agenzia adiconsum • anno 12 - n. 16 • 17 aprile 2000
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1547 - speciale giustizia
Azione inibitoria
e condizioni contrattuali
relative ad un servizio pubblico
I
Il grande interesse e novità della ordinanza
del Tribunale di Palermo induce a delle riflessioni sulle principali tematiche affrontate dal provvedimento cautelare.
1) La giurisdizione dell’A.G.O. in materia
di azione inibitoria ex art. 1469 sexies c.c.
L’art. 1469 sexies c.c. è chiaro nel demandare
l’azione inibitoria alla giurisdizione del Giudice
ordinario. Il primo comma dell’art. 1469 sexies
stabilisce infatti che l’azione deve essere promossa innanzi al “giudice competente”, mentre il secondo comma dello stesso articolo prevede che
l’azione possa essere promossa in via d’urgenza
“ai sensi degli articoli 669-bis e seguenti del codice
di procedura civile” (e pertanto la si sottopone alle
norme del giudizio cautelare innanzi il Giudice
ordinario). E’ quindi evidente che il Giudice competente per l’azione inibitoria è il Giudice ordina-
associazione italiana
difesa consumatori
promossa dalla cisl
rio “a meno che non si voglia pervenire alla conclusione (certamente insostenibile) che la giurisdizione cambi a seconda che una stessa azione
venga esperita in via ordinaria o in via d’urgenza”
(Tribunale di Palermo, Adiconsum - Si.re.mar. S.p.A.,
sentenza n. 326/99 del 3/2/99 in Foro It. 1999, I,
2085). A ciò si aggiunga che l’art. 1469 - bis, II c., c.c.
stabilisce che il professionista (cioè colui nei confronti del quale è esperibile l’azione inibitoria) è
“la persona fisica o giuridica, pubblica o privata,
che nel quadro della sua attività imprenditoriale
.... utilizza il contratto....” (anche sul punto si confronti il provvedimento sopra menzionato). Il legislatore ha pertanto voluto escludere la rilevanza
della natura del soggetto predisponente, per prendere in esame soltanto la caratteristica principale
dei “contratti di massa” e cioè la mancanza di
contrattazione e la conseguente possibile iniquità delle clausole unilateralmente previste.
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• Reg. Tribunale di Roma: n. 350 del
9.06.88 • Sped. abb. post. comma 20/c
art.2 L.662/96 - Filiale di Roma • Stampato in proprio in aprile 2000
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Non appare corretto ritenere che le azioni
inibitorie in materia di condizioni generali di contratto predisposte da un ente che gestisce in
concessione il servizio di acquedotto siano rimesse alla giurisdizione del Giudice Amministrativo in
virtù dell’art. 33 del d. legl. n. 80/98.
La normativa del d. legl. 80/98 (a prescindere
dalle considerazioni che si esporranno in seguito
circa la sua corretta interpretazione) non può derogare la disciplina codicistica dell’art. 1469 sexies
c.c.. Quest’ultimo ha infatti introdotto una nuova
azione collettiva, che presenta caratteristiche peculiari e speciali rispetto agli altri rimedi processuali e quindi, in base ai nostri principi giuridici, l’art.
1469 sexies c.c. non può ritenersi abrogato o
modificato da una legge sì successiva, ma generale.
E tale assunto è confermato dalla circostanza che
anche l’azione inibitoria prevista dall’art. 3 legge 30
luglio 1998 n. 281 (e cioè l’azione inibitoria “generale”, di recente introdotta dal legislatore, non riferita alle clausole contrattuali vessatorie, ma volta a
inibire “atti e comportamenti lesivi degli interessi
dei consumatori e degli utenti”) “nei casi in cui
ricorrano giusti motivi d’urgenza si svolge a norma
degli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile” (6° comma art. 3 L. 281/98).
Il legislatore quindi in una legge successiva al
d. legl. 31 marzo 1998 n. 80 (la 281/98 è del 30/7/98,
mentre il decr. legl. 80/98 è del 31/3/98), e che
prevede un’azione sostanzialmente analoga a
quella di cui all’art. 1469 sexies c.c., fa nuovamente
riferimento agli articoli 669-bis e seguenti c.p.c.,
dimostrando che - per la specialità delle questioni
- intende rimettere le azioni inibitorie di tutela del
consumatore alla giurisdizione del Giudice ordinario: si appalesa quindi la circostanza che il d.
legl. 80/98 non deroga la particolare disciplina
prevista dal codice civile. Del resto, se il legislatore
avesse voluto rimettere la questione ai Tribunali
giuridici amministrativi, si sarebbe riferito alla
sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato e non vi sarebbe stata l’indicazione degli
artt. 669-bis e seguenti c.p.c..
In ogni caso, anche a prescindere dalle
argomentazioni appena esposte, l’odierna controversia - pur ipotizzando l’applicabilità del d.
legl. 80/98 - sarebbe sempre rimessa all’A.G.O.. Si
deve infatti sottolineare che il d. legl. 80/98 esclude dalla giurisdizione dei T.A.R. “i rapporti individuali di utenza con soggetti privati”; e la presente
azione inibitoria riguarda, per l’appunto, rapporti
individuali di utenza con soggetti privati, giacché
l’eventuale suo accoglimento viene a modificare
esclusivamente la regolamentazione dei rapporti
individuali di utenza, eliminando alcune delle regole contrattuali. Si consideri inoltre che l’azione
collettiva di un ente esponenziale costituisce la
sommatoria delle azioni individuali dei consumatori rappresentati e quindi è riferita ai singoli
rapporti di utenza; e ciò anche perché l’associazione dei consumatori svolge la funzione di “sostituto processuale” dei singoli consumatori.
Sull’argomento si è già espresso il Prof. Giorgio De Nova, che, al recente convegno organizzato a Bruxelles dalla Commissione Europea (1-3/7/
99 - The ‘Unfair Terms’ Directive, 5 years on), ha
intitolato un paragrafo della propria relazione ‘La
giurisdizione del giudice ordinario’, sostenendo
quanto si trascrive: “Il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 recante “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle
amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle
controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4 della legge 15 marzo 1997, n. 59” (“Delega al
Governo per il conferimento di funzioni e compiti
alle regioni ed enti locali, per la riforma della
Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”) prevede all’art. 33 che “Sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo tutte le controversie in materia di
pubblici servizi (...). Tali controversie sono in particolare quelle (...) riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi
(...) con esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, delle controversie in materia di invalidità”. Rimane dunque ferma la competenza del giudice ordinario nelle controversie,
sia individuali sia collettive, relative alla vessatorietà delle clausole nei contratti con i consumatori.” Quest’ultima in particolare è una considerazione determinante, giacché è palese che l’azione
inibitoria tende a far dichiarare l’inefficacia di
alcune clausole, inefficacia che altro non è se non
una forma di invalidità: l’azione inibitoria pertanto, quale controversia in materia di invalidità,
resta di competenza del Giudice ordinario.
Si rifletta infine sulla circostanza che qualora si
dovesse ritenere sussistere la giurisdizione del
Giudice amministrativo, si avrebbe un sistema
“schizofrenico”, nel quale la vessatorietà delle
clausole contrattuali nel caso di azione inibitoria
promossa da un’associazione dei consumatori
verrebbe valutata dal Giudice amministrativo,
mentre nell’ipotesi di contestazione sollevata da
un singolo consumatore, la valutazione sarebbe
del Giudice ordinario: è mai possibile, ed ha un
qualche senso logico, un sistema del genere? Si
consideri infine che si porrebbe un problema
d’inapplicabilità della tutela d’urgenza (con conseguente violazione della normativa comunitaria), giacché l’art. 21 l. 1034/71, esclude la tutela
cautelare ante causam e la conseguente applicabilità degli artt. 669 bis e segg. c.p.c. innanzi al
Giudice amministrativo (sul punto T.A.R. Lombardia, ord. 19/6/1998 in Dir. proc. amm., 1998, 729).
2) La rappresentativita’ delle associazioni:
rapporti fra art. 3 l. 281/98
ed art. 1469 sexies c.c..
E’ di tutta evidenza la distinzione tra un giudizio ex art. 1469 sexies c.c., introdotto dalla legge n.
6 febbraio 1996 n. 52, che - novellando il codice
civile - ha dato attuazione all’art. 7 della direttiva
93/13/CEE relativa alle clausole abusive; ed uno ex
art. 3 la L. 281/98, che disciplina, in genere, i diritti
dei consumatori e degli utenti e prevede poi
provvedimenti inibitori a tutela dei loro interessi.
La 281/98 è una legge con scopi e finalità differenti, che, proprio per tali motivi, non deroga né
modifica in alcun modo il codice civile (del resto la
riforma sulle clausole vessatorie è stata inserita nel
codice civile proprio per sottolinearne l’importanza e l’autonomia dalle altre normative di settore).
