Unità 10
Leggere la realtà
Esercizi di comprensione di lettura
Arnaldo Colasanti
Vittorio Zucconi
F. Cella
Pensieri di un professore
L’incontro. Velocità e lentezza
I videogames fanno male
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Volume 1, Unità 10
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ARNALDO COLASANTI
Pensieri di un professore
Nel romanzo Gatti e scimmie lo scrittore e critico letterario Arnaldo Colasanti (1957) traccia un
ritratto intenso e umoristico del mondo di una scuola di periferia visto dalla parte di un insegnante.
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Basta, non se ne può più. Li guardo durissimo. Anche loro stanno ipnotizzati sul da farsi. Attendono. Qualcuno, aiutato, raccoglie la lavagna che sembra
una vecchia zia sgualcita e infreddolita, a lutto da millenni, tirata da terra come
se fosse scivolata via – per una debolezza priva di memoria – dal pozzo della poltrona. «A posto!», grido – e sento, però, risvegliarsi una fitta sul palato, il ricordo che dovrò stare con loro ancora tre ore di seguito, senza pause, impietosamente, come ogni giovedì, venerdì e sabato. La finestra in fondo all’aula fa entrare
una luce immensa. La campagna, le borgate di Roma sud, la Romanina e poi, a
destra, Laghetto, Borghesiana, Finocchio, s’allungano come su un velluto scuro di moquette, con in mezzo modellini di cartone e casette basse, impalpabili,
un fiocco di carta di vetro. Dappertutto scorre un riverbero: qualcosa come un
cielo bianco e afono1, che si piega sopra il paesaggio in lunghe crespe2, quasi a
soffocarlo. Davanti a me la luce è una cosa piena, è un corpo folgorato. La bellezza, lo squallore, le pene della vita, diventano una cosa sola.
Fra di noi, si sa, esiste un patto segreto, che nessuno ha mai tentato di infrangere. Io accetto tutto: cinque minuti di intervallo durante il cambio di ogni ora;
le sigarette al bagno; il gran movimento di caffè e di merendine; persino un carnet3 di giustificazioni quando si fosse, cioè si è, impreparati. Però voglio in cambio una cosa precisa, senza alcuna discussione: nessuno, dico nessuno, potrà
rompere il silenzio e la quiete con cui tutti, in classe, debbono seguire la lettura di un raccontino preso dall’antologia. Ora scorro l’indice, cerco una novità
che non esiste. Dico la pagina. Lo so bene, solo la metà possiede il libro di testo;
e so che per altri cinque minuti non potrò evitare il valzer di manovre, assembramenti, tre o quattro che si ammassano attorno allo stesso banco, con il libro
messo scientificamente (cioè lontano da tutti) alla giusta distanza da ognuno.
Sembrano preliminari di concentrazione, anche se poi, lo so bene, non sono altro
che preparativi di villeggiatura.
L’aula oblunga, che fino a quel momento pareva un camping settembrino in
disarmo, assume all’improvviso un ordine insolito (qualcosa che fa rammentare cose antiche, ahimè, una grande sala da banchetto popolare per cresime, con
tutti che si guardano attorno, impacciati dagli abiti, in attesa del piatto di lasagne). Guardo anch’io, e con fare organizzativo. Giro per la classe; osservo. Mi
preoccupo che prima dello start tutti abbiano da leggere, diligentemente (ecco,
“diligenza”: una parola che non ha più senso nella scuola d’oggi, anche se viene
proprio dagli anni della scuola, come il tenere le braccia conserte, il non masticare la gomma, il cercare di sbirciare un voto mentre il professore, con fare lucignolo4, copre la mano della penna con la sinistra a chiocciola, povero e infantile separé5. Del resto, domando, è ancora possibile nella lingua d’oggi, nella vita
1. afono: senza voce, qui più nel senso di “opaco”.
2. crespe: pieghe.
3. carnet: libretto, nel senso di “lista”.
