bollettino d’informazione sui farmaci SPED. IN ABB. POST. ART. 2, COMMA 20/C, LEGGE 662/96 - FILIALE DI ROMA PROTOCOLLO DI MONITORAGGIO DEI PIANI DI TRATTAMENTO FARMACOLOGICO PER LA MALATTIA DI ALZHEIMER bollettino d’informazione sui farmaci ANNO VII - N. 3 MAGGIO-GIUGNO 2000 Ministero della Sanità Dipartimento per la valutazione dei medicinali e la farmacovigilanza Medicina basata sulle evidenze (EBM) e pratica clinica 30 DALLA CUF 30 3 5 ACE-Inibitori e nefroprotezione Variazioni e/o integrazioni di alcune Note-Cuf Programma di revisione per il biennio 2000-2001 di medicinali registrati da più di 10 anni 6 Si informa che è a disposizione di tutti gli interessati il nuovo sito internet: 8 ➣ Progetto CRONOS ➣ Documentazione sulla malattia di Alzheimer ➣ Forum medici e soggetti coinvolti nella gestione della malattia (caregiver) ➣ Dialogo informativo in rete ➣ Media Center ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO 19 26 27 28 29 Cisapride: limitate le indicazioni terapeutiche e prescrizione riservata ai centri ospedalieri Prodotti a base di Iperico (Hypericum perforatum): rischio di interazioni con altri medicinali DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA 32 AGGIORNAMENTI www.alzheimer-cronos.org dedicato all’assistenza socio-terapeutica dei malati di Alzheimer; in sito offre: FARMACOVIGILANZA EDITORIALE 1 Helicobacter pylori e dispepsia non ulcerosa ABC DEGLI STUDI CLINICI Ribavirina–Interferone: una terapia per l’epatite cronica C La resistenza agli antimicrobici oggi: momenti e prospettive di intervento 38 40 Gli end point surrogati Prescrivere in base ai numeri DALLA LETTERATURA 42 Informazione sui farmaci ed educazione sanitaria: le iniziative editoriali 44 La spesa farmaceutica nel 2000: andamento nel primo quadrimestre e proiezione a fine anno Quale ruolo può avere l’acido acetilsalicilico nella profilassi della trombosi venosa profonda? Rischi correlati ad ipertensione sistolica isolata nell’anziano: il trattamento antipertensivo appare giustificato Ipertensione e terapia antipertensiva, fattori di rischio di diabete mellito di tipo 2? La somministrazione perioperatoria di ossigeno riduce l’incidenza di infezione delle ferite chirurgiche MINISTERO DELLA SANITÀ DIPARTIMENTO PER LA VALUTAZIONE DEI MEDICINALI E LA FARMACOVIGILANZA NOTIZIE DAL DIPARTIMENTO FARMACOUTILIZZAZIONE BOLLETTINO D’INFORMAZIONE SUI FARMACI Bimestrale del Ministero della Sanità Direttore scientifico: Dott. Luigi Bozzini Comitato scientifico: Prof. Dino Amadori Dott. Marco Bobbio Dott.ssa Franca De Lazzari Dott. Marino Massotti Prof. Nicola Montanaro Dott. Michele Olivetti Prof. Luigi Pagliaro Prof. Paolo Preziosi Dott. Alessandro Rosselli Prof. Alessandro Tagliamonte Redattore capo: GLOSSARIO EER (Experimental Event Rate) Numero percentuale di eventi osservato nel gruppo randomizzato al trattamento in sperimentazione. CER (Control Event Rate) Numero percentuale di eventi osservato nel gruppo di controllo. IC 95% (Intervallo di confidenza 95%) Il concetto di base è che gli studi (RCTs, meta-analisi) informano su un risultato valido per il campione di pazienti preso in esame, e non per l’intera popolazione; l’intervallo di confidenza al 95% può essere definito (con qualche imprecisione) come il range di valori entro cui è contenuto, con una probabilità del 95%, il valore reale, valido per l’intera popolazione di pazienti. Dott. Filippo Castiglia Indicatori di riduzione del rischio di eventi sfavorevoli Redazione: Dott. Renato Bertini Malgarini Dott.ssa Emanuela De Jacobis Dott.ssa Francesca Tosolini ARR (Absolute Risk Reduction) Riduzione assoluta del rischio di un evento sfavorevole nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto a quelli di controllo. Corrisponde alla formula: [CER - EER] NNT (Number Needed to Treat) Numero di pazienti che devono essere trattati per prevenire un evento. Corrisponde alla formula: [1/ARR] arrotondando per eccesso al numero intero. RRR (Relative Risk Reduction) Riduzione relativa del rischio di un evento sfavorevole nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli. Corrisponde alla formula: [CER – EER]/CER OR (Odds Ratio) Rapporto fra la probabilità di un evento nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione e la probabilità nei pazienti di controllo. E’ un altro indice di riduzione relativa del rischio di un evento nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli, e corrisponde alla formula: [EER / 1 - EER] / [CER / 1 - CER] OR è approssimativamente uguale a RRR se il rischio di base nei controlli è basso (<10%); se il rischio