di Meola Alessandro, Riccardo Terrenzi, Nicola Labbro Francia & Pietro di Febbo Nel capitolo “Dal Terrazzo”, Palomar scopre di detestare i piccioni in quanto, essendo troppi, sporchi e invadenti, rovinano la bellezza e la pulizia della sua città. Lui ha un diverso modo di vedere il terrazzo rispetto alla moglie; ella infatti voleva dedicarsi alla coltivazione di ogni singola pianta, mentre lui, vittima della sua nevrastenia, è intenzionato solamente a scacciare i piccioni. Successivamente il protagonista osserva il panorama invaso da queste “bestie”, immergendosi in ciò che potrebbe essere la visuale di un uccello. Dalla sua postazione dice di poter osservare gli edifici storici così come quelli popolari accorgendosi che la vista della quale può usufruire dall’alto, è molto più accurata di quella che gli uomini possono avere dal basso. “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”. Da ciò si evince il succo del capitolo: Palomar non apprezza il modo con cui le persone osservano il mondo: secondo lui esse tentano di scoprire cosa c’è all’interno delle situazioni senza conoscere nulla. L’odio che nutre verso i piccioni, simbolo di stereotipo e di monotonia è l’odio verso un’ intera società. Osserviamo quindi un Palomar più scettico del solito, addirittura quasi infuriato nei confronti del mondo Il luogo principale è sicuramente la terrazza dove si verifica l’osservazione da parte di Palomar dei pennuti e dalla quale egli osserva il mondo come lui crede debba essere osservato. Ha quindi un’importanza fondamentale ai fini del contenuto, in quanto permette alla vicenda di svilupparsi; può essere identificato come un ambiente aperto e situato in alto, nel quale sono presenti anche oggetti, quali le piante, che fanno sì che il protagonista osservi i piccioni. In questo capitolo Palomar si ritrova ad osservare il geco, che attaccato alla vetrata, inghiotte di tanto in tanto con la lingua le mosche che passano. Palomar osserva scrupolosamente il corpo curioso dell’animale, in ogni suo particolare, cercando di non farsi sfuggire nulla, e ed è attratto dalla sua instancabilità nel catturare la preda. Palomar è molto più riflessivo che nel primo capitolo. Questa volta unisce all’osservazione anche la riflessione pacata: egli vede nel geco una sorta di macchinario, all’interno del quale gli insetti vengono assorbiti con incredibile precisione. È assuefatto da tanta perfezione e immagina un mondo nel quale tutto è trasparente come la pancia del geco, dove nulla è nascosto ed affiora solo la cruda realtà. Palomar crede che le persone dovrebbero essere come il geco, dovrebbero fare del loro meglio per superare i propri limiti. Il luogo menzionato è il salotto di Palomar che però riveste solamente una funzione di sfondo, non ha nessun significato in particolare. In questo capitolo Palomar si ritrova a fare i conti con i numerosi stormi che invadono la città. Cerca di capire dove essi sono diretti, le loro abitudini di vita, ma ogni giorno ne esce sempre più confuso. Palomar è molto pensieroso in questo capitolo; cerca in tutti i sensi di identificare ogni singolo uccello presente nello storno, con scarsi risultati. Egli identifica in ciò l’incertezza quotidiana di ogni giorno, ostentando le sue solite insicurezze, cercando di darsi risposte a domande troppo difficili. Come se non bastasse contatta gli amici che però sanno meno di lui. Alla fine Palomar ne esce ancor più sconsolato.