Provincia di Perugia DA UN BUIO ALL’ALTRO IL LAVORO DEI CONTADINI DI COLLINA NEGLI ANNI TRENTA - SESSANTA DEL NOVECENTO ALDO FRITTELLI Provincia di Perugia Progetto grafico Ufficio Relazioni Esterne, Editoria e Centro Stampa Testo e disegni Aldo Frittelli Ringraziamenti Espressioni di gratitudine devo ad Armando Biselli, Carla Boldrini e a Felicetta Rossetti per la preziosissima collaborazione e per i numerosi consigli elargiti A Carlo Alberto Cenci per le consulenze tecniche specifiche A Maria Teresa Bombetti e Giovanna Casagrande per la consulenza prestata Ringrazio inoltre Natale Bonucci, Giuseppe Ciurnella e Francesco Sargenti per avermi aiutato a ricordare DA UN BUIO ALL’ALTRO IL LAVORO DEI CONTADINI DI COLLINA NEGLI ANNI TRENTA - SESSANTA DEL NOVECENTO ALDO FRITTELLI 5 PREMESSA La descrizione dei lavori agricoli mezzadrili, praticati fino agli anni Cinquanta del Novecento nel territorio circostante Perugia, trae origine dalla mostra fotografica “San Marco e dintorni nel tempo,” tenutasi a San Marco di Perugia nell’autunno 2001. Tra i vari temi presi allora in esame dal gruppo di lavoro di cui ho fatto parte, non è mancata anche una panoramica, seppure generica, sull’agricoltura praticata negli anni sopra indicati. Da ciò è nato in me il desiderio di ricordare, in dettagliata successione, le principali opere agricole annuali, situandole entro alcune preliminari considerazioni di ordine generale. L’idea di descrivere in dettaglio il lavoro manuale delle popolazioni rurali è nata non tanto per romantica nostalgia di un passato relativamente recente, né per rimpianti di alcun genere, ma per rendere giustizia a un’attività umana in moltissimi casi praticata quasi eroicamente, allo scopo di “strappare” magri raccolti da terreni spesso impervi e sassosi. Una testimonianza, la mia, vissuta in prima persona sin da quando, adolescente, partecipai a svariate opere agricole, frutto del lavoro di parenti o conoscenti contadini. Non essendo ancora disponibili tutti gli attuali mezzi meccanici, in quegli anni la raccolta dei prodotti non si poteva realizzare che alla maniera antica, maneggiandoli numerose volte, in momenti diversi e distanziati. I lavori più impegnativi, come la fienagione, la mietitura, la carratura, la trebbiatura, la vendemmia, richiedevano 6 l’opera di numerose persone e una notevole quantità di tempo e di energie. In questi ultimi anni sono sorti un po’ dovunque importanti musei della civiltà contadina, ma sia gli utensili che i macchinari ivi custoditi riescono solo limitatamente a far comprendere ai visitatori di più recente generazione quanto impegnative fossero le attività agricole, fino a qualche decennio fa. Neanche le rare fotografie dell’epoca, per quanto preziose, riescono ad essere esaustive per coloro che, per ragioni di studio o per semplice curiosità, avessero interesse a saperne di più; esse infatti, non consentono di cogliere sottili e delicate sfumature nel rapporto tra l’uomo e i suoi animali da lavoro, né emozioni legate ad una operosità dura, ma comunque gioiosa. L’autore 7 AGRICOLTURA COLLINARE NEI DINTORNI DI PERUGIA TRA IL 1930 E IL 1970 Come in una sorta di rinnovata attualità, da alcuni anni, in tutta la regione, vengono riproposte nel mese di luglio brevi trebbiature di grano con antiche macchine trebbiatrici, come si effettuavano fino ai primi anni Sessanta. Questi eventi, oggi quasi folcloristici, sono pretesto per alcune riflessioni riguardanti tutti i lavori dei nostri contadini, così come si sono svolti fino a pochi decenni fa entro le regole dell’arretrato sistema mezzadrile. L’organizzazione agraria del limitato territorio che sarà preso in considerazione non differiva, nell’insieme, da quella dell’intera provincia. I patti agrari mezzadrili, che hanno regolato i rapporti tra proprietari e contadini fin dal XIII secolo, dal 1964 non vengono più applicati. La giornata lavorativa dei contadini iniziava prima dell’alba in tutti i giorni dell’anno e si concludeva ben oltre il tramonto, come essi stessi dicevano: “da un buio all’altro.” Un tipo di agricoltura particolarmente dura, specialmente quella attuata in alta collina, da cui i mezzadri riuscivano a trarre redditi estremamente bassi; in moltissimi casi un’agricoltura “eroica”, condotta quasi al limite della sussistenza. E’ doveroso sottolineare che gli appezzamenti di terreno collinare, posti a coltura mista, erano spesso assai disagevoli per l’accentuata pendenza; essi richiedevano, per la loro coltivazione, Paesaggio agrario collinare (foto E. Mezzasoma) un dispendio di tempo e di energie rilevanti, se confrontati con alcune corrispondenti coltivazioni di pianura. Gli oliveti plurisecolari, ad esempio, costituiti da raggruppamenti di grossi tronchi ubicati sul ciglio di frequenti e ravvicinati greppi,* ostacolavano non poco l’aratura, la semina e la falciatura. Un’attenta osservazione del paesaggio agrario collinare, anche se in parte abbandonato da alcuni decenni, permette ancora di “leggere” le nostre campagne, modellate nel corso del tempo dal lavoro di molte generazioni di contadini. Ad esempio, si possono ancora individuare i ciglionamenti, attuati per mezzo di greppi; i terrazzamenti, sostenuti da muri a secco; le carrarecce,* per agevolare il trasporto dei prodotti; le piccole canalizzazioni, denominate “forme,”* per incanalare le acque piovane ed arginare gli effetti * Per le voci indicate con asterisco, vedi glossario. Casa colonica (foto E. Mezzasoma) disastrosi del dilavamento del suolo, o i piccoli stagni per abbeverare gli animali e per irrigare limitate superfici di terreno. I terreni erano quasi dovunque messi a coltura forzatamente promiscua (seminativi, olivi e viti) a causa delle limitate dimensioni dei poderi* (mediamente di 8-10 ettari) talvolta frammentati in più campi anche di modesta superficie. Tali appezzamenti consentivano piccoli allevamenti di bestiame, generalmente bovino, suino e avicolo. Tra i campi, in alcuni casi marcati perimetralmente da siepi, si inserivano, sui pendii più accentuati, lembi di macchia.1 Spesso il paesaggio agreste era (ed è) arricchito da numerose querce plurisecolari, situate ai margini dei campi o sui greppi, cresciute e mantenute da generazioni per le preziose ghiande utilizzate nell’alleva- 1 In questi ultimi decenni, nei poderi abbandonati, la boscaglia sta riconquistando quanto le era stato sottratto tanti secoli fa. 10 mento dei suini. I punti più depressi dei campi erano spesso punteggiati da trosce* di acqua piovana “catturata” nelle stagioni autunnali e invernali. Un’altra caratteristica del paesaggio mezzadrile è ancora oggi rappresentata dalle case coloniche, ubicate spesso sui punti meno produttivi o sulla parte alta del podere, allo scopo di agevolarne la sorveglianza. La loro tipologia è in genere costituita da un piano terreno e da un primo piano (meno frequente qualche esemplare dotato di torre piccionaia, dalla caratteristica cornice - posatoio a gradoni)2 . Nei poderi prossimi alla città, accanto a una coppia di buoi o di vacche per il traino dell’aratro, del carro e della treggia,* erano presenti una o più mucche da latte; la vendita di questo alimento metteva a disposizione del colono mezzadro modeste quantità di denaro (da dividere comunque con il proprietario), in quasi tutti i mesi dell’anno. Nei poderi di 5-6 ettari non sempre era possibile mantenere una coppia di buoi, a causa della ridotta quantità di erba fresca e di 2 La tipologia più frequente delle case coloniche era in genere costituita da un piano terreno in cui era situata la stalla dei bovini (talvolta separata dall’erbaio), la cantina, il pollaio e la porcilaia (quest’ultima in molti casi non era altro che un basso corpo di fabbrica addossato alla casa stessa, mentre il pollaio era sempre dotato di una voliera). Al primo piano della casa si accedeva quasi sempre per mezzo di una scala esterna monorampa che terminava in una loggetta, dalla quale si entrava direttamente nella grande cucina e da questa nelle camere e nel granaio. La cucina era corredata di un grande camino di norma caratterizzato da due nicchie laterali, dette “i cantoni”, dotate di panche fisse. Il corredo del camino era costituito da due grandi alari di ferro, detti i “capofochi,” i cui elementi verticali recavano a più livelli ganci per lo spiedo e, all’estremità superiore, un cerchio orizzontale che, se necessario, poteva accogliere un piatto. Dall’ampia canna fumaria pendeva una catena dai grandi anelli che terminava con un gancio al quale si appendeva il paiolo, detto il “caldaro”. Altri elementi di corredo del camino erano le gratelle e i treppiedi, unitamente alla paletta e alle molle per muovere la brace e i tizzoni. Il camino stesso era infine affiancato da due fornelli in muratura, alimentati da carbone di legna. In una nicchia della cucina, dotata di finestrella, era collocato il lavello in muratura, corredato di un vano sottostante in cui veniva riposto il paiolo, mentre al di sopra della finestrella era appesa una piattaia lignea. Su un’altra parete erano infine ancorate una rastrelliera e un’estesa mensola, sulle quali erano sistemate rispettivamente pentole metalliche e pignatte fittili. Buoi al lavoro (collezione Roila) fieno producibili. In questi casi, due coloni di poderi contigui si accordavano a mantenere un capo per ciascuno: gli animali venivano così utilizzati a giorni alterni sui due poderi (tale modo di operare veniva definito con l’espressione “appaiarella”). In occasione delle attività agricole più impegnative (falciatura e raccolta del fieno, mietitura, trebbiatura, vendemmia) i coloni erano soliti “tenere l’opera”* (scambio reciproco di manodopera non retribuita, cui erano dovuti solo cibo e bevande per l’intera giornata; se i prestatori d’opera erano braccianti, il loro compenso si effettuava con denaro o con prodotti agricoli). Casa colonica in rovina (foto E. Mezzasoma) Fino agli anni Cinquanta le condizioni di vita degli agricoltori di collina erano rimaste a livello quasi primordiale. I disagi principali erano rappresentati da case coloniche fatiscenti, prive quasi sempre dei più essenziali servizi igienici; da rifornimenti idrici, talvolta lontani dalle case, comunque costituiti da pozzi o cisterne spesso di dubbia potabilità; da collegamenti con le strade maestre o vicinali, costituiti di frequente da piste, veri e propri pantani nelle stagioni piovose; da antiquata illuminazione con lampade ad olio o ad acetilene (di illuminazione elettrica erano in genere dotate le case più prossime alla città o alle frazioni). Infissi di porte e finestre, privi da tempo di manutenzione, nella stagione invernale mal difendevano dal freddo e i miasmi delle stalle, situate al piano terreno, invadevano costantemente l’abitazione posta al piano superiore. 13 Questi ed altri disagi, unitamente alla scarsa e discontinua disponibilità di denaro, nell’immediato dopoguerra spinsero i contadini a intraprendere alcune forme di lotta. Nell’estate del 1945 ebbe inizio una mobilitazione dei mezzadri per sollecitare una più favorevole suddivisione dei raccolti; lo scontro con i proprietari terrieri si acuì, tanto da giungere allo sciopero della trebbiatura che, dopo alcuni giorni, venne ripresa tramite mediazioni. Il conflitto si riaprì nel 1946 e si concluse con la mediazione del presidente del consiglio Alcide De Gasperi, cui fece seguito un accordo preparato dal ministro dell’agricoltura Antonio Segni (l’accordo prevedeva una ripartizione al 53% a favore del contadino e un accantonamento del 4% della parte padronale per opere di miglioria). Ciò nonostante le rivendicazioni continuarono anche negli anni Cinquanta a causa dei persistenti bassi redditi dei mezzadri (a questo malcontento si aggiunsero inoltre - nel 1956 e 1957 annate agrarie disastrose, 3 che intorno agli anni Sessanta, contribuirono ad attivare un sempre più rapido spopolamento delle campagne). Alle prime avvisaglie di abbandono, soprattutto da parte dei giovani coloni, alcuni più accorti proprietari terrieri, agevolati anche da nuove leggi favorevoli, attuarono qualche miglioria: restauro delle case più malandate, realizzazione di servizi igienici, costruzione di stalle per bovini e porcilaie distaccate dalle abitazioni, creazione di 3 Nei primi mesi del 1956 si verificarono numerose ed abbondanti precipitazioni nevose, che si accumularono l’una sull’altra per settimane. Le ripetute gelate notturne danneggiarono le colture e in modo particolare gli oliveti. Anche gli olivi secolari, specialmente se ubicati su appezzamenti esposti a mezzogiorno, furono distrutti, tanto da renderne necessario l’abbattimento (contrariamente a quelli situati sui pendii esposti alla tramontana che, anche se un po’ malconci, riuscirono a sopravvivere e a produrre un modesto raccolto). Nelle notti del 6 e 7 maggio 1957 si verificarono invece due tardive gelate che arrecarono gravissimi danni a tutte le coltivazioni e in modo particolare ai vigneti. 14 laghetti per l’irrigazione dei campi, elettrificazioni, ecc. (anche se era ormai troppo tardi). In un primo tempo, forse per non incrementare la disoccupazione, l’esodo venne frenato da leggi emanate nel periodo anteguerra, che impedivano a chi era nato contadino di cambiare attività; chi non esibiva un apposito documento, noto come “Libretto di Lavoro”, non poteva essere assunto da alcun imprenditore. Rimosso successivamente tale ostacolo, con il progressivo nascere di industrie piccole, medie e grandi, unitamente al crescente sviluppo edilizio ci fu l’abbandono di tale antiquato tipo di agricoltura, che determinò il definitivo tramonto della mezzadria. Dagli ultimi decenni del Novecento i proprietari praticano infatti l’agricoltura collinare del territorio in forma “diretta”, con l’ausilio degli ex coloni, denominati “giornalieri”. Abbandonati gli appezzamenti più impervi, introdotta qualche nuova coltura, scomparsi buoi e vacche da traino, tutte le operazioni ora vengono effettuate con macchine agricole: trattori, spargiletame, frangizolle, rastrelli, presse per paglia e foraggi, mietitrebbiatrici, ecc. Trattore anni Cinquanta (proprietà Longetti) 15 Per gli antichi oliveti, costituiti da esemplari di grandi dimensioni, esiste qualche difficoltà di mantenimento, specialmente se situati su terreni in forte pendenza. Comunque la sempre più scarsa mano d’opera per la raccolta del prodotto viene compensata in natura con 7 Kg di olio per ogni 100 Kg di olive raccolte. Per la coltivazione della vite si è invece passati dalla coltura detta “a vite maritata” (vite più acero) ai vigneti specializzati, anche se limitati a pochi appezzamenti. L’esodo dei contadini ha fatto sì che anche la zootecnia sia stata fortemente ridimensionata nel territorio circostante Perugia. Il patrimonio edilizio rurale, costituito spesso da esemplari assai significativi e interessanti dal punto di vista delle tipologie architettoniche, è sempre più fatiscente e, in alcuni casi, in completo abbandono. Alcune strutture sono state adattate ad attività agrituristiche, mentre altre, opportunamente ristrutturate, vengono trasformate in eleganti residenze “rustiche”. 