di base è alto, OR tende a valori costantemente più lontani dall’unità rispetto a RRR. Per varie ragioni, compresa la scarsa comprensione dei clinici, l’uso di OR dovrebbe essere abbandonato, e difatti OR non è più riportata nel glossario di Best Evidence (BMJ) e di ACP Journal Club (Ann Intern Med). Indicatori di aumento della probabilità di eventi favorevoli ABI (Absolute Benefit Increase) Aumento assoluto del beneficio terapeutico nei pazienti randomizzati al trattamento sperimentale rispetto ai controlli. Corrisponde alla formula: [EER - CER] NNT (Number Needed to Treat) Numero di pazienti da trattare per ottenere un beneficio terapeutico in un paziente. Corrisponde alla formula: [100 / ABI] RBI (Relative Benefit Increase) Aumento relativo del beneficio terapeutico nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli. RBI corrisponde alla formula: [EER – CER] / CER Indicatori di aumento del rischio di eventi sfavorevoli ARI (Absolute Risk Increase) Aumento assoluto del rischio di una reazione avversa nei pazienti che ricevono il trattamento sperimentale rispetto ai controlli. ARI corrisponde alla formula: [EER – CER] NNH (Number Needed to Harm) Numero di pazienti che devono sottoporsi al trattamento perchè si manifesti una reazione avversa. Corrisponde alla formula: [100 / ARI] RRI (Relative Risk Increase) Aumento relativo del rischio di una reazione avversa nei pazienti che ricevono il trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli. Corrisponde alla formula: [EER – CER ]/ CER EDITORIALE Medicina basata sulle evidenze (EBM) e pratica clinica La mente umana come il paracadute: funziona al meglio quando è aperta (Charlie Chan) Per secoli l’arte medica è stata autoreferenziata. Fino all’inizio del XX secolo, nonostante i progressi scientifici, la classe medica non era matura per recepire la potenzialità della sperimentazione che metteva in discussione il sapere insegnato nelle scuole di Medicina, l’autorità dei professori e il potere della corporazione. Era buon medico chi, forte di una buona conoscenza fisiopatologica e di una grande esperienza, ipotizzava l’efficacia di un provvedimento terapeutico. Spesso era la sua autorità che ne garantiva l’efficacia. Il secolo XX, segnato da due grandi protagonisti scienza e democrazia - ha assistito al passaggio da una medicina basata sull’autorità a una medicina basata sulle prove di efficacia. Con la comparsa e la diffusione dei trial clinici si è richiesto ai vari momenti diagnostici e terapeutici della medicina una conferma oggettiva della loro validità. La rigorosa metodologia alla base dei trial clinici randomizzati ha garantito la comparabilità dei trattamenti e ha sancito l’utilità di certi farmaci o completamente affossato altri che fino ad allora erano considerati efficaci. Con l’esplosione tecnologica e della ricerca farmacologica e nel contempo con l’accresciuta consapevolezza della limitatezza delle risorse, le autorità sanitarie dei vari paesi hanno maturato la necessità di selezionare gli interventi più validi, in modo da ottimizzare il rapporto costo/beneficio. È su queste basi generali, in sintesi, che è nata e si è sviluppata la medicina basata sulle evidenze. C’è chi, a questo proposito, ha entusiasticamente affermato: “La libertà clinica è morta e nessuno si rammarica della perdita” (1). Purtroppo la realtà non è, e non può essere, così semplice. La medicina basata sulle evidenze ha offerto ai medici un sicuro strumento di lavoro perché ha offerto la possibilità di selezionare i presidi e i rimedi più validi fra i tanti che vengono proposti. I medici hanno cominciato ad orientarsi in mezzo a termini come riduzione del rischio assoluto e relativo, intervallo di confidenza, numero di pazienti che devono essere trattati per BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 prevenire un evento, ecc., vincendo antiche consuetudini e reticenze, fondate soprattutto sulla convinzione, a lungo tramandata, che l’arte medica poggia solo sulle conoscenze e sull’ esperienza del singolo medico e qualsiasi “suggerimento esterno” è una coercizione che limita la libertà di agire nell’interesse del paziente. Oggi, sia pure faticosamente e fra molte contraddizioni, si sta affermando una pratica che cerca nelle prove scientifiche una legittimazione. Il medico quindi si può trovare in aree della pratica diagnostica e terapeutica che hanno chiare indicazioni in senso positivo o negativo derivanti dai trial clinici. Queste costituiscono la base delle sue decisioni. Molte altre situazioni cliniche, purtroppo, non dispongono di tali