano società a
“due velocità” rispetto all’apprendimento, attorno ad uno spartiacque
cognitivo di cui il digital divide è solo la parte più evidente.
pagnato da un insieme di capacitazioni collettive, che consentano una
più vasta azione di governo del funzionamento degli scambi fra economia e società, rivolti ad impedire che l’incertezza prodotta dalla prima
sia direttamente ed integralmente scaricata sugli individui che costituiscono la seconda. Come a dire che il diritto individuale di accesso e valorizzazione dell’apprendimento lungo il corso della vita può esistere
solo se è accompagnato (e probabilmente preceduto) da un diritto collettivo che interessa la regolazione dei mercati del lavoro e dei sistemi
di welfare. Questo in una situazione post-moderna in cui, come ci ricorda nel 2003 Guido Rossi, “qualcosa sembra aver cancellato la percezione della
differenza fra interesse individuale e interesse collettivo, e dei gravi squilibri che si
creano quando il primo è lasciato libero di prevalere sul secondo”.
Quanto fino a qui visto porta oggi a preferire la dizione di “diritti” dell’apprendimento, dove il plurale segnala la natura ancora in divenire del
concetto, in attesa della sua progressiva ricomposizione. Le fatiche del
definire i diritti dell’apprendimento sono l’evidente ed immediato specchio della transizione al nuovo modello post-fordista di scambio e regolazione sociale.
Infine, il tipo di scambio prospettato dall’economia della conoscenza
determina una nozione di diritto che può trasformarsi in una nozione di dovere. Non ci si riferisce ai doveri ovviamente determinati
come atto riflesso della garanzia del diritto, tipici della Pubblica Amministrazione e dei soggetti economici che si assumono delle obbligazioni
nello scambio fra fedeltà attiva, flessibilità e sicurezza. A fronte dei mutamenti dell’economia, la risposta adattiva può essere vista sia come
una necessità dell’individuo (a cui corrisponde l’istituendo campo dei
diritti), sia come un suo obbligo, morale e soprattutto materiale (a cui
corrisponde piuttosto una nozione di dovere). Se il diritto rimanda all’esercizio libero – anche se stimolato – di una scelta (migliorare la propria posizione professionale e sociale, dare corso ai propri interessi, ...),
il “dover apprendere” ha il senso di una costrizione della volontà, con
implicazioni profondamente diverse anche dal punto di vista dei processi cognitivi. Fra diritto e dovere è in gioco la nozione di libertà. Garantire che gli aspetti di scelta prevalgano su quelli di obbligo richiede
che il diritto individuale dell’apprendimento sia strutturalmente accom-
Il diritto dell’apprendimento pone in particolare il tema specifico della
garanzia di valore dell’investimento in conoscenza. Il solo esercizio, anche fruttuoso, dell’apprendere non dice di per se stesso quale posizione l’individuo avrà negli scambi. Le conoscenze e le competenze
acquisite non hanno un valore proprio ed assoluto, ma quello che –
caso a caso – è assegnato loro dal campo di forze in cui si pongono ed
in cui sono utilizzate. Il valore non è solo e tanto nel risultato dell’apprendimento in sé, ma nelle relazioni che – attraverso di esso – l’individuo può istituire con l’ambiente in cui vuole (o deve) agire. Si tratta
dunque di definire gli oggetti del diritto (dagli standard di competenza
all’offerta educativa e formativa) a partire dalla prospettiva delle loro
possibili ragioni di scambio. Ciò in modo da evitare il rischio che si instauri una situazione di auto-referenzialità delle politiche dell’apprendimento (in ispecie di quelle formative), dove i mezzi (le tecnologie e le
offerte di apprendimento) finiscano per oscurare i fini (l’inscrizione
economica e sociale dei singoli individui, a partire dal mantenimento
delle condizioni di occupabilità). Le condizioni di valore dell’apprendimento richiedono di essere definite in rapporto ad almeno tre problematiche.
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In primis, la riconoscibilità del fatto che l’apprendimento è avvenuto,
ed ha portato all’acquisizione di un insieme di conoscenze, competenze
e capacitazioni. E’ questa una condizione preliminare all’attribuzione di
valore: si torna al tema cruciale della rappresentazione dei saperi, che è
parte della rappresentazione del lavoro. Descrivere gli apprendimenti in
modo comprensibile e non ambiguo è un esercizio complesso, che richiede l’istituzione di un insieme di condizioni di sistema: un linguaggio
comune; una comune e validata modalità di osservazione, descrizione e
valutazione degli apprendimenti maturati dai singoli individui; più a
monte, un accordo sulle condizioni di legittimità dei soggetti preposti
ad attestare gli esiti dell’apprendimento. Dal punto di vista economico,
la rappresentazione trasparente (nel senso di immediatamente leggibile) contribuisce a ridurre i costi di transazione del mercato del lavoro,
fattore critico rispetto alle esigenze di gestione flessibile delle relazioni
di impiego. Un tipico costo di transazione è ad esempio il tempo necessario per comprendere l’adeguatezza delle competenze di un lavoratore,
in vista del suo impiego per una determinata prestazione. Minore è la
durata di quest’ultima (si pensi ai contratti “atipici”), minore deve essere l’impegno di risorse per la selezione: ad un valore modesto deve corrispondere un costo molto minore. La possibilità di disporre di descrizioni comprensibili e “certe” (certificate) riduce di molto l’impegno del
processo di matching, fin verso una sua (da alcuni auspicata) automazione, tale da consentire di trattare il sapere/lavoro (quasi) al pari di una
qualsivoglia merce, con l’effetto di un virtuale adeguamento istantaneo
della domanda all’offerta. Come si può intuire dall’esempio, le modalità di rappresentazione del “capitale di sapere” individuale non
sono neutre né oggettive: definire il “sistema metrico” del lavoro è un
esercizio altamente politico nella scelta dell’“unità di misura” e nella costruzione – attorno ad essa – del necessario consenso da parte degli attori impegnati negli scambi. La natura complessa di questo problema tipicamente post-fordista è ben comprensibile se si pensa alle modalità
storiche di rappresentazione degli apprendimenti, tipicamente centrate
sul titolo di studio, principio di ordinamento sociale (il diploma, la laurea) prima ancóra che economico.
del mercato del lavoro. Nel tempo, il capitale di conoscenza si consuma, in ragione dell’evoluzione dei sistemi produttivi; possono dunque
esistere conoscenze chiare e valide, ma (al momento) prive di particolare utilità. Inoltre, è anche possibile che alcuni apprendimenti maturati
ad esempio attraverso la partecipazione all’offerta di formal learning (un
corso di formazione professionale) non siano in sé coerenti con la domanda del contesto di scambio, per problemi di qualità della programmazione e/o dell’erogazione. La seconda condizione necessaria per poter parlare di investimento (e non di costo) dell’apprendimento è dunque l’effettività del valore d’uso dei suoi esiti, in termini di loro coerenza con i bisogni e la domanda in essere ed ipotizzata nel futuro.
Anche il valore d’uso è però una condizione necessaria, ma non
sufficiente a definire il ritorno dell’investimento in apprendimento.
Cosa l’individuo può ottenere attraverso il proprio sapere dipende dallo
stato del mercato del lavoro, dalla sua capacità e “forza” negoziale, dall’eventuale presenza di norme cogenti che fissino a priori le conseguenze del possesso del sapere sulla natura del contratto di prestazione. E’
questo il tema dell’effettività del valore di scambio, cioè della contropartita riconosciuta a fronte della messa a disposizione – nell’esercizio
del lavoro e dei ruoli sociali – del capitale di sapere maturato. La garanzia del valore di scambio è tema forse più critico in assoluto dell’intera
equazione post-fordista, richiamando due grandi nodi di fondo: il rapporto fra rappresentanza individuale (disintermediazione) e rappresentanza collettiva e il rapporto fra istituzioni e mercato del lavoro.
