Di alcuni oggetti nel Marcovaldo e nel Palomar di
Italo Calvino, e loro insensato uso.
Epifanio AJELLO
Università di Salerno
Il segreto è fissare d’ogni oggetto o elemento l’aspetto decisivo,
che è quasi sempre quello che meno si considera abitualmente,
e di costruire intorno ad esso il discorso.
ITALO CALVINO
1. Mi sembra educato presentare brevemente i due libri di cui ci
occuperemo: il Marcovaldo ovvero le stagioni in città e il Palomar di Italo Calvino.
Sono due libri di racconti brevi ; con una esile trama quelli del Marcovaldo,
senza alcun plot quelli del Palomar, costruiti entrambi dintorno ad un unico
personaggio.
La cronistoria editoriale dei due libri è similare ; nascono come articoli su
quotidiani e riviste.1 Il personaggio di Marcovaldo vede la luce sulle pagine
cittadine (Torino) del quotidiano « L’Unità » nel 1952 con il racconto Funghi in
città (28 settembre). Seguono, nel biennio 1952-53, sempre sullo stesso
quotidiano, altri sei racconti : Il piccione comunale, La pietanziera, La cura delle
vespe, Il bosco sull’autostrada, L’aria buona ; altri tre appariranno su vari periodici
(« Il Caffè », Il « Contemporaneo », il « Corriere d’Informazione ») tra il ’54 e il
’57 : Il coniglio velenoso, Un viaggio con le mucche, Luna e Gnac. Unica eccezione :
La panchina, inedita, nata come libretto d’opera e musicata da Sergio Liberovici
nel 1956, per prendere poi il titolo La villeggiatura in panchina nella successiva
edizione del 1963. Queste prime dieci novelle verranno raccolte e pubblicate in
una sezione dei Racconti (1958).
Dopo 5 anni di silenzio riapparirà il personaggio di Marcovaldo sul «
Corriere dei piccoli », nel 1963, nei racconti : Marcovaldo al supermarket, La
Per una ricognizione bibliografica completa sugli scritti di Calvino cfr.
Italo Calvino, Pisa, Edizioni della Normale, 2007.
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LUCA BARANELLI,
Bibliografia di
pioggia e le foglie, La fermata sbagliata, Fumo, vento e bolle di sapone, Dov’è più
azzurro il fiume, La città smarrita nella neve (20 ottobre 1963 – 8 dicembre 1963).
Nello stesso anno Calvino raccoglie in volume col titolo Marcovaldo ovvero le
stagioni in città, edito nella collana Libri per ragazzi di Einaudi, con i disegni di
Sergio Tofano, i complessivi venti racconti di cui faranno parte gli inediti Un
sabato di sole, sabbia e sonno, La città tutta per lui, Il giardino dei gatti ostinati, I figli
di Babbo Natale. Nel 1966, sempre per Einaudi, nella collana Letture per la scuola
media, nasce un’edizione presentata e annotata dall’autore. Nel 1969 la raccolta
apparirà nella collana einaudiana di narrativa « per adulti » dei Coralli (1969) e
successivamente nei Nuovi Coralli (1973).
Molto più complessa la genealogia del Palomar che è pubblicato nel
novembre 1983. Ufficialmente, i suoi testi vengono alla luce sulla terza pagina
del « Corriere della sera » il 1° agosto 1975 con l’articolo dal titolo La corsa delle
giraffe (cui seguono due brani : Del mordersi la lingua e Le brave persone)
preceduto da un trafiletto di presentazione ai lettori :
« Nasce un nuovo personaggio : il signor Palomar. Forse
dandogli il nome di un famoso osservatorio astronomico Italo
Calvino ha voluto significare che la realtà contemporanea, la
natura e gli atteggiamenti umani sono guardati come da un
lontano attento telescopio ».
Muoverà da qui, come affermerà lo stesso autore, una « esperienza »
palomariana, una sorta di « cadenza dello sguardo » che si diffonderà, en plein
air o in maniera anfibia, nei testi successivi, fino alla improvvisa scomparsa
dello scrittore (1985). Da mettere nel novero è anche qualche evidente
anticipazione cronologica del personaggio come l’articolo, apparso il 25 giugno
1974, sempre sul « Corriere della sera », Collezione di sabbia (1984), che darà il
titolo omonimo ad una raccolta di saggi, e dove confluiranno alcuni testi di
viaggi (palomariani) in Giappone e Messico. Saranno poi diciotto i « pezzi »
(computo soltanto i titoli degli articoli che contemplano anche più brani)
pubblicati sul quotidiano milanese, dal primo agosto 1975 fino al 28 agosto del
1977 (ma non tutti saranno raccolti nel volume omonimo, ma soltanto dieci).