E’ quindi pacifico, ed incontrovertibile, che nes-
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suna modifica, né esplicita né implicita, abbia apportato all’art. 1469 sexies c.c. la 281/98, cosicché la
rappresentatività delle associazioni che agiscono
in sede di inibitoria contrattuale dovrà essere valutata - come accaduto sino ad oggi - dall’organo
giudicante. E’ tuttavia ipotizzabile che l’elenco delle associazioni rappresentative ex art. 8 L. 281/98
costituirà un indice di riferimento per i Magistrati
che dovranno valutare la rappresentatività delle
associazioni dei consumatori ex art. 1469 sexies c.c.
Fra l’altro, se così non fosse, si sarebbe verificato un lungo “vuoto normativo”, giacché per
molti mesi dopo l’approvazione della L. 281/98
nessuna associazione era stata riconosciuta, con
la conseguenza che in tale periodo nessuna associazione avrebbe potuto agire in sede d’inibitoria
ex art. 1469 sexies c.c..
3) La rappresentatività dell’associazione
in un ricorso ex art. 1469 sexies.
La rappresentatività dell’associazione dei consumatori è quindi - ancora oggi - rimessa all’apprezzamento dell’organo giudicante.
Gli indici di rappresentatività individuati dalla
giurisprudenza e dalla dottrina, sono relativi all’attività svolta in passato a favore dei consumatori, alle svariate iniziative giudiziarie già poste in
essere, al radicamento nel territorio ed al riconoscimento pubblico avuto dal sodalizio nonché alla
finalità statutarie del sodalizio.
4) I giusti motivi d’urgenza
e l’inibitoria cautelare
L’art. 1469 sexies c.c. ha introdotto un’azione
inibitoria di carattere preventivo e collettivo, che
prescinde dalla lesione effettiva dei diritti del
consumatore, ma che tende a verificare e contrastare, sotto un profilo potenziale, i danni alla sfera
giuridico-patrimoniale dei contraenti deboli.
Questo significato appare palese sia leggendo
il testo normativo, sia facendo riferimento alla
direttiva 93/13/CEE, che prevede un’azione per
far cessare l’inserimento di clausole vessatorie
nelle condizioni generali di contratto predisposte dei professionisti.
E’ chiaro tuttavia che - facendo riferimento al
dato normativo nazionale - si deve distinguere
l’azione inibitoria in via ordinaria da quella in via
cautelare ex art. 669 bis e segg. c.p.c.. E’ altrettanto evidente però che tale differenziazione andrà
comunque analizzata ed interpretata secondo
quelle che sono le finalità della legge (ex art. 12
disp. prel. c.c.) ma soprattutto “alla luce della
lettera e dello scopo della summenzionata direttiva,” che all’art. 7 n. 2 prevede che vi siano mezzi
di tutela adeguati ed efficaci per eliminare eventuali clausole abusive presenti in condizioni generali di contratto (su tale punto cfr. fra le altre
C.G.C.E. Kolpinghuis NIJMEGEN B V 8/10/87).
Sotto questo aspetto vanno quindi esaminate
le parole “giusti motivi” di urgenza”. A tal proposito si evidenzia in primo luogo che il legislatore
ha inserito la parola “giusti” mentre in altri procedimenti cautelari ha sovente utilizzato la parola
“gravi”. Ciò fa capire immediatamente che il criterio di distinzione fra l’azione in via d’urgenza e
quella in via ordinaria vada correlato a circostanze
da individuare discrezionalmente da parte del
G.D., quasi “in via equitativa”: il termine “giusti
motivi” è spesso usato dal legislatore in caso di
valutazioni rimesse alla discrezionalità del Magistrato (cfr. ad es. Art. 92, II c., c.p.c. e art. 156, ult.
comma, c.c.) e sicuramente differenti dai presupposti di cui all’art. 700 c.p.c..
Il collegio del Tribunale di Palermo in una precedente controversia (Foro It., 1997, I, 3387) ha analizzato la problematica in oggetto evidenziando che:
“Il requisito della sussistenza di giusti motivi di
urgenza condiziona la concedibilità dell’inibitoria
nelle forme del c.d. rito cautelare uniforme, anziché - è da ritenere - in quelle del giudizio ordinario
di cognizione. Il significato del richiamato elemento della fattispecie normativa non può certamente
sovrapporsi a quello della categoria del periculum
in mora, elaborato dalla giurisprudenza proprio in
materia cautelare, per la evidente inconciliabilità
fra canoni di giudizio strutturalmente e teologicamente ancorati a controversie individuali e tendenzialmente successive ad un evento pregiudizievole, ovvero anteriori a questo ma nell’imminenza della sua manifestazione, ed un giudizio di
carattere preventivo e generale, la cui peculiarità
funzionale è proprio quella di evitare che un pregiudizio, anche potenziale, abbia a colpire la categoria dei consumatori, a prescindere da una attuale lesione di diritti soggettivi.
Poiché, come è stato osservato, l’inibitoria mira
ad evitare che il contenuto di condizioni generali
inique venga trasfuso nei contratti individuali, essa
opera in una fase anteriore a quella in cui può
configurarsi un pregiudizio, tradizionalmente inteso, in danno del singolo consumatore, sicché
ricondurre i “giusti motivi di urgenza”, nella terminologia o nei contenuti, al periculum in mora, vuol
dire non tener conto della specificità del giudizio,
con conseguente svuotamento della pratica
operatività del nuovo strumento di tutela...
Conseguentemente, la concessione dell’inibitoria c.d. urgente richiede la sussistenza di ragioni
specifiche, ancorché non parametrate su di un
concreto pregiudizio ma modellate in relazione al
particolare tipo di azione proposto, tali da giustificare il ricorso al rimedio previsto in via eccezionale
piuttosto che a quello previsto in via ordinaria.
Ritiene il collegio che, in tale operazione
ermeneutica, sicuri e condivisibili punti fermi siano stati individuati nell’ordinanza impugnata con
riferimento alla natura del diritto per il cui esercizio è necessario accedere alla stipulazione del
contratto le cui clausole sono ritenute abusive,
alla situazione strutturale del mercato, ed alla
potenziale diffusività delle clausole abusive...”
Per completezza si deve anche segnalare quella
che è la posizione di molti autori che hanno scritto
sull’argomento dei giusti motivi d’urgenza. Parte
della dottrina ritiene infatti che il rimedio ex art.
1469 sexies, II c., c.c. sia da configurare quale azione
“nella quale il periculum in mora è insito nello
stesso fenomeno che la norma è chiamata a regolare e la cui esistenza è, pertanto, già stata valutata
positivamente dal legislatore” (cfr. G.M. Arnone in
Foro It., 1997, parte I, pag. 296 analogamente Bin,
“Clausole vessatorie: una svolta storica”, in Contratto e impresa/Europa, 1996, fasc. 2). Del resto se
è pur vero che si deve fare una differenza fra
l’azione d’urgenza e quella in via ordinaria, nessuna
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norma stabilisce che quest’ultima sia la regola e
quella in via cautelare l’eccezione: anzi - in una
materia così particolare e rilevante - appare opportuno il contrario (si consideri che una posizione
analoga è espressa da parte della giurisprudenza
per quanto concerne i provvedimenti cautelari in
materia di tutela del marchio).
La linea giurisprudenziale del Tribunale di Palermo appare condivisa dallo stesso Governo italiano, che, rispondendo alle contestazioni della
Commissione Europea circa l’eventuale erronea
trasposizione della direttiva 93/13/CEE, ha scritto: “L’ultima questione che la Commissione richiama all’attenzione del Governo italiano come
possibile caso di cattiva applicazione della direttiva è quella relativa all’inibitoria urgente a tutela
dagli interessi collettivi dei consumatori. La Commissione osserva che l’art. 1469-sexies c.c. è interpretato in modo eccessivamente restrittivo dall’autorità giudiziaria italiana...
Nel recepire la direttiva, il legislatore italiano
ha coerentemente distinto il caso della tutela
ordinaria (comma 1) da quello della tutela cautelare in via d’urgenza (comma 2). In questo secondo caso, ha parlato di <<giusti motivi di urgenza>>
e non di <<pregiudizio imminente ed irreparabile>> (formula utilizzata dall’art. 700 c.p.c. in tema
di condizioni per la concessione del provvedimento d’urgenza); va così apprezzata la scelta del
legislatore italiano per una soglia meno elevata,
nel caso di specie, di accesso alla tutela cautelare
anticipatoria d’urgenza, in quanto filtrata non già
dal riscontro di pregiudizi imminenti ed irreparabili, ma semplicemente dalla verifica che sussistano giusti motivi idonei ad anticipare la tutela
inibitoria ad un momento in cui l’accertamento estremamente complesso e quindi sovente non
breve - della abusività delle clausole non sia stato
ancora compiuto ex professo, ma si possa semplicemente ritenere destinato a sortire un esito
positivo per l’attore collettivo.