1.3 Rappresentare, riconoscere, certificare: tre problemi politici
La sola riconoscibilità non è però in sé sufficiente. Occorre che i
saperi rappresentati in modo trasparente “servano” ai funzionamenti
dell’economia e della società, consentendo dunque all’individuo che li
ha acquisiti di inscriversi negli scambi, ad iniziare ovviamente da quelli
Il cuore del problema è dunque la costruzione di valore di scambio, a
partire dall’esistenza e dalla rappresentabilità del valore d’uso. Ciò porta
a due termini chiave, “riconoscimento” e “certificazione”, spesso usati
nel linguaggio comune come sinonimi, ma in realtà diversi e fra loro integrati nella logica di funzionamento della learning economy sopra richiamata. La radice da cui entrambi muovono è l’attribuzione di valore al
sapere comunque acquisito da un individuo, in modo da rafforzarne la
possibilità d’uso come risorsa verso l’economia (p.e. per trovare o migliorare il proprio lavoro) e la società (come segnale di qualificazione e
appartenenza; come condizione di accesso).
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In breve:
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certificare il valore degli apprendimenti sotto forma di competenze è una modalità analitica e precisa di “segnalamento” al mercato
del lavoro che un individuo – al di là di “come ha appreso” (a scuola, in fabbrica, attraverso il volontariato o il bricolage, ...) – possiede
una effettiva capacità di esecuzione di una certa attività, in modo
coerente con un insieme di standard minimi di contenuto, contesto
e risultato. Nell’economia dell’incertezza, certificare (competenze
come – in generale – proprietà organizzative quali la qualità, la correttezza dei bilanci, il rispetto di standard etici, etc.) favorisce la riduzione del costo delle relazioni (di lavoro, commerciali, ...), favorendo
l’instaurarsi di una “zona di fiducia” fra gli attori. Non a caso, la modalità prevalente di certificazione è di “III parte”, svolta cioè da un
soggetto neutro e specializzato, sulla base dell’applicazione di un
protocollo trasparente di valutazione e rappresentazione. Di solito,
la certificazione non determina di per sé un valore di scambio,
limitandosi ad attestare in modo pubblico e formale la sicura presenza di un valore d’uso, inteso come comprovata conformità ad uno
standard. Avere una competenza certificata migliora ma non determina la relazione fra individuo e mercato, il valore di scambio del lavoro restando fissato dallo stato delle relazioni fra domanda ed offerta, inclusi ovviamente i contratti. Il ricorso al riferimento delle
competenze non svolge solo una funzione “pragmatica”, di rappresentazione della concreta spendibilità economica del sapere acquisito, ma risponde intrinsecamente all’esigenza post fordista di flessibilità, nel senso che limita l’oggetto della certificazione ad una sola
“parcella” di lavoro (la capacità di realizzare un task più o meno
complesso, più o meno funzionale o processuale), senza richiedere
necessariamente una professionalità completa. Le competenze – metro post-fordista del lavoro – quando non vengono ricomposte in
un più alto quadro di senso dato da una qualifica e un’identità professionali, rischiano di reintrodurre una sorta “fordismo di ritorno”.
In termini di esercizio del diritto, la certificazione risponde all’esigenza di salvaguardare gli investimenti individuali e collettivi in apprendimento, dando loro una trasparente rappresentazione;
riconoscere il valore degli apprendimenti sotto forma di crediti
formativi è una modalità per facilitare l’accesso del portatore ad un
nuovo contesto di apprendimento – tipicamente di natura formale –
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attribuendo valore di scambio a quanto già acquisito, in termini di: i)
possibilità di partecipare ad un’azione per la quale l’individuo non
possiede il livello di istruzione formale richiesto (credito di ammissione); ii) possibilità di ottenere riduzioni di durata di un percorso,
nel momento in cui la partecipazione a segmenti dello stesso non
porterebbe ad apprendere sapere aggiuntivo (credito di frequenza).
Riconoscere un credito equivale a leggere l’esperienza individuale
come una risorsa cognitiva, ai fini dell’accesso personalizzato e non
discriminato ad una ulteriore opportunità di apprendimento, rivolta
ad acquisire una qualifica o una certificazione formale. Come tale, il
riconoscimento ha senso solo all’interno di una più generale pedagogia negoziale e transattiva, interessata a valorizzare e co-costruire capacità e possibilità di partecipazione attiva. Il che richiede una logica
valutativa diretta a comprendere (e a far comprendere al richiedente
stesso) se e quanto le risorse di cui dispone (basi di conoscenza e di
competenze cognitive e meta-cognitive) sono coerenti con il contesto di apprendimento cui è interessato ad accedere. Non siamo dunque in presenza di una valutazione di “profitto” (anche perché è
scorretto leggere i saperi non formali con il metro usato per valutare
gli apprendimenti formali), ma di risorse e potenzialità, sulla cui base
definire un patto formativo ed un percorso individualizzato, incluse
le risorse per il recupero degli eventuali “debiti”.
In sintesi, mentre la certificazione è l’atto conclusivo di un apprendimento, che sancisce formalmente il raggiunto possesso di una competenza, il riconoscimento dei crediti si colloca all’avvio di un nuovo percorso, agendo come una “tecnologia di equità” che libera risorse di partecipazione. La certificazione richiede un approccio valutativo di “misura” (assessment) della competenza, a fronte di una soglia minima di
prestazione attesa; il riconoscimento si avvale invece di un approccio di
“apprezzamento” dei saperi, rispetto ai requisiti cognitivi e di contenuto del percorso cui l’individuo intende accedere. Riconoscere e certificare implicano entrambi la costruzione e l’esercizio di un nuovo modo
di porre lo sguardo sugli individui e sul loro vissuto, attribuendo
loro un’effettiva soggettualità, senza la quale l’esercizio delle tecnologie valutative non garantisce l’effettività del diritto.
Come si mostra in figura 1.1, riconoscere e certificare fanno parte di un
di più complessivo dispositivo di learnfare che mette in relazione circolaDispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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re individui, sistema educativo-formativo e mercato del lavoro (visto
estensivamente come luogo in cui si produce e si scambia sapere), basato sull’idea di capitalizzazione progressiva degli apprendimenti, rivolta
al conseguimento di un titolo dotato di un valore identitario (qualifica).
Figura 1.1 - Un modello generale di scambio basato sul sistema integrato “riconoscimento/certificazione”
Accesso al mercato del lavoro
Attestazione e
certificazione delle
competenze
Apprendimenti
individuali,
formali e non
formali
Capitalizzazione
delle competenze
Messa in trasparenza
degli apprendimenti
Riconoscimento ed
attestazione dei
crediti
Qualifica
come dice Mark Sennet porta, nella “sperimentazione del tempo scollegato”,
ad acuire il “conflitto fra la personalità e l’esperienza”. In sé, la mera
istituzione di dispositivi di capitalizzazione lascia del tutto aperto il rapporto fra eguaglianza ed equità, mettendo a disposizione un insieme di
modelli e di tecnologie la cui bontà è data solo dall’uso che ne viene
fatto, ovvero dal campo di forze in cui le pratiche di riconoscimento e
certificazione si inscrivono. Ancora, è importante considerare la rilevanza del costo che l’individuo è chiamato ad assumersi in questa prospettiva, in termini di auto-capacità progettuale, orientamento, valutazione, scelta degli investimenti in apprendimento. Processi rispetto a
cui può non essere adeguatamente capacitato, anche per oggettivi e non
superabili limiti propri. Da dove il rilevante costo del possibile fallimento del percorso di certificazione, che equivale alla produzione di un “segnalamento negativo” verso il contesto produttivo in cui l’individuo è
occupato, amplificato dalla trasparenza e dalla terzietà del dispositivo
utilizzato.