N. Botta, Galeotto fu il libro © Loescher Editore, 2010
4. lucignolo: furbesco.
5. separé: parete o pannello che serve a separare gli ambienti.
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grama di ogni giorno, usare una parola antica, ottocentesca, farwesteristica,
come “diligenza”6?).
D’accordo, anche questa è sempre e solo una commedia. Potremmo, però,
smettere di recitarla? E se dovesse accadere proprio oggi che la lettura sappia
catturare qualcuno? Almeno per me fu così, tanti anni fa. Me la ricordo la Morbidelli, una donna coi capelli di paglia, un corpo grosso, austero, la pelle verde
per le sigarette, lo sguardo insostenibile e ironico (il mito del Liceo Ginnasio
“Augusto” di Roma), mentre leggeva lentamente la Commedia7, con quel fare
profondo e nervoso, da farci svenire di emozione. Altri tempi. Rifletto: ma io lo
voglio per davvero che un ragazzo di oggi diventi un giorno come me? È solo
questo ciò che desidero per loro? Oddio, sto proprio invecchiando. Meglio spostarsi.
Il senso di colpa mi rende fragile: lascio che si tirino gli ultimi schiaffoni prima del coprifuoco. Non mi resta altra consolazione che appoggiarmi con la schiena sul bordo della finestra e vederli allora di spalle, senza fretta, diligentemente. Loro esplodono di giovinezza; le loro nuche sono bianche e candide; i corpi
belli e delicati. Le loro anime, nella stanza, odorano di lunghi respiri e sembrano incerte se crescere o resistere ancora un po’ alla vita.
A. Colasanti, Gatti e scimmie, Milano, Rizzoli, 2001
6. farwesteristica… “diligenza”: la diligenza è una grande carrozza per il trasporto di passeggeri o di posta, che nell’immagi-
nario del professore è tipica dei film western americani.
7. Commedia: la Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321).
Esercizi
1
La voce narrante appartiene a un professore di scuola secondaria superiore: quale materia insegna?
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Dai dati presenti nel testo è possibile ricavare informazioni sul contesto sociale che fa da sfondo? Dove ci
troviamo?
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3
In che cosa consiste il «patto segreto» tra insegnante e studenti al quale si fa riferimento nel testo?
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Che cosa pretenderebbe l’insegnante dai suoi studenti?
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Perché nel testo la parola «diligenza» è definita «farwesteristica»?
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In quale punto del testo l’insegnante ricorda la sua esperienza di studente? Sottolinea il passaggio.
In che cosa consistono i «preparativi per la villeggiatura» cui si fa riferimento nel testo?
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Le riflessioni dell’insegnante ti sembrano da “inizio carriera” o, piuttosto, da “fine carriera”? Che cosa te
lo fa pensare?
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In che cosa consiste la consolazione finale del docente?
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L’incontro. Velocità e lentezza
Michael Schumacher
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Sembra un po’ ingiusto incontrare da fermo l’uomo che corre. Sospenderlo
nella sua corsa per domandargli se in una vita misurata in millesimi di secondo
e scandita da frastuoni infernali, ritornare per due mesi d’inverno al tempo contato in ore gli porti l’incubo del nulla, nel silenzio della sua grande maison1 di
quindici stanze sul lago di Ginevra, appena mosso dalle risate dei bambini e dalla voce della moglie, che sento parlare dietro di lui, nella confusione della partenza per le vacanze oltremare. Ma vorrei capire come viva un dio della velocità costretto dal calendario a non correre, per quelle settimane di animazione
sospesa tra l’ultima bandiera di ottobre e il primo semaforo di marzo. L’inverno
a piedi di Michael Schumacher.
«Andare forte per me è più facile che andare piano, è vero, ma senza quei
mesi di vita normale e lenta, non riuscirei poi a correre per i sette mesi di Gran
Premi. Senza quel tempo fermo, senza i miei figli che neppure mi guardano correre alla televisione, e per fortuna, sarei schiantato dalla fatica e dalla tensione.