... Giova osservare, infatti, che lo strumento
apprestato dal legislatore mediante l’art. 1469sexies c.c. è finalizzato al controllo generale e
preventivo sulle clausole adottate da professionisti nella generalità dei contratti per verificare la
loro rispondenza ai principi previsti dagli artt.
1469-bis e seguenti c.c.; l’azione inibitoria si presenta pertanto come il rimedio per impedire che,
utilizzando formulari contenenti clausole abusive, vengano, nelle more dell’ordinario giudizio di
cognizione, stipulati ulteriori contratti. Non può
pertanto darsi spazio ad una valutazione qualificativa degli interessi coinvolti, né valutare in concreto il pregiudizio economico che il consumatore singolo può andare a patire per effetto del
contratto stesso; deve invece far riferimento alla
diffusività del fenomeno contrattuale in uso.
In altre parole va considerata la portata della
contrattazione in essere e l’ipotesi che, nelle more
del procedimento, continui ad essere utilizzata la
prassi contrattuale in parte - abusiva - perché sfavorevole al consumatore, in vasta scala; in tali casi
vi è elevata probabilità che le clausole continuino a
provocare danni, ed il malfatto medio tempore ben
difficilmente sarà suscettibile di riparazione, nella
presumibile inerzia del consumatore, rendendo
impossibile il riequilibrio degli interessi.
Diversamente argomentando non v’è chi non
veda la pratica inapplicabilità della cautela invocata, rari essendo i casi di beni effettivamente <<essenziali>>- con ciò intendendosi necessari per lo
svolgimento delle più elementari ed indispensabili pratiche di vita, ovvero beni o servizi in regime
di monopoli - oggetto di contrattazione.
Il Tribunale di Palermo (ord. 5 settembre 1997,
in Foro it., 1997, I, c. 3009) ha deciso che <<sussistono i motivi d’urgenza, richiesti dall’art. 1469sexies, cpv., c.c. per la concessione della tutela
inibitoria cautelare, qualora le clausole vessatorie
regolino una prestazione, relativa ad un diritto
fondamentale della persona, e fornita in regime
di monopolio e siano destinate a disciplinare un
elevato numero di rapporti contrattuali (nella
specie, si trattava di clausole di un contratto di
trasporto marittimo)...
...La dottrina, è, del suo canto, assolutamente
concorde nel ritenere che l’art. 1469-sexies abbia
inteso modellare in termini più accessibili il requisito del periculum in mora in relazione agli specifici provvedimenti di urgenza inibitori che risultino strumentali all’assicurazione della piena
effettività della decisione di merito sull’azione
collettiva, allontanandosi per questa ipotesi dallo
standard particolarmente elevato del pregiudizio
imminente e (soprattutto) irreparabile, per appagarsi del riscontro da parte del giudice di una
generica situazione di urgenza nel provvedere a
disciplinare restrittivamente (se non sempre a
inibire totalmente) l’uso delle clausole...
...Per altro verso, risulta piuttosto evidente
che la giurisprudenza - che ancora non ha maturato una apprezzabile continuità di orientamenti,
ma che si è già più volte espressa in modo difforme
dal primo orientamento restrittivo del giudice
torinese - non potrà non attestarsi sul principio,
già suggerito da molta dottrina, secondo cui il
rimedio dell’art. 1469-sexies, comma 2, configura
un’azione nella quale il periculum in mora è insito
nello stesso fenomeno che la norma è chiamata a
regolare e la cui esistenza è, pertanto, già stata
valutata positivamente dal legislatore attraverso
la tipizzazione di un’autonoma misura cautelare.
Il procedimento delineato dall’art. 1469-sexies
verrebbe così ad aggiungersi al catalogo dei procedimenti cautelari nei quali il legislatore esplicitamente consente che il giudice possa (e debba)
emanare un provvedimento cautelare prescindendo da qualsiasi indagine sulla sussistenza del
requisito del periculum, e ciò perché è lo stesso
legislatore ad aver valutato a livello di previsione
generale e astratta l’esistenza di un periculum.
Questa via interpretativa è perfettamente in
linea con i principi animatori della politica comunitaria e, allo stesso tempo, non è certamente in
contraddizione con il dato letterale della norma.
Va infatti considerato che l’art. 8 della direttiva 93/
13 autorizzava gli Stati membri soltanto ad adottare o mantenere disposizioni più severe di quelle
introdotte con la direttiva: ... non è ricevibile una
lettura dell’art. 1469-sexies che si ponga in contrasto con la lettera e con gli scopi della direttiva
di riferimento o, più in generale, con le indicazioni
comunitarie in tema di protezione dei consumatori. Riducendo la portata applicativa dell’inibitoria urgente, si rischia invece di entrare in conflitto
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sia con il più volte citato art. 7 della direttiva 93/13,
nella parte in cui impone agli Stati membri l’adozione di misure realmente efficaci per la repressione delle clausole abusive, sia con la più recente
proposta di direttiva in materia di azione
consumeristica.”
Si ritiene quindi che quanto scritto in un atto
ufficiale della Repubblica Italiana confermi la linea
interpretativa sopra esposta, evidenziando quale
sia stata l’intenzione del legislatore e rappresentando, dunque, uno strumento interpretativo
delle parole “giusti motivi d’urgenza”.
Avv. Alessandro Palmigiano
1548 - speciale giustizia
Commercio elettronico
e firma digitale
Nozioni introduttive
Lo sviluppo del diritto dell’informatica ha costretto i governi di tutto il mondo e le organizzazioni sovranazionali a ricercare soluzioni giuridiche nuove per regolamentare, in maniera uniforme, una realtà economica ormai priva di confini
spazio/temporali.
Così dopo la tutela del software e delle banche
dati, è la volta del riconoscimento giuridico del
documento informatico, senza il quale non sarebbe possibile creare le condizioni per garantire e
tutelare lo sviluppo del commercio elettronico.
Il passaggio dal documento cartaceo a quello
informatico costituisce una rivoluzione socio-culturale-economica di così ampia portata, da richiedere specifici interventi di adeguamento degli
ordinamenti giuridici, sia nell’ambito dei paesi di
ispirazione latino-germanica che di quelli di
common law, tutti fondati da sempre su un concetto cartaceo di documento.
L’Italia, dopo numerosi interventi normativi
frammentari, si è portata all’avanguardia rispetto
al panorama giuridico internazionale, con l’approvazione di un pacchetto di provvedimenti che
ha riconosciuto nel nostro ordinamento, per la
prima volta a livello generale, il valore giuridico
del documento informatico e ha introdotto il
sistema della firma digitale (art. 15, comma 2, della
legge 15 marzo 1997, n. 59, la cd. legge “Bassanini”,
del relativo regolamento emanato con D.p.r. 513/
1997 e delle regole tecniche approvate con Decreto del Presidente del consiglio dei ministri dell’8
febbraio 1999).
Contemporaneamente è stata recepita la direttiva 97/7/CE sulla tutela dei consumatori in
materia di contratti conclusi a distanza (D.lgs. 22
maggio 1999, n. 185) ed è stato approvato, con
D.p.r. 28 luglio 1999, n. 318, il regolamento sulle
misure minime di sicurezza previste dall’art. 15
della legge n. 675/1996, in materia di privacy.
contenuti in un messaggio, da un computer ad un
altro collegati in rete. La telematica permette
l’elaborazione e la trasmissione dei dati a distanza
e a grandissima velocità. Per questa ragione, a
proposito di Internet, è stata coniata la fantasiosa
espressione “autostrada informatica”: Internet
consiste in un’infrastruttura che permette il movimento di bite e, tramite questi, di tutte le informazioni che possono essere digitalizzate.
“Commercio elettronico” è un’espressione che,
in prima approssimazione, definisce lo scambio di
beni e servizi attraverso una rete telematica.
E’ nota la distinzione, a questo proposito, tra
commercio elettronico “diretto” e “indiretto”:
• Si parla di commercio elettronico “diretto”
quando l’oggetto del contratto è un bene
immateriale, generalmente un servizio (come
ad esempio l’accesso ad una banca dati, un’informazione di borsa o anche un software), che
viene trasmesso/consegnato al cliente, online, tramite Internet.
• Si parla di commercio elettronico “indiretto”
invece, quando l’oggetto del contratto è un
bene materiale (ad esempio un libro, un computer, un CD, un mazzo di fiori, ecc.), che viene
quindi ordinato sul Web e spedito tramite corriere espresso.