17 OPERE AGRICOLE COLLINARI PRATICATE FINO AGLI ANNI SESSANTA DEL NOVECENTO (Per una opportuna e necessaria indicazione, va precisato che gran parte delle opere agricole, di seguito esposte, seguendo la logica successione stagionale, trovano tuttora la loro valida attuazione, anche se agevolate da attrezzature, tecnologie e macchine non disponibili negli anni indicati). Concimazione Prima della introduzione dei concimi chimici, la fertilizzazione dei terreni si effettuava soltanto con letame di stalla, stagionato in apposite concimaie, situate a una certa distanza dalle case coloniche. Il prodotto, caricato manualmente con il forcone* sul carro o sulla treggia* e trasportato sul campo, veniva sparso manualmente Treggia (proprietà Enrico Fiorucci) 18 con lo stesso utensile prima dell’aratura. L’impiego dei concimi chimici, introdotto tra le due guerre mondiali, non fu all’inizio molto praticato, in quanto costoso. Nel secondo dopoguerra il cospicuo abbattimento dei prezzi di tali prodotti ne favorì l’uso (unitamente al letame). In genere si impiegavano due tipi di fertilizzanti chimici: il primo a base di fosforo e l’altro a base di azoto. Il primo veniva impiegato in autunno per la coltivazione di grano, orzo, avena; mentre il secondo si utilizzava in primavera. Durante lo spargimento manuale, l’operatore talvolta si proteggeva le vie respiratorie con un fazzoletto legato sul viso. Aratura Voltorecchio a ruote (proprietà Nello Saccoccini) L’aratura si effettuava con il voltorecchio,* lentamente trainato da una coppia di buoi o di vacche aggiogati e continuamente sollecitati dal bifolco4.* L’operazione si eseguiva con passaggi di andata e ritorno in prossimità delle curve di livello, solitamente iniziando dal punto più basso del pendio. Allo scopo di tenere l’aratro in asse alla fetta 4 Le sollecitazioni si attuavano con la voce e piccoli tocchi di frusta, in quanto i buoi tendevano continuamente a fermarsi per la fatica. Vale la pena di riflettere un momento sulla accentuata durezza di tale lavoro, sopportato docilmente da questi miti animali. Il giogo,* appoggiato loro sul collo e ancorato con funi alle corna, al momento del traino produceva una forte (e forse dolorosa) pressione, tale da creare un esteso e permanente callo. In estate gli stessi animali erano tormentati da numerosi insetti (mosche e tafani) che li assalivano in tutte le parti del corpo, ma soprattutto lungo la circonferenza dei bulbi oculari. I buoi si difendevano alla meglio, scrollando il capo e usando continuamente la coda come una sorta di frusta. I terreni collinari, molto spesso sassosi, rendevano particolarmente aspra la fatica del traino, in quanto frequentemente il vomere incappava in pietre più o meno affioranti. Non meno gravoso era il lavoro del bifolco che, giunto alla estremità del campo, mentre i bovini invertivano la direzione di marcia, doveva tenere sollevato l’aratro prima di intestarlo per il nuovo solco. 19 di terreno da dissodare, uno degli animali percorreva il fondo del solco già effettuato mentre l’altro procedeva a una quota più alta sul terreno che il versoio del voltorecchio avrebbe capovolto di lì a poco. Le principali arature si attuavano in estate. Altri dissodamenti si potevano effetAratura sul pendio tuare anche in periodi diversi dell’anno, ma soltanto in condizioni di terreno asciutto. Le arature estive iniziavano prima dell’alba, venivano interrotte nelle ore centrali più calde, riprendevano a metà pomeriggio e proseguivano fin dopo il tramonto. Quando il terreno era particolarmente resistente, o in caso di arature più profonde, realizzate con qualche raro aratro a ruote, denominato “carrettino,” il dissodamento si eseguiva con due paia di bovini, di intesa con un colono confinante che metteva a disposizione se stesso e i suoi animali. Al momento opportuno, tale servizio veniva restituito. Questo tipo di traino era definito con l’espressione “arare alla strappa.” Come già accennato, particolarmente dispendiosa di fatica era l’aratura negli antichi oliveti, costituiti anche da gruppi di tre o quattro tronchi contorti e assai estesi alla base. Ai piedi di essi il voltorecchio non poteva operare, tanto che i buoi, giunti in prossimità dei fusti, dovevano aggirarli, lasciando inevitabilmente due estesi triangoli morti (non arati); la loro superficie complessiva di 6-8 mq doveva essere dissodata manualmente con lo “zappitello.”* Nella fase di aggiramento il bifolco, per mezzo delle maniglie, sollevava alquanto il voltorecchio, al fine di non Voltorecchio danneggiare le radici. I bovini, passan- do presso gli ulivi, cercavano di brucarne le fronde, riuscendo anche a strappare, con la robusta lingua, i rametti più bassi; per evitare l’inconveniente essi venivano muniti di una museruola metallica, denominata “boccaletta.”* In tutte le arature rimanevano (e rimangono) alle due estremità dell’appezzamento strisce di terra non arata di Boccaletta circa quattro metri; questo perché l’ara(proprietà Nello Saccoccini) tro non può raggiungere il limite del campo, avendo davanti a sé la forza trainante (ieri i buoi, oggi il trattore). Detta area, denominata “capitagna,”* veniva (e viene) lavorata, nella fase finale, con una serie di passaggi trasversali, paralleli alle testate dei campi stessi. I terreni arati, destinati alla semina dei cereali, che oggi vengono subito sminuzzati con appositi frangizolle, erano così lasciati all’opera relativamente disgregatrice delle prime piogge autunnali. Dopo l’aratura era importante ripulire le “forme”* predisposte per lo smaltimento delle acque meteoriche, in quanto ostruite qua e là dalle zolle precipitate dai greppi durante il dissodamento. Semina di grano, orzo, avena Gli ultimi giorni di ottobre e i primi di novembre si attuava (e si attua) la semina di questi cereali, dopo aver mescolato la semente con prodotti utili a renderla repellente a insetti e uccelli e a prevenire malattie funginee. Frantumate opportunamente le zolle mediante un grande rastrello trainato dai buoi, il seminatore, recando appeso a un avambraccio un canestro di semente, ne lan- ciava una manciata alla volta sul terreno; la manovra, ritmata al passo, si effettuava con un moto rotatorio orizzontale del braccio dall’esterno verso l’interno, con il pugno socchiuso. Tale primitivo sistema di semina era sostituito, in Rastrello per sminuzzare le zolle (proprietà Paolo Rossi) alcuni casi, da qualche macchina seminatrice, di cui solo pochi coloni disponevano. Faceva seguito l’interramento dei semi per mezzo del grande rastrello, seguito a rimorchio dall’erpice* e la frantumazione di rifinitura delle zolle più piccole con la zappa.* Sui campi così sistemati era inoltre necessario realizzare dei solchi-canaletta distanti circa 8-10 metri, aventi una leggera pendenza verso i margini dell’appezzamento; la loro funzione era quel- Assolcatore (proprietà Paolo Rossi) 22 la di disciplinare le acque piovane, che altrimenti avrebbero potuto innescare dannose ed estese erosioni.Tali canalette venivano realizzate con l’aratro assolcatore,* mentre le sbavature, prodotte ai bordi del solco, erano accuratamente rimosse con la zappa. La pioggia raccolta in questi solchi era convogliata in altre canalette fisse, denominate “forme,” e da queste nei fossi circostanti. Raccolta delle ghiande Intorno alla metà di novembre si attuava la raccolta delle ghiande, utili ad integrare l’alimentazione dei suini; la limitata quantità di prodotto raccolto serviva, comunque, ad alimentare pochi animali. I frutti caduti Canestro (proprietà Franco Mariucci) spontaneamente dalle querce venivano recuperati da raccoglitori di tutte le età; questi, chini o accovacciati, li raccoglievano manualmente uno a uno, riempendo canestri* di varie dimensioni. Raccolta delle olive Fino agli anni Cinquanta i proprietari dei poderi esigevano che la raccolta delle olive non iniziasse prima della loro perfetta maturazione, pertanto era consuetudine iniziare il lavoro il 25 novembre (festa di Santa Caterina d’Alessandria). A seconda delle annate più o meno abbondanti e delle condizioni atmosferiche, le operazioni potevano protrarsi anche per tutto il mese di dicembre. I raccoglitori, incalzati dal rischio di una brutta stagione (compresa qualche precoce nevicata e le ridotte ore di luce), operavano 23 con grande sollecitudine. Anche giornate di nebbia potevano ritardare il lavoro, sia perché lo scorrere della mano sulle fronde bagnate era (ed è) quasi impossibile e sia perché tale atto avrebbe arrecato danno agli olivi. In alcuni casi si operava in giornate asciutte, ma comunque proibitive per il vento gelido di tramontana; nella impossibilità di operare con i guanti, il freddo tendeva a ridurre la mobilità delle mani (inconveniente che si cercava di attenuare riscaldandole di tanto in tanto su improvvisati falò o su un piccolo braciere). Addossate scale a pioli a tutti i rami dell’olivo (per gli alberi più antichi e più alti, specie se ubicati sul ciglio dei greppi, occorrevano scale lunghissime, costituite anche di 20 gradini), gli operatori “brucavano” con la mano socchiusa a pugno tutti i rametti carichi di drupe, ripiegandoli dolcemente sul piccolo canestro che portavano davanti a sé, appeso alle spalle. Fino agli anni Cinquanta, non essendo in uso le grandi reti attuali, i frutti che sfuggivano di mano, o fatti cadere in precedenza dal vento, venivano raccolti manualmente a terra, uno ad uno. Crivello (proprietà Nello Saccoccini) 24 Mulino manuale A sera le olive, mondate dalle foglie mediante un crivello, venivano poste in apposite casse dal fondo perforato da sottili asole di areazione. Nei giorni successivi il prodotto veniva caricato sul carro5 e trasportato al frantoio per la spremitura; ritardi di macinazione potevano Molazza 5 Il carro agricolo in uso nel territorio perugino era dotato di due ruote il cui diametro non superava l’altezza del pianale di carico, tanto che il veicolo, a seconda delle necessità, poteva essere utilizzato con la cassa oppure con un robusto telaio, entrambi smontabili. La cassa si utilizzava per trasportare il letame, i sassi residui dello spietramento, le pannocchie del mais e, durante la vendemmia, le bigonce. Il telaio, che si impiegava invece per il trasporto del fieno e dei covoni, era costituito da quattro stanghe del diametro di circa 12 cm, parzialmente incastrate e vincolate tra loro per mezzo di bulloni. Le prime due, adagiate trasversalmente alle estremità del pianale, sporgevano di circa 30 cm oltre il perimetro dello stesso; sopra di esse, in posizione longitudinale, erano situate le altre due. La stabilità del telaio era garantita da spinotti metallici verticali. talvolta determinare fermentazioni dannose per la qualità dell’olio. Dopo qualche giorno, con lo stesso mezzo di trasporto si tornava al mulino per ritirare l’olio novello con cui si riempivano barili* lignei della capacità di 50 litri; altri contenitori dello stesso tipo, ma di minore capacità, erano detti “barlozze”*(25 litri) e barlozzini (15 litri). Barile In quell’occasione, era possibile effettuare talvolta un “assaggio”, mangiando una fetta di pane tostato, grondan- Ziro (proprietà Nello Saccoccini) 6 La lavorazione di molitura, ieri come oggi, era effettuata da manodòpera specializzata. L’accesso al laboratorio, oggi precluso ai non addetti per ovvie ragioni igieniche, negli anni Cinquanta in alcuni casi non era così rigoroso, tanto che, su richiesta, per qualche minuto era possibile effettuate una rapida visita non priva di emozioni, soprattutto per chi, adolescente, la effettuava per la prima volta. Nei locali, mantenuti a una temperatura di circa 20° da una stufa, operavano tre o quattro mugnai ciascuno con le proprie mansioni (entrando ci si immergeva gradevolmente nel forte profumo dell’olio che si espandeva per l’intero edificio). Tra i macchinari allora in uso colpiva immediatamente, per accentuata espressione di forza, la molazza,* utilizzata per la prima fase operativa. Essa era costituita da due grandi màcine di granito del peso di circa 1000 kg ciascuna, che si rincorrevano rotolando in cerchio in fondo a una tramoggia.* Lo schiacciamento delle olive prodotto dalle due mole dava luogo a un blando sgusciamento laterale dei frutti; l’inconveniente era risolto da due raschiatoi, trascinati dalla stessa macchina al seguito di ciascuna màcina, così che la poltiglia veniva riportata sulla linea di rotolamento dei due monoliti. Effettuata una serie di passaggi, con la pasta di olive frante si riempivano degli involucri di fibre vegetali, denominati “fiescoli,”* aventi la forma di una sottile doppia corona circolare, i quali, sovrapposti in forma di pila sui pianali di alcune presse idrauliche, venivano sottoposti a spremitura. L’olio, ancora misto ad acqua di vegetazione, gocciolava copiosamente dagli involucri stessi, raccogliendosi in appositi contenitori, passando poi in una macchina detta “centrifuga” che provvedeva a separare i due liquidi: da un doccione usciva l’acqua e da un altro il biondo prodotto finito. In casa, l’olio veniva conservato in orci di terracotta dalla superficie interna invetriata e dotati di robusto tappo di legno. 