Andare piano è la condizione necessaria per andare forte». Un po’ di teoria della relatività? Lo sento ansimare. Affaticato dal riposo obbligato? «No, sono sulla cyclette e pedalo». Neppure quando è fermo, quest’uomo sa stare fermo.
Tutto è davvero relativo, nella dimensione diversa dove vive l’uomo che considera andare a 300 all’ora in rettilineo andare piano e giocare con i propri bambini più emozionante che infilarsi nella tonnara dopo la partenza con il branco.
L’inverno del suo riposo si muove più in fretta dell’estate delle corse, perché
cambia la percezione del tempo e dello spazio che tornano umani. «Andare a
370 all’ora, come probabilmente sono andato varie volte, su un rettilineo, non
produce nessuna sensazione di velocità» ansima «come volare a 900 chilometri
all’ora, per la perfetta stabilità delle macchine. Mi sembra di andare più veloce
quando vado in macchina a portare i bambini a scuola e devo frenare per non
superare i limiti».
Frenare, appunto. Passare, dopo l’ultima magnum2 di champagne sprecata
dal podio, istantaneamente dalla guerra alla pace, dal fracasso alla quiete, dal
fronte alla casa, una transizione che non tutti riescono a superare, come sa ogni
reduce depresso e inquieto. Ma quando gli chiedo come consumi i propri giorni negli inverni da pedone, ascolto la storia di un qualsiasi padre in Panda, soltanto con molte Panda in garage, se le cifre di 80 milioni di dollari incassati all’anno raccontate dall’americana «Forbes Magazine» sono vere. «Faccio colazione,
accompagno Mick e Gina Maria a scuola, torno a casa a fare un po’ di training,
a guardare un canale satellitare di news alla tv, perché quando ci sono i bambini non voglio che vedano gli orrori del mondo, torno a prenderli a scuola, gioco
con loro, facciamo insieme i compiti». Guarda qualche film? «Se è adatto ai bambini. Altrimenti li guardo con Corinna, con mia moglie, in aereo».
Avevo letto di lui che fosse un uomo gelido, distante, e nel conversare trovo
soltanto la quieta, al massimo un po’ scontrosa, normalità di uno che cerca nel-
1. maison: in francese “casa”.
2. magnum: bottiglia di dimensioni più grandi.
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lo spazio prezioso della routine di padre di famiglia, la disintossicazione dalla
droga del talento e dell’adrenalina che lo consumano per il resto dell’anno, «e
pochi sanno come mi riduco senza accorgermene alla fine della stagione, fisicamente, quando ci fanno i test medici e mi spavento». [...]
Deve essere stato benedetto da Dio, un Do nel quale dice di credere ma senza frequentare chiese o riti organizzati, da una invidiabile mancanza di immaginazione e di fantasia, oltre che da una moglie che gli dice semplicemente di fare
quello che vuol fare, fino a quando lo vuole fare. Noi che viviamo nella dimensione delle tangenziali intruppate e del cambio dell’olio, torni dopodomani, vorremmo immaginare una moglie leggermente isterica, che negli inverni appiedati del marito lo tormenta con la preghiera di smettere un mestiere che ormai lo
ha fatto ricco, insieme con i figli e i futuri nipoti, oltre ogni lusso e necessità,
che gli ricorda le croci disseminate sulle curve e i rettifili, che gli sussurra ogni
notte di pensare ai bambini e piantarla. Invece lui le dice di essere felice così,
di non avere “sogni ancora aperti”, come dice anche a me e questo le basta.
Non sogna neppure le corse, le botte, le uscite, nel sonno. «Quasi mai», pedala. «Sono pessimista e fatalista. Se deve venire la mia ora, verrà e io non ci posso fare niente. Ogni anno, quando si avvicinano le prove della nuova macchina
penso che quest’anno non ce la farò e qualcuno ci sconfiggerà». Come Joe Louis,
il grande peso massimo che osservava i bambini giocare e scuoteva la testa preoccupato, pensando che tra di loro ci fosse quello che un giorno lo avrebbe messo al tappeto. «Sì, proprio come lui».