Più propriamente si parla di e-commerce facendo riferimento a tutte quelle attività e scambi
di informazioni che ruotano intorno alle transazioni economiche fra soggetti e organizzazioni,
incluse le pubbliche amministrazioni.
In ogni caso il “commercio elettronico” costituisce il termine generale con il quale viene definito l’impiego di reti di computer Internet e non
Internet per operare una crescente varietà di
transazioni, tra cui i sistemi di pagamento elettronici come le carte di credito e, più recentemente,
la vendita al consumatore di beni e servizi.
In definitiva sono state ormai pacificamente
individuate quattro categorie di commercio eletLa disciplina nazionale
tronico: 1) business to business (che riguarda i
Allo sviluppo delle reti telematiche (Internet è
rapporti tra imprese o, comunque, tra operatori
un insieme di reti di telecomunicazioni che sfrutprofessionali), 2) business to consumer (che ritano particolari tecnologie, per ottimizzare (speguarda i rapporti tra impresa e consumatori), 3)
cialmente a livello economico) la trasmissione di
public agencies to business (che si occupa delle
dati, informazioni (documenti, immagini o suoni)
transazioni elettroniche tra impresa e Pubblica
in tutto il mondo in tempo reale) ha fatto risconAmministrazione, come gli adempimenti fiscali),
tro la progressiva dematerializzazione dei docu4) public agencies to citizens (che si occupa delmenti cartacei e la diversa modalità di scambio
l’erogazione elettronica dei servizi al cittadino).
degli stessi. Alla consegna manuale o spedizione
La nostra attenzione si soffermerà sulla catesi sostituisce la trasmissione elettronica dei 12345678901
dati,
goria business to consumer.
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Il contratto concluso tramite Internet
Abbiamo visto che Internet, grazie all’infrastruttura globale della rete, ai bassi costi imposti e alla
sempre minor necessità di avvalersi di intermediari, è uno strumento che può essere utilizzato non
solo come “vetrina” per pubblicizzare prodotti e
servizi, ma soprattutto come mezzo di distribuzione e vendita diretta. A tal proposito si pongono
numerosi problemi di ordine giuridico, che abbracciano trasversalmente i vari settori del diritto.
E’ necessaria una preliminare distinzione tra il
caso in cui l’acquirente/utente sia un operatore
professionale (azienda, libero professionista, artigiano, commerciante, ecc.) e il caso in cui questi
sia un consumatore. L’imprenditore interessato
ad utilizzare Internet, una volta predisposto il
proprio sito in modo che il visitatore/potenziale
acquirente prenda conoscenza dei beni e servizi a
disposizione, dovrà adattare il meccanismo di
conclusione dell’accordo alle modalità esecutive
tipiche del mezzo telematico. In altri termini, sarà
necessario organizzare lo scambio di informazioni a video, tra fornitore e acquirente, in modo da
realizzare un accordo contrattuale corretto.
L’aspetto rilevante, che comporta notevoli
differenze di disciplina giuridica, a prescindere
dalle modalità di conclusione del contratto, è
quello della qualificazione dell’acquirente come
consumatore. E’ per questa ragione che, anche
per il commercio elettronico, convenzionalmente si distingue il business to business dal business to consumer.
Si considera consumatore, in relazione a contratti per la cessione di beni o la prestazione di
servizi, la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale
eventualmente svolta (Cfr. art. 1469-bis, c.c.; art. 2,
comma 1, D.lgs 15 gennaio 1992, n. 50; Carta europea di protezione dei consumatori del 1973; art. 2
L. 30 luglio 1998, n. 281; art. 2 Dir. 97/7/CE del 20
maggio 1997, recepito nell’art. 1, comma 1, lett. b
del D.lgs 22 maggio 1999, n. 185).
La categoria business to consumer comprende i processi di vendita al dettaglio, in cui i soggetti coinvolti sono l’impresa, che offre i propri prodotti (in senso lato), e il consumatore. Grazie
all’impiego di Internet, un’impresa è in grado di
entrare in contatto con un numero praticamente
illimitato di consumatori, dislocati in ogni parte
del mondo. Tale vantaggio è però accompagnato
dall’osservanza di una serie di obblighi, imposti da
normative di vario livello per garantire la tutela
del consumatore/persona fisica, considerato
parte debole del rapporto.
Risulta necessario individuare quali siano le
prescrizioni che le imprese sono tenute ad osservare nel formulare offerte di prodotti e servizi online da rivolgere ai consumatori.
Innanzitutto, la riforma della disciplina relativa
al settore del commercio (D.lgs 31 marzo 1998, n.
114, art. 18, comma 2) stabilisce che:
“E’ vietato inviare prodotti al consumatore se
non a seguito di specifica richiesta. E’ consentito
l’invio di campioni di prodotti o di omaggi, senza
spese o vincoli per il consumatore”.
In secondo luogo, ai contratti conclusi mediante l’uso di strumenti informatici o telematici si
applica il D.lgs 15 gennaio 1992, n. 50 in materia di
contratti negoziati fuori dai locali commerciali (l’applicazione del D. Lgs. 50/1992 è stata inoltre confermata dal rinvio operato dall’art. 11, comma 2, del
D.p.r. 513/1997). Questa disciplina, basandosi sul
presupposto che il consumatore nel caso di vendite cd. aggressive (a domicilio, per corrispondenza,
su catalogo ecc.) non svolge parte attiva nel rapporto non avendo presumibilmente tempo sufficiente a ponderare la decisione di acquisto, ha
attribuito al consumatore il diritto di recesso (art.
4). Da ciò discende l’obbligo, per l’operatore commerciale, di informare i consumatori al momento
dell’acquisto, del diritto in questione.
Il consumatore che intende esercitare il diritto
di recesso dovrà inviare al fornitore una comunicazione in tal senso nel termine di sette giorni.
Tale termine, in base al nuovo D.lgs 185/1999 sulle
vendite a distanza, è stato aumentato sino a 10
gg), che decorrono:
• nell’ipotesi di contratti riguardanti la fornitura
di beni, dalla data di ricevimento della merce;
• per i contratti riguardanti la prestazione di
servizi dalla data di ricezione dell’informativa.
Per evitare confusione ed incertezze interpretative è comunque preferibile che sia l’operatore
stesso a indicare il termine di decorrenza e soprattutto le modalità, ad esempio via e-mail, di
comunicazione del recesso.
Ad ulteriore tutela dei consumatori è intervenuto inoltre il D.lgs 22 maggio 1999, n.185, che ha
recepito la Direttiva 97/7/CE del 20 maggio 1997 in
materia di contratti a distanza, quei contratti cioè
concernenti beni o servizi stipulati tra un fornitore
e un consumatore ed interamente negoziati con
tecniche di comunicazione a distanza. La nuova
normativa ribadisce, rafforzandola, la disciplina
già descritta per i contratti negoziati fuori dai
locali commerciali, sovrapponendosi a quest’ultima. L’art. 15, comma 2 del D.Lgs. 185/1999 stabilisce infatti che, in attesa dell’emanazione di un
Testo Unico di coordinamento delle legislazioni in
materia (D.lgs 50/1992, D.lgs 114/1998 e D.lgs 185/
1999) “...si applicano le disposizioni più favorevoli
per il consumatore contenute nel presente decreto legislativo”.
Considerando che l’informazione diffusa da
talune tecnologie elettroniche ha spesso un carattere effimero e spesso oscuro per il consumatore,
il D.lgs 185/1999 dispone che la stessa sia successivamente confermata, in tempo utile, per iscritto o,
a scelta del consumatore, su altro supporto duraturo. Si può quindi desumere che una comunicazione via posta elettronica autorizzata dal consumatore, possa integrare la previsione normativa.
Con questa seconda informativa devono inoltre essere comunicate al consumatore:
• le informazioni sulle condizioni e le modalità di
esercizio del diritto di recesso;
• l’indirizzo geografico della sede del fornitore a
cui il consumatore può presentare reclami;
• le informazioni sui servizi di assistenza e sulle
garanzie commerciali esistenti;
• le condizioni di recesso dal contratto in caso di
durata indeterminata o superiore ad un anno.
Con riguardo alle modalità di esercizio di recesso, anche il D.lgs 185/1999 impone la comunicazione per iscritto, magari anticipata via fax, tramite
una raccomandata con avviso di ricevimento entro
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le 48 ore successive. Inoltre, a differenza del D.lgs
50/1992, avendo omesso la previsione che “...l’avviso di ricevimento non è, comunque, condizione
essenziale per provare l’esercizio del diritto di recesso”, il nuovo decreto di fatto impone, in danno
del consumatore, l’uso della raccomandata a.r. per
recedere validamente dal contratto.