Bisognerà attendere il 16 maggio del 1980 per veder riapparire il nostro
protagonista ufficialmente su un’altra testata giornalistica, « la Repubblica »,
nell’articolo Visita ad un gorilla albino. Sul quotidiano romano saranno
pubblicati, successivamente, sei articoli fino all’ultimo, Per non sprecare le stelle,
pubblicato il 25 agosto 1983 (in volume, con il titolo La contemplazione delle
stelle), mentre Il mondo che guarda il mondo apparirà in Francia su rivista.2 Gli
ultimi undici pezzi che completano la raccolta sono inediti (scritti, secondo la
2
Le monde regarde le monde, « Cnac Magazine », luglio-agosto, 1982.
2
data di composizione, tra il 7 dicembre 1982 e il 13 settembre 1983).3 Il libro si
compone di 27 racconti.
2. É evidente che i due personaggi non nascono dalle stesse spoglie, che
più di dieci sono gli anni che li dividono, né si somigliano, tante sono le
differenze di comportamento, ma anche fisiognomiche. Marcovaldo è
scomposto (mai grossolano), il Signor Palomar è flessuoso, esile. Marcovaldo è
pieno d’iniziative, d’inventiva, ha qualcosa del clown, imbastisce gag, mentre
Palomar è sedentario, serio, riflessivo, con un sottile humour alla Buster Keaton.
La scenografia in cui agisce Palomar è beckettiana, quella di Marcovaldo
ricorda Zavattini.4 Là tutto è felpato, silenzioso, chiaro, qui tutto rumoroso,
chiacchierato, movimentato. Eppure, non un tratto genetico, ma un’aria, un
gioco di mosaico, qualche frammento sembra combaciare tra l’uno e l’altro.
Marcovaldo e Palomar hanno, infatti, in comune tratti di carattere : sono
laconici, solitari, ma immaginosi e talvolta ingenui, puntigliosi, allegri, ma di
un’allegria malinconica.5 E sono ostinati, dimenticano presto le sconfitte,
ricominciano ogni cosa daccapo nella vignetta successiva, cocciuti come se nulla
fosse accaduto, mentre le vicende vengono via frettolose da un’osservazione o
da un’idea e terminano tutte in danneggiamenti.6 Persistenza della specie ?
3. Ma, ad assumere una funzione di tramite in questa possibile porta
girevole tra i due libri, sono anche gli oggetti, o meglio l’uso particolare che ne
fanno i Nostri. Alcune cose si caricano di un ruolo fondamentale, di un
particolare valore d’uso, non certo di scambio, dal momento che i protagonisti
non ne ricavano nulla di pratico, anzi le adoperano con un fare perplesso
quanto interrogativo.
In letteratura, ci sono varie tipologie e funzioni degli oggetti. Vi si può
costruire interamente un racconto come ha fatto Gogol col Cappotto, Poe con La
lettera rubata, oppure Goldoni un’intera commedia con Il ventaglio. Inoltre gli
Per una dettagliata cronistoria di Palomar, cfr. le note relative in ITALO CALVINO, Romanzi e racconti,
edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, tomo II, pp.
1402-1436 ; e F. SERRA, Calvino e il pulviscolo di Palomar, Firenze, Le Lettere, 1996.
4 Calvino scriverà di Zavattini a proposito del brano Biciclette in Emilia: « La strada è una miniera
inesauribile per chi usa la penna come una macchina fotografica e cerca di fissare sulla carta le cose che
vede […]. E sono proprio le cose che abbiamo sempre sotto gli occhi le più difficili da “ vedere ”
veramente […] », in I. CALVINO, G. B. SALINARI, La lettura. Antologia per la scuola media, a cura di G. Salinari,
con la collaborazione di M. D’Angioini, M. Insolera, M. Penati, I. Violante, Zanichelli, Bologna, 1969, vol I,
p. 403.