Mantenendo chiari alla mente i rischi, si osserva comunque come riconoscere e certificare – in quanto forme di relazione – siano al centro
della più generale ridefinizione del modello di scambio fra economia e
società; come tali non sono atti neutri, né per i destinatari, né per i soggetti che li esercitano. Visto in termini di policies, ciò equivale a dire che:
Accesso percorsi
modulari e flessibili
•
il campo della regolazione, normativa e tecnica, non è circoscrivibile
al solo specifico dei sistemi educativi e formativi, ma è fortemente
pervasivo di altri domìni, dal diritto del lavoro all’intero ambito dello
stato sociale, passando per i funzionamenti della pubblica amministrazione;
E’ importante osservare come il concetto di capitalizzazione sia intrinsecamente legato a quello di flessibilità, in quanto rivolto a ricomporre
gli apprendimenti esito di differenti esperienze in un quadro dotato di
senso per l’individuo, l’economia e la società. Se da un lato ciò risponde
ad esigenze di garanzia del diritto (anche al lavoro), contrastando la
perdita di valore propria della frammentazione dei percorsi, dall’altro
introduce il consistente rischio di scardinare l’organizzazione profonda
dell’apprendimento, fino alla rilettura acritica della precarietà come
importante opportunità cognitiva, a condizione che l’individuo sia
capace di vederla, per sé stesso, come una risorsa. Affermazione profondamente pericolosa ed errata già sul piano dei processi cognitivi, che
•
i modi con cui è condotto il processo decisionale fanno premio sui
meri aspetti tecnico-contenutistici oggetto del decidere, visto che il
vero obiettivo è costruire consenso comune attorno al significato,
alla posizione ed al valore dell’apprendimento come risorsa generale
di relazione ed identità.
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
Accesso al sistema integrato dell'istruzione
e della formazione
Fonte: IRSEA, 2001.
pagina 15
Per quanto riguarda il campo, si possono distinguere tre grandi ambiti
chiamati in gioco, fra loro interconnessi. Il primo è indubbiamente
quello delle politiche e dei sistemi di formal learning – dall’education (di
base, superiore, permanente) alla formazione professionale – a cui è richiesto di produrre un nuovo paradigma. Sono contemporaneamente
pagina 16
interessati dal cambiamento: i) la natura dei saperi da trasmettere, con il
passaggio dal riferimento della conoscenza (nel senso scolastico) a quello – ambiguo e non neutro – delle competenze; ii) la natura degli apprendimenti validi, cioè assumibili come legittimi in un processo educativo, in particolare nel rapporto fra canali di istruzione e formazione
(passaggio fra sistemi) e fra formal e non formal learning; iii) l’ampiezza ed i
contenuti dei “saperi minimi di cittadinanza”, ovvero della dotazione di
risorse di capacitazione il cui possesso va garantito nel tempo; iv) l’equilibrio fra di essi e la trasmissione dei saperi specialistici; v) la conseguente tensione fra eguaglianza ed equità negli accessi e nei percorsi, fra meritocrazia ed inclusione. Il ruolo che il learnfare assegna ai sistemi educativi e formativi segna una discontinuità storica, richiedendo la copertura
collettiva del diritto individuale ad accedere all’apprendimento lungo il
corso della vita, in un contesto in cambiamento continuo. Il che pone,
come scrive Bauman, l’esigenza di “teorizzare un processo formativo che non è
guidato fin dall’inizio da un tipo di bersaglio pianificato in anticipo”, inscritto in
una prospettiva temporale aperta, fatta di ingressi, uscite e “contabilità”
dei saperi acquisiti; basato su una revisione delle relazioni fra organizzazione pedagogica e organizzazione del lavoro; che mette in discussione
gli stessi riferimenti valutativi, probabilmente incompatibili con lo sviluppo dei metodi e degli incentivi all’apprendimento che permetteranno all’economia ed alla società del sapere di prosperare.
Il secondo grande ambito oggetto di ridefinizione è il lavoro, nei suoi
aspetti di rappresentazione (il rapporto fra qualifiche e competenze) e
di funzionamento (il modello organizzativo, fra divisione ed integrazione dei compiti). Come abbiamo già visto, il diritto ad apprendere si
basa sul duplice presupposto che: i) sia possibile apprendere, anche e
soprattutto attraverso una significativa coincidenza fra processi cognitivi e processi produttivi; ii) che gli esiti dell’apprendimento siano riconosciuti in valore – nei percorsi di carriera, nello scambio economico, nella mobilità geografica, nella costruzione dell’identità professionale –
dando tangibile senso ai concetti di capitale e di investimento in sapere.
Tutto ciò richiede un’evoluzione strutturale delle forme contrattuali e delle modalità di gestione delle risorse umane, dalla declinazione
dei profili all’uso del tempo. Ciò vale anche, a maggior ragione, per i
rapporti di lavoro “atipici”, a termine e di natura professionale. La
certificazione delle competenze – ancor più che il riconoscimento dei
crediti – richiede di definire il rapporto fra “valore lavoro” e “valore
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 17
apprendimento”: ove ciò non avviene, il solo atto del “rendere certo”
non garantisce gli scambi. Ne esce anzi ridotto anche il senso della formazione continua, proprio in un momento in cui si amplia la dotazione
di risorse economiche ad essa dedicate. Tutto ciò pone verosimilmente
in discussione la struttura dei contratti collettivi nazionali e una parte
saliente del diritto del lavoro, che è chiamato a farsi esso stesso diritto
ad apprendere, dando garanzie al medesimo tempo ai lavoratori ed alle
imprese.
Il terzo grande ambito è quello delle politiche sociali strettamente intese, a cui è richiesto di essere altrettante occasioni di attivazione di
processi di apprendimento per i soggetti cui si rivolgono. L’inclusione e
lo sviluppo delle pari opportunità non possono che basarsi sulla capacitazione degli individui in senso cognitivo e relazionale, dando valore
agli apprendimenti maturati come condizione di maggior riconoscibilità
sociale.
Il learnfare può (forse) costituirsi solo se si procede a ridefinire, il più
possibile in modo sincrono ed interdipendente, i campi di regolazione
richiamati. In assenza di questo movimento, norme e tecnologie di riconoscimento e certificazione – per quanto importanti – assumono al
più un valore locale, negli ambiti in cui si sono create le condizioni perché possano essere agiti. Di fondo, il problema è il ridisegno di capacità, poteri e ruoli dei diversi attori, cosa che non può avvenire da sé, secondo una virtuosa azione della mano invisibile del mercato. Il fatto
che l’economia “abbia bisogno” di un nuovo modello di scambio non
significa che sia in grado di auto-produrlo (e nemmeno di imporlo). Riemerge invece prepotente la centralità delle (nuove) istituzioni. In particolare, senza un’istituzione “cardine”, non è possibile costruire un effettivo sistema generale di certificazione e riconoscimento, lo stesso richiedendo a monte un luogo in cui si definiscano gli standard e se ne
verifichi l’effettiva applicazione. Il che riporta al secondo aspetto chiave
delle policies, il modo con cui sono assunte le decisioni. Principio di centralità (unicità del sistema degli standard) e necessità di esercizio autonomo dei singoli ruoli mettono al centro il rapporto cruciale fra government e governance.
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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2.2 Il campo della trasparenza
2. La trasparenza: cos’è e a cosa può servirci
2.1 I diversi significati della parola “trasparenza”
“Trasparenza”, dal latino trans- «attraverso» e parēre «apparire», è un
termine che, utilizzato in diversi contesti, ha assunto molteplici significati:
•
la caratteristica e la proprietà dell’ “essere trasparente” - il non essere
visibile/lo scomparire;
•
giuridicamente, il diritto per cui un cittadino deve essere pienamente
informato dei procedimenti amministrativi che lo riguardano;
•
in senso figurato, “essere limpido” nel senso di chiaro e comprensibile rispetto a terzi (e rispetto a se stesso). Cioè rappresentarsi secondo una modalità che favorisca la possibilità di riconoscersi e di
essere riconosciuti, di dare significato e valore alle proprie storie di
vita, agli apprendimenti maturati, di negoziare ed affermare l’identità
negli scambi che consentono l’inscrizione economica e sociale.
La trasparenza è qui intesa primariamente come modalità co-costruttiva di messa in evidenza – a costi contenuti – di un insieme chiave
di informazioni sugli apprendimenti significativi di un individuo,
tali da consentirgli di affrontare in modo economico la gestione delle
relazioni di scambio con il mercato del lavoro ed il sistema educativo e
formativo (accesso personalizzato a percorsi). L’aggettivo co-costruttivo indica che non si è in presenza di una mera applicazione burocratica
di uno strumento più o meno evoluto (un formulario, un CV, ..), ma di
un vero e proprio processo in cui l’individuo interessato a parte attiva e
responsabile della “scrittura” del testo che lo riguarda e ne descrive (per
se stesso e per gli altri) le caratteristiche essenziali.