A ciò va aggiunto che il rimborso delle somme
versate dal consumatore è subordinato, secondo
il comma 7 dell’art. 5, al corretto esercizio del
diritto di recesso “conformemente alle disposizioni del presente articolo”, fra cui l’obbligo della
raccomandata a.r..
L’imprenditore non potrà prescindere, nel formulare la propria offerta dalla specifica disciplina
in materia di clausole abusive nei confronti del
consumatore, dettata dagli artt. 1469-bis e seguenti del c.c., introdotti in attuazione della direttiva n. 93/12/CEE.
Si considerano clausole abusive quelle clausole che, malgrado la buona fede, determinano a
carico del consumatore un significativo squilibrio
dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Tali clausole sono più numerose e di portata più
estesa di quelle dedicate ai rapporti tra imprenditori, dagli artt. 1341 e 1342 c.c. e soprattutto, nel
caso di e-commerce, è da ritenere che non siano
sanabili neanche con la specifica approvazione
per iscritto.
Il legislatore ha infatti indicato un elenco
(art.1469-bis c.c.) di 20 tipologie di clausole da
considerare abusive, fino a prova contraria.
Bisogna dare atto che i contratti per via telematica sono ovviamente tutti conclusi a mezzo di
moduli o formulari predisposti dal fornitore e che
le relative clausole, proprio per la tipicità del mezzo, non possono intuitivamente essere oggetto
di trattativa specifica con il singolo acquirente.
Si rileva in questa sede come la abusività di una
clausola implichi l’inefficacia della stessa, senza
che venga coinvolto il contratto nel suo insieme
(art.1469-quinquies c.c.).
Pertanto i contratti conclusi rimarranno validi
ed efficaci, anche se privi della parte riguardante
le suddette clausole.
Al quadro normativo su esposto deve aggiungersi la legge 30 luglio 1998, n.281, recante la
“Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”, che riconosce ed elenca i diritti fondamentali
di tali soggetti e concede alle rispettive associazioni la legittimazione ad agire in giudizio per
ottenere rimedi inibitori e sanzionatori.
Le associazioni dei consumatori sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi,
richiedendo al giudice competente:
• di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli
interessi dei consumatori e degli utenti;
• di adottare le misure idonee a correggere o
eliminare gli effetti dannosi delle violazioni
accertate;
• di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale, oppure locale.
Nozione di documento
“Documento” è qualsiasi oggetto, qualsiasi cosa
idonea a far conoscere un fatto, diversa dal testimone, che è una persona che narra, e non una cosa
che rappresenta: “un oggetto corporale, prodotto
dell’umana attività di cui conservi le tracce”.
Il documento viene quindi inteso, in primo
luogo, come una “cosa”, una cosa corporale destinata a rimanere nel tempo. In secondo luogo, il
documento viene considerato come una cosa
rappresentativa: una cosa capace cioè di rappresentare un fatto esterno alla res documentale, e
dunque capace di richiamare alla mente di chi
legge fatti o situazioni che sono al di fuori dell’oggetto rappresentante. Di recente, le metodologie
per la redazione di documenti ricorrono sempre
più all’utilizzazione delle nuove tecnologie ed in
particolare dell’informatica. I documenti prodotti
da sistemi automatizzati sono definiti documenti
informatici o elettronici.
Una prima nozione di “documento informatico”
è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art.
3 della legge 23 dicembre 1993, n. 547, in materia
di criminalità informatica. Tale articolo testualmente recita: “Documenti informatici. Se alcune
delle falsità previste dal presente capo riguardano un documento informatico pubblico o privato,
si applicano le disposizioni del capo stesso concernenti rispettivamente gli atti pubblici e le scritture private. A tal fine per documento informatico
si intende qualunque supporto informatico contenente dati o informazioni aventi efficacia
probatoria o programmi specificamente destinati ad elaborarli”.
Tale definizione è stata inserita dal legislatore
nell’art. 491-bis nel codice penale.
Per completare l’indagine relativa alla nozione
di documento informatico, anche in base alla sua
disciplina normativa, occorre procedere all’esame di quanto recentemente disposto dal legislatore in materia di firma digitale.
All’art.1, lettera a), del D.p.r. 513/1997, viene
indicata la nozione di documento informatico,
inteso come “la rappresentazione informatica di
atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”.
Combinando il disposto delle due norme, il
documento informatico può essere considerato
come una cosa rappresentativa ottenuta con
l’ausilio di un sistema informatico. Non solo testi
scritti quindi, ma anche suoni e immagini, fisse o
in movimento. Interpretazione che pone maggiormente in sintonia il costrutto normativo indicato con la realtà tecnica.
Il contratto sottoscritto con firma digitale
L’ostacolo maggiore alla diffusione generalizzata della comunicazione in forma elettronica era
dato dalla impossibilità, in mancanza di una normativa specifica, di attribuire al documento elettronico la stessa efficacia probatoria del documento cartaceo munito di sottoscrizione.
Ciò che fa la differenza tra un documento
cartaceo sottoscritto e un comune documento è
l’assunzione di paternità che deriva dalla sottoscrizione. Con essa il firmatario si fa carico delle
relative conseguenze giuridiche sul piano della
imputabilità delle dichiarazioni, della responsabilità per i loro effetti, ecc..
Analogo discorso vale per le dichiarazioni in
forma elettronica.
L’art. 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n.
59 (la cd. legge Bassanini) è la prima norma che
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afferma il principio della piena validità del documento informatico, stabilendo che “gli atti, dati e
documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o
telematici, i contratti stipulati nelle medesime
forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”.
La materia è stata ulteriormente disciplinata
dal “Regolamento concernente i criteri e le modalità di applicazione dell’art. 15, comma 2, della
legge 15 marzo 1997, n. 59, in materia di formazione, approvato con il D.p.r. 10 novembre 1997, n.
513 (già citato). Il Regolamento stabilisce l’esistenza di un generale principio di equivalenza tra
la sottoscrizione tradizionale su carta e la sottoscrizione con firma digitale e dichiara che “l’apposizione o l’associazione della firma digitale al documento informatico equivale alla sottoscrizione
prevista per gli atti e documenti in forma scritta”.
La firma digitale è definita come il risultato
della procedura informatica basata su un sistema
di chiavi asimmetriche a coppia, una pubblica e
una privata, che consente al sottoscrittore, tramite la chiave privata, e al destinatario, tramite la
chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità
di un documento informatico o di un insieme di
documenti informatici (art. 1, lett. b Reg.).
La firma digitale quindi non è un’immagine
digitale di una firma realizzata di pugno su carta,
quanto piuttosto un metodo che applica un
software digitale di criptografia per generare una
stringa di bits modificata.
Le firme digitali sono dunque create e verificate attraverso gli strumenti della crittografia, quella branca della matematica applicata che consiste
nel trasformare messaggi in forma difficilmente
intellegibile e viceversa. Criptare un testo significa trasformarlo in un altro testo, incomprensibile
e indecifrabile da parte di chi non possiede la
chiave di criptazione. La funzione è reversibile, ed
il testo verrà riportato all’originale.
In altri termini con la chiave privata è possibile
criptare un messaggio che sarà successivamente
decriptato con la corrispondente chiave pubblica.
Il giudice competente
Il fatto che Internet consenta agli imprenditori
di mettere i propri prodotti e servizi in vetrina e di
concludere transazioni commerciali in tutto il
mondo, pone una serie di problemi dovuti alla
difficoltà di “localizzare” tali rapporti.
Business to business
Il giudice italiano può dichiarare la propria
giurisdizione quando il soggetto, che deve essere
convenuto in giudizio, sia domiciliato o residente
in Italia, ovvero vi abbia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
La giurisdizione italiana è affermata anche nel
caso in cui le parti del contratto l’abbiano convenzionalmente accettata e tale accettazione sia provata per iscritto (art. 4, comma 1, l. 218/1995).
Al di là comunque delle ipotesi di accordo
quadro preventivo, una clausola che deroghi alla
giurisdizione ordinaria rientra tra le clausole vessatorie di cui all’art. 1341 c.c. Si ripropone quindi il
problema della necessità di approvazione per
iscritto delle clausole vessatorie: nel caso di transazione completamente on-line, le clausole vessatorie possono essere approvate validamente
soltanto con l’uso della firma digitale.
Un altro criterio per stabilire la giurisdizione
italiana è quello del luogo di esecuzione della
prestazione contrattuale. Se questa deve eseguirsi o è stata eseguita in Italia, il giudizio potrà
svolgersi davanti al giudice italiano, ai sensi dell’art.