26 te dello squisito protagonista6. Potatura Ultimata la raccolta delle olive, la stagione invernale consen- Olivo dopo la slupatura (foto E. Mezzasoma) 27 tiva una relativa tregua nelle opere agricole, fatta ovviamente eccezione per il settore zootecnico. Tempo meteorologico permettendo e ad intervalli di circa dieci anni si attuava, a rotazione, negli oliveti secolari, una particolare manutenzione dei tronchi, denominata “slupatura,” cioè per mezzo di utensili di varie forme (sgorbie, scalpelli, ecc.) si asportava dalla parte cava dei fusti la “carie” o “lupa” (malattia dell’ulivo); tale bonifica, che si spingeva per alcuni decimetri sotto il livello del terreno, produceva anche profumate schegge di legno che venivano utilizzate come combustibile. La potatura vera e propria degli olivi, delle viti e degli altri alberi da frutto si effettuava nella seconda metà di febbraio e nel mese di marzo; per gli olivi si faceva ogni due o tre anni, mentre per le vigne e per i frutteti si ripeteva tutti gli anni. I rami tagliati degli olivi, denominati “brolle,”* prima di essere impiegati come combustibile venivano spogliati di tutte le fronde per essere utilizzati come mangime per i bovini. Tale recupero si effettuava con le cesoie in ambiente riparato (solitamente la stalla) ed era effettuato dalle persone più anziane. Per gli alberi si aveva cura di asportare eventuali polloni cresciuti alla base o sui vecchi rami, di ridurre l’altezza di quelli più alti e di configurarne la chioma in forma di calice. Per le vigne si operava in due fasi. La prima (detta ”sbrecciatura”*) si limitava al taglio dei tralci inutili e a rimuovere le vecchie legature; dopo qualche settimana, sostituiti i pali lignei di sostegno, corrosi dalle intemperie, si procedeva alla legatura dei tralci ai fili di 7 Le vigne potevano essere organizzate in vari modi. Nella sistemazione a spalliera le viti, allineate a filari, erano ancorate a due o più fili di ferro paralleli al terreno, sovrapposti e sostenuti alle estremità da pali di legno (più tardi sostituiti con quelli di cemento). Un’altra sistemazione abbastanza frequente era quella detta “a vite maritata”, costituita cioè da singole viti piantate a pochi centimetri da un albero avente funzione di sostegno (solitamente un acero campestre, comunemente detto “stucchio).” Una variante a questa sistemazione poteva essere quella detta “a telone.” In questo caso sui rami di due aceri contigui venivano ancorati due pali trasversali destinati a sostenere quattro fili di ferro. Sui fili stessi, controventati da sottili traversi, venivano distese e legate le viti. In alcuni casi le viti potevano essere sistemate sopra un pergolato, impropriamente detto dai coloni “il voltabotte;” mentre autentici voltabotte (sostenuti da strutture trasversali in ferro sagomate a semicerchio) venivano realizzati per ombreggiare vialetti in prossimità di ville o case padronali e per sostenere viti di uva da tavola. 28 ferro mediante rametti di salice più o meno sottili, comunemente detti “venchi.”* I tralci recisi venivano raccolti in piccoli fasci per essere utilizzati come combustibile per il camino o per il forno7. Semina dei foraggi Intorno all’ultima decade di marzo, si seminavano i foraggi per l’anno successivo, costituiti da erba medica, trifoglio pratense e lupinella, (quest’ultima, però, veniva seminata a parte). Detta coltura serviva a produrre erba fresca, ma soprattutto una buona quantità di fieno, per alimentare gli animali nella stagione invernale. Tale semina era importante anche per attuare un minimo di rotazione agraria, in quanto i cereali (grano, orzo, avena) impoverivano fortemente il terreno dagli elementi nutritivi, mentre le leguminose sopra menzionate ne incrementavano il contenuto in azoto. La semina delle foraggere veniva in genere attuata in mezzo al grano ancora alto pochi centimetri (bulatura); l’interramento dei semi si effettuava con l’erpice, trainato da un solo bue. Erpice (proprietà Nello Saccoccini) 29 Altra pianta erbacea usata come mangime per gli animali e come ottima incrementatrice di azoto nel terreno, era la favetta (varietà di fava a legume corto, con soli quattro o cinque piccoli semi). A differenza dei foraggi indicati in precedenza, questa leguminosa veniva seminata in uno specifico appezzamento di terreno. Semina del mais La semina di questa graminacea (meglio conosciuta come granturco) si effettuava nei primi giorni di aprile. Arato il terreno e sminuzzate le zolle, si eseguivano solchi adiacenti sull’intero appezzamento, entro i quali, con la mano socchiusa, si lasciavano cadere i chicchi alla distanza di circa 15 centimetri. Il loro rinterro si compiva con la zappa facendo in modo da lasciare quasi intatti i cigli dei solchi stessi. Circa a metà maggio si procedeva alla zappatura manuale del mais per estirpare le erbe infestanti, ma anche per rincalzare ed eventualmente diradare le pianticelle. Vangatura dei filari di viti Vanghe In primavera si procedeva a dissodare il terreno dei filari posti ai margini o in mezzo ai campi seminativi; il trattamento, che si eseguiva manualmente con la vanga,* si estendeva per una larghezza di 70-80 centimetri. Allo scopo di fertilizzare il terreno così sistemato, su di esso veniva seminata la favetta, che serviva anche ad arginare lo sviluppo di erbe infestanti. 30 Impiego degli antiparassitari Solferina o Solforatrice (proprietà Terzilio Santuari) Gli antiparassitari in uso fino agli anni Cinquanta erano soltanto quelli impiegati contro i parassiti vegetali delle viti. A seconda dell’andamento stagionale (più o meno umido) si interveniva più volte nel periodo primaverile per difendere le vigne (foglie e frutti) da alcuni tipi di funghi parassiti, soprattutto dalla peronospera e dall’oìdio. La peronospera si combatteva spruzzando del solfato di rame sui grappoli e sui pampini. L’operazione si attivava la sera precedente il giorno di applicazione, ponendo i cristalli di solfato di rame in un cesto immerso in un contenitore d’acqua di circa 200 litri; il prodotto, una volta disciolto, veniva mescolato con latte di calce spenta. Il preparato, popolarmente detto “verderame”, veniva applicato da una o due persone mediante pompe irroratrici appese alle spalle ed azionate a mano. Il trasporto del liquido dal luogo di preparazione a quello di impiego veniva effettuato da altre persone per mezzo di secchi (tutto il lavoro era definito con l’espressione “dare l’acqua”). Per quanto riguardava invece l’oìdio, bisognava intervenire tempestivamente dopo il verificarsi di particolari situazioni atmosferiche sfavorevoli (ad esempio la nebbia); si correva ai ripari inzolfando i grappoli per mezzo di un inzolfatoio munito di mantice (popolarmente detto “solferina”), appeso al dorso dell’operatore. Falce fienaia (proprietà Nello Saccoccini) 31 Falciatura e raccolta del fieno Impegnative e laboriose erano le operazioni di falciatura e conservazione del foraggio, utilizzato per l’alimentazione di alcuni animali nella stagione invernale. L’operazione si effettuava manualmente nella seconda metà di maggio, per mezzo di grandi falci dal lungo manico di legno, dette appunto “falci fienaie.”* All’utensile veniva impresso un rapido movimento traslatorio, secondo la direzione di un arco di cerchio da destra a sini- Ribattitura della falce stra, che il falciatore ritmava al passo. Durante la giornata di lavoro la falce stessa, smontata dal manico, doveva essere “ribattuta” più volte per mezzo di apposita martellina su una piccola incudine infissa nel terreno. Il bordo tagliente della lama era inoltre mantenuto efficiente con frequenti affilature, attuate con la cote, popolarmente detta “cotarella”* (questo utensile era mantenuto umido e custodito in un corno bovino appeso alla cinghia dei pantaloni). Cotarella Affilatura della falce 32 In occasione della falciatura si provvedeva anche a tagliare l’erba nata spontaneamente sui greppi e sui bordi delle strade carrarecce.* Gli steli tagliati, raccolti in mannelle, venivano disposti Rastrello con cura in direzione parallela alla pendenza dei greppi stessi. Questo lavoro di rifinitura, messo soprattutto in atto dagli anziani e dalle donne, si effettuava con la classica falce* dalla lama ricurva (talvolta detta “falcinella).” Anche questo antichissimo utensile di tanto in tanto doveva essere ribattuto con la martellina e riaffilato con la cote. Il fieno tagliato e lasciato essiccare al sole per alcuni giorni, veniva successivamente rovesciato con la forca* per una più uniforme essiccazione e quindi raccolto sui campi in cumuli del volume pari a una carrata; l’operazione si attuava manualmente con l’utensile sopra accennato e con il rastrello. Dopo alcuni giorni faceva seguito il trasporto degli stessi cumuli presso la casa colonica, con i quali si dava forma ad un unico Pagliaio grande cumulo, denominato “pagliaio.”* Un carro a due ruote, trainato dai buoi, seguito da tre perso- 8 L’aia era un’area pianeggiante, raramente dotata di pavimento, situata presso le case coloniche e adibita principalmente alla battitura dei cereali, dei semi del foraggio e dei legumi, nonché alla spannocchiatura del mais. L’area era dotata di alcuni pali lignei (stolli) infissi nel terreno, intorno ai quali si realizzavano pagliai di fieno e di paglia. Al margine dell’aia era quasi sempre presente una capanna, spesso suddivisa in due parti (in una di queste veniva sistemata la pula dei cereali, mentre nell’altra venivano ricoverati gli attrezzi agricoli). L’edificio di muratura, con le pareti traforate da grigliati di mattoni, presentava il manto di copertura direttamente sistemato sulla struttura lignea (tetto definito dai muratori “a scollasorce”). Più raramente la capanna era interamente a struttura lignea, con copertura di paglia. 33 Carro agricolo (proprietà Azienda Agraria F.lli Mengoni) ne, faceva la spola dai campi all’aia8. Mentre il bifolco guidava gli animali, un altro, all’occorrenza, tirava la fune di comando della martinicca.* Fermato il carro presso il cumulo, uno di essi vi saliva e con la forca sistemava con cura il foraggio che l’altro gli porgeva con identico utensile. Il terzo, che poteva essere anche un adolescente, si poneva davanti agli animali, tenendoli per il morso, allo scopo di non farli muovere. I buoi durante queste soste, se lasciati liberi, cercavano Trasporto del fieno 34 infatti di brucare qualche filo d’erba alla loro portata, spostandosi anche di qualche passo, rischiando così di far cadere colui che, in piedi sul carro, stava sistemando il carico. Al fine di garantire la stabilità del carico durante il trasporto, il foraggio veniva legato con grossa fune di canapa, tesa per mezzo del verricello, in dotazione al carro. Una volta arrivati sull’aia, la carrata veniva scaricata con rapida manovra: sganciato il timone del carro dal giogo, il carico veniva “dato all’aria” (con espressione gergale), cioè a ruote ferme ribaltato indietro in pochi secondi. Altri uomini, impugnando quindi la forca, procedevano alla realizzazione del pagliaio che, a lavori ultimati, poteva raggiungere l’altezza di sei o sette metri. La formazione effettiva del manufatto (se di dimensioni medio-piccole) era eseguita da un solo uomo, coadiuvato da un altro, mentre se il pagliaio era di grandi dimensioni veniva realizzato da due uomini, affiancati da uno o due aiutanti. L’artefice del cumulo, impugnando la forca, sistemava con cura il foraggio, disponendolo in grandi falde lievemente inclinate verso l’esterno lungo la circonferenza, in modo da favorire l’allontanamento dell’acqua piovana. A ogni falda sistemata, l’uomo faceva un passo in avanti su di essa, seguendo un percorso in prossimità della circonferenza stessa, (per questo era definito colui che “faceva il giro”). Realizzazione del pagliaio 35 L’altro uomo, oltre a colmare l’area centrale del pagliaio, poneva a portata di forca del primo il prodotto che man mano veniva fatto salire da terra (in questo caso si era soliti dire che egli “accostava”). Fra gli uomini a terra, mentre due di loro (solitamente i più anziani) preparavano le forcate, gli altri, per mezzo di scale a pioli addossate al pagliaio in formazione, attuavano una spola di sali-scendi, portando una forcata di fieno al di sopra della testa. Questi ultimi, mentre con una mano tenevano il manico della forca in verticale, appoggiandolo anteriormente alla spalla, con l’altra mano si aggrappavano ai gradini della scala che risalivano, per deporre il fieno da sistemare. Nella fase finale il diametro del pagliaio veniva ridotto sempre più, tanto che gli uomini che vi operavano, uno alla volta ne discendevano. Rimasto al vertice del manufatto un solo operatore, questi lo concludeva applicando un cesto di terriccio, allo scopo di evitare dannose infiltrazioni d’acqua lungo il palo (quasi sempre non tutte le scale raggiungevano il vertice del manufatto, tanto che, per far scendere l’ultimo operatore, due uomini sollevavano il piede della scala Tagliafieno al di sopra delle proprie spalle. Quando l’uomo alla sommità, con grande cautela e aggrappandosi al palo, vi era salito, i due la Pagliaio tagliato facevano scorrere, deponendola dolcemente al suolo). La superficie conica del pagliaio veniva rifinita da terra mediante una lunga pertica che agiva su di essa quasi come un pettine, tanto che, a 36 lavoro ultimato, il manufatto si presentava come realizzato al tornio. In alcune annate, particolarmente favorevoli a seguito di qualche pioggia, si potevano effettuare altri tagli di fieno nei mesi estivi; la quantità di prodotto, anche se più contenuta di quella primaverile, consentiva di realizzare almeno un altro pagliaio. Alla fine dell’estate le aie apparivano così corredate da due o più pagliai di fieno (uno di paglia e in alcuni casi uno di pula). Il mutare continuo della loro forma, dovuto al progressivo taglio di grosse fette verticali, necessarie per il consumo del prodotto, nella fase finale li rendeva simili a grossi torsoli di mela con relativo picciòlo: vere e proprie sculture che esaltavano lo spazio circostante le abitazioni dei coloni (questi grossi cumuli, oggi sostituiti dalle “balle” pressate meccanicamente, caratterizzavano per quasi tutto l’anno le nostre campagne; le loro immagini restano ormai impresse soltanto nella memoria dei più anziani, o in qualche rara fotografia). Mietitura di grano, orzo e avena Come è noto, nell’ultima decade di giugno si dava inizio alla mietitura che, secondo la maniera antica, si effettuava con la falce messoria9. La famiglia contadina, nel lavoro della mietitura, era coadiuvata da alcuni braccianti e talvolta anche da parenti ed amici. L’attività dei mietitori (uomini e donne), si svolgeva in maniera quasi festosa. Tra un covone e l’altro, riaffilando la falce con la cote, si scambiava- 9 La falciatrice a trazione animale, già in uso nei poderi di pianura, era ostacolata notevolmente in quelli collinari dalle alberature, dai greppi e dai muretti di sostegno. Non va dimenticato che gli ulivi plurisecolari, a volte disseminati sul pendio in ordine sparso e ravvicinato, presentavano (e presentano) fusti dalla base assai estesa ed articolata. La distanza tra questi alberi e i greppi contigui, che a volte non superava i due metri, era insufficiente al transito dei buoi e della falce, lateralmente molto sporgente. 