Una “trasparenza generale”, cioè in grado di produrre un testo chiaro a
tutti, richiederebbe di disporre di modalità di rappresentazione:
•
significative e non ambigue dal punto di vista semantico, ovvero basate su condivisione di linguaggi, a livello di glossario e modi d’uso;
•
“compatte” nel formato, ovvero rivolte a ridurre le ridondanze e focalizzare le informazioni sugli aspetti di maggior valore conoscitivo.
Ciò non è ovviamente possibile in senso assoluto, richiamando piuttosto l’importanza di “fare trasparenza” in ragione delle caratteristiche del
contesto d’uso.
E’ quest’ultimo significato che qui interessa approfondire nel dibattito
attuale: recuperare il concetto di “apparire” in modo da evitare
proprio il rischio dello “scomparire”, del non essere visibile. Ciò con
riferimento generale a tutti gli individui ed in particolare a quelli che si
trovano in situazione di precarietà lavorativa e sociale. L’attenzione alle
aree di precarietà non deve però indurre nell’errore di immaginare che
trasparenza, riconoscimenti e certificazioni siano tecnologie prevalentemente rivolte a situazioni stereotipe di debolezza socio-professionale.
Al contrario, come si è introdotto nel capitolo precedente, ogni lavoratore ed ogni individuo hanno oggi un crescente bisogno di modalità e
competenze di (auto)rappresentazione, come condizione per accedere
alla possibilità di essere riconoscibili, riconosciuti e rappresentati. La
trasparenza va dunque vista come una condizione costitutiva della cittadinanza.
•
trasparenza dell’esito dei processi di apprendimento che hanno interessato un individuo, esprimibili in termini di saperi o competenze;
•
trasparenza di natura e caratteristiche dei processi di apprendimento (la loro “forza” e significatività), in assenza di una specifica
focalizzazione sui risultati ottenuti.
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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In questo senso, il primo aspetto importante di un dispositivo di messa
in trasparenza è l’ “oggetto” cui questa è rivolta. Rispetto ai modelli ed
alle pratiche in Europa, non è possibile evidenziare un approccio comune ed omogeneo. E’ tuttavia importante sottolineare come sostanzialmente possano distinguersi due oggetti:
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Un processo ed i suoi esiti non sono equivalenti né nell’osservazione,
né nel valore loro attribuibile, essendo legati da relazioni non sempre riconducibili ad una semplice e deterministica relazione di causa-effetto.
A titolo esemplificativo sono rintracciabili due casi estremi:
•
nell’approccio anglosassone alla certificazione delle competenze, gli
esiti di un apprendimento sono osservabili al di là del processo che li
ha determinati. L’effettivo livello di possesso delle stesse è quindi
valutato “a prescindere” dalla natura dell’apprendimento, ognuno
dei quali (formale, non formale, informale) assume legittimità nel
concorrere al risultato. Ciò che conta in ultimo è la capacità ragionata di produrre una performance, al di là di come essa sia stata acquisita;
•
nelle pratiche di riconoscimento di un credito formativo è più orientato alla comprensione della significatività dell’apprendimento
avvenuto nei contesti non formali piuttosto che alla valutazione “oggettiva” dei saperi acquisiti. Si tratta di comprendere se vi sono le
basi cognitive per affrontare con ragionevole margine di successo un
percorso di apprendimento formale, in una logica di individualizzazione di accesso e contenuti.
Altro aspetto importante di un dispositivo di messa in trasparenza è la
tipologia di apprendimenti cui questa si rivolge, intendendo con ciò i
contesti di acquisizione ed il conseguente livello di formalizzazione. In
linea generale, i contesti di apprendimento vengono articolati in:
•
•
i contesti formali - formal learning - in cui l’apprendimento si acquisisce all’interno di un contesto organizzato e strutturato (istruzione
formale, formazione in azienda, etc.), tradizionalmente designato
come vero e proprio apprendimento può portare ad un riconoscimento formale (diploma, qualifica, …);
i contesti non formali, articolati in:
non formal learning, in cui l’apprendimento deriva da attività pianificate che contengono importanti elementi di apprendimento (p.e.
esperienza di lavoro);
• informal learning, in cui l’apprendimento deriva dall’esperienza, dalle attività della vita quotidiana.
•
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 21
Il tema della legittima pluralità dei contesti di apprendimento è stato
oggetto di riflessione e di iniziative, a livello europeo e non solo, da almeno un decennio. A differenti livelli, dalle singole aziende alle istituzioni, sono state prese diverse iniziative per individuare metodologie e
soggetti che facilitino l’identificazione, la valutazione e il riconoscimento degli apprendimenti acquisiti al di fuori di contesti educativi e formativi formali. D’altra parte, pur essendo la crescita di formazione specialistica e istituzionalizzata una delle caratteristiche maggiormente significative delle società europee attuali, si registra un crescente interesse nei
riguardi dell’apprendimento realizzato al di fuori dei percorsi di istruzione formale e degli ambiti di formazione. Ne consegue che i nuovi
modelli di trasparenza, riconoscimento e certificazione nel panorama
europeo arrivano ad enfatizzare i percorsi alternativi per acquisire conoscenze: la formazione sul lavoro, nel tempo libero e/o nella vita privata. In tali modelli la valutazione verte quindi sulle competenze acquisite indipendentemente da metodo e contesto di acquisizione. Accanto
a ciò la crescente importanza del lifelong learning comporta un’attenzione
sempre più forte alle inter-connessioni tra le diverse forme di apprendimento, in differenti aree e in differenti momenti dell’esistenza. In sintesi, l’attuale ricerca di strumenti per “misurare” il possesso di competenze pone l’accento più sulla capacità dell’individuo di mobilitare i propri
apprendimenti che sul modo in cui essi sono avvenuti, sfociando su tale
direzione in nuove forme di riconoscimento, in particolare per
informal/non formal learning. A ciò si aggiunge l’esigenza di considerare
metodi alternativi per l’accesso alle competenze, sviluppando collegamenti tra momenti e contesti diversi di apprendimento nel ciclo di vita
dell’individuo.
Dal punto di vista delle modalità di rappresentazione del “testo”, i dispositivi di messa in trasparenza possono essere suddivisi in:
•
descrittivi, intesi come disponibilità di informazioni “ricche” dal
punto di vista del significato, ma come tali onerose dal punto di vista dell’accesso;
•
classificatori, intesi come attribuzione delle informazioni a una/più
categorie tipologiche, con indubbi vantaggi dal punto di vista di accessibilità, ma al contempo riduzione/appiattimento ad un riferimento medio del loro significato.
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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Premessi i due elementi sopra delineati – livello di condivisione e di
rappresentazione – sembra utile illustrare i risultati di tali relazioni nel
piano sottostante in cui esito dell’intersezione sono le possibili modalità
di ‘trasparenza’:
Figura 2.1 – a progressione della rappresentazione degli apprendimenti
di un individuo
Fonte: IRSEA, 2003.