5 Per questi aspetti, mi si permetta rinviare a E . AJELLO , Marcovaldo e Palomar o dell’ « ottava funzione », in
Studi sulla letteratura italiana della modernità. Per Angelo R. Pupino, a cura di E. Candela, Napoli, 2009, vol.
III, pp. 375-392.
6 Per un’analisi complessiva del Marcovaldo vedi MARIA CORTI, Testi o macrotesto ? I racconti di Marcovaldo, in
«Strumenti critici», 27, 1975, pp. 182-197 ; poi in Id., Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche,
Torino, Einaudi, 1997, pp. 185-200.
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oggetti possono risultare utili, come, ad esempio, per salvarsi da un naufragio,
se li si recupera uno ad uno com’è riuscito di fare a Robinson Crosue. Oppure, li
si possono mettere in fila a pavoneggiarsi in prosa come splendidamente ha
fatto Flaubert, e, non da meno, disponendole in bell’ordine, D’Annunzio nel
suo Piacere ; oppure a impiantare una intera poetica come ha fatto, a suo tempo,
Robbe Grillet, per tacere di Francis Ponge, di George Perec.
Vi sono poi oggetti di per sé naturalmente allegorici oppure metaforici,
ad esempio : lo specchio, la fotografia, il quadro (pensiamo a Oscar Wilde), con
i quali un tavolino non oserebbe mai misurarsi per capacità di narrazione (ma
forse c’è riuscito Alberto Savinio, ma prima ancora Giambattista Basile col suo
Cunto de li cunti). Poi ci sono quelli del tutto dimessi (la maggioranza), ma molto
utili per la consegna ricevuta di funzionare come « effetti del reale » (Roland
Barthes). Sono gli oggetti che nel leggerli non ci si accorge nemmeno che stanno
lì, si perdono nella lettura, si danno per scontati, non ci fanno immaginare, ma
se non comparissero di tanto in tanto nei romanzi o nei racconti, questi non
potrebbero sussistere a lungo, essere considerati « veri », nemmeno il Pinocchio.
Ma non è il caso dei nostri oggetti che non sono da stipare in neutre
collezioni, ma chiamati soltanto ad impervi esercizi escatologici, nel caso del
Signor Palomar soprattutto, che tende a farsi cosa e a prenderne le funzioni :
« […] ogni uomo è uomo-più-cose, è uomo in quanto si
riconosce in un numero di cose, riconosce l’umano investito di
cose, il se stesso che ha preso forma dicose » ;7
e quindi ad immedesimarsi in essi « come se l’uomo uscisse da se stesso per
provare com’è essere cosa ».8
Ma anche Marcovaldo usa gli oggetti in maniera impropria (Il piccione
comunale), li confonde (La fermata sbagliata), s’impelaga con essi (La città smarrita
sotto la neve) e ne scaturisce un comportamento non ordinario (anche figurato
come il suo incedere a zig zag).
4. Ho preparato questo mio lavoro mediante un evidenziatore giallo. Ho
spennellato nei due libri di Italo Calvino pazientemente tutti i lemmi che si
riferiscono ad oggetti e ne è venuta fuori la mappa colorata di un catalogo. Gli
oggetti nel Palomar, a contarli, non sono tantissimi, se li confrontiamo
numericamente con quelli che affollano il Marcovaldo. Ma il Palomar è sfogliabile
I . CALVINO , La redenzione degli oggetti [1981], in Saggi 1945-1985, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi,
Milano, Mondadori, 1995, tomo I, pp. 519-524 (p. 523).
8 I . CALVINO , Felici tra le cose, « Corriere della sera », 29 luglio 1979, Ivi col titolo Francis Ponge, pp. 14011407 (p. 1404).
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come un dizionario di voci, mentre nel Marcovaldo è impossibile catalogare la
massa di oggetti.
Dirò subito che non ho trovato in entrambi i testi oggetti desueti, ma
soltanto di consueti, fatti in serie, pratici, alcuni « naturali », però usati in
maniera curiosa e sempre sotto sguardo. Il loro grado di fantasticazione deriva
soltanto dall’uso che ne fanno i protagonisti, quando li usano come strumenti
attraverso cui far passare « il modo in cui gli uomini guardano, giudicano,
commentano, esprimono il mondo ». Ogni oggetto, si sa, è dentro un tempo,
un’economia, un ambiente, e designa (senza volere) il contesto sociale in cui è
poggiato ed anche per come è nominata il tempo che l’ha prodotta (come fa il
racconto La pietanziera, ad esempio, nel Marcovaldo). Nei due libri, comunque, la
descrizione delle cose non va mai più in là di una semplice nominazione (solo,
ancora, la pietanziera è spiegata per come è fatta) ; non sappiamo nulla del loro
design e di come effettivamente si presentano. Le parole che nominano le cose
sono trasparenti e non si curano di dettagliare.