37 La mietitura del grano (Foto Centro documentazione delle tradizioni popolari di Città di Castello - a cura del Prof. L. Dalla Ragione) no pettegolezzi, gli anziani raccontavano aneddoti e in alcuni casi si intonavano canti a due voci o stornelli tradizionali, di cui purtroppo si è perduta memoria. Tutti gli uomini portavano un cappello di paglia o di feltro, mentre le donne usavano un grande fazzoletto (in estate, non solo durante la mietitura, molti camminavano scalzi, Mietitori al lavoro 38 anche in mezzo alla seccia*, senza ferirsi. Il lavoro si svolgeva sotto la gran luce dei “dì canicolari,” accompagnato dal continuo frinire delle cicale. Tutti operavano affiancati alla distanza di circa due metri, iniziando solitamente dal punto più basso del pendio o, in caso di terrazzamenti, anche in senso trasversale, parallelamente alle curve di livello. Acquazzoni primaverili, uniti a raffiche di vento,“allettavano” talvolta in tutte le direzioni estese superfici di cereale complicando non poco il lavoro dei mietitori. Essi infatti, per recidere gli steli, dovevano Fasi di realizzazione del balzo 1 2 3 4 5 6 39 7 8 portarsi dalla parte opposta alle spighe coricate, aggirando in tutte le direzioni il normale fronte di avanzamento della mietitura. Gli operatori, curvi sulla mèsse, la recidevano a circa 8 cm da terra, raccogliendola con l’altra mano in voluminose mannelle che deponevano con cura dietro di sé, trasversalmente, sopra il predisposto “balzo.”* In questa fase la falce, utilizzata quasi come un uncino, serviva anche a mantenere in ordine il fascetto di steli che altrimenti una sola mano non avrebbe potuto contenere; la mèsse così recisa veniva accumulata in quantità tale da formare un covone, denominato “gregna.”* Mentre uno dei mietitori legava i covoni, altri, tra cui qual10 9 Barchetti di grano Dopo circa un paio di settimane dalla mietitura, bisognava trasportare i covoni sull’aia. Allo scopo di agevolare la formazione del carico, la ruota a monte del carro veniva fatta scendere nel solco in modo che il suo pianale venisse a trovarsi il più possibile prossimo alla orizzontalità. che adolescente, li radunavano in punti appropriati, solitamente a monte di un solco-canaletta 10. Al tramonto i covoni stessi venivano accatastati, con disposizione a croce, in catene di “barchetti.”* La perdita di liquidi, dovuta alla fatica e alla elevata temperatura, richiedeva frequenti moderate bevute di vino e di acqua che i mietitori attuavano passandosi l’un l’altro sempre lo stesso bicchiere (inesistenti ancora i bicchieri di plastica). Nei poderi più poveri, al fine di economizzare il vino, talvolta si usava una miscela di acqua Legatura di un covone (Foto Centro documentazione delle tradizioni popolari di Città di Castello - a cura del e aceto, detta appunto “aceProf. L. Dalla Ragione) tello” (la distribuzione delle bevande era effettuata di tanto in tanto dagli adolescenti, solitamente denominati “i forca”* che, dopo il servizio, deponevano i fiaschi o i bottiglioni all’ombra di un albero). Il lavoro dei mietitori iniziava di buon’ora e si interrompeva durante le ore centrali della giornata. Intorno a mezzogiorno tutti tornavano alla casa colonica per consumare il pasto, dopo il quale alcuni schiacciavano un pisolino all’ombra degli alberi o di un pergolato, mentre altri ribattevano la falce e le donne riassettavano la cucina o accudivano agli animali da cortile. Intorno alle ore 16 tutti tornavano al campo per continua- 41 re la mietitura, che si protraeva finché c’era luce a sufficienza. Il lavoro pomeridiano veniva comunque interrotto intorno alle ore 18 per consumare una merenda seduti sui covoni o sui greppi. Lo spuntino era costituito per lo più da uno spicchio di focaccia (solitamente detta “torta al testo”), da alcune fette di prosciutto e da un bicchiere di vino. Il cibo, preparato in casa dalle massaie, veniva trasportato in una canestra,* mantenuta abilmente in equilibrio sul capo per mezzo della “coroia”* (tale metodo consentiva loro di avere le mani libere per trasportare altri oggetti). Carratura (Foto Centro documentazione delle tradizioni popolari di Città di Castello - a cura del Prof. L. Dalla Ragione) 42 Carratura Nel mese di luglio, a una o due settimane dal termine della mietitura, tutti i covoni venivano trasportati sull’aia per la imminente trebbiatura; questo lavoro, denominato “carratura,” era svolto da otto-dieci uomini. Il trasporto si attuava in maniera simile a quella già descritta per il fieno, possibilmente impiegando due carri (più raramente uno solo) privi della cassa, sostituita da un telaio e tre persone per ogni carro. Il carico veniva sistemato a mano, ponendo i covoni trasversalmente rispetto al veicolo, con le spighe orientate all’interno, mentre il trasferimento dai barchetti al carro si effettuava con la forca. Dopo le necessarie legature con il così detto “funicchio”* aveva inizio il trasporto. Prima di raggiungere le strade carrarecce, nell’attraversamento dei campi più accliviati, i carri, in alcuni casi, seguivano qua e là le curve di livello; in tali passaggi il carico, strapiombando verso valle, correva qualche rischio di ribaltamento. Intervenivano allora i due accompagnatori che, camminando accanto al veicolo, puntellavano la carrata con le proprie forche. Durante il trasporto il bifolco precedeva di circa due metri gli animali da traino, tenendo le cordebriglie raccolte in una mano, mentre gli altri due seguivano il veicolo con le rispettive forche in spalla (uno di loro, se necessario, Giogo azionava la martinicca). 11 Assai interessante questa sorta di accortezza, quasi simbiosi tra il bifolco e i suoi animali che indugiavano a fare mezzo passo indietro; egli allora li rassicurava più volte con voce sommessa, perché arretrassero tranquillamente. 43 Se il trasporto si effettuava per lunghi tratti di salita, a seconda della lunghezza, il percorso veniva interrotto una o due volte per circa un minuto, in modo da far riprendere fiato agli animali (si tenga conto che la fatica era aggravata non poco dal grande caldo). In questa fase il conducente, fermati i buoi, li faceva arretrare di alcuni centimetri, al fine di attenuare la pressione esercitata loro sul collo dal giogo11.* Dopo l’ordine di fermata, quello successivo di arretramento era preceduto dalla messa in sicurezza del trasporto, attuata tempestivamente dai due accompagnatori, che provvedevano a rincalzare con due pietre le ruote del veicolo. Gli uomini che intanto operavano sull’aia, liberata dalle erbacce nei giorni precedenti, davano forma a un grosso cumulo di covoni, denominato méta* o barcone;* la sua pianta ovale o rettangolare con angoli smussati assumeva in altezza la sagoma di un pagliaio. Il carro carico di covoni, giunto a destinazione, veniva fermato presso la méta; i buoi aggiogati venivano staccati dal veicolo e subito riattaccati a un altro carro vuoto, pronti a ripartire. Disciolto il carico, un operatore saliva sulla carrata per trasferirla con la forca sul cumulo in formazione (nei casi più rari in cui si utilizzava un solo carro, il carico veniva ribaltato a terra e Realizzazione del barcone dei covoni 44 subito spostato sulla méta). Il barcone veniva impostato dal suo nucleo centrale, disponendo i covoni verticalmente, a contrasto tra di loro, con le spighe in alto; a questo primo gruppo se ne addossavano altri sempre più adagiati, avendo cura di non far toccare le spighe a terra. Come per il pagliaio, un uomo faceva “il giro”, percorreva cioè il perimetro del barcone disponendo i covoni ben addossati gli uni agli altri, con le spighe rivolte all’interno del manufatto. Egli li afferrava con una mano sulla legatura e con l’altra su un ciuffo di steli, a metà strada tra la legatura stessa e le spighe. Sistemato il covone, l’operatore avanzava su di esso in ginocchio, ripetendo ritmicamente l’operazione12. Altre persone (una o due), all’occorrenza anche adolescenti, “accostavano”, cioè porgevano a portata di mano i fasci di cereale a colui che faceva il giro. Gli accostatori avevano inoltre l’incarico, non meno importante, di attuare, (in piedi) un secondo filare di covoni, più interno, parzialmente sovrapposto a quello perimetrale e di colmare l’area centrale del barcone. Quando il cumulo superava i 2,50 metri di altezza, si rendeva necessaria un’altra manovra: appoggiata una scala a pioli al barcone, un uomo vi saliva a mezza altezza, ponendosi di spalle al manufatto e, impugnando a sua volta la forca, attuava con gli altri una manovra di passamano. Incrementandosi ulteriormente l’altezza della méta che, a lavori ultimati poteva raggiungere l’altezza di cinque-sei metri, sulla stessa scala, ma ad una quota più alta, si poneva un altro uomo per effettuare con gli altri identica manovra; in tal modo, con due o tre passaggi, i covoni giungevano a destinazione. Quando la larghezza del manufatto, ormai rastremato alla som12 Un encomio particolare, anche se ormai tardivo, meritano questi realizzatori di pagliai e di barconi, manufatti in un certo senso paragonabili ad effimere opere d’arte architettoniche.Tutto è facile quando è risolto, anche se ci si doveva chiedere come facessero costoro a determinare le dimensioni planimetriche di tali cumuli e soprattutto come riuscissero al momento giusto a rastremarli. La rastremazione era indispensabile affinché eventuali piogge non danneggiassero il prodotto, perché, se iniziata troppo presto, il manufatto sarebbe rimasto senza punta (cioè scoperto), mentre, se iniziata tardivamente, una parte del prodotto sarebbe rimasta a terra fuori della sua sede. 45 mità, era di circa un metro, si realizzava una sorta di cresta di coronamento, disponendo gli ultiScorgiato mi covoni trasversalmente su due o tre strati sovrapposti e orientati tutti per lo stesso verso; su di essi infine venivano infisse le croci di canna, già piantate tra le mèssi nel mese di maggio. Dopo la carratura era consuetudine dare a chiunque la possibilità di effettuare la “spigolatura”; ovvero ricercare e raccogliere tra le stoppie le poche spighe disperse. Trebbiatura Nel mese di luglio si effettuava la trebbiatura dei cereali per mezzo di macchine che, trainate da un trattore e dai buoi, si spostavano da un’aia all’altra. Va comunque ricordato che talvolta, ma sempre più raramente, piccole quantità di orzo o di avena venivano ancora battute manualmente con il correggiato, detto anche “scorgiato”* o “scorgiattolo;” (l’espressione gergale era “battere a bastoMacchina trebbiatrice (proprietà Franco Calzoni - Tavernelle) Macchina trebbiatrice in funzione (proprietà Longetti - Passaggio di Bettona) ne”). Con questo antico metodo i covoni venivano distesi sull’aia uno accanto all’altro, su due opposte file, con sovrapposizione delle spighe che venivano battute con una Motore a vapore serie di colpi da quattro o più uomi(proprietà Franco Calzoni - Tavernelle) ni, disposti frontalmente. Un gruppo di battitori affiancati colpiva le spighe in tempi alternati rispetto agli altri (quando le mazze dei primi colpivano, quelle degli altri, roteando al di sopra delle teste, prendevano slancio per il colpo successivo). Allontanata la paglia con la forca, i chicchi di cereale dovevano essere mondati dalla pula. L’operazione si attuava con metodo assai primitivo, possibilmente con l’ausilio di una leggera brezza: lanciato in alto il prodotto con una pala concava, la pula, più leggera, veniva allontanata dall’aria. In seguito era Trattore “Landini” anni Trenta (proprietà Paolo Rossi) necessaria una ulteriore rifinitura, che si attuava con un setaccio chiamato “giujara.”* Tale lavoro si effettuava sotto un loggiato o in altro locale della casa colonica, nei giorni successivi alla battitura (o in altri momenti). Sino alla fine dell’Ottocento, battere con tale primitivo sistema cospicue quantità di cereali richiedeva settimane e grande dispendio di La battitura del grano (Foto Centro documentazione delle tradizioni popolari di Città di Castello - a cura del Prof. L. Dalla Ragione) 48 energie, mentre intorno ai primi anni del Novecento, l’operazione si fece più agevole tramite macchine trebbiatrici,* azionate da pesanti motori a vapore che i buoi trainavano da un’aia all’altra. Il motore a vapore venne successivamente sostituito dal motore a combustione interna (trattore Diesel), che consentiva anche il traino della trebbiatrice ed eliminava del tutto il rischio di incendio. La trebbiatura spesso iniziava prima dell’alba e si protraeva in continuità per molte ore della giornata, (nei poderi più grandi anche per tutto il giorno). Le preliminari operazioni di piazzamento delle macchine erano riservate esclusivamente a tre o quattro uomini, incaricati dal proprietario delle stesse, denominati appunto “macchinisti.” Essi innanzi tutto sistemavano la trebbia accanto al barcone, verificandone con una livella l’orizzontalità. Sul davanti di questa, a diretto contatto, veniva sistemato l’elevatore portapaglia, impropriamente detto “la scala”, mentre la forza motrice (il trattore) era allineata alcuni metri Il battitore (particolare della trebbiatrice) 13 Intorno alla fine degli anni Cinquanta, allo scopo di ridurre i gravi rischi di infortuni, la trebbia venne dotata di un proprio elevatore dei covoni, snodato e girevole, munito alla sommità di un proprio congegno per recidere i balzi. Si eliminavano così il macchinista imboccatore e l’addetto al taglio dei legacci, escludendo la loro presenza troppo ravvicinata all’organo trebbiante (il battitore)*. Gruppi di pulegge, con le rispettive cinghie di trasmissione situate lungo i fianchi della trebbia, vennero schermati da griglie metalliche, mentre la figura dell’uomo con il rastrello, intento ad estrarre la pula da sotto la macchina, venne eliminata mediante l’impiego di tubature componibili caso per caso, entro le quali un aspiratore la trasferiva direttamente nel luogo voluto. Quest’ultimo accorgimento non ebbe però successo, in quanto spostava l’inconveniente della gran polvere all’interno della capanna nella quale nessuno voleva operare. L’aspiratore fu allora sostituito da un elevatore come quello utilizzato per il pagliaio, anche se di più ridotte dimensioni. 14 Altri tipi di trattori, all’epoca di più recente produzione, erano detti “a testa calda”, in quanto il loro avviamento si otteneva pre-riscaldandoli con un bruciatore a petrolio o a gas per alcuni minuti. 