Il vettore della figura rende chiarezza della continuità esistente tra le diverse modalità di rappresentazione. I sistemi di trasparenza, da un livello prettamente individuale e poco (“CV”) o per niente (“narrazione
biografica libera”) strutturato, passano ad una organizzazione e possibile condivisione sociale sempre maggiore (dalla “biografia cognitiva
strutturata” alla “biografia cognitiva trasparente”), fino ad arrivare ad
un vero e proprio standard generalmente condiviso di certificazione
delle competenze (“competenze standard certificate”). Ne consegue
che la trasparenza si distingue da riferimenti più strutturati, in quanto:
•
•
non assume un valore assoluto: essa pone a disposizione dell’insieme dei soggetti interessati (virtualmente dell’intero mercato del lavoro) un set minimo di informazioni “generali” sull’individuo, ovvero non specificamente legate ad un contesto d’uso;
non definisce/vincola nessuno degli attori interessati alla transazione rispetto ad un valore di scambio: differentemente dalla
certificazione, essa non “garantisce” sulla verità di ciò che pone in
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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più facile vista. Essa fornisce informazioni più accessibili e meno
ambigue, lasciando ad ognuno il compito di attribuire ad esse – funzionalmente alle proprie esigenze e credenze – il valore ritenuto più
opportuno;
•
è basata sulla condivisione da parte degli interessati di un protocollo di metodo (invece che di contenuto): vi è cioè accordo linguistico sul significato di un certo insieme di indicatori/variabili descrittive e fiducia “limitata” nella correttezza con cui ogni attore ha
svolto il suo ruolo (come l’individuo ha redatto il suo CV, come il
servizio per l’impiego o l’agenzia di lavoro temporaneo hanno condotto il processo di messa in trasparenza, …).
Mettere in trasparenza non significa fare un assessment, non essendo una
valutazione basata sull’esame di evidenze oggettive, o sulla somministrazione di test e prove. Mettere in trasparenza non è neppure necessariamente fare un bilancio delle competenze, inteso come strumento di orientamento, motivazione e supporto all’individuo per la costruzione del
proprio progetto ‘di vita’ - formativo e/o professionale - potendo invece essere uno strumento di sostegno al “recupero” delle esperienze del
soggetto. Può divenire quindi un importante riferimento metodologico
laddove il soggetto esprima difficoltà di analisi della propria esperienza
ed emergano evidenze altamente frammentate e/o ampiamente caratterizzate da contesti di apprendimenti non formali (ne possono essere un
esempio i soggetti in condizione di svantaggio).
La messa in trasparenza va rivolta in primo luogo al soggetto stesso
dell’apprendimento, in funzione della miglior auto comprensione, “riacquisizione” valoriale, del significato cognitivo di quanto vissuto,
letto nella sua usabilità come risorsa di identità e di scambio verso il
mercato del lavoro ed il sistema dell’education. L’obiettivo è una diversa
rappresentazione del valore dell’esperienza, anche in presenza di percorsi interrotti o discontinui.
La messa in trasparenza è altresì rivolta alla rappresentazione verso
terzi del valore cognitivo proprio del soggetto, secondo modalità
coerenti con il tipo di scambio atteso/auspicato verso il mercato del lavoro e/o il sistema dell’education. L’obiettivo è la riduzione delle barriere
di accesso, agendo su tre fattori:
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 24
Tutto ciò richiede di strutturare un percorso “circolare aperto” che
metta al centro l’individuo in una prospettiva di rafforzamento della sua
possibilità di accesso. Un approccio di natura doppiamente transattiva
(fra l’individuo e se stesso; fra l’individuo e ed i soggetti di interesse ai
fini dell’occupabilità), mediato da un dispositivo (metodi, strumenti,
operatori) riconoscibile ed affidabile.
2.3 Alcuni aspetti di metodo: narrazione e rappresentazione
Il modello generale di riferimento è mostrato in figura 2.2, e disegna
una progressione in uno spazio definito da due dimensioni:
- la natura del sapere posto in evidenza, da una originaria dimensione
tacita ad una progressivamente più esplicita, virtualmente rivolta ad
una, finale, di natura codificata;
Implicito
Memoria (selettiva)
dei processi di
apprendimento
Acquisizione delle
evidenze biografiche
Lettura delle evidenze
biografiche
(Auto)rappresentazione
della propria esperienza in
termini di eventi biografici
Narrazione biografica degli
eventi auto valutati
significativi dal punto di
vista cognitivo
Esplicito
•
Figura 2.2 – La trasparenza dalla narrazione “per sé” alla rappresentazione “per gli altri”
LIVELLO DI RAPPRESENTAZIONE
•
la manifestazione del valore attuale e potenziale dell’individuo, come
grado di partecipazione ai processi (produttivi; educativo-formativi)
derivante dalle acquisizioni cognitive avvenute e possibili;
la referenziazione del valore sopra espresso, attraverso la “dimostrazione” dei nessi causali con le esperienze di cui la sua biografia si
compone;
la riduzione del costo di transazione associato all’esame, da parte
dell’impresa o del soggetto educativo-formativo, del curriculum vitae/della biografia cognitiva dell’individuo. Si tratta di giungere ad
un “documento di trasparenza” che contenga informazioni referenziate, coerenti con il tipo di ambito d’uso cui sono rivolte e facilmente comprensibili da parte di chi le esamina.
ORALITA’
Rappresentazione
in trasparenza del curriculum
Redazione del CV biografico
cognitivo, sulla base di un criterio di
rilevanza delle singole evidenze
Messa in trasparenza delle
evidenze in termini di saperi
e caratteristiche cognitive
Codificato
•
SCRITTURA E RESTITUZIONE
Individuo
Società
RIFERIMENTO DELLA COMUNICAZIONE
Fonte: IRSEA, 2003
La prima abbraccia due distinti processi di rappresentazione: quello che
il soggetto svolge per sé rispetto alla propria esperienza e quello di esteriorizzazione in linguaggio esplicito del risultato, rivolto a comunicare
con gli altri. In generale vi sono alcune problematiche:
•
la capacità di rievocare a se stesso il proprio vissuto, attribuendogli
una significazione (un valore) anche in presenza di esperienze dotate
di una connotazione (personale o sociale) negativa. Processo non
neutro né scontato, che vede presenti effetti di selezione e rimozione, come di rimemorazione dolorosa e come tale di indisponibilità
alla successiva fase di narrazione a terzi;
•
In tale spazio sono messe in evidenza ed in relazione due grandi modalità di rappresentazione proprie dell’agire umano: l’oralità e la scrittura.
la capacità di dare senso alla propria storia (coerenza e verosimiglianza) attraverso il recupero delle diverse esperienze, anche frammentarie, quale modello interpretativo della realtà;
•
la capacità di “dare parole” alla porzione di vissuto rievocato che
l’individuo decide di voler comunicare oralmente, che sconta tanto
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
- la natura del destinatario della rappresentazione, da una dimensione
individuale (rappresentare a se stesso il proprio vissuto) ad una collettiva (rappresentare per gli altri, in ragione del tipo di scambi ricercati o attesi).
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problemi di ricchezza e proprietà di linguaggio (coerenza fra codice
del parlante e codice dell’ascoltatore) quanto – più profondamente
– di possibilità effettiva di rappresentare in modo esplicito saperi di
ordine tacito.
Il secondo passaggio critico è la “traduzione” dell’oralità in scrittura,
ovvero la fissazione – all’esterno di un individuo e di una relazione diretta e partecipata – di una memoria sintetica e portatrice di posizionamento sociale. Anche in questo caso possono essere poste in evidenza
diverse problematiche che, rispetto al contesto d’uso del modello, vengono qui ridotte a due:
•
•
la redazione di un curriculum vitae, inteso come sintesi cronografica
per tappe e acquisizioni essenziali della propria biografia, ancora in
assenza di una esplicita attribuzione di valore ai singoli elementi
esposti;
la successiva messa in evidenza del valore attribuito agli elementi, in
una logica orientata assai più dalle ipotetiche caratteristiche del lettore che da quelle del redattore.
Se, come detto, mettere in trasparenza significa dare una rappresentazione abbastanza formale di apprendimenti derivati da diversi contesti un fatto, un’esperienza, un esito di un complessivo insieme di processi
cognitivi - al soggetto è richiesto di essere in grado di ri-leggere la propria storia di vita per poter ri-costruire la propria biografia cognitiva. Il
che implica un atto di riflessione sulle esperienze di vita (formal, non formal, informal learning) che, all’interno di una nuova cornice di significato,
sviluppa in modo coerente la storia degli apprendimenti stessi, divenendo narrazione. Ne consegue che le esperienze di apprendimento (intese
come evidenze biografiche) devono ripercorrere tre momenti:
•
•
•
essere ri-trovate ed identificate all’interno della storia del soggetto;
essere recuperate nel loro significato e valore d’uso al fine di costruire una biografia cognitiva “sistemica” del soggetto;
trovare una modalità di rappresentazione che ne faciliti la comprensione da parte di terzi, alla ricerca di un equilibrio fra il descrivere ed
il classificare le proprie esperienze.