Questi oggetti, dunque, non sono esibizionisti, non sono « pezzi unici »,
ma nemmeno si possono catalogare fra le « nature morte », sebbene siano, ed è
anche il loro ufficio, testimoni di un periodo storico, della fretta dei
cambiamenti, dell’appartenenza culturale, delle condizioni di classe dei
proprietari (Palomar va nelle charcuteries di Parigi, Marcovaldo al «
supermarket »).
5. Gli oggetti si possono suddividere, alla grossa, in due categorie: quelli
che governano una trama come veri protagonisti e quelli che l’addobbano e la
rendono soltanto credibile. A proposito di quest’ultima categoria, nel Palomar è
facile riscontrare oggetti apparentemente privi di rapporto reciproco
costituendo un semplice fondale referenziale al racconto, con una funzione
quasi di cartoncini di un alfabetiere figurato con cui poter comporre
un’immagine :
« barche, un lenzuolo di spugna, un motoscafo, tavole per il
surf, una macchina taglia prato, un telescopio, una lampadina
tascabile, una da 75 watt, occhiali, poltrone, una televisione,
flaconi di vetro, formaggi, un taccuino, una penna, una borsa
della spesa, mannaie, coltellacci, una casa-gabbia, macchine
fotografiche, calzini di lana, scarpe, pantofole ».
Ora questi aggeggi in alcune zone del libro formano proprio – cosa cara
allo scrittore – una collezione, un minimo repertorio o lista di oggetti dissimili.
Li troviamo in tre racconti del Palomar : nella Spada del sole dove sono rinvenuti
5
« sulla riva ; e dove sembrava esserci soltanto arena, ghiaia,
alghe e minutissimi gusci di conchiglie, il ritirarsi dell’acqua ora
rivela un lembo di spiaggia costellato di barattoli, noccioli,
preservativi, pesci morti, bottiglie di plastica, zoccoli rotti,
siringhe, rami neri di morchia » ;
nel racconto Il marmo e il sangue dove stanno in bella mostra gli arnesi del
macellaio, ordinati tematicamente :
« Dietro il banco, i macellai biancovestiti brandiscono le
mannaie dalla lama trapezoidalei coltellacci per affettare e
quelli per scorticare, le seghe per troncare gli ossi, i batticarne
con cui premono i serpeggianti riccioli rosa nell’imbuto della
macchina trituratrice »,
e, per ultimo, in Dal terrazzo, seguendo lo scorrere dello sguardo del signor
Palomar sui tetti delle case di Roma, ecco apparirgli in assoluto disordine
estetico :
« comignoli esili o tarchiati, pergole di cannucce e tettoie di
eternit ondulata, ringhiere, balaustre, pilastrini che reggono
vasi, serbatoi d’acqua in lamiera, abbaini, lucernari di vetro, e
su ogni cosa antenne di televisione, dritte o storte, smaltate o
arrugginite, in modelli di generazioni successive, variamente
ramificate e cornute e schermate, ma tutte magre come scheletri
e inquietanti come totem ».
É una vera e propria vertigine della lista, o, per dirla con Leo Spitzer, una
« enumerazione caotica », che consegna la sensazione dell’acedia, dello « stridio
», ancora una volta del disarmonico, tema nevralgico all’interno del Palomar.
Calvino: « Mi misi a scrivere dei pezzetti con il solo signor Palomar,
personaggio in cerca d’armonia in mezzo a un mondo tutto dilaniamento e
stridori »9. Queste cose nel loro disordinato assieparsi, dunque, figurano una
condizione di assedio, un « dilaniamento » che si percepisce come « male di
vivere » (Montale). Il precario, l’incongruo, l’ineffabile dell’esistere quotidiano,
in debito cozzo visivo e tattile tra natura e artificio, è messo in piazza proprio
da questo repertorio di cose disperse nel testo.