49 dietro la trebbia. Frenate le macchine e rincalzate le ruote al fine di garantirne la massima stabilità, tra la puleggia principale della trebbiatrice e quella del trattore veniva posta una grossa cinghia di trasmissione che, unitamente alle numerose pulegge e cinghie minori della trebbia, azionava complessi meccanismi (pressoché inesistenti fino ai primi anni Cinquanta le norme di sicurezza contro gli infortuni, che vennero poste in atto soltanto intorno al 1955)13. Avviato il motore con alcuni giri di manovella solitamente effettuati da un uomo di robusta corporatura,14 quindici–diciotto prestatori d’opera, precedentemente radunatisi, davano inizio alla battitura15. Quattro o cinque dei più giovani salivano sul barcone e, per mezzo di forche, ponevano i covoni sopra l’impalcato praticabile della trebbia, dove un macchinista, disceso in una piccola cavità, ne imboccava uno alla volta nella macchina con le spighe in avanti. Lo affiancava un uomo in piedi che, impugnando una falce, provvedeva a tagliare i balzi, sincronizzando i suoi movimenti con quelli del macchinista16. Degli operatori sul barcone soltanto uno di loro, rimanendo pressoché fermo sullo stesso punto, porgeva i covoni in grembo al tagliatore di balzi, avendo a sua volta cura di sincronizzare ogni passaggio con i movimenti dell’altro. Il perfetto sincronismo di movimenti attuato dal porgitore di covoni, dal tagliatore di balzi e dal macchinista imboccatore era indispensabile sia per ridurre rischi di infortuni e sia per economia di tempo (ogni passaggio si realizzava 15 I prestatori d’opera erano in massima parte i contadini del territorio circostante, ai quali bisognava restituire “l’opera” quando veniva il loro turno; ad essi si aggiungeva qualche bracciante, definito solitamente con l’appellativo di “casengolo,”* unitamente ad amici e parenti. 16 Le macchine trebbiatrici utilizzate nei poderi di collina erano di taglia medio-piccola, allo scopo di rendere relativamente più agevole il loro trasporto sulle ripide carrarecce. Nei più vasti poderi di pianura si utilizzavano invece trebbie più larghe, aventi una maggiore capacità operativa, tanto che si impiegavano due persone per tagliare i balzi, una a destra e l’altra a sinistra del macchinista imboccatore. In questo caso sull’impalcato della macchina era però necessaria un’altra persona per accostare i covoni al tagliatore che veniva a trovarsi dalla parte opposta al barcone (escluso il macchinista, le persone di servizio sopra la trebbia talvolta erano donne). 50 infatti in tre o quattro secondi); tutti gli altri uomini sul barcone attuavano da ogni punto di esso manovre di passamano, cioè accostavano. Quattro uomini, forca in pugno, si incaricavano di realizzare il grande pagliaio, operando con particolare sollecitudine, a causa del continuo flusso di paglia in arrivo. Due di loro, come per il pagliaio del fieno, facevano il giro, mentre gli altri due accostavano e colmavano l’area centrale. Questi ultimi venivano quasi ininterrottamente a trovarsi sotto la pioggia di paglia e di polvere fatta affluire dalla macchina. I primi due, nel loro operare, tenevano d’occhio il progressivo ridursi della méta, dovendo di conseguenza rastremare sempre di più il manufatto (non avendo tempo di scendere a verificare la simmetria del pagliaio per l’incalzare continuo del portapaglia, un uomo anziano, da terra, dava direttive in tal senso: “dai più letto a monte”! Oppure:“Riduci un po’ verso la capanna”! E nella fase finale:“Ritiralo, ritiralo”! Con il significato di ridurre rapidamente il diametro del Chiusura e trasporto del sacco 51 pagliaio, in quanto la materia prima stava per finire). Tre uomini, dietro la trebbiatrice, rimuovevano i sacchi pieni di chicchi, sostituendoli con altri vuoti e provvedendo anche alla loro pesatura, sotto l’occhio vigile del fattore o del proprietario del fondo, chiamato dai coloni “il padrone”. Il dispositivo di pesatura veniva sistemato alla distanza di una decina di metri, possibilmente all’ombra di un albero o di un muro (poco lungi era disponibile una seggiola per uno dei personaggi sopra accennati). Ai sacchi di iuta, riempiti e scostati dalla trebbiatrice, venivano provvisoriamente arrotolati i lembi della imboccatura, sia per non disperdere i chicchi, sia per dar forma a una sorta di doppia maniglia. Il loro trasporto fino alla bilancia veniva attuato agevolmente da due uomini che si ponevano uno di fronte all’altro davanti al contenitore, afferrando con una mano le estremità di uno stesso matterello, lungo circa 90 centimetri. Affiancato l’utensile orizzontalmente a 15 centimetri da terra davanti al sacco, quest’ultimo veniva inclinato e adagiato sul matterello, mentre con l’altra mano i trasportatori afferraBigonzo (o bigoncia) vano le rudimentali maniglie sopra accennate, mantenendone bene avvolte le spire. Durante il breve percorso il sacco, in posizione orizzontale, procedeva con il fondo in avanti per essere, di lì a poco, adagiato verticalmente sul pianale della basculla. Una volta sulla bilancia, il contenitore veniva riaperto e, con Basculla 52 il cereale contenuto in una bigoncia, se ne aggiustava il peso netto di 100 chili. Dopo la definitiva sigillatura con una cordicella, quelli del proprietario venivano addossati a un greppo o a un muro, prima di essere portati a destinazione, mentre quelli del colono venivano trasportati sul dorso dagli stessi addetti (con espressione dialettale “a l’orca”) e svuotati definitivamente nel granaio (il trasportatore, nel porsi il carico sulle spalle, era coadiuvato dagli altri due). Il lavoro più ingrato, per l’accentuata quantità di polvere, era svolto da un uomo anziano, impegnato a rimuovere la pula che, impetuosamente espulsa dal ventilatore, andava accumulandosi sotto la trebbia (egli era talvolta coadiuvato, ma solitamente per breve tempo, anche da qualche volontario adolescente). L’operazione si effettuava con un grande rastrello ligneo, dai denti ricurvi. Altri due uomini, caricata la pula stessa su di un grande telo, la trasportavano all’interno della vicina capanna, dove un altro anziano munito di forca provvedeva al suo assestamento (qualora l’aia non fosse stata dotata della capanna, con la pula si realizzava un piccolo pagliaio). Il pulsare del motore e il più sommesso rombo della trebbia attutivano quasi del tutto il fruscio della paglia, prodotto dal suo continuo rimaneggiamento (sull’aia, apríca e calda, tutti agivano Forca (proprietà Nello Saccoccini) 53 avvolti da una sottile nuvola di polvere e di pagliuzze, che andavano a depositarsi anche sui campi e sugli alberi circostanti). Lo scoppiettio del motore giungeva all’orecchio degli operatori sul pagliaio, relativamente attutito, trovandosi essi a circa 20 metri di distanza, mentre era più evidente il monotono “troktrok” dei rastrelli portapaglia sulla puleggia di rinvio, posta alla sommità dell’elevatore (nel successivo passaggio in discesa, i rastrelli stessi, trainati dalla cinghia, dondolavano di qua e di là, in una sorta di festosa danza, scomparivano in fondo alla tramoggia e ripartivano con un nuovo carico). L’inizio dei lavori e i brevi intervalli, alternati di tanto in tanto per rifocillarsi, erano segnalati da un macchinista con un fischietto, di cui era dotato il trattore. Se la trebbiatura iniziava prima dell’alba (di solito intorno alle 4 ), il primo intervallo si effettuava dopo circa un’ora, per prendere una bevanda calda (in genere orzo, oppure latte ed orzo) con una fetta di “torcolo” (ciambellone) o qualche altro tipo di dolce. Ripresi i lavori, dopo circa un’ora e mezza si effettuava un piccolo pasto con pane e formaggio, o pane e prosciutto e un bicchiere di vino (altri intervalli si rendevano necessari, specialmente nelle ore più calde del giorno, per distribuire bevande). Nei poderi più estesi, con grandi quantità di cereali da trebbiare, prima del pranzo finale venivano consumati altri spuntini intermedi (ad eccezione del pasto conclusivo, tutti gli altri venivano consumati rimanendo ciascuno al proprio posto, per cui qualcuno si incaricava di rifornire gli uomini sul pagliaio, mediante una scala a pioli). Cibo e bevande venivano di solito distribuiti da alcune ragazze o comunque dalle donne più giovani, che si presentavano indossando lindi grembiuli, in contrasto con l’aspetto degli operatori sull’aia, già coperti di polvere e di sudore (solitamente alle ragazze era riservato qualche garbato complimento, al quale esse rispondevano con argute parole, compiaciute e sorridenti). 54 Durante il corso dei lavori, di tanto in tanto si rendevano necessari altri brevi intervalli, sempre segnalati dal capo-macchinista per mezzo dell’accennato fischietto. In alcuni casi era necessario smontare quei crivelli, particolarmente intasati da semi di avena selvatica, che ne riducevano notevolmente l’efficienza; oppure, all’innalzarsi del pagliaio, si doveva provvedere al prolungamento dell’elevatore (più raramente bisognava riparare o sostituire qualche cinghia di trasmissione, consunta per usura. In tutte queste occasioni si approfittava per rifocillare con bevande gli operatori, i quali utilizzavano tutti gli stessi tre o quattro bicchieri). Lavoro non meno importante era svolto dalle donne, giovani e anziane, nella preparazione dei pasti e particolarmente del pranzo finale, di solito a base di oca. I preparativi, iniziati il giorno precedente, si concludevano al termine dei lavori con una grande tavolata, all’ombra di olmi o di gelsi, ma in qualche caso, anche sotto una pergola (per tradizione i bocconi migliori erano destinati al proprietario del podere, ai macchinisti e al fattore, che mangiavano in un tavolo loro riservato, secondo una consuetudine strana e discriminante). Nei giorni successivi, tra i consueti lavori, l’aia, rimasta in disordine, cosparsa di cumuli di paglia, di pula ed altri residui della trebbiatura, veniva accuratamente riassettata (mentre le galline, finalmente liberate dal pollaio, ricominciavano a razzolarvi, ricercando in ogni angolo i pochi chicchi di cereale dispersi). Setacciatura dei cereali Nelle settimane successive alla trebbiatura, parte del grano raccolto e destinato al mulino, veniva sottoposta a una ulteriore rifinitura per liberarla da qualche seme di erbe infestanti (avena selvatica, veccia, ecc.) sfuggito alla selezione della macchina trebbiatrice. A tale scopo l’antico utensile, denominato giujara*, era sem- pre più spesso sostituito da un crivello circolare di lamiera perforata (diametro m. 1,50) che veniva appeso al soffitto con una fune, facente capo ad un anello centrale. Versata una opportuna quantità di cereale nel setaccio, l’operatore gli imprimeva un moto continuo per alcuni minuti, inclinandolo di circa 15-20 gradi, secondo le dire- Giujara zioni delle generatrici di un cono virtuale. I semi estranei si accumulavano così tutti al centro del setaccio e quindi venivano agevolmente rimossi. La setacciatura dei cereali si poteva effettuare anche prendendo a nolo per qualche giorno una macchina abbastanza maneggevole, denominata “svecciatoio”, costituita da setacci a tamburo rotante e azionata per mezzo di una manovella. La stessa macchina, suddivisa in due tronconi, una volta assemblata raggiungeva una lunghezza di circa tre metri. Riempita una tramoggia, i grani defluivano in un crivello vibrante, prima di essere introdotti nel tamburo separatore e classificatore. In alcune casse, disposte trasversalmente sotto la macchina, si raccoglievano separatamente i semi infestanti, i corpi estranei e il prodotto mondato (quest’ultimo era classificato, per le dimensioni delle cariossidi, in tre categorie). Bonifica dai sassi affioranti negli appezzamenti ricchi di “scheletro” 56 Nel mese di settembre, o nelle giornate invernali asciutte, si procedeva alla eliminazione manuale dei sassi affiorati al momento delle arature dai campi seminati a prato, allo scopo di rendere più agevole la falciatura del foraggio. Radunati prima in piccoli mucchi e successivamente caricati sul carro, essi venivano accumulati sugli angoli morti degli appezzamenti (inagibili all’aratro), o anche in punti di scarsa fertilità. In alcuni casi le pietre più grandi venivano utilizzate per la costruzione di muretti di sostegno a secco, mentre le più piccole per consolidare tratti stradali fangosi. Raccolta del mais Nel mese di settembre le pannocchie di questo cereale, più Spannocchiatura del mais 57 noto con il nome di “granturco”, dopo essere state raccolte in canestri, venivano deposte nella cassa del carro, per essere trasportate sull’aia. Le grosse spighe, ancora ricoperte dell’involucro, venivano sistemate in forma di basso cumulo, dall’andamento semicircolare del diametro di cinque o sei metri. Dopo il tramonto uomini, donne, adolescenti e bambini, seduti sul cumulo stesso, attuavano al chiaro di luna la spannocchiatura o scartocciatura, ( detta in vernacolo “specciolatura”*). Crino Il lavoro effettuato manualmente si concretizzava nel liberare una pannocchia alla volta dalle cinque o sei brattee del cartoccio; le spighe così sistemate venivano gettate al centro del semicerchio, dove rimanevano per qualche giorno ad essiccare al sole. Un’alternativa di essiccazione poteva essere quella di concatenare mazzi di pannocchie, legate tra loro per mezzo dei cartocci esterni più grandi, appendendoli poi alle facciate delle case esposte a mezzogiorno. Al termine di questo lavoro, veniva consumata una squisita minestra di ceci, insaporita da lardo di maiale, (minestra con il battuto) oppure qualche fetta di “torcolo” (ciambellone) e un bicchiere di vino (in alcuni casi poteva inoltre seguire qualche ballo al suono di una fisarmonica). Sino alla fine degli anni Sgranatrice di mais (proprietà Patumi) 58 Quaranta, durante la spannocchiatura, qualche anziano raccoglieva ancora in un crino* le brattee più interne delle pannocchie, che utilizzava successivamente come imbottitura di pagliericci. Dopo alcuni giorni faceva seguito la liberazione dei chicchi di granturco dai tutoli, con un operazione chiamata “sgranatura”. Anche questo lavoro veniva svolto dopo cena da più persone, in un locale del piano terreno o sotto una loggia. La sgranatura si effettuava con l’ausilio di apposite macchinette azionate da una manovella. Una ulteriore rifinitura manuale era comunque necessaria per distaccare i pochi chicchi ancora aderenti ai tutoli (solo nei primi anni Cinquanta fecero la loro apparizione alcune macchine sgranatrici azionate da un trattore che le trasportava di aia in Testo per la cottura aia). delle focacce Il cereale, prima di essere riposto nel granaio, veniva lasciato sull’aia per qualche giorno al sole, caratterizzando così, con estese macchie arancioni, l’area circostante le case coloniche. Il mais serviva principalmente ad alimentare gli animali, anche se, con la farina, si faceva la polenta e si preparava una focaccia cotta sul testo*, popolarmente detta “torta di granturco”. I grossi steli del mais, denominati dai coloni “costoni”, venivano utilizzati quale combustibile, come pure i tutoli delle pannocchie. Vendemmia Tra la fine di settembre e i primi di Botte 59 ottobre, all’approssimarsi della vendemmia, si procedeva alla pulizia di tutti i recipienti necessari (con particolare riguardo per le botti)* e alla loro stagnatura. L’operazione durava una decina di giorni e si effettuava mantenendo nel recipiente un po’ d’acqua che veniva schizzata con una pala più volte al giorno. I ripetuti risciacqui miravano anche a rimuovere i frammenti di incrostazioni lasciate Usciolo dal vino (gromma), parzialmente distaccate dalle doghe. Per le botti più grandi le incrostazioni venivano rimosse da una persona che vi si introduceva attraverso l’“usciolo.”