Uno come Schumacher avrebbe il diritto di avere incubi, nel silenzio appiedato del lago d’inverno e della grande proprietà, un “domain”, come si chiama in
francese, mentre guarda il calendario scivolare verso il via a marzo e di sentire,
quando ripensa a una gara, l’immensa solitudine del pilota. Quel senso di solitudine e di fragilità che afferrava i primi astronauti sparati in cielo da soli, sul cucuzzolo di missili sperimentali, in balia di altri. E pregavano, come confessava l’americano Sheppard quando avvertiva sotto il sedere le prime vibrazioni dei motori
che «i costruttori non avessero risparmiato troppo sui materiali».
Se la tua vita è appesa a una organizzazione, da Montezemolo al meccanico
che fissa un bullone o stringe una ruota, probabilmente è inevitabile diventare
fatalisti. Ma non siamo forse così tutti noi che voliamo, che ci tuffiamo in un’autostrada, che ci affidiamo alla competenza del conduttore del treno e del capostazione? «Non mi sento neppure tanto solo, poi. Abbiamo cento persone che
lavorano in pista attorno alla macchina e comunico con la base continuamente.
Me le sento tutte attorno, sedute con me sulla macchina, quando guido». [...]
Un guerriero che non ha paura della pace è un guerriero molto fortunato,
molto saggio o molto coraggioso. È uno che sa usare il tempo del combattimento per gustarsi il riposo, e sfruttare il tempo della pace per ritrovare la voglia
della battaglia. «Non ho nessun problema di transizione dalla corsa alla casa,
quando finisco di lavorare, cioè di correre, divento un altro e poi viceversa. L’inverno a piedi non mi spaventa, anzi, lo aspetto con la stessa ansia con la quale
aspetto la nuova macchina».
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V. Zucconi, in «La Domenica di Repubblica», 28 novembre 2004
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Esercizi
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«Andare piano è la condizione necessaria per andare forte»: che cosa significa, secondo te, questa affermazione.
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Quale momento dell’anno fa da sfondo all’articolo?
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Che cosa significa l’espressione «la disintossicazione dalla droga del talento e dell’adrenalina»? In che
cosa consiste questa «disintossicazione» per Michael Schumacher?
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Quale ritratto psicologico di questo personaggio viene delineato nel testo? Quali aspetti vengono messi in
rilievo?
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Ti sembra che nell’articolo si privilegi il ritratto di Michael Schumacher come campione di Formula 1 e uomo
pubblico, oppure che sia data maggiore rilevanza alla dimensione “domestica” del personaggio? Sottolinea nel testo i passaggi a favore dell’una o dell’altra tesi.
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Spiega con le tue parole che cosa significa l’espressione «Un guerriero che non ha paura della pace è un
guerriero molto fortunato»: a quale «guerriero» e a quale «pace» si fa riferimento?
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L’espressione è:
a ossimorica.
b antitetica.
c metaforica.
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Studio inglese fornisce a lista dei giochi “positivi”
I videogames fanno male?
«Sì, ma alcuni sono buoni»
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I videogiochi fanno male, teneteli lontani dai bambini. Anzi, no: è vero tutto
il contrario. Almeno è quanto afferma uno studio, decisamente controcorrente,
finanziato dal governo britannico e condotto dal “Centro studi sull’Infanzia, la
Gioventù e i Media” della London University. Una ricerca che ha rilevato nei giochi elettronici un prezioso strumento didattico: E il fatto che bambini e ragazzi passino ore chiusi in camera a giocare con il computer o le varie console non
va quindi considerato motivo di preoccupazione.