6. Ma, accanto a questi reperti che senza discredito definiamo « comparse
», nel Palomar vi sono anche oggetti « protagonisti » senza i quali il racconto non
si dà, come da prassi annotata da Calvino a proposito delle « cose » di Francis
9
Cfr. I. CALVINO, Romanzi e racconti, II, cit., 1992, p. 1402.
6
Ponge : « Il segreto è fissare ogni oggetto o elemento l’aspetto decisivo, che è
quasi sempre quello che meno si considera abitualmente, e di costruire intorno
ad esso il discorso ».10 Si mettono a cospetto del Signor Palomar così « oggetti
decisivi » per i suoi « discorsi », oppure è lui a cercarli : « devo andare a
guardare le stelle » (La contemplazione delle stelle) oppure chiedono di essere
guardati (La luna di pomeriggio). Sono le « mappe astrali », i « formaggi », le «
carni », un « copertone di pneumatico d’auto », un « paio di pantofole », la «
pancia di un geco » e altri. Sono cose, talvolta in forme antropomorfe, fabbricate
e non, che fanno parte della quotidianità e s’impongono straniate a chi deve
descriverle. Prendono quasi le sembianze di reperti archeologici, staccati dal
contesto, e da usarsi come « spiegazione di noi oggi qui ».11 Quel che ci
vorrebbe far sentire il Signor Palomar è la consistenza, la superficie delle cose, «
che la pietra sia di pietra » (Sklovkij) e che alfine « il segreto è fissare d’ogni
oggetto o elemento l’aspetto decisivo, che è quasi sempre quello che meno si
considera abitualmente, e di costruire intorno ad esso il discorso »,12 e che «
oggetti così e così si ritrovino in quel punto già dice tutto quel che c’era da dire
».13
Questi oggetti essenziali, veri protagonisti, osservati meticolosamente
dallo sguardo pedante di Palomar, dovrebbero offrirsi – nelle intenzioni – in
maniera neutra, esercitare una comunicazione al di la di ogni linguaggio
predefinito o meglio dirsi senza parole e senza modelli che l’ingabbino ;
mostrarsi per come sono, descritti per superfici, più che schiudere qualche
senso segreto dell’esistere o, peggio, farsi promotori di analogie, metafore : « Il
signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal
di fuori » (Il mondo guarda il mondo)14 ; e ribadisce :
« Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che
permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con
discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose
(presenti o assenti) comunicano senza parole ».
Cfr. I . CALVINO , Francis Ponge, in Saggi 1914-1985, I, cit., pp. 1401-1407 (p. 1404).
Cfr. I . CALVINO , Lo sguardo dell’archeologo [1972], in Id., Saggi 1945-1985, cit., pp. 324-327 (p. 326).
12 Cfr. Francis Ponge , Op. cit., p. 1404.
13 Cfr. I . CALVINO , Lo sguardo dell’archeologo [1972], in Id., Saggi 1945-1985, cit., pp. 324-327 (p. 326).
14 « D’ogni cosa Ponge riflette com’è fatta, – scrive Calvino – ci legge dentro come un libro, e alle volte
arriva attraverso l’osservazione di quell’oggetto, a capire qualcosa di più su di sé o sul mondo », in La
lettura. Antologia per la scuola media, cit., pp. 376-381 (p. 364) ; poi in Italo Calvino. Enciclopedia : Arte, scienza e
lettere, a cura di M. BELPOLITI , Riga 9, Milano, Marcos y Marcos, 1995, pp. 88-95 (p. 89). « L’importante,
naturalmente, – come ha scritto Calvino per Ponge – è cogliere l’essenziale : anche gli oggetti, come le
persone, hanno delle caratteristiche che li distinguono da tutti gli altri, e che non sempre sono le prime che
vengono in mente, o quelle che saltano più agli occhi », Ivi, pp. 88-89.
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11
7
Ma l’intento, purtroppo per lui, mostra costantemente crepe, l’esercizio
di vedere le cose « per come sono » spesso gli sfugge, l’accortezza non basta e
l’impresa si rivela complessa, difficile da portare a termine. Molte volte le cose
obbligano a fare qualcosa di non necessario; si divincolano dalla morsa
dell’esattezza del linguaggio e prendono vie insospettabili, avviano discorsi,
come fanno i formaggi del Museo, che si mettono a raccontare al Signor Palomar
i pascoli e i « prati incrostati di sale della Normandia » da dove essi provengono
; o le stelle che accolgono e rispondono soltanto ai nomi inventati ma per loro
più suadenti, a dispetto delle secche didascalie delle mappe astrali (La
contemplazione delle stelle) ; oppure le « rovine di Tula » che fanno confessare a
Palomar che « non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal
pensare » (Serpenti e teschi), o quando una brezza improvvisa disperde
l’esattezza a lungo ricercata nell’osservazione di un’onda (Lettura di un’onda).