* Se al momento del riempimento si fosse comunque manifestata qualche modesta fuoriuscita di mosto, la sigillatura si faceva mediante un impasto di grasso animale (sego) e polvere di carbone. La vendemmia vera e propria si articolava in due momenti diversi: uno sui campi e l’altro in cantina. Nella prima fase uomini donne e ragazzi, impugnando cesoie e canestri, si disponevano sui due lati dei filari per raccoglierne i grappoli mentre, nel caso di viti sistemate a telone o vincolate agli aceri, l’uva veniva raccolta per mezzo di scalandrini. I canestri riempiti erano svuotati in alcuni recipienti di legno, denominati “bigonzi”* (bigonce), della capacità di circa 90 litri, il cui contenuto veniva parzialmente costipato con la “pistarella.”* Tali recipienti, una volta riempiti, venivano spostati per brevi distanze da due persone mediante la “portarella,”* per essere caricati sul carro, trasportati in cantina e svuotati nel “canale.”* Il lavoro in cantina era svolto da sei-otto uomini e Pistarella 60 qualche adolescente, alla presenza del fattore o del proprietario del podere. Quattro persone (compresi gli adolescenti), dopo essersi lavati piedi e stinchi fuori della cantina, venivano trasportati sulle spalle da un operatore fino al canale, dove attuavano la pigiatura dell’uva con i piedi (con espressione dialettale iniziavano “a pistà”). Questo antico sistema, cominciava con un primo sommario Portarella trattamento del prodotto che veniva successivamente accumulato con un forcone su un lato del canale, mentre il mosto veniva fatto defluire dal foro di scarico in un piccolo tino o in una vasca. Dal cumulo ora accennato, denominato “ barcaccia,”* le vinacce venivano riprese poco alla volta e definitivamente ripassate (con queste, in un angolo della vasca, si realizzava un piccolo cumulo, detto “la picciòla,”* sul quale saliva uno degli Bocca di canale 61 Pigiatura dell’uva con i piedi nel canale operatori, al fine di strizzarle opportunamente). Non essendo disponibili le pompe oggi in uso, il mosto veniva trasferito nella botte del colono e in quella del proprietario con un barile riempito per mezzo di un secchio. Un uomo, coadiuvato da altri due, caricato il barile pieno sulla spalla, lo trasportava e lo deponeva in prossimità del bordo superiore della botte, dove un altro, seduto a cavalcioni sul grande recipiente, lo ribaltava sull’“imbottatore”* ( al fine di non dimenticare il conteggio, ad ogni barile svuotato, veniva tracciato con il gesso un breve segno orizzontale sulla faccia anteriore della botte). In alcuni casi, il mosto spettante al proprietario del podere veniva trasportato con il carro nella sua cantina in città; il trasferimento si attuava con barili, chiusi da un rudimentale tappo di paglia. Le vinacce della picciòla venivano trasferite con il forcone in una bigoncia e svuoImbottatore (o imbottavino) 62 tate nel tamburo dello “strettore,”* dove uno dei pigiatori del canale si trasferiva per la opportuna costipazione. Riempito il tamburo (denominato “crinaccio”)* venivano sistemati sulla vinaccia alcune piastre e prismi di legno, sui quali agiva la madrevite. Successivamente quattro uomini (una coppia di fronte all’altra), azionando una leva metallica con movimenti alternati orizzontali, attuavano la definitiva spremitura (il mosto così ottenuto veniva miscelato con quello proveniente dal canale). La spremitura suddetta, nella fase finaTorchio (o strettore) le, opponeva una crescente resistenza, tanto che ai quattro uomini, addetti alla manovra, si doveva aggiungere lo sforzo di altri due. Quando la madrevite era giunta a “rifiuto” (cioè non si riusciva a farla avanzare ulteriormente) con espressione molto efficace il torchio veniva fatto “riposare” per qualche minuto, mentre un sempre più sottile filo di mosto defluiva nel contenitore sistemato sotto il suo doccione. Di lì a poco, era possibile far avanzare ancora di alcuni denti il meccanismo premente, per ravvivare, seppure brevemente, il prezioso rigagnolo (tale manovra veniva ripetuta più volte). Le vinacce, dopo la prima spremitura, venivano estratte dal torchio sotto forma di cilindro compatto, che doveva essere tagliato a metà con l’accetta. Esse, prima di essere nuovamente spremute, venivano “strefolate”* (modesta comunque la quantità di mosto che si riusciva ad estrarre). 63 Allo scopo di economizzare per qualche tempo il vino vecchio, le vinacce, ripetutamente spremute, venivano infine poste in un tino* con un po’ d’acqua e dopo due giorni nuovamente torchiate. Se ne otteneva così un vinello, denominato “maniere”* (la bevanda, abbastanza gradevole anche se di sapore asprigno, non poteva comunque essere conservata molto a lungo). Le opere enotecniche, attuate in cantina con i metodi primor- Strefolatura delle vinacce dopo la prima torchiatura 64 diali ora descritti, si protraevano per molte ore, in un clima di serena euforia, (anch’essa alimentata da gustosi aneddoti, facezie, barzellette, risate, rumori... particolari). Nelle settimane successive il mosto, lasciato fermentare nelle botti, si trasformava in vino che, tradizionalmente, veniva assaggiato l’11 novembre, in occasione della festa di S. Martino. Allevamento del bestiame A seconda delle dimensioni dei poderi, venivano mantenuti alcuni capi di bestiame: qualche mucca per la produzione di vitelli e di latte, alcuni suini (piuttosto scarsi invece i capi equini, limitati o assenti gli ovini). Come già indicato, accanto a questi animali veniva mantenuta anche una coppia di buoi o di vacche da lavoro, solitamente di razza chianina (altri animali, quali conigli, anatre, oche, tacchini, galline, erano allevati per uso della famiglia contadina, tenuta comunque ad offrire qualche capo al proprietario del fondo)17. Le ridotte dimensioni dei poderi e la loro coltivazione promiscua non consentivano di mandare al pascolo gli animali che, di conseguenza, dovevano essere accuditi in tutti i giorni dell’anno, con un lavoro molto impegnativo (primo tra tutti il quotidiano rifornimento d’erba che, una volta tagliata, veniva trasportata sulle spalle con il crino dai campi alla stalla). 17 Per quanto riguarda l’allevamento avicolo, le massaie provvedevano, al momento opportuno, a sistemare in un nido le uova da covare, che affidavano ad una chioccia, chiamata in gergo “la peccia.”* Questa operazione era definita con l’espressione “piantare la peccia.” La cova avveniva in ambiente separato dal pollaio, affinché l’animale non venisse disturbato. Dopo l’incubazione di tre settimane e la schiusa di tutte le uova, la chioccia con i pulcini ricominciava a razzolare nelle immediate vicinanze della casa, proteggendo i suoi piccoli sotto le ali dal freddo della notte o dalla pioggia, se sorpresi all’aperto. Talvolta alla chioccia venivano fatte covare uova di anatra che essa non era in grado di riconoscere, tanto che, dopo la nascita degli anatroccoli, talvolta si assisteva a un fatto curioso, quasi comico: quando chioccia e anatroccoli si trovavano a passare lungo il perimetro di uno stagno i piccoli, istintivamente, si gettavano in acqua con evidente sorpresa e stupore della madre, che continuava a richiamare dalla riva “l’indisciplinata” prole. Bovino (foto E. Mezzasoma) Durante la stagione primaverile e nel primo periodo estivo si utilizzava erba fresca, sminuzzata nella stalla per mezzo di una macchina azionata manualmente, chiamata “trinciaforaggi.” A estate inoltrata, quando l’erba coltivata cominciava a scarseggiare, si utilizzavano anche foglie di olmo o di gelso e, dove possibile, anche di edera; la loro raccolta si compiva con una scala a pioli e un sacco di iuta mantenuto aperto da un cerchio di legno che, collegato ad un uncino, si appendeva ai rami secondo necessità. Altre foglie, utilizzate come mangime, erano quelle del mais, di cui venivano spogliate le piante, al fine di favorire una migliore esposizione delle spighe al sole. Ai vegetali menzionati veniva inoltre mescolata anche un po’ di pula. L’alimentazione invernale dei bovini e dei pochi equini si effettuava invece con il fieno. La somministrazione si effettuava due volte al giorno e si pro- 66 traeva per circa due ore ciascuna. Ai bovini da lavoro, soprattutto nel periodo delle arature estive, il cibo veniva invece distribuito in un primo turno prima dell’alba, onde iniziare l’aratura nelle ore più fresche della giornata. All’elevarsi della temperatura, intorno alle ore 10.30 si effettuava un intervallo con rientro alla stalla, dove gli animali venivano rifocillati. Faceva seguito qualche ora di riposo prima di una nuova alimentazione, che si attuava intorno alle ore 15.30 per circa un’ora. Seguivano altre ore di aratura fino al tramonto, mentre al rientro serale si effettuavano l’ultima alimentazione della giornata e il relativo abbeveraggio. I bovini, legati alla mangiatoia, venivano riforniti in continuità dal bifolco per mezzo di una cesta. Il medesimo, nel frattempo provvedeva a rimuovere il letame e a trasportarlo con una carriola fino alla concimaia, dopo di che rinnovava la paglia della lettiera* e, ogni due o tre giorni, puliva il mantello degli animali mediante striglia e spazzola. Tutti i capi venivano inoltre abbeverati per mezzo di un mastello che egli spostava da un animale all’altro. Alle Contenitore e misurini per il latte (proprietà Franco Mariucci) 67 mucche destinate alla produzione di latte veniva somministrata nell’abbeveraggio anche una certa quantità di farinello (residuo della macinazione del grano), che nella stagione invernale veniva stemperato in acqua tiepida. I vitellini partoriti dalle mucche da latte, generalmente venivano venduti dopo circa cinquanta giorni dalla nascita, mentre i vitelli prodotti dalle vacche chianine si vendevano una volta raggiunto il peso di due-tre quintali. Questi giovani animali erano custoditi in un box e liberati tre volte al giorno per la poppata. Per l’alimentazione dei suini si utilizzava di tutto: erba, barbabietole, zucche, frutta caduta dagli alberi, ghiande (alcuni mezzadri, prossimi alla città, per integrare tale alimentazione, nelle prime ore del mattino si recavano presso ristoranti e pasticcerie a prelevare rifiuti di cucina o di forno, trasportandoli in un contenitore con un carretto a mano o trainato da un asino). Le cucciolate di porcellini venivano portate al mercato per essere vendute a circa tre mesi dalla nascita, una volta raggiunto il peso di 25-30 chili. Per gli altri animali da cortile l’alimentazione si effettuava con erba, semola, mais e piccole quantità di grano di taglia inferiore alla norma, definito in gergo “ésca”. Direttamente collegata al mantenimento di mucche era la produzione di latte che, munto manualmente due volte al giorno, veniva portato in città per essere distribuito ai clienti solitamente di primo mattino. Il mungitore, seduto a fianco dell’animale, lavati sommariamente i capezzoli, li strizzava ripetutamente in apposito secchio, tenuto stretto tra le ginocchia. Nella stagione calda il latte munto nel tardo pomeriggio, da distribuire il mattino seguente, veniva conservato al fresco in un contenitore calato con una fune in fondo a un pozzo in prossimità dell’acqua, a 8-10 metri di profondità (fino agli anni Sessanta non esisteva infatti a Perugia la Centrale del latte). Il prodotto veniva trasportato in contenitori di alluminio della capacità di 10-12 litri, corredati di appositi misurini. La distribuzione, casa per casa, veni- 68 Lattaio (Foto Centro documentazione delle tradizioni popolari di Città di Castello a cura del Prof. L. Dalla Ragione) 69 va effettuata tutti i giorni dell’anno, sia dagli uomini che dalle donne, tenuti ad indossare bianchi indumenti. Essi partivano a piedi dalle case coloniche, distanti dalla città anche due chilometri, trasportando a mano (o più raramente su una bicicletta) due contenitori. Il servizio risultava particolarmente disagevole in caso di pioggia, ma soprattutto in occasione di nevicate, dovendo talvolta percorrere anche sentieri piuttosto impervi, prima di arrivare in città. L’orto Nelle immediate vicinanze delle case coloniche, una piccola parte di terreno veniva coltivata ad orto che, recintato da reti, graticci, o siepi, per evitare l’introdursi degli animali da cortile, veniva irrigato con l’acqua di trosce, pozzi e cisterne per mezzo di annaffiatoi (i prodotti coltivati erano generalmente: insalata, cavoli, pomodori, cipolle, aglio, carciofi, patate, legumi, rape, sedano, prezzemolo). Il terreno destinato agli ortaggi veniva dissodato con la vanga,* mentre la concimazione si eseguiva con il letame che due persone trasportavano sul luogo di impiego per mezzo del Zappa e zappitello 70 barellone.