5 della Convenzione di Bruxelles (Convenzione di
Bruxelles del 21 settembre 1968, resa esecutiva in
Italia con legge 21 giugno 1971, n. 804 e successive
modificazioni).
Business to consumer
Sempre secondo la Convenzione di Bruxelles
(artt.13 e 14), quando il contratto riguarda la fornitura di beni mobili o servizi ad un consumatore,
quest’ultimo ha facoltà di scegliere se instaurare
il giudizio davanti ai giudici del proprio Stato di
appartenenza o davanti ai giudici dello Stato dove
è domiciliato il fornitore.
Ciò a condizione che il consumatore abbia
compiuto, nel proprio Stato, le attività necessarie
per la conclusione del contratto ed ivi sia stata
ricevuta la proposta o la pubblicità relativa a tali
beni o servizi.
Nel caso in cui invece ad agire sia il fornitore,
questi potrà convenire il consumatore soltanto
nello Stato nel cui territorio quest’ultimo è
domiciliato, anche quando si tratti di Stati non
appartenenti alla Comunità. Se il convenuto è un
consumatore italiano, la competenza territoriale è
inderogabile ed è del giudice del luogo di residenza
o di domicilio del consumatore (art. 14 D.lgs 185/
1999 e art. 12 D. lgs 50/1992). Si noti che per quanto
riguarda i consumatori, non è esclusa la pattuizione di una legislazione diversa, da quella italiana, da
applicare al contratto, ma è stabilita la nullità di
ogni pattuizione che privi il consumatore delle
condizioni di tutela assicurate dalla normativa comunitaria recepita dal nostro ordinamento (art. 11
del D.lgs 185/1999 e art. 1469-quinquies c.c.).
Anche se tutte queste problematiche sono già
state affrontate e risolte nel mondo del commercio internazionale, ciò non appare tuttavia sufficiente di fronte al fenomeno moltiplicatore della
“rete di reti”. È evidente quindi che sono necessarie, al più presto, convenzioni internazionali
adeguate a regolare l’e-commerce, che tengano in considerazione la globalizzazione del fenomeno, creando delle regole adatte a semplificarne la complessità.
La nuova proposta di direttiva europea
sul commercio elettronico
Come si è potuto dedurre da quanto in precedenza esposto, lo sviluppo dei servizi della società
dell’informazione, in uno spazio (quello Europeo)
senza frontiere interne, è uno strumento essenziale per eliminare le barriere che dividono i popoli europei. Sul presupposto che l’UE intende stabilire legami sempre più stretti tra gli Stati ed i
popoli europei, al fine di garantire la libera circolazione delle merci e dei servizi nel rispetto dei
diritti dei consumatori, il 18 novembre 1998 la
Commissione europea ha adottato una proposta
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di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativa a taluni aspetti del commercio elettronico nel mercato interno. Il Parlamento, dopo
aver espresso il suo parere e condividendo in linea
generale l’impostazione ed i grandi orientamenti
della Commissione, nella seduta del 6 maggio
1999 ha approvato tale proposta, con riserva di
apportare emendamenti.
Prima di procedere ad una più accurata analisi
del testo, si deve evidenziare che al carattere
fortemente innovativo della proposta, non è corrisposta (almeno per ora) un’adeguata e specifica
disciplina delle transazioni per via elettronica,
principalmente in relazione al commercio elettronico avente ad oggetto servizi finanziari.
Con ciò non si vogliono sottovalutare i lavori e
gli sforzi della Commissione e del Parlamento
europeo nel disciplinare un campo estremamente difficile, ma si vuol porre l’accento sulla necessità di una più analitica disciplina, “ipergarantista”
del consumatore, relativamente ad un settore in
cui il rischio economico è molto elevato.
Il primo principio, contenuto nell’art. 4 della
proposta non prevede, per l’esercizio dell’attività
di prestatore di servizio della società dell’informazione, la necessità di una autorizzazione preventiva, o la presenza di altri specifici requisiti che
subordinino l’accesso, a decisioni o provvedimenti
delle autorità competenti. In tale norma, si scorge
una sorta di deregolamentazione del settore, al
fine di non imporre ostacoli al libero scambio di
servizi on-line, tra i vari paesi europei.
Ma si scorge anche un errore di fondo: così
come nel mondo “reale”, le contrattazioni aventi
ad oggetto attività concernenti il settore finanziario e bancario, sottendono particolari esigenze di
controllo e tutela, esigenze poste a garanzia del
fruitore di tali servizi, sembra quanto mai superficiale, estendere questa sorta di deregulation anche a questo tipo di negoziazioni, ove invece il
controllo statale dovrebbe essere più pregnante; i
maggiori problemi infatti potrebbero nascere non
tanto per le imprese aventi la sede od un rappresentante legale nello Stato in cui si perviene alla
conclusione del contratto, quanto per quei soggetti che, tramite la c.d. autostrada virtuale (Internet), accedano al nostro mercato interno, senza
alcuna necessità di fornire appropriate garanzie sul
loro status societario.
Pur se all’art. 5, si prevede un obbligo di informazione al consumatore ed alle competenti autorità sul nome del prestatore, indirizzo (anche di
posta elettronica), numero di partita IVA od altri
dati fiscali, non sembra (anche alla luce dello svi-
luppo delle frodi informatiche) che tali previsioni
possano dare adeguata risposta alle esigenze di
cui sopra. Anche in tale proposta, sulla scia delle
altre direttive, aventi come scopo principale la
tutela del consumatore, si vuole garantire la trasparenza e la chiarezza della transazione commerciale. Le singole comunicazioni commerciali, dovranno infatti essere chiaramente identificabili, così
come identificabile dovrà essere la persona -fisica
o giuridica- per conto della quale viene effettuata
la comunicazione. La trasparenza dovrà essere garantita anche al momento della conclusione del
contratto: il prestatore di servizio dovrà illustrare
in modo chiaro ed inequivocabile, e prima della
conclusione del contratto, le modalità di formazione del contratto per via elettronica. Le informazioni dovranno riguardare principalmente le varie fasi
di conclusione del contratto, l’archiviazione del
contratto in banche dati e la sua accessibilità, i
mezzi per eliminare e correggere errori causati da
manipolazioni esterne.
Di rilevante importanza risulta invece la specifica delimitazione della responsabilità dei prestatori
c.d. intermediari, quei soggetti cioè la cui attività
consiste nel mero trasmettere su una rete, informazioni fornite da altri soggetti, utilizzatori di quel
particolare canale di comunicazione.
Tale soggetto, non sarà ritenuto responsabile
delle informazioni trasmesse, a condizione che:
a) non sia all’origine della trasmissione (la fonte),
b) non sia lui il selezionatore del destinatario
della trasmissione,
c) non modifichi le informazioni oggetto della
stessa.
Un ultimo punto su cui soffermare la nostra
attenzione, riguarda la composizione extragiudiziale delle controversie. E’ chiaro intento degli
organi comunitari facilitare ed incentivare provvedimenti che, in caso di dissenso tra prestato e
destinatario del servizio, prevedano una composizione stragiudiziale delle controversie, anche
per via elettronica. Questo tipo di composizione
dovrà rispettare i principi di indipendenza e trasparenza del contraddittorio, efficacia e brevità
del procedimento, legalità della decisione. Una
tale previsione, comporterà sicuramente un
pregnante intervento (all’interno dei singoli Stati) delle Associazioni a tutela dei consumatori,
anche nella veste di organi super partes.
Conclusivamente, si deve esprimere la speranza che tale proposta sia solo il primo passo per una
più efficace regolamentazione del settore del
commercio elettronico.
Cristiano Iurilli
1549 - speciale giustizia
“Amici della banca” ...
nemici della concorrenza
Q
uanto accertato all’inizio dell’anno dalla
attraverso offerte concorrenziali sia un’idea che
Banca d’Italia e dall’Autorità Garante della
ancora spaventa alcuni tra i maggiori istituti di
Concorrenza e del Mercato, è la dimostracredito che operano sul mercato italiano.
zione di come la sana competizione nel
L’attività istruttoria svolta dalla B.I. ai sensi degli
conquistarsi le simpatie dei consumatori
artt.
123456789012 e 14 della L. 287/90, conclusasi con il provve-
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dimento n. 31 del 18/1/2000, ha accertato la consuetudine, per un gruppo di tredici banche (Banca
Commerciale Italiana – Banca di Roma – Banco di
Sicilia – Banca Monte dei Paschi di Siena – Banca
Nazionale del Lavoro – Banca Popolare di Milano –
Banca Popolare di Novara – Banco Ambrosiano
Veneto – Cassa di Risparmio delle Province
Lombarde – Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza
– Unicredito Italiano – Deutsche Bank – Istituto San
Paolo di Torino – Istituto Mobiliare Italiano), denominato “Gruppo degli Amici della Banca”, di incontrarsi mensilmente al fine di discutere aspetti strategici e commerciali relativi all’attività di ciascun
partecipante e scambiare informazioni sui prezzi
dei vari servizi bancari, con l’intento di agevolare il
coordinamento delle politiche commerciali delle
parti. È palese che, queste banche, amiche lo fossero veramente, tanto da decidere di rinunciare a
farsi la “guerra della concorrenza” per ripartirsi
“amichevolmente” il mercato, offrendo gli stessi
servizi a condizioni assai simili.