Le superfici percettive degli oggetti si aprono, quindi, inaspettatamente,
ad una « rete di analogie », suggeriscono correlazioni, rinvii, diventano «
racconto attraverso un’ossessione di completezza descrittiva ».15 L’esattezza,
pur a fatica mantenuta, si sfrangia, Palomar farfuglia e « il linguaggio delle
cose, tornano a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose »,16
così che non aiutano il loro de-scrittore nell’intento, refrattarie come sono ad
essere “oggettive” e, invece, così dispersive, monelle nelle narrazioni. Da qui il
bofonchiare, il rimuginare ansioso del Signor Palomar che non desiste e le lascia
cadere inservibili dopo averle usate senza successo, per correre nell’avventura
successiva, a cercarne altre, a ricominciare con esse daccapo ad interrogare il «
mondo-non scritto », per « vedere la realtà direttamente, senza più modelli né
diaframmi […], e arrivare alla conoscenza di se stesso », ad una « saggezza »
rincorsa, e sempre sfuggente.17
7. Se può apparire, a primo acchito, paradossale, gli oggetti che troviamo
nel Marcovaldo, almeno alcuni di essi assolvono ad una funzione non del tutto
dissimile da quelli presenti nel Palomar, anche se con evidenti differenze
storiche e di contesto. A chiederci dove stanno nel testo, essi si pongono al
centro della figura e come un rotore svolgono d’intorno le azioni di
Marcovaldo, lo inducono ai gesti più strambi (Il coniglio velenoso), rompono la
monotonia del prevedibile, aprono spazi di divagazioni (La città tutta per lui),
complottano un gioioso comportamento che dà costantemente di cozzo alla
norma del “buon vivere” (Il giardino dei gatti ostinati). Per tanto è impossibile
Cfr. Francis Ponge , Op. cit., p. 1403.
Cfr. I . CALVINO , Lezioni americane, Esattezza, in Id., Saggi 1945-1985, I, cit., p. 693.
17 Cfr. Calvino, l’occhio e il silenzio, intervista di Lietta Tornabuoni a Italo Calvino, in « La Stampa », 25
novembre 1983, p. 3; poi in Italo Calvino. Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli,
introduzione di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2012, pp. 551-554.
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elencare tutta l’oggettistica presente nei racconti, tanto ne sono gremiti, e di
flora e di fauna e di natura, in allegra confusione.
Inoltre, nel Marcovaldo è dato notare una trasmigrazione (e un effetto) di
alcune cose già usate nel Palomar18 : la « luna », « il davanzale sui tetti », « la
città che si apriva di sotto », « la cupola del cielo (…) senza l’invadenza
dell’energia elettrica » ; oppure animali : « stormi », « colombi cittadini », la
gabbia del « coniglio bianco » (che ricorda quella del « gorilla albino »). E ci
chiediamo: casualità nell’usare gli stessi attrezzi o semplice memoria del già
scritto ?
E ancora: se in Palomar le cose sono neghittose a mostrarsi e le parole
devono stanarle, vanno cercate e non saltano subito agli occhi, nel Marcovaldo,
invece, si prendono l’intera pagina e il racconto. Se il Signor Palomar si limita a
stare ad una certa distanza dalle cose, Marcovaldo le tocca, le impiega subito,
quasi se ne abbiglia. Nella scrittura del Marcovaldo senti quasi l’odore delle cose,
in Palomar no. Eppure, se nel Marcovaldo tutto è precario, tutto sembra cedere
all’occasionalità, anche lì le cose servono a far riflettere, sono dei fatti, assumono
un ufficio straniante. Sebbene l’improvvisazione e il gusto dell’avventura
muovono la fabula marcovaldiana assieme alle cose, con più chiasso, maggiore
coinvolgimento che nelle descrizioni asciutte di Palomar, se il magazziniere
della « Sbav » usa le cose diversamente dal perdigiorno Palomar, alla fine il
risultato è lo stesso: un’identica lotta con l’impenetrabilità del senso del mondo
e dei fatti, con la scelta di come guardare e cosa usare, e come agire e cosa
scegliere.