* Le pianticelle, al momento del trapianto, venivano sistemate in solchi paralleli realizzati con lo zappitello, mentre con la zappa si realizzavano file di fosse, posizionate a quinconce,* entro cui si piantavano cavoli e patate. Sempre presenti inoltre, in qualche angolo dell’orto, alcune piante aromatiche, quali salvia e rosmarino. Lavori complementari Nelle giornate di pioggia o di neve, dopo aver accudito agli animali, si provvedeva alla manutenzione degli utensili o a crearne di nuovi. Con l’attrezzatura essenziale, costituita da cesoie, roncola, ascia, sega, martello, chiodi, tenaglie, verrina e raspa, si realizzavano: scale a pioli, canestri, crini, scope di erica, manici per rastrelli e per forche, trogoli. L’ambiente privilegiato per tali lavori era la stalla dei bovini, la cui temperatura risultava più mite per la presenza dei grandi animali. Nelle asciutte giornate invernali si attuava anche la ripulitura di greppi e aree marginali, dalla infestante vegetazione spontanea, quali rovi, vitalbe e prugnoli. Questi, una volta recisi, venivano raccolti in fascine e utilizzati come combustibile per il forno. Lavoro delle donne contadine Gravoso, (come sempre) per quantità ed impegno, era il lavoro delle donne, giovani e anziane. Alle “normali” attività domestiche (preparazione e cottura del pane e di tutti gli altri pasti, bucato, rammendo, custodia dei minori, somministrazione di cibo agli animali da cortile ecc.) si aggiungeva quella ancora più pesante dell’approvvigionamento di erba, che 71 Donne che trasportano l’erba con il crino loro stesse trasportavano sul dorso con il crino dai campi a casa (questo lavoro era definito con l’espressione “andare a far l’erba”). Le madri, con i minori non ancora in grado di camminare, durante alcuni lavori sui campi portavano con sé i bambini, che facevano trastullare seduti in una canestra. Le donne, residenti in poderi prossimi alla città, allo scopo di poter disporre di un po’ di denaro, si accollavano volontariamente un’altra fatica molto impegnativa che, pur non avendo nulla a che vedere con le opere agricole, è doveroso ricordare: il lavoro di lavandaie. Inesistenti in quegli anni le lavatrici domestiche, esse si recavano in città a prendere la biancheria da lavare, trasportandola sul capo in voluminosi fagotti. Il lavoro di lavandaie delle donne contadine, comune anche a tutte 72 le altre donne di umile ceto che lo hanno espletato per secoli nello stesso modo, merita d’essere ricordato in dettaglio, al fine di evidenziare la fatica e l’impegno supplementari. I detersivi si limitavano alla soda e alla saponina, affiancati dal classico sapone da bucato, che talvolta veniva fatto in casa. Nella prima fase operativa i panni venivano bagnati, insaponati e strizzati al lavatoio o in un mastello; in un angolo della cucina venivano poi sistemati dentro un recipiente fìttile, denominato “scina”,* posto sopra un piccolo basamento. Riempita la scina fino a 10-15 centimetri dal bordo superiore, i panni venivano coperti da un telo di iuta, il cui perimetro superava il bordo stesso. Sul telo si poneva uno strato di cenere alto 5-10 centimetri, sul quale si versavano in continuità secchi d’acqua bollente, per 60-90 minuti. L’acqua, attraversata la cenere, si infiltrava lentamente attraverso la biancheria, trascinando sostanze detergenti contenute nella cenere stessa, fino a scaricarsi in un contenitore sottostante (il liquido, di colore nocciola, denominato “ranno”, si poteva ancora utilizzare come “detersivo” per strofinacci od altro). Al termine del ciclo, la cenere bagnata contenuta nel canovaccio, veniva utilizzata nell’orto come fertilizzante, mentre la biancheria, estratta dalla scina, doveva essere risciacquata più volte al lavatoio o in una troscia. Quando d’estate l’acqua nelle campagne scarseggiava, le Scina per il bucato 73 lavandaie si recavano lungo i fossi, distanti anche 500 metri, portando in una canestra sul capo la biancheria da sistemare. Giunte sul posto, in ginocchio sulla riva, procedevano ai risciacqui strizzando più volte i capi su una lastra di pietra inclinata sull’acqua e poiché il bucato, anche se pulito, non risultava mai di un bianco assoluto, prima dell’ultima strizzatura, veniva lasciato per alcuni minuti immerso in un recipiente d’acqua in cui era stata sciolta una polvere azzurra, che chiamavano “il turchinetto.” Al fine di espellere l’acqua dal tessuto dei capi più grandi (come le lenzuola) li sottoponevano a torsione: due di loro li afferravano alle estremità, avvolgendoli in direzioni opposte. Il bucato veniva successivamente asciugato al sole, disponendolo su fili tesi tra paletti, oppure sui prati o sulle siepi. La stiratura finale si effettuava con un ferro di ghisa cavo, nel cui contenitore si ponevano dei carboni accesi; più raramente si usava un ferro pieno, di identico metallo, che si faceva scaldare in prossimità del fuoco. Dopo le complesse e laboriose operazioni, il bucato veniva Ferro da stiro in ghisa (proprietà Franco Regnini) 74 Assai laboriose erano anche le operazioni relative alla preparazione e alla cottura del pane, che si sviluppavano come segue: nel tardo pomeriggio precedente il giorno programmato per la panificazione le donne, con loro espressione, “mettevano il lievito” che, previa diluizione in acqua tiepida, veniva impastato con un po’ di farina e sistemato nella madia, al centro di una sorta di vaschetta realizzata con tutta la farina da impastare successivamente. Dopo alcune ore si procedeva all’impasto finale con l’aggiunta dell’acqua necessaria; seguiva il taglio della pasta, secondo la pezzatura prevista per dar forma ai così detti “filoni”, del peso di un chilo. I filoni crudi venivano quindi sistemati sopra un’apposita tavola coperta da un telo bianco, avendo cura di separarli tra le pieghe del telo stesso. Faceva seguito la definitiva lievitazione che si protraeva per qualche ora. In questa fase una piccola quantità di pasta, su cui veniva incisa una croce, si riponeva nella madia, custodita tra due piatti contrapposti. Era così predisposto il nuovo lievito naturale, da utilizzare per la panificazione della settimana successiva. Nel frattempo si procedeva a Donna che trasporta filoni di pane riscaldare il forno, bruciando fascine costituite da tralci di vite o rami di ulivo derivanti dalla potatura, ma anche da rovi, prugnoli, vitalbe, erica e altri vegetali già recisi ed essiccati. Il forno in muratura, a pianta circolare, era situato al piano ter- 75 reno della casa colonica ed era costituito da una bassa volta di laterizi la cui bocca era definita da tre grandi mattoni refrattari (stipiti ed architrave) che veniva chiusa da uno sportello di ferro. Inesistenti i termometri di cui sono dotati i forni di oggi, la giusta temperatura veniva definita empiricamente in base all’esperienza tramandata da generazioni. Gli stipiti della bocca del forno in primo momento annerivano per il fumo poi, gradualmente, assumevano un colore biancastro; segnale, questo, che la temperatura raggiunta all’interno era quella giusta per la cottura del pane. L’infornata si effettuava con destrezza e rapidità mediante una pala di legno. In fase di cottura e al momento della sfornata, un gradevolissimo profumo di pane si espandeva all’intorno. I dorati filoni, riportati in casa con grande soddisfazione di chi li aveva prodotti, divenivano irresistibi- 77 riconsegnato a domicilio. Nei primi anni Cinquanta fecero intanto la loro apparizione caldaie bollitrici di lamiera zincata che si ponevano sopra un braciere. Il loro funzionamento era simile a quello di una nota caffettiera; esse segnarono la fine dell’impiego della scina e della cenere, definitivamente sostituite dalla saponina e dai moderni detersivi. RIFLESSIONI CONCLUSIVE Rivisitando oggi il territorio e i luoghi testimoni delle trascorse vicende di vita contadina si stenta a riconoscerli (in molti casi anche gli alberi da frutto, da decenni senza potatura, sono talmente cresciuti da occultare le antiche visuali, mentre le sterpaglie cercano di invadere gli appezzamenti; qualche casa colonica va perdendo la copertura, qualche altra è ridotta a un cumulo di macerie). Ciò nonostante le immagini del paesaggio agrario collinare di un tempo, immagazzinate nella memoria, possono raffrontarsi con quelle attuali, tanto che, osservando oggi quegli stessi poderi, non si riesce a cancellare il ricordo della eccezionale cura con cui erano 78 mantenuti in tutte le stagioni. Accanto alla rassegna delle opere agricole mezzadrili e alle tecnologie, a volte elementari, indicanti un modo di operare rimasto quasi immutato nel tempo, vanno evidenziati anche i gesti, i comportamenti, le consuetudini e le tradizioni tramandate di generazione in generazione. Uno specifico aspetto era, ad esempio, rappresentato dalle usanze devozionali. Una di queste si attuava ponendo in mezzo alle messi alcune croci di canna, dotate di un rametto di ulivo benedetto nella Domenica delle Palme. Nei giorni che precedevano importanti festività religiose (Pasqua, Ascensione, ecc.), era anche usanza accendere all’imbrunire festosi falò. Questi brevi fuochi di paglia venivano attivati fuori dalle case coloniche, in punti, per così dire “strategici,” in modo che potessero essere ben visibili. Nella stalla, inoltre, era sempre appeso un oleografico quadretto raffigurante S. Antonio Abate, protettore degli animali domestici. Ulteriore usanza era poi quella che, a volte, si attuava alla fine della giornata, specialmente in occasione dei lavori legati ai raccolti (mietitura, trebbiatura, spannocchiatura, vendemmia), così che in quei momenti si intrecciavano scherzi, stornelli, canti corali e talvolta danze. L’agricoltura di oggi, rispetto a quella del recente passato, è stata profondamente modificata e si attua con una infinità di mezzi meccanici inimmaginabile nei primi anni del Novecento. Essa deriva comunque dall’esperienza vissuta e affinata per secoli dai contadini, artefici diretti dell’“arte” di coltivare piante ed allevare animali utili alla alimentazione di tutti. La loro umile e faticosa attività (preziosa per tutti i ceti sociali di ogni tempo) è stata, a volte, considerata ingiustamente con suffi- 79 cienza. I contadini di ogni epoca, anche se analfabeti o semi-analfabeti, sono invece meritevoli di essere ricordati ed apprezzati per la loro operosità e per la grande sapienza; essi sono stati indubbiamente autentici “maestri” di agricoltura e di vita. L’intenso e fecondo operato dovrebbe quindi avere evidenziato un’attività che, nonostante le necessarie e logiche metamorfosi, non ha mai perso la sua “presenza”, quale umana partecipazione, atta a rendere vivo un lavoro che una umile mano realizzava e realizza: un “portato” fondamentalmente utile e particolarmente efficace per la sopravvivenza umana. Tra i modi di essere delle famiglie contadine va ricordata, infine, anche la grande generosità nel prestare aiuto o accoglienza a chiunque ne avesse avuto bisogno. Generosità e saggezza, guadagnate nei secoli in seno a famiglie 81 patriarcali, a contatto con la natura e con gli animali da lavoro, conseguenti al costante impegno, hanno dato loro una visione concreta e aperta della vita nel rispetto di tutti. GLOSSARIO Alcune voci del glossario sono riportate con espressione dialettale perugina, affiancate da traduzione in italiano. Assolcatore Aratro il cui vomere fisso era configurato a triangolo isoscele ed era raccordato con un versoio ligneo a due falde simmetriche rispetto all’asse della bure (timone dell’aratro). L’assolcatore si utilizzava sui terreni già arati e sminuzzati, per realizzare canalette di scolo o i solchi per la semina del mais. 82 Balzo Manufatto nastriforme di antichissima e ingegnosa invenzione, realizzato e utilizzato dai mietitori di cereali per legare i covoni. Il balzo veniva realizzato mediante la giunzione di due mazzetti di culmi dello stesso cereale, costituiti ciascuno da qualche decina di unità. Sia il giunto che la legatura del covone si effettuavano per mezzo di opportune manovre di torsione, attuate in pochi secondi con grande destrezza dal mietitore. La stabilità del giunto e della successiva legatura era assicurata dalle estremità ritorte che, aderendo al fascio di cereale, non avevano alcuna possibilità di distendersi. Barcaccia Cospicua quantità di uva, sommariamente pigiata e accumulata presso un lato del canale, prima di essere definitivamente ripassata. Barchetto o Cavalletto Piccolo cumulo di covoni che si realizzava sui campi dopo la mietitura. La sua sistemazione planimetrica a croce consentiva una migliore essiccazione del prodotto, destinato a rimanere sul posto per 10-15 giorni. Il barchetto era costituito da cinque strati sovrapposti di 83 quattro covoni ciascuno, le cui spighe venivano a trovarsi così tutte nell’area centrale della croce; ogni barchetto era concluso da un covone posto diagonalmente alla sommità. Quando i barchetti si realizzavano su appezzamenti di accentuata acclività, era necessario impiegare uno o due covoni in più sotto il braccio di croce a valle, in modo da assicurarne la verticalità. Essi venivano realizzati in catene più o meno numerose, solitamente a monte di un solco-canaletta, allo scopo di agevolare le successive operazioni di carico sul carro. Barcone Grande cumulo di covoni, alto anche 5-6 metri, che si realizzava sull’aia alcuni giorni prima delle trebbiatura. La forma planimetrica dei barconi era circolare per quelli più piccoli, mentre per quelli più grandi era ovale o rettangolare con angoli arrotondati. Il profilo dei barconi era identico a quello dei pagliai anche se, quelli a pianta rettangolare, erano configurati alla sommità da una linea di colmo orizzontale. Barellone Barella lignea, strutturalmente costituita da due stanghe e due traverse alle quali era vincolata una cesta di forma semicilindrica, realizzata con grossi vimini. Il barellone veniva impiegato da due operatori per trasportare il letame. 84 Barile Recipiente ligneo generalmente della capacità di 50 litri, utilizzato per il trasporto di vino o di olio. La sua forma, simile a una botte dai fondi ovalizzati, era costituita da doghe tenute insieme con quattro fasciature lignee la cui giunzione era identica a quella dei cerchi delle bigonce. Barlozza Piccolo barile di capacità inferiore alla norma, di solito 15 o 25 litri. Battitore Organo della trebbiatrice che, ruotando a forte velocità e cooperando con il controbattitore (fisso), agisce per sfregamento delle spighe, provocando la fuoruscita dei chicchi dalle stesse e dalla pula. Bifolco Uomo addetto alla cura e all’impiego dei buoi nei lavori agricoli. Il bifolco, incaricato del governo quotidiano dei buoi, riusciva ad entrare in simbiosi con essi, tanto che, a volte, un semplice tocco, una carezza, o un gesto erano sufficienti ad ottenere dagli animali stessi prestazioni che altri non avrebbero ottenuto. 85 Bigonzo (Bigoncia) Recipiente ligneo di forma tronco-conica capovolta, prevalentemente usato per la vendemmia. Tale contenitore era costituito da doghe tenute insieme per mezzo di tre caratteristiche cerchiature lignee, dalla ingegnosa giunzione senza colla e senza chiodi. Boccaletta Museruola metallica che si poneva sul muso dei buoi durante l’aratura o la semina negli oliveti. Gli animali, se sprovvisti della boccaletta, passando ai piedi degli olivi, cercavano di mangiarne al volo le fronde schiantando così i rametti più bassi. Botte Grande recipiente ligneo dalla forma paragonabile a due tronchi di cono uniti per le virtuali basi maggiori, utilizzato per la conservazione del vino. La botte è costituita da una serie di doghe leggermente ricurve verso l’esterno, combacianti come i conci di un arco e tenute insieme da 4 o 6 cerchioni di ferro. Alle due estremità (corrispondenti alle basi minori) sono incastrati due fondi a superficie piana, su uno dei quali è situata un’apertura rettangolare con un lato minore sulla circonferenza, chiudibile da un elemento denominato “usciolo.” Tale elemento, dallo spessore tronco-piramidale, viene 86 inserito dall’interno verso l’esterno e serrato mediante un traverso incuneato (o negli esemplari più recenti, da un grosso dado filettato). Le botti vengono allineate alle pareti delle cantine con l’asse virtuale parallelo al pavimento, adagiate su robusti supporti di legno. Brolle Rami di olivo, derivati della potatura, le cui fronde venivano recuperate e usate come mangime per i bovini, mentre la parte legnosa era utilizzata come combustibile. Canale Grande vasca di muratura, profonda circa un metro, situata all’interno della cantina, entro cui si pigiava l’uva con i piedi. Il canale era dotato di un foro di scarico, solitamente realizzato in un concio di pietra sporgente dal muro, denominato “bocca da canale”. Tale elemento, sempre modanato all’esterno, in alcuni casi veniva raffinatamente intagliato in forma di rosone. I canali più antichi erano sempre sopraelevati dal pavimento della cantina di circa un metro, per consentire di porre un piccolo tino sotto la bocca di scarico. Canestra 87 Cesta di vimini di forma circolare, priva di maniglie. Canestro Cesto di vimini di forma ovalizzata, munito di manico trasversale. Capitagna Ciascuna delle due strisce di terreno che rimangono da arare alle estremità del campo, dove cioè l’aratro inverte la marcia. Le capitagne venivano (e vengono) dissodate da una serie di passaggi paralleli ai lati di testa degli appezzamenti. Carrareccia Strada campestre sterrata, adibita al transito di carri e macchine agricole; con tale termine vengono definite anche le tracce delle ruote dei carri lasciate sul terreno bagnato. Carratura Il trasporto dei covoni dal campo all’aia, simultaneo alla realizzazione del barcone. 