La narrazione è il metodo di raccolta delle informazioni per la costruzione della biografia cognitiva del soggetto. La fase di acquisizione delle
evidenze biografiche si sostanzia in un momento di raccolta delle informazioni attraverso un colloquio (più o meno strutturato, come si vedrà
in seguito) tra soggetto ed operatore. Si intende con ciò una relazione
interpersonale caratterizzata dall’incontro tra due persone, un processo
di osservazione partecipante a due, da cui nascono una serie di implicazioni che cambiano a fondo molti atteggiamenti comunemente assunti
da chi fa colloqui senza una formazione specifica. Il colloquio consente
quindi, anche attraverso metodi/tecniche e strumenti ad hoc, di raccogliere tutte le informazioni necessarie per riflettere e ragionare successivamente.
I tre momenti sopra accennati (il passaggio da un livello “tacito” alla
modalità orale e da questa ad una rappresentazione scritta strutturata)
non vanno dati per scontati, ma necessitano spesso di un supporto da
parte di un attore esterno. Tale momento di condivisione serve per negoziare/ri-negoziare il significato della propria storia cognitiva. D’altra
parte, il linguaggio è lo strumento più potente con cui organizziamo l’esperienza e con cui costruiamo la “realtà” delle cose; la piena
espressione dell’attività mentale umana dipende dal suo legame con
l’apparato di strumenti culturali, segno distintivo delle capacità umane.
I modelli – i mondi – che guidano ogni giorno l’individuo nelle transazioni con gli altri esseri umani sono costruiti in modi alquanto diversi: è
con l’esperienza che essi si specializzano e si generalizzano derivando
dalla cultura di riferimento. Essi guidano la percezione, il pensiero e
l’agire comunicativo. Il linguaggio quindi non si limita a trasmettere, ma
crea/costruisce la conoscenza della realtà. La duplice natura del linguaggio si esplica allora nella doppia funzione di mezzo di comunicazione e di strumento di rappresentazione del mondo, su cui peraltro
verte la comunicazione. Ne deriva un’implicazione immediata per il nostro modello di messa in trasparenza: il modo in cui uno parla finisce
per diventare il modo in cui rappresenta ciò di cui parla. Il linguaggio è un agente che modifica i poteri del pensiero dandogli dei mezzi
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
All’interno dello “scrivere di sé per gli altri” vi è dunque una progressione che non interessa tanto il grado di approfondimento del vissuto
(più tipica della fase orale), quanto l’estensione e l’adattamento del codice con cui esso è rappresentato. Il che appare particolarmente legato
al grado di istruzione e cultura del soggetto interessato, ponendosi
come potenziale fattore di discriminazione.
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nuovi per spiegare il mondo e divenendo allo stesso tempo il depositario di nuovi pensieri via via che vengono “messi a punto”. In sintesi il
linguaggio è un modo per mettere ordine tra i propri pensieri riguardanti la realtà ed il pensiero stesso diventa un modo di organizzare la percezione e l’azione.
La modalità di raccolta delle informazioni del soggetto (che chiameremo colloquio guidato1) deve dunque essere orientata da princìpi quali:
•
l’importanza di “pensare per storie” e della narrazione, nel rispetto
delle diverse ottiche personali e della pluralità di prospettive, per recuperare la biografia cognitiva del soggetto all’interno di un processo di costruzione di senso delle esperienze dell’individuo;
•
la specificità delle tecniche non direttive nel colloquio, in particolare
e dell’importanza data alla relazione che si instaura con il soggetto,
quale medium all’interno del quale le informazioni vengono raccolte” e “come fonte stessa di informazioni”;
•
il porre le domande in modo da “acquisire informazioni” che siano
“facilmente codificabili” mediante tecniche non direttive, lasciando
spazio al soggetto per raccontarsi, con una particolare attenzione all’esplorazione del mondo della vita quotidiana;
La riflessione sulle proprie conoscenze si esplica proprio nella capacità
di prendere le distanze da ciò che si sa: è proprio l’auto-consapevolezza che consente al soggetto di porre un’attenzione riflessiva e introspettiva verso la propria esperienza.
•
il ruolo attivo del soggetto nel recupero delle proprie esperienze di
apprendimento;
•
la focalizzazione sul soggetto come portatore di risorse di cui può
avere scarsa consapevolezza ed a cui viene dato un ruolo attivo;
Ai fini del metodo da utilizzare, si sottolineano due tipi di funzionamento cognitivo, due modi di pensare complementari, ognuno dei quali
fornisce un proprio metodo particolare di ordinamento dell’esperienza
e di costruzione della realtà:
•
la necessità di non considerare il soggetto “staticamente”, ma in
continua evoluzione (sia rispetto agli apprendimenti che ai processi
cognitivi);
•
il ruolo di supporto flessibile che assume l’operatore rispetto all’attivazione dei processi cognitivi del soggetto e non di sua sostituzione;
•
la considerazione che i contesti formativi qualificanti non sono limitati alla formazione iniziale, ma l’individuo è in grado di apprendere
lungo tutto l’arco della vita;
•
l’attenzione alle esperienze cognitive del soggetto, siano esse legate a
contesti di lavoro, formativi e di vita “sociale”, per identificare gli
apprendimenti sviluppati nel corso della vita.
Nel dare importanza alla pluralità dei linguaggi, alla varietà di versioni e
visioni si sottolinea l’esistenza di “alcuni processi che riguardano da vicino il
fabbricare mondi”, tra cui il comporre e lo scomporre, il dare o meno rilevanza, il costruire ordinamenti ad esempio di natura gerarchica, sopprimere materiali vecchi e immetterne di nuovi, creare nuove forme, deformare. Una mente che è essa stessa uno strumento per la produzione
di mondi: le idee, la conoscenza, l’informazione – trasmissibili tramite il
linguaggio – si rivelano costruzioni che ogni individuo deve astrarre (o
costruire) dalla propria esperienza.
-
il pensiero paradigmatico/argomentativo (organizzato attorno al
principio della veridicità);
il pensiero narrativo (organizzato attorno al principio della verosimiglianza).
In sintesi, la diverse ed integrate, prospettive sopra delineate portano ad
individuare la narrazione quale processo di costruzione di senso che
chiede di essere messo in parola, riconosciuto e raccontato per divenire
poi condivisibile attraverso una rappresentazione formale e codificata
della biografia cognitiva individuale.
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 29
Il termine colloquio deriva dal verbo latino “colloqui” che significa “parlare con”,
“parlare insieme”. Il colloquio è “un particolare tipo di strumento caratterizzato da uno
scambio verbale in una situazione dinamica di interazione psichica che permetta lo svilupparsi di un
processo di conoscenza. Per raggiungere tale obiettivo ci si basa sul consenso, tra conduttore e
partecipante, a discutere, parlare, trattare insieme un tema o un argomento”.
1
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 30
L’incontro con un soggetto esterno serve dunque a mettere in ordine le
proprie esperienze, a dare loro un senso rispetto alla possibile frammentazione dei contesti di apprendimento.
La rappresentazione finale del processo di messa in trasparenza corrisponde alla redazione di un “testo” rivolto a soggetti esterni, oltre che
all’individuo stesso, chiamato ad assumerlo – nei limiti della sua propria
volontà – ed ad agirlo. Alla finalità di mettere in valore gli apprendimenti avvenuti corrispondono tre funzioni comunicative di cui è necessario garantire il presidio:
•
l’esposizione degli acquis cognitivi (cosa l’individuo “vale” in ragione del sapere posseduto), fattore primo di attenzione da parte del
lettore;
•
la creazione di un contesto di giustificazione (perché, sulla base
di quale ragionamento gli acquis sono affermati; quale rapporto causale è stato istituito fra di essi e le esperienze svolte), che corrisponde allo schema di analisi ed attribuzione di valore;
•
la referenziazione delle singole esperienze (sulla base di quali
elementi le dichiarazioni rese dal soggetto, in fase narrativa, sono da
considerare attendibili), risposta ad un problema di verità.