In breve, Marcovaldo, a modo suo, stende anche lui un « diario su
problemi di conoscenza minimali » (Lezioni americane). Ne troviamo una serie
indicativa di tutto il libro, ad inizio del primo racconto : Funghi in città, dove è
riassunto il senso strambo dell’agire del personaggio, cosa sceglie di vedere e
cosa ignorare, e cosa è importante per lui :
L’elenco potrebbe anche pescare all’indietro, come, per fare un esempio e uscire momentaneamente di
traccia, c’è un racconto di Calvino, antecedente al Marcovaldo, Desiderio in novembre (1949) che sembra
racchiudere l’almanacco di alcuni motivi, toni, condizioni che si ritroveranno successivamente
sparpagliati, ma ben situati, nella novella Il bosco sull’autostrada ; e un po’ tutto lo strambo personaggio
principale di Barbagallo sembra anticipare il fantasioso Marcovaldo. Lì, a mo’ di indizio, c’è un oggetto
particolare: una sega. Lo stesso oggetto appare in Desiderio in novembre : « Ai giardini, adocchiando i rari
platani, si videro girare ragazzi spilungoni che scansavano le guardie, e nascondevano seghe dentate sotto
i cappotti rammendati » (in Ultimo viene il corvo, in I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C.
Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Prefazione di J. Starobinski, Milano, Mondadori, tomo I, 1991,
p. 336-343, che è il tema-riassunto (personaggi compresi) di tutto il racconto del Bosco sull’autostrada : «
Alla fine Marcovaldo si decise : – Vado per legna ; chissà che non ne trovi –. Si cacciò quattro o cinque
giornali tra la giacca e la camicia a fare da corazza contro i colpi d’aria, si nascose sotto il cappotto una
lunga sega dentata, e così uscì nella notte […] ».
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[…] cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per
studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo
sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece,
una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che
s’impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai : non c’era
tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola,
buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non
notasse, e non fosse oggetto di ragionamento, scoprendo i
mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie
della sua esistenza.
Anche qui, come nel Palomar, ci s’imbatte in disordinate lunghe liste di
cose diverse, non certo mirabilia, ma semplici frattali resi omogenei dall’unità di
luogo, come, ad esempio, su una spiaggia lungo un fiume :
[…] e materassini, palloni, salvagente, pneumatici di auto,
barche a remi, barche a pagaia, barche a palo, canotti di
gomma, canotti a motore, canotti del servizio salvataggi, jole
della società di canottieri pescatori col tremaglio, pescatori con
la lenza, vecchie con l’ombrello, signorine col cappello di paglia
[…]
E come nel Palomar, ci sono nel Marcovaldo racconti che nascono dintorno
ad un oggetto preciso che spesso assegna il titolo al racconto : una panchina (La
villeggiatura in panchina), una chiatta (Un sabato di sole, sabbia e sonno), una
pietanziera (La pietanziera), una sega (Il bosco sull’autostrada), un’insegna
pubblicitaria (Luna e Gnac), un vaso con una pianta (La pioggia e le foglie), tutte le
merci di un supermercato (Marcovaldo al supermarket), i foglietti azzurri e gialli
di una réclame (Fumo, vento e bolle di sapone), i pacchi dono (I figli di Babbo
Natale). Senza dimenticare che, d’altro lato, lì accanto agli anni del Marcovaldo,
vi sta tutta la progenie dei racconti « ben fatti » del Calvino degli Amori difficili
(1958), dove quasi ogni « avventura » sussiste perché dentro vi è messo un
oggetto protagonista : un costume da bagno, una macchina fotografica, gli
arredi di uno scompartimento ferroviario, un libro, un paio di occhiali, un
canotto, un paio di sci. Dintorno a questi oggetti, ogni personaggio (che sembra
essere sempre lo stesso) costruisce le sue « avventure » animate, in un a tu per tu
con le cose, e che come sarà con maggiore profondità nel Palomar saranno anche
questi oggetti « mentali » che identicamente li accompagneranno nelle sconfitte.