Lo studio inglese va oltre e arriva anche a consigliare titoli come “Shrek 2” o
“Alla Ricerca di Nemo” per i più piccoli (dai 7 ai 10 anni), oppure giochi più
complessi e intelligenti, come “The Sims” o lo storicheggiante “Civilization” per
ragazzi dai 10 anni in su. Perché i videogiochi dovrebbero proprio essere inseriti nei programmi scolastici, dicono i ricercatori, che sollecitano anche famiglie
e docenti a incoraggiare i ragazzi a programmarseli da soli.
«Vogliamo rassicurare genitori e insegnanti sul fatto che i giochi elettronici sono una legittima forma di cultura che merita un’analisi approfondita
nelle scuole alla pari di film, televisione e letteratura», ha dichiarato Andrew
Burn, ricercatore dell’ateneo londinese. «Ma vogliamo anche far presente che
la comprensione totale della materia si ottiene solamente se i bambini hanno i mezzi per creare da sé i loro giochi». Un po’ come poteva accadere in
passato con i mattoncini Lego o il Meccano, all’interno del dipartimento londinese un gruppo di ricercatori sta sviluppando il prototipo di un software
facilitato da destinare agli alunni delle scuole per creare da soli i giochi elettronici. Lo strumento permetterà a bambini e ragazzi di programmarsi il proprio videogioco, inventando un’avventura da giocare con gli amici, e realizzandola in un ambiente 3D, esattamente come quello dei titoli migliori che
si possono trovare nei negozi. La ricercatrice Caroline Pelletier è a capo di
questo gruppo di lavoro: «Creare un videogioco è un forte momento di espressione di se stessi e di rappresentazione della realtà. I ragazzi già lo fanno nelle scuole tramite la scrittura e il disegno. Offriremo loro un nuovo strumento didattico».
Lo studio dell’università di Londra è comunque destinato a far discutere.
Molti genitori temono gli effetti dei giochi violenti sulla psiche in via di sviluppo dei loro ragazzi. E la cronaca più nera talvolta racconta di atti di violenza
compiuti da giovani ossessionati dal loro passatempo preferita: l’estate scorsa, l’inglese diciassettenne Warren Leblanc è stato condannato per l’uccisione di un’amica, omicidio che seguiva l’efferato “stile” del suo gioco preferito,
“Manhunt” (Caccia all’uomo). Ma ancora Burn minimizza, ribattendo che non
tutti i videogames hanno queste caratteristiche e, per sottolineare il suo pensiero, ricorda come nell’Inghilterra e nella Germania del XIX secolo la narrativa romantica era parimenti considerata “velenosa” per le menti delle giovani donne.
L’équipe dello scienziato ha constatato che i bambini possono apprendere dai giochi elettronici, almeno da quelli “buoni”, la struttura delle storie, lo
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sviluppo dei personaggi e persino nozioni grammaticali. I videogiochi come strumento di crescita, dunque. Secondo alcuni test, condotti in due scuole inglesi, i ragazzi appassionati di videogiochi si
sono dimostrati anche i più colti.
F. Cella, in «Corriere della Sera», 28 ottobre 2004
Esercizi
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Che cos’è un videogioco? Quali videogiochi sono citati nel testo?
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Nel testo si fa riferimento ad aspetti negativi dei videogiochi: quali sono?
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Quali sono invece gli aspetti positivi?
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La prospettiva aperta dai ricercatori dell’Università di Londra, relativamente all’opportunità di impiego dei
videogiochi quali preziosi strumenti didattici, è decisamente controcorrente. Qual è la tesi da essi sostenuta?
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Sottolinea nel testo gli argomenti addotti a sostegno della tesi. Ti sembrano attendibili?
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L’articolo fa implicito riferimento anche ad alcune “obiezioni”: rintracciale nel testo.
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Ora provvedi a svilupparle e ad arricchirle perché possano diventare argomenti di una possibile controtesi.
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Scrivi ora un testo argomentativo di circa 150 parole al fine di confutare la teoria dell’équipe londinese.
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