La documentazione acquisita dalla B.I. è costituita dai verbali delle riunioni del “Gruppo”, da note e
analisi redatte a fini interni riguardanti tassi e condizioni dei vari servizi, nonché da delibere degli
organi aziendali sui tassi e sulle condizioni dei
servizi stessi.
Agli incontri, cui prendevano parte funzionari e
dirigenti, le banche hanno iniziato a partecipare in
tempi diversi: risulta che BAV, BPM e COMIT hanno
partecipato sin dal 1988, Unicredito dal’91, Banca di
Roma e BNL dal ’94, CARIPARMA, DB e BPN dal ’95,
CARIPLO, MPS e Sanpaolo-IMI dal ’97, il Banco di
Sicilia dal febbraio ’98.
In poche parole, dal 1997 i funzionari delle
suddette banche partecipavano con regolarità
alle riunioni del “Gruppo”, ospitate a turno da
ciascun istituto di credito presso la propria sede,
scambiandosi, in clima di grande amicizia, informazioni su volumi e condizioni di offerta di tutti i
principali servizi bancari (raccolta diretta, risparmio gestito, tassi attivi e passivi), sia con riferimento ai dati attuali, sia concordando le future
strategie commerciali.
Va sottolineato che lo scambio d’informazioni
commerciali attuali non era occasionale, né avveniva verbalmente o a titolo puramente indicativo: al
contrario esso si svolgeva in modo istituzionalizzato, attraverso la predisposizione di apposite tabelle contenenti i dati della propria banca e recanti
spazi liberi per annotare le informazioni analitiche
che sarebbero state fornite, nel corso degli incontri, dalle altre banche partecipanti.
Leggere il Provvedimento n.7929 (pubblicato
sul Bollettino n.1-2 del 31/1/2000) dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato risulterà
estremamente edificante, poiché in esso sono riportati stralci di molti verbali di riunione del “Gruppo” da cui emerge l’ampia gamma di servizi bancari
su cui le parti si confrontavano e deliberavano
politiche comuni.
A conferma dell’efficacia “anticoncorrenziale”
degli accordi presi nel corso delle riunioni, la B.I. ha
individuato delle notevoli convergenze nel comportamento delle banche del “Gruppo” per quanto
riguarda: 1) i bonifici transfrontalieri in valute “in”;
2) i servizi interessati dal regime di esenzione
dall’I.V.A. in base alla L. 28/97.
Per quanto attiene al primo punto, le banche
hanno ritenuto opportuno conservare la commissione di intervento valutario relativamente ai bonifici transfrontalieri effettuati in valute “in” (valute
aderenti all’Euro) benché, alla vigilia della terza fase
dell’unione monetaria, il rischio di cambio tra tali
valute fosse del tutto inesistente. Pertanto il “Gruppo”, dissuadendo le banche che avevano espresso
l’intenzione di eliminarla, ha deliberato di mantenere la commissione, dandole però un nuovo nome:
commissione di servizio.
Anche sul secondo punto l’accordo delle parti è
stato felicemente raggiunto! Benché la legge avesse previsto un regime di esenzione dall’I.V.A. per
alcuni servizi, con beneficio per la clientela, le banche hanno ritenuto che la conseguente riduzione
delle tariffe non potesse in alcun modo essere
ribaltata automaticamente sulla clientela stessa e
hanno deciso di comune accordo di privarla dei
conseguenti vantaggi.
Da un punto di vista giuridico, si potrebbe discutere se l’intesa restrittiva della concorrenza (ex
art.2 L. 287/90), realizzata dai membri del “Gruppo”,
abbia assunto la forma di un vero e proprio accordo
tra i partecipanti (ossia un patto formalizzato avente finalità di coordinare il comportamento di imprese indipendenti) o quella di una semplice intesa
concordata, vale a dire una forma di coordinamento che, senza essere spinta fino all’attuazione di un
vero e proprio accordo, costituisce una consapevole collaborazione tra imprese a danno della concorrenza.
Ma ciò che interessa rilevare è che da alcuni anni
tredici banche, rappresentanti il 55% dei depositi
ed il 60% degli impieghi a livello nazionale, si scambiavano sistematicamente dati sensibili relativi a
gran parte dell’attività svolta e discutevano di problematiche e strategie commerciali al fine di concordare un comportamento uniforme.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha
recentemente affermato che “l’art.85 del Trattato
non prescrive che venga dimostrato che gli accordi
da esso considerati abbiano pregiudicato in misura
rilevante gli scambi ..., ma richiede che si provi che
gli accordi sono atti a produrre questo effetto”
[causa C-219/95, Ferriere Nord, sent. del 17/7/97].
Pertanto, sulla base degli indizi univoci e concordanti raccolti, la B.I. e l’Autorità Garante hanno
accertato che l’accordo in questione costituisce
“un’intesa orizzontale tra le principali banche nazionali che in un regime di concorrenza avrebbero
dovuto agire in competizione reciproca. La
concertazione ..., in quanto incide sul prezzo, ovvero sull’elemento fondamentale su cui si esplica la
concorrenza tra gli operatori per la fornitura di un
servizio, costituisce una delle più gravi forme di
violazione della normativa antitrust”.
La B.I., ai sensi dell’art.15 L. 287/90, ha ritenuto
l’infrazione grave e duratura, provvedendo ad erogare la sanzione amministrativa pecuniaria nella
misura del tre per cento dei proventi realizzati
nell’esercizio 1998. Francamente, tale sanzione ci
sembra esigua: non si può far emergere un fenomeno anticoncorrenziale come quello fin qui descritto, riconosciuto come tale anche dall’Autorità
Garante, e poi, avendo la possibilità di erogare una
sanzione che vada da un minimo dell’uno ad un
massimo del dieci per cento del fatturato realizza-
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to l’anno precedente alla notifica del provvedimento, limitarsi al tre per cento. Si tenga conto,
che la percentuale non viene calcolata sul fatturato
complessivo delle banche per l’anno 1998, ma solo
sul fatturato realizzato da ciascun istituto relativamente ai prodotti oggetto dell’intesa (bonifici transfrontalieri in valute “in” e servizi interessati dal
regime di esenzione dall’I.V.A.).
In conclusione, non rimane che augurarci che,
d’ora in poi, le banche instaurino calorosi e collabo-
rativi “patti d’amicizia”, più che tra loro, con i consumatori che ad esse affidano i loro risparmi.
Va segnalato che l’Adiconsum ha già predisposto un “Modulo di richiesta di rimborso” da far
compilare a coloro che intendano chiedere la restituzione delle commissioni di servizio e/o delle
commissioni pretese dalla banca su quelle operazioni che avrebbero dovuto usufruire dell’esenzione dall’I.V.A.. Tale modello è riportato sul sito
www.adiconsum.it.
Cristina Castiello
1550 - speciale giustizia
Corte di Cassazione - Sezione
I civile - sentenza 30.6.1999 15.1.2000, n. 422
LA SENTENZA
A norma dell’art. 1835 c.c., in tema di libretto
di deposito a risparmio, fanno piena prova, nei
rapporti fra banca e depositante, esclusivamente le annotazioni sul libretto firmate da impiegato della banca che appaia addetto al servizio.
Ne segue pertanto, che ove facciano difetto tali
sottoscrizioni e la banca assuma di aver restituito le somme depositate, è onere della banca
stessa, dare la prova di disposizioni date dal
cliente, per la restituzione. Né ancora è sufficiente, per superare tale onere probatorio, la
circostanza che il depositante abbia espressamente ammesso, nella citazione introduttiva,
di esseri accordato con un impiegato infedele
dell’istituto di credito convenuto, perché investisse in azioni il saldo di tale libretto di risparmio, previo ritiro, da parte di questi, dell’importo risultante a credito.