8. Nasce, così, nei due libri, un repertorio di strumenti utilizzando i quali
l’immaginazione scopre nuove maniere di rapportarsi col mondo e in entrarvi
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in forte disarmonia.19 Marcovaldo, come del resto Palomar, è possibile
considerarli « immigrati » nel testo e nel mondo, come sottolinea l’autore per
Marcovaldo (ma può valere per Palomar), e si ritrovano a cincischiare con le
stesse cose: « Da dove egli sia venuto alla città, quale sia l’ « altrove » di cui egli
sente nostalgia, non è detto ; potremmo definirlo un « immigrato » […], e
perché tutti in queste novelle sembrano « immigrati » in un mondo estraneo «
dal quale non si può sfuggire »,20 compresi gli oggetti – aggiungiamo noi.
Le cose, in entrambi i libri, divengono metafore delle relazioni umane,
discoprono l’alienazione che passa per norma. L’oggetto è quasi sempre spoglio
da ogni consuetudine, privato da ogni abitudine, « come visione e non come
riconoscimento » (Sklovskij), perché strambamente utilizzato, distorto, sia nel
linguaggio asettico dell’inquietante pensare di Palomar oppure nell’insensato
fare di Marcovaldo. Ma è sempre preso sul serio. Nel senso di un’assoluta
serietà comportamentale, gli oggetti, nel loro inusitato uso, aiutano la coscienza
dei protagonisti a proporre altri comportamenti, una diversa etica, un diverso
agire. E questo sembra chiudere in cerchio gli interrogativi dubitativi del
Calvino Anni Sessanta, a proposito dell’allora imperante « mare dell’oggettività
» ovvero della poetica di Robbe Grillet, con il « di fuori di quell’invisibile e
inafferrabile dentro » :
« Questo seguito di dati oggettivi che diventano racconto,
svolgimento d’un processo mentale, è necessariamente
l’annullamento della coscienza o non può essere visto
pure come una via per la riaffermazione, per essere certi
di che cosa veramente la coscienza è, di qual è il posto che
occupiamo nella sterminata distesa delle cose ? ».21
Ricordiamo qui la lettera di Italo Calvino alla Maria Corti [16 settembre 1975] a proposito del suo saggio
(M. CORTI, Testi o macrotesto ? I racconti di Marcovaldo, cit., pp. 185-200, dove lo scrittore prova ad estendere,
« se si insiste un po’», 1e « 7 » funzioni narrative individuate dalla semiologa, a tutta la raccolta di
Marcovaldo ovvero anche alle altre otto novelle, annettendo i « due racconti fluviali » alla prima parte, «
sempre che alla categoria di oggetto si dia un senso più largo ». Ma non è soltanto questo l’aspetto più
interessante della lettera. Calvino diluisce la definizione di « esito surreale » assegnato dalla Corti ai finali
dei testi « più “ scritti ” » dei racconti marcovaldiani della II° serie, e che « corregge », così, optando per la
definizione di un « quadro finale visionario, gremito di figure, di allargarsi improvviso del campo visivo a
una panoramica minuziosa che può essere surreale o può non esserlo […] ; direi che mentre nella 1° serie
domina il tipo di finale depressivo, di secco anticlimax, nella 2° s’impone come finale quella che potrebbe
essere vista come un’ 8° funzione un immagine globale di mondo disarmonico, (che tu presenti come felice
in sé, ma che, dopo essere andato a rileggermi gli esempi che citi, io confermerei come tendenzialmente
negativa, da incubo, non da bel sogno) [i corsivi sono dell’autore] » in I. CALVINO, Lettere (1940 – 1985), a
cura di L. Baranelli, Introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 1282.
20 I. C ALVINO , Presentazione e note a cura dell’autore a Marcovaldo ovvero le stagioni in città, Torino, Einaudi,
1966, p. 6.
21 I . CALVINO , Il mare dell’oggettività [1960], in Id., Saggi 1945-1985, I, cit., pp. 52-60 (p. 58).
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Ed è questa, forse, la zona « sterminata di cose » in cui davvero sostano
momentaneamente insieme Marcovaldo e Palomar, senza mai incontrarsi ma
dirimpetto alle stesse cose, a riflettervi sopra o a muoverle in racconto, a fare
coscienza ed esperienza del mondo, e questo accade mentre guardo questi miei
due libri ormai sfigurati e zeppi di tracce di pennarello.
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Di alcuni oggetti nel Marcovaldo e nel Palomar di Italo Calvino, e