88 Casengolo (Bracciante) Salariato agricolo, residente in modeste case di campagna in affitto, al quale non era affidato alcun podere da coltivare. Coroia (Cercine) Grande fazzoletto arrotolato e avvolto in forma di piccola ciambella che un tempo le donne si ponevano sul capo per agevolare il trasporto di oggetti, quali brocche, cesti, ecc.. Cotarella (Cote) Utensile fusiforme per affilare falci e coltelli, costituito da una pietra abrasiva, lunga circa 20 centimetri. Crinaccio Contenitore cilindrico adagiato sul pianale del torchio, usato per la spremitura delle vinacce. Il cilindro è costituito dalla sola superficie laterale, definita da doghe lignee verticali, lievemente distanziate e vincolate da cerchiature di ferro. Al fine di agevolare lo scarico delle vinacce dopo la spremitura, esso è in realtà suddiviso in due semicilindri che vengono uniti da appositi chiavistelli. 89 Crino Leggero contenitore cilindrico realizzato con rametti di salice (diametro e altezza circa 60 centimetri), utilizzato per il trasporto di erba, fieno o paglia. La sua struttura essenziale era costituita da due cerchi di legno (solitamente di alloro), che ne definivano le basi geometriche, di cui soltanto una era chiusa da un graticcio. La superficie laterale era costituita da rametti del diametro di circa 8 millimetri, distanti 4-5 centimetri, posti in verticale e opportunamente ancorati ai cerchi di base. Il crino, una volta riempito, veniva trasportato sul dorso dell’operatore che lo tratteneva per mezzo di un bracciolo di corda doppia passato sopra una spalla. Erpice Congegno agricolo trainato dai buoi o dal trattore, fatto strisciare sul terreno per frantumare piccole zolle, interrare semi, rompere la crosta del suolo, fino a una profondità di 6-8 centimetri. L’erpice è costituito da una serie di elementi di ferro dentati e snodati tra loro, collegati a graticcio. Falce Antico utensile usato per mietere i cereali (falce messoria), ed 90 anche per tagliare l’erba. E’ costituita da una sottile lama ricurva, quasi semicircolare, larga 3-4 centimetri, recante ad una estremità una impugnatura di legno. Un altro tipo di falce, molto più grande (falce fienaia) è costituita da una lama leggermente ricurva e lunga 60-70 centimetri, vincolata ad un manico di circa metri 1,50 dotato di particolari impugnature. La larghezza della lama diminuisce gradualmente da circa 15 centimetri presso l’attaccatura, fino a ridursi a zero alla estremità opposta. Fiescolo (Fiscolo) Sottile contenitore realizzato con fibre vegetali usato per agevolare l’estrazione dell’olio dalle olive frante. Il fiescolo è costituito da due pareti parallele in forma di corona circolare unite lungo la circonferenza maggiore (esse formano una sorta di tasca entro cui si pone la pasta di olive da sottoporre a spremitura). Forca (A) Utensile agricolo utilizzato per spostare fieno, paglia, erba. La forca è formata da un manico di legno lungo circa metri 1,50 recante a una estremità due rebbi metallici lievemente curvi e paralleli, lunghi circa 25 centimetri. Un primitivo tipo di forca era ricavato da un unico ramo di 91 olmo biforcuto o triforcuto che, una volta scortecciato, veniva per qualche tempo sottoposto a modellatura. (B) Appellativo scherzoso perugino (singolare e plurale) usato un tempo per definire un bambino o un adolescente. Forcone Forca munita di quattro rebbi. Forma Canaletta fissa, solitamente a sezione trapezoidale, scavata nel terreno ai margini dei campi (nelle forme vanno a defluire le acque piovane, per essere convogliate nei fossi). Funicchio Grossa fune di canapa, utilizzata per legare il fieno o i covoni caricati sul carro o sulla treggia. Giogo Strumento ligneo col quale si univano insieme due bovini da traino. Il giogo era opportunamente intagliato alle estremità per adattarlo al collo degli animali, mentre al centro era fissato un 92 robusto anello (campanella) per l’attacco del timone del carro o dell’aratro. Giujara Setaccio di forma circolare costituito interamente di elementi vegetali. Il fondo della giujara era formato da sottilissime canne del diametro di circa 4 millimetri, parallelamente legate con nastrini di salice alla distanza di circa 2 millimetri. Il bordo rialzato di forma tronco-conica, alto circa 10 centimetri, era costituito da una treccia di paglia avvolta a spirali sovrapposte lungo la circonferenza. Erano in uso due tipi di giujara: il primo serviva a setacciare grano, orzo, avena, mentre l’altro si utilizzava per il mais. La loro differenza si ravvisava nel graticcio dal fondo più o meno fitto. Questo antico utensile era spesso sostituito da un crivello dal fondo di lamiera perforata, vincolata a un bordo cilindrico di legno piegato. Gregna (Covone) Fascio di spighe di grano, orzo o avena legato con un mazzetto di steli dello stesso cereale. Greppo 93 Scarpata erbosa, quasi sempre artificiale. I greppi sono stati realizzati su terreni agricoli in forte pendio allo scopo di renderli più agevoli; tale sistemazione viene definita “a ciglioni”. Imbottatore (Imbottavino) Sorta di grande imbuto ligneo di forma parallelepipeda cava, usato un tempo per svuotare i barili di mosto o di vino nelle botti. Intagliato in un tronco lungo circa 50 centimetri, era dotato di un doccione metallico, che si inseriva nel cocchiume del contenitore. Lettiera Strato di paglia che ricopriva parzialmente il pavimento della stalla, sul quale stazionavano e dormivano i bovini. Anche i suini dormivano sulla paglia, ma in un box separato da quello del trogolo. Maniere Vinello a bassissima gradazione di sapore asprigno, ricavato dalle vinacce già sottoposte a spremitura, immerse nell’acqua per alcuni giorni e nuovamente spremute. Martinicca 94 Antico ingegnoso dispositivo di frenatura dei carri agricoli. Un sistema di funi, collegate ad una leva, con minimo sforzo esercitato anche da un adolescente consentiva di frenare lungo le discese carichi di notevole peso. (Le ganasce lignee della martinicca agivano direttamente sulla superficie di rotolamento dei cerchioni delle ruote). Méta Sinonimo di barcone. Molazza Macchina usata per impastare alcuni tipi di malte ma anche per frangere bacche o semi oleosi. Essa è costituita da una coppia di màcine lapidee del peso anche di 10 quintali ciascuna, montate a distanza ravvicinata sullo stesso asse orizzontale. Le màcine rotolano in cerchio in fondo a una tramoggia, mosse a bassa velocità da un albero motore verticale (anticamente una sola macina veniva fatta girare da un asino bendato). Opera Scambio reciproco di manodopera non retribuita attuato nei lavori agricoli mezzadrili più impegnativi. 95 Pagliaio Grande cumulo di fieno o di paglia che, fino agli anni Cinquanta, si realizzava sulle aie delle case coloniche. Soppiantato oggi dalle così dette “balle” pressate meccanicamente, esso ha costituito un metodo primitivo, ma efficace, per la conservazione all’aperto di tali prodotti. Di forma tronco-conica capovolta nella parte inferiore e conica in quella superiore, era imperniato intorno a uno stollo ligneo verticale infisso nel terreno (con espressione dialettale denominato “metùlo”). La superficie conica, esposta alle intemperie, assumeva dopo qualche mese le caratteristiche di una crosta dello spessore di circa 8 centimetri. che proteggeva dalle infiltrazioni d’acqua la massa sottostante. Al momento della utilizzazione il pagliaio veniva tagliato con apposito utensile in fette verticali larghe circa un metro e profonde cinquanta centimetri. Nell’occasione l’operatore aveva cura di modellare il taglio alla sommità in modo da formare una sorta di gronda. Peccia (Chioccia) Gallina che, generalmente in primavera, attraversa un periodo in cui non depone più le uova e assume un particolare portamento rigonfiando le penne ed emettendo un particolare verso, atto al richiamo dei pulcini. In questa situazione, alla peccia possono essere affidate delle uova che essa cova volentieri (per tre settimane) fino alla schiusa. 96 Picciòla Piccola quantità di vinacce, definitivamente pigiate, che si accumulavano in un angolo del canale prima di essere introdotte nel torchio. Pistarella (Follatore) Bastone lungo circa 1 metro, avente un’estremità leggermente tri-forcuta, utilizzato per costipare sommariamente i grappoli d’uva nelle bigonce. Podere Terreno, solitamente di proprietà privata, destinato a coltura, generalmente lavorato da una sola famiglia. Portarella Barella lignea, costituita da due stanghe unite da due traverse che veniva utilizzata durante la vendemmia per brevi spostamenti delle bigonce piene d’uva. Quinconce Tipica sistemazione degli alberi e di alcuni ortaggi disposti in 97 file parallele ma sfalsati di mezzo passo, al fine di ottenere la più completa esposizione al sole. La disposizione a quinconce si basa su un reticolo virtuale di triangoli equilateri, in cui gli alberi sono situati in corrispondenza dei vertici. Sbrecciatura Prima fase di potatura delle viti. La sbrecciatura si limitava al taglio dei tralci inutili e alla rimozione di vecchie legature. Scina Recipiente in terracotta di forma tronco-conica capovolta, utilizzato per fare il bucato o, talvolta, per preparare modeste quantità di solfato di rame. Il diametro della sua apertura, accentuato da robusto bordo, e la sua altezza, potevano raggiungere in alcuni casi anche un metro. Dotata di un foro di scarico in prossimità della base, talvolta presentava, a mezza altezza, una lieve aggettivazione sporgente dentellata. Scorgiato (Correggiato) Antico utensile agricolo di legno, usato un tempo per battere i cereali o i legumi secchi. Il correggiato era costituito da un manico lungo circa metri 98 1,50 alla cui estremità era collegata con una cinghia di cuoio una mazza fusiforme snodata denominata “vetta”, lunga circa 70 centimetri. Impugnato l’utensile, si faceva ruotare in aria la vetta, mandandola a percuotere le spighe o i baccelli da sgranare. Seccia (Stoppia) La superficie dei campi dopo la mietitura dei cereali, irta di steli di paglia mozzati dalla falce. Specciolatura (Spannocchiatura) La rimozione manuale delle brattee, costituenti l’involucro delle pannocchie di mais. Strefolare (Sgretolare) Disgregare manualmente le vinacce già sottoposte alla spremitura nel torchio, prima di essere nuovamente torchiate. Strettoio (Torchio) Tipo di pressa, azionata manualmente, per la spremitura delle vinacce. 99 Lo strettoio è costituito da un pianale dal perimetro rialzato a cui è vincolata una grossa vite verticale, da un contenitore cilindrico per le vinacce e da una madrevite; quest’ultima, sospingendo delle piastre lignee adagiate sulle vinacce, provoca la fuoriuscita del mosto. Testo Disco di terracotta refrattaria che, una volta infuocato, si utilizzava per cuocere le focacce. L’utensile, del diametro di 30–40 centimetri e dello spessore di 2, era dotato di una maniglia situata al centro di una faccia. Tino Contenitore ligneo per il mosto o le vinacce, di forma tronco-conica, costituito da doghe tenute insieme da cerchi di ferro. Tramoggia Contenitore di forma tronco-piramidale o tronco-conica capovolta applicato a diversi tipi di macchine. All’interno della tramoggia si pongono materiali solidi incoerenti da sottoporre a macinazione o classificazione. La sua carica si effettua dall’alto, mentre il contenuto fuoriesce inferiormente per gravità. 100 Trebbiatrice Macchina agricola non semovente, utilizzata per separare le cariossidi dei cereali dalla pula, dalla paglia e da altri semi estranei. La stessa serve anche a trebbiare i semi delle foraggere. Gli organi della trebbiatrice sono: il battitore e il controbattitore, i crivelli, lo scuotipaglia, i ventilatori, l’elevatore a noria, lo sbarbatore, ecc.. Negli ultimi decenni questo tipo di trebbiatrice è stato sostituito dalla mieti-trebbiatrice semovente, dotata di una falce a barra e di altre apparecchiature che la mantengono sempre in posizione orizzontale, anche sui campi accliviati. Treggia Particolare tipo di veicolo agricolo basso e privo di ruote, trainato dai buoi e utilizzato un tempo sui pendii più scoscesi. Troscia Modesto stagno di acqua piovana, utilizzato per risciacquare il bucato o per annaffiare. Usciòlo 101 Apertura situata su uno dei fondi delle botti utilizzata per consentirne la pulizia interna (anche l’elemento di chiusura di tale apertura). Vanga Utensile agricolo costituito da una lama trapezoidale o triangolare, fissata ad un manico ligneo lungo circa metri 1,20 e utilizzata per dissodare piccole superfici di terreno. Dopo l’infissione, effettuata esercitando una pressione con il piede su apposita staffa, la zolla veniva rovesciata e frantumata. Venco (Torchio) Rametto flessibile e ripiegabile di alcuni tipi di salice, utilizzato per legare i tralci delle viti durante la potatura. Voltorecchio Tipo di aratro metallico ribaltabile, il cui versoio, nei passaggi di andata e ritorno delle arature, consente il rovesciamento della fetta di terreno sempre sullo stesso lato. Zappa Attrezzo agricolo costituito da una lama generalmente quadrata con il lato di circa 15 centimetri, fissata perpendicolarmente ad un manico ligneo lungo circa metri 1,50. Si usa per sminuzzare piccole zolle, fare solchi o piccole fosse, ecc.. Zappitello (Zappone) Zappa a due lame contrapposte, larghe rispettivamente circa 8 e 4 centimetri. FInito di stampare nel mese di Maggio 2006 dalla Tipografia Grifo - Perugia