Ciò, al contempo, soddisfacendo l’esigenza di minimizzazione dei costi
di transazione, attraverso una ridotta dimensione ed un buona leggibilità del testo, anche e soprattutto da parte di soggetti che non hanno
competenze tecniche di osservazione di individui.
2.4 Approfondimento: la trasparenza “per sé” ed il bilancio delle
competenze
In generale, il bilancio è un processo di analisi delle “caratteristiche”
professionali e personali (competenze, attitudini, motivazioni, etc.), che
permette a un lavoratore (o in generale a un individuo) di definire un
progetto professionale e/o formativo. Il bilancio di competenze è sostanzialmente una pratica privata di auto-valutazione assistita, i cui esiti
non costituiscono e non concorrono alla certificazione, e che risponde
ad una logica di “inventario” di alcune caratteristiche (criticità e risorse)
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 31
messe in atto dall’individuo nel corso della propria esperienza. L’obiettivo del bilancio di competenze è rispondere ad una domanda individuale di informazione su di sé, domanda motivata dalla volontà di fare
il punto e dal desiderio/necessità di gestire la propria carriera o la strategia di accesso al lavoro.
Il bilancio nasce in Canada e si sviluppa principalmente in Francia da
metà degli anni ’80, dove è stato regolamentato per legge all’inizio degli
anni ’902. Il bilan, quale parte integrante delle azioni di formazione continua, è definito e promosso sulla base di un patto sociale tra poteri
pubblici e parti sociali, prevalentemente a fronte di esigenze di riconversione degli occupati. In Francia si sostanzia nell’Accordo interprofessionale (3 luglio 1991) che, dando avvio allo sviluppo di un insieme
di disposizioni legislative e regolamentari, definisce il ruolo di questo
nuovo strumento per la gestione di carriere e progetti professionali individuali, identificando allo stesso tempo le condizioni di utilizzo nell’ambito del piano di formazione in impresa.
In Italia, la riflessione sul bilancio delle competenze inizia a diffondersi
negli anni ‘90 con l'attività dell'Associazione francese Retravailler3, subendo fino ad oggi profonde trasformazioni. Inizialmente utilizzato
con donne adulte disoccupate e successivamente giovani disoccupati,
ha avuto sostanzialmente finalità orientative, pur mantenendo la denominazione iniziale di “bilancio delle competenze”, simbolicamente
molto rilevante. Ciò ha spesso portato ad ambiguità d’uso di tale “tecnologia”, enfatizzata anche dall’utilizzo di modalità e strumenti di analisi molto diversificati, non esistendo in Italia norme definitorie e modalità accreditamento/controllo dei soggetti che lo erogano.
Gli elementi cardine del bilancio di competenze nella sua versione francese sono:
•
la finalità, “il bilancio deve permettere ai lavoratori di analizzare le proprie
competenze professionali ed individuali, come le potenzialità mobilizzabili nel
quadro di un progetto professionale o di formazione”;
2
Legge francese n.900-2 du Code du Travail, 31 dicembre 1991; Decreto di ottobre 1992.
3
L'Associazione Retravailler, nata nel ‘73 in Francia per facilitare il reinserimento lavorativo di donne adulte,
si è diffusa successivamente in molti Paesi europei tra cui l’Italia (CORA) ed in particolare in alcune regioni
tra cui l’Emilia Romagna.
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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•
l’oggetto, “permettere ai lavoratori di analizzare le proprie competenze professionali e personali, le loro attitudini e motivazioni al fine di definire un progetto
professionale e [...] un progetto di formazione”;
•
la posizione del beneficiario (lavoratore, ma anche persona in cerca
di occupazione), questi potendo usufruirne a intervalli predeterminati nel corso della propria vita professionale e comunque sempre dietro propria scelta e consenso. Colui che ne beneficia è il solo destinatario dei risultati che ne scaturiscono;
•
le condizioni di realizzazione metodologica e deontologica sia per gli
organismi che erogano un tale servizio che per gli operatori del bilancio di competenze, vincolati dal segreto professionale;
•
il prodotto del bilancio e le sue modalità di utilizzo (nelle diverse
pratiche di bilancio di competenze le sessioni possono strutturarsi
individualmente, in gruppo o alternativamente nei due modi);
•
la durata, che varia a seconda dell’impostazione metodologica del
soggetto erogatore (ad esempio la legge definisce in 24 ore la durata
del congedo di bilancio, l’APEC4 attua sessioni di 5 giorni riprese a
distanza di 3 o 4 mesi per valutare il percorso svolto);
•
le condizioni e gli obblighi degli organismi e delle strutture che erogano questo servizio.
In tale contesto, il bilancio di competenze si configura dunque come diritto del lavoratore/cittadino a perseguire il proprio sviluppo professionale, a migliorare la propria condizione lavorativa o modificarla. E’
considerato patrimonio del singolo che eventualmente può utilizzarne i
risultati per negoziare con il datore di lavoro. Il bilancio viene svolto attraverso una serie di prove e colloqui presso organismi specificamente
riconosciuti (p.e. i CIBC5).
Operativamente il bilancio di competenze si articola in tre fasi:
•
fase preliminare, che consente di definire ed analizzare la natura
dei bisogni del beneficiario, informandolo delle condizioni di svilup-
4
Association pour l’emploi des Cadres, pratica il bilancio di competenze dal 1982, rivolgendosi ai quadri attivi e
con esperienza.
I CIBC - Centres Interinstitutionelles de Bilan des Competences - sono partecipati da imprenditori, sindacati e
Ministero del lavoro. La pratica di bilancio si inserisce così all'interno di un sistema di mobilità negoziato
fra le parti sociali.
5
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
pagina 33
po, dei metodi e delle tecniche utilizzate per la realizzazione del bilancio;
•
fase d’investigazione, che permette al beneficiario tramite un insieme d’informazioni che possono oltrepassare lo stretto quadro professionale di:
• analizzare motivazioni, interessi professionali e personali;
• identificare competenze ed attitudini professionali e personali;
• valutare le conoscenze;
• determinare le possibilità di sviluppo professionale;
•
fase di conclusione, che consente al beneficiario – e solo a lui – di
conoscere i risultati dettagliati dell’investigazione (documento di sintesi), censendo gli ostacoli che possono intervenire nella realizzazione di un progetto professionale e/o formativo e prevedendo i principali step di messa in opera del progetto stesso.
Rispetto alle modalità di utilizzo, nella maggior parte dei casi il bilancio
di competenze è proposto su più moduli distribuiti su un periodo di 1-2
mesi. La sessione ha una durata variabile da 12 a 30 ore (24 ore è la durata massima di un bilancio svolto attraverso congedo retribuito). Tale
variabilità può dipendere, oltre ad impostazioni teoriche diverse, dal livello di studi e di occupazione del beneficiario, dalla sua storia (personale e professionale), dalla situazione in cui si trova rispetto
all’impresa/al lavoro o dall’avanzamento del suo progetto.
Gli strumenti attraverso cui il bilancio è realizzato sono molteplici e variamente utilizzati, l’intervista faccia a faccia presentandosi comunque
come una costante. A titolo esemplificativo vi possono essere:
a. intervista/colloquio:
• di durata variabile a seconda della persona, “consente di ricercare informazioni” facendo emergere aspetti della vita professionale e
personale per una loro valutazione (p.e. il lavoro svolto, le attività sviluppate dentro e fuori la vita professionale, il comportamento, la personalità, le risorse, i “centri d’interesse”);
• generalmente, è supportata da semplici strumenti di auto-valutazione (su interessi, conoscenze, abilità possedute) e da schede
che facilitano la ri-costruzione delle esperienze personali e lavorative;
Dispensa 2. - Dare valore all’esperienza. Rappresentare gli apprendimenti
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•
•
il counseller evidenzia i principali “tratti” individuati, discutendone
con il soggetto;
i momenti individuali possono essere integrati da sessioni di
gruppo;
•
b. studi di caso;
c. test (d’attitudine, di personalità, etc.), strumenti controversi rispetto
alla loro validità scientifica e morale. Di questi si sottolinea il rischio
di violazione della privacy ed il fattore potenzialmente discriminatorio;
d. per l’analisi delle competenze professionali, l’utilizzo di schede di
descrizione di attività/ruoli ricoperti e delle relative competenze
esercitate, accanto a momenti di osservazione in situazione nei quali la persona esegue compiti specifici (nella situazione reale di lavoro o presso una struttura formativa).