IL COMMENTO
Il fatto
Il diritto
Nel gennaio 1988, il sig. Carpinelli conveniva in
La fattispecie in esame, rientra nei contratti di
giudizio, dinanzi al Tribunale civile di Roma, il Credideposito bancario ex art. 1834 c.c., ai sensi del quale
to Italiano S.p.A. chiedendone la condanna alla
“nei depositi di una somma di denaro presso una
restituzione di tutte le somme illecitamente prelebanca, questa ne acquista la proprietà ed è obbligavate dal suo libretto di deposito a risparmio nomita a restituirla nella stessa specie monetaria, alla
nativo. L’attore nel corso degli anni aveva provvescadenza del termine convenuto, ovvero a richieduto ad investire, più d’una volta, somme consista del depositante…”. Senza dubbio, per la banca,
stenti in titoli di Stato, dando sempre le necessarie
il deposito è il principale mezzo di raccolta del
istruzioni di prelievo, risultanti sul suddetto libretdenaro: il contratto si definisce “reale”, perfezioto. Nel marzo 1986, l’impiegato della banca addetto
nandosi con la dazione del denaro allo sportello,
al servizio titoli, rappresentata la maggiore convenon essendo possibile una dazione “differente”,
nienza dell’investimento azionario, su commissionemmeno al direttore dell’agenzia.
ne del Carpinelli, acquistava azioni per £. 350.000.000,
Di regola il deposito è in conto corrente, come
sottoscrivendo i necessari moduli. Alcuni mesi dopo,
si evince dal comma 2 dello stesso art. 1834 c.c., ove
sempre su indicazione dell’impiegato, l’attore dava
si afferma che i versamenti e i prelevamenti (da ciò
disposizione di smobilizzare i titoli acquistati, con
si può chiaramente intendere che questi possono
relativo accredito annotato sul libretto. Nel 1987 il
essere una pluralità) si eseguono alla sede della
Carpinelli consegnava allo stesso impiegato la sombanca presso la quale è costituito il rapporto.
ma di £. 40.000.000 per eseguire un’ulteriore operaIl deposito può anche essere attestato dal
zione d’investimento, con le stesse precedenti morilascio di un libretto di deposito a risparmio -o
dalità. Successivamente il Carpinelli aveva raccolto
libretto in conto corrente- (è il caso di specie della
voci sulla scorrettezza dell’impiegato, il quale avesentenza esaminata), su cui l’impiegato della banva l’abitudine di operare in proprio conto e non
ca addetto al servizio, annota con efficacia
sotto il controllo dell’Istituto bancario: elemento
probatoria tra le parti, le operazioni di versamendecisivo ai fini della decisione in esame, era la
to e prelevamento. Tali operazioni, come si evince
mancanza della firma del suddetto impiegato sul
dal II comma dell’art. 1835 c.c., possono essere
libretto del cliente. L’Istituto convenuto si costituprovate anche se non annotate (il capoverso teiva in giudizio, negando che l’impiegato avesse
stualmente afferma “le annotazioni sul libretto,
agito come suo funzionario, affermando che il
firmate dall’impiegato della banca che appare
rapporto controverso risaliva alle personali relazioaddetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti
ni tra l’attore e l’impiegato “scorretto”.
tra banca e depositante”).
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Nel caso di specie, viene in questione proprio
l’art. 1835 comma 2, relativamente ai rapporti tra
banca e cliente: infatti, ripercorrendo ed integrando giurisprudenza costante sul punto, si affermano principi di fondamentale importanza per
l’affidamento e la tutela del cliente.
In primis, ripercorrendo altro orientamento
della stessa Cassazione (Cass.,sez. I, 4.7.1993 n.2641,
in Giur.It., 1993, I, 1, 2270; Cass., sez. I, 16.04.1996,
n.3585, in Foro it., Rep. 1996, voce Contratti bancari, n. 3585), si stabilisce che la particolare efficacia
probatoria prevista dal comma 2 dell’art. 1835 c.c.,
si riferisce sì alle annotazioni che figurano effettivamente apposte sul libretto, senza che però da
ciò ne derivi una presunzione legale assoluta, per
cui debbano considerarsi compiute soltanto le
operazioni annotate. Da ciò ne consegue (come è
avvenuto per il caso in esame) che è sempre
possibile la prova che una operazione (versamento o prelevamento) sia stata effettivamente eseguita; in più, anche se il libretto bancario di deposito a risparmio non può considerarsi atto pubblico dotato dell’efficacia probatoria privilegiata di
cui all’art. 2700 c.c., risulta assistito dallo speciale
regime delineato dall’art. 1835 stesso codice, sicché, ove il documento presenti i requisiti formali
minimi della sua identità, esso fa piena prova non
solo delle annotazioni, ma anche della provenienza del libretto dalla banca al cui servizio appare
addetto il funzionario che ha sottoscritto dette
annotazioni o la stessa emissione; militano infatti
in tal senso, il principio dell’apparenza del diritto
e della tutela dell’affidamento (invocabile dal depositante se ed in quanto versi in condizione di
buona fede) riposto sul dato di fatto della provenienza delle annotazioni dall’impiegato che, con
le modalità usuali e normali riceve i depositi,
ingenerando nel pubblico la legittima opinione
che egli sia assistito dal relativo potere.
Un secondo aspetto di fondamentale importanza, si può trarre dalle difese dell’Istituto di
credito, ove si tenta di affermare che l’impiegato
non operava, per quella specifica operazione,
come funzionario della banca. Anche a tal proposito, la Cassazione ha riproposto principi non nuovi,
ma sempre efficaci.
Già in altre sentenze (Cass., sez. I, 06.02.1998,
n.1224, in Foro it., Rep. 1998, voce Contratti bancari,
n. 1224) si era concluso affermando che, affinché il
deposito possa dirsi effettuato “presso” una banca,
come richiede l’art. 1834 c.c., non è necessario che
il versamento della somma di danaro avvenga all’interno dei locali dell’istituto, ma è sufficiente che
la sua consegna sia fatta a persona incaricata di
riceverla per conto della banca, rendendosi decisivo, per la configurabilità dell’operazione, non il
luogo dove la stessa è compiuta, ma la qualità della
persona che ha ricevuto materialmente la somma
di denaro; del pari inidonee ad escludere la regolarità dell’operazione e la sua riferibilità alla banca si
rendono l’assenza della sottoscrizione al presidente (non essendo tale requisito richiesto dall’art.
1835 c.c., o da altra norma di legge, ma da mere
consuetudini operative delle banche, prive, in quanto tali, di efficacia vincolante nei confronti dei
terzi), o la mancata contabilizzazione dell’operazione (dal momento che tale omissione comporta
la violazione di disposizioni riguardanti il funzionamento dell’impresa bancaria e non la disciplina dei
rapporti da essa instaurati con i terzi).
Quindi, si viene a prediligere il principio dell’apparenza, dell’affidamento e buona fede del
cliente, anche ove manchi la sottoscrizione ed
effettiva annotazione dell’operazione sul libretto
di risparmio. (In dottrina, si veda NTUK Effiong,
Questioni in tema di efficacia probatoria delle
annotazioni sui libretti di deposito, in Banca, borsa ecc., 1995, I, 510; PISANI Luca, Profili probatori
del libretto di deposito a risparmio ed operazioni
non annotate (Nota a Cass., sez. I, 4 marzo 1993, n.
2641, in Banca, borsa ecc., 1995, II, 310; DE VITIS
Salvatore, Riflessioni in merito alla efficacia
probatoria delle annotazioni effettuate sul libretto di deposito a risparmio (Nota a Cass., sez. I, 4
marzo 1993, n. 2641, in Giust. civ., 1994, I, 2021;
CAVALLO Luigi, Osservazioni a Cass., 16 dicembre
1991, n. 13547, in tema di responsabilità della banca verso il cliente (Nota a Cass., sez. I, 16 dicembre
1991, n. 13547, in Riv. dir. comm., 1993, II, 238).
Cristiano Iurilli
sommario:
SPECIALE A CURA DEL CENTRO GIURIDICO ADICONSUM
Coordinatore nazionale: Paola Moreschini
Collaboratori: Stefano Cascino, Cristina Castiello, Domenico Formichelli,
Cristiano Iurilli, Alessandro Palmigiano, Antonella Scano
1547 - speciale giustizia
Azione inibitoria e condizioni contrattuali relative ad un servizio pubblico
1548 - speciale giustizia
Commercio elettronico e firma digitale
1549 - speciale giustizia
“Amici della banca” ... nemici della concorrenza
1550 - speciale giustizia
Corte di Cassazione - Sezione I civile - sentenza 30.6.1999 - 15.1.2000, n. 422
Direttore: Paolo Landi • Direttore Responsabile: Francesco Casula • Redazione ed Amministrazione: Adiconsum, Via Lancisi 25
- 00161 ROMA • Reg. Tribunale di Roma: n. 350 del 9.06.88 • Sped. abb. post. comma 20/c art.2 L.662/96 - Filiale di Roma •
Abbonamento: Lit. 70.000 • Abbonamento sostegno: Lit.12345678901
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Settimanale 32/99