I prodotti del bilancio sono articolati in tre oggetti:
• il documento di sintesi, che descrive le circostanze del bilancio, le
competenze e le risorse della persona, i punti di forza e debolezza, le
competenze da sviluppare, gli elementi base del suo progetto
professionale. E’ proprietà esclusiva del lavoratore;
• il progetto professionale, che descrive gli obiettivi di sviluppo
professionale e/o formativo decisi dalla persona, definendo mezzi,
azioni, fasi da intraprendere per raggiungere gli obiettivi individuati;
• il portafoglio di competenze, che descrive l’insieme delle
competenze acquisite dalla persona e le potenzialità sviluppate nel
corso della storia personale e professionale.
In ultimo vi sono alcuni principi alla base del bilan francese che è utile
sottolineare, avendo implicazioni operative non trascurabili:
• deriva da una molteplicità di approcci teorici, in particolare rispetto
ai concetti di competenza ed attitudine, che hanno portato a diversi
modi di “fare”;
• non ha come finalità la valutazione di passato e/o presente ma vuole
essere uno strumento per il progetto professionale futuro;
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•
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•
•
allo stesso tempo, non può essere considerato un pronostico del potenziale, ma unicamente un aiuto alla presa di coscienza da parte del
beneficiario delle alternative, degli scenari possibili nella realizzazione del suo progetto;
non si limita a ciò che è realizzato con il consulente, ma richiede
uno sforzo dell’individuo (p.e. redazione di parti del progetto);
non è definitivo, si attualizza continuamente;
è necessario confrontare il progetto professionale con la realtà del
mercato del lavoro per vederne l’opportunità/la realizzabilità.
2.5 Approfondimento: la trasparenza nel rapporto fra individuo,
sistema educativo e mercato del lavoro: il libretto formativo
del cittadino
Il Libretto Formativo nasce come strumento istituzionale che agevola
la trasparenza e la documentazione delle competenze individuali comunque acquisite ed è utilizzabile nel tempo nei diversi percorsi di apprendimento e carriera. La previsione della realizzazione di un “libretto
formativo” con queste caratteristiche è presente in numerosi provvedimenti normativi nazionali (Accordo Stato-Regioni del 18 febbraio
2000, DM 174/2001 sulla Certificazione delle competenze), nonché in
una serie di iniziative attivate a livello regionale o settoriale negli ultimi
anni.
Il Decreto 276/2003 che attua le disposizioni della Legge 30/2003 in
materia di mercato del lavoro, conferma e integra ciò che era previsto
dai precedenti provvedimenti avviando di fatto il percorso di definizione e condivisione socio-istituzionale del Libretto Formativo definito
qui quale strumento per la registrazione delle “competenze acquisite durante
la formazione in apprendistato, la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione continua svolta durante l’arco della vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle regioni, nonché [del]le competenze acquisite in modo non formale e informale secondo gli indirizzi della Unione Europea in
materia di apprendimento permanente, purché riconosciute e certificate”. Alla definizione del format di Libretto ha provveduto un gruppo di lavoro promosso dal Ministero del Lavoro e composto dai ministeri coinvolti (Ministero del Lavoro e Ministero dell’Istruzione), dalle Regioni e Province
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autonome (coordinate tramite il progetto Interregionale Competenze e
assistite da Tecnostruttura) e dalle Parti sociali. L’ISFOL ha assicurato
l’assistenza tecnica ai lavori del gruppo che si è costituito in aprile 2004.
A Giugno 2005 è stato raggiunto un accordo su:
•
il format del Libretto formativo;
•
un documento tecnico di accompagnamento al format comprensivo
di Linee Guida;
•
l’intesa di avviare un percorso di sperimentazione, gestito in autonomia dalle singole Regioni, con una regia nazionale e con il supporto
e il monitoraggio dell’Isfol.
Nel quadro di questo accordo, il format del Libretto Formativo del Cittadino è stato prima ratificato in sede di Conferenza Stato-Regioni e in
seguito approvato ufficialmente con il Decreto Interministeriale (Ministero del Lavoro e Ministero dell’Istruzione) del 10 ottobre 2005:”Approvazione del modello di libretto formativo del cittadino, ai sensi del
decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, articolo 2, comma 1, lettera i)”
Come ampiamente condiviso, anche in contesti internazionali e comunitari, la possibilità di rendere leggibili e quindi valorizzabili le competenze individuali, al di là di quanto riportato nei titoli tradizionali, rappresenta un elemento cruciale nell’attuale contesto socio-occupazionale
in almeno tre prospettive virtuose:
•
contribuisce allo sviluppo della auto-consapevolezza dell’individuo
circa le proprie risorse e potenzialità sostenendo le scelte e i progetti
di vita;
•
incrementa il valore sociale dell’informazione poiché la pone in una
forma fruibile e riconoscibile da più soggetti in numerosi e diversificati contesti (scuola, formazione, lavoro, volontariato, servizi al cittadino);
•
promuove la concreta prospettiva di riconoscimento istituzionale
delle competenze e dei crediti tra i sistemi educativi e formativi e nel
mercato del lavoro, prospettiva altamente auspicabile a livello nazionale ed europeo, per la quale il Libretto andrebbe associato ad apposite procedure di validazione e certificazione.
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A differenza di strumenti più tradizionali quali il Curriculum Vitae, il
Libretto formativo non è solo un formato condiviso in cui inserire informazioni autodichiarate, bensì assume un valore istituzionale dato
dalla condivisione di “standard di processo” (“come si utilizza il Libretto”) assicurati dalle condizioni, servizi e operatori che ne supportano il
rilascio per conto delle istituzioni nazionali e regionali competenti. Tali
standard di processo potranno in prospettiva essere arricchiti da standard di contenuto ovvero “cosa si registra sul Libretto”, anche in coerenza con il lavoro in corso in questi mesi presso il Tavolo Nazionale
sugli standard professionali, di certificazione e formativi.
Sulla base di questo insieme di potenzialità e di vincoli, la sperimentazione del Libretto Formativo si è avviata concretamente nella seconda
parte del 2006. Si sono candidate in una prima fase 13 Regioni e Province Autonome (Bolzano, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria,
Lombardia, Molise, Piemonte, Sicilia, Toscana, Trento, Valle D’Aosta,
Friuli Venezia Giulia). A fronte di queste prime candidature solo in 8
Regioni vi è stata una effettiva attività di sperimentazione con il coinvolgimento di operatori e beneficiari finali (Bolzano, Friuli Venezia
Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Molise, Toscana, Trento, Valle D’Aosta). A queste otto situazioni sperimentali va aggiunto il Piemonte che
ha lavorato su alcune pre-condizioni di sistema ovvero una ipotesi di
connessione del Libretto con il sistema informativo regionale nonché
ad una specifica normativa per l’accreditamento degli operatori.
L’accordo tra le Regioni candidate prevedeva che le attività sarebbero
state realizzate lungo l’arco di un anno (esteso poi a tutto il 2007), su
numeri relativamente ristretti di operatori e beneficiari (ciò al fine di
mantenere una giusta proporzione sperimentale), con modalità di applicazione differenziate nelle singole Regioni. Tale differenziazione ha di
fatto caratterizzato le 8 effettive sperimentazioni Regionali realizzate
nel biennio 2005/2007 documentate nel presente Rapporto e ha riguardato: tempi, estensione e dimensione delle attività, popolazione di riferimento e soggetti da coinvolgere.
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Figura 2.3 – Processo di sperimentazione del Libretto Formativo del
Cittadino
Fonte: ISFOL, 2008.
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