indicazioni e le decisioni devono pertanto maturare in un’area di incertezze scientifiche (“zona grigia”). Inoltre, e non ultimo, sono ben noti i limiti che i trial hanno di fronte alla medicina del singolo. Ad esempio, un trial ci dimostra che su cento pazienti trattati con un determinato farmaco, dieci trarranno un beneficio concreto; gli altri novanta, trattati quindi senza ottenere beneficio, saranno però esposti agli eventuali effetti avversi che gran parte dei farmaci efficaci induce. Il medico, al momento della prescrizione, di fronte a quel determinato paziente, non sa se esso fa parte dei dieci che beneficeranno del trattamento. Si evidenzia così una delle contraddizioni fondamentali fra medicina di popolazione e medicina del singolo, contraddizione che non deve però indurre a due opposte tentazioni, egualmente squilibrate: un minimalismo pratico da una parte, un interventismo spinto dall’altra. In linea di massima, un’ applicazione coscienziosa delle prove di efficacia esalterà, invece che mortificare, la necessità di una buona arte medica. Abbiamo bisogno del ragionamento clinico, dell’esperienza, della capacità di estrapolazione per attraversare le tante zone grigie della pratica. Si dovrà sempre più sviluppare la capacità di comunicazione con il paziente al quale dobbiamo trasmettere anche la possibilità di convivere con ciò che non conosciamo. Non dimentichiamo che anche con una medicina basata su prove di efficacia possia- 1 EDITORIALE 2 questa comunità fa parte integrante. Risulta pertanto, in ultima analisi, che l’atto clinico è un atto complesso che deve comprendere: la somma delle prove di efficacia, le attese dei pazienti, i limiti imposti dalla normativa o dall’organizzazione sanitaria. Diventa indispensabile inserire quindi l’atto clinico nel contesto di un sistema sanitario non parcellizzato ma comunicante, perché un atto clinico di per sé appropriato, si vanifica in un percorso diagnostico-terapeutico non lineare. La medicina basata sulle evidenze, per il suo sviluppo e per la sua implementazione diffusa, dovrà sempre più includere, e non ignorare, la realtà clinica con le sue difficoltà intrinseche, realtà che è a sua volta inserita in un contesto organizzativo sanitario articolato e complesso. Come è stato brillantemente sintetizzato le evidenze basate sulla medicina sono il prerequisito per una Medicina basata sulle evidenze (3). Bibliografia mo condurre una cattiva pratica se la applichiamo in modo irriflessivo e senza sensibilità. La medicina basata sulle evidenze impone anche una maturazione completa del rapporto medico-paziente. Il paziente deve diventare soggetto attivo, informato, consapevole, co-protagonista di scelte importanti per la sua salute. Si obietta che questo tipo di rapporto cancellerebbe l’aura magica intorno al medico che il paziente ancora ricerca e che, se non trovata, lo spingerebbe verso pratiche di medicina alternativa la cui efficacia è, nella migliore delle ipotesi, tutta da dimostrare. L’informazione e il dialogo sono l’antidoto alla irrazionalità che nel campo della salute può portare a scelte sbagliate. Il dialogo deve occupare particolarmente la zona grigia dell’attuale medicina che spesso viene riempita da prescrizioni di esami diagnostici o di farmaci più o meno rassicuranti e inutilmente costosi. Se la medicina basata sulle evidenze è stata giustamente definita come “il coscienzioso esplicito giudizioso uso delle migliori informazioni nel prendere decisioni per curare un paziente” (2), questa esalterà la libertà e l’esperienza del singolo medico perché il compito della medicina, per quanto scientifico, rimane pienamente etico. L’obiettivo della comunità (fornire le cure migliori tenendo conto delle limitate risorse economiche) non è in contrasto con le finalità del medico, che di 1. Hampton JR. The end of clinical freedom. BMJ 1983;287:1237-8. 2. Sackett DL. Evidence Based Medicine: how to practice and teach EBM. New York, Churcill Livingstone 1997. 3. Knottnerus JA, Dinant GJ. Medicine based evidence, a prerequisite for evidence based medicine. BMJ 1997;315:1109-10. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA CUF EDITORIALE ACE-inibitori e nefroprotezione Nell’ultimo anno la CUF si è interessata della valutazione delle prove di efficacia di tre ACE-inibitori (benazepril, lisinopril e ramipril) nel proteggere il rene dalla progressione verso l’uremia terminale. Nelle fasi iniziali della nefropatia, la riduzione del filtrato glomerulare viene compensata da un aumento della pressione idraulica all’interno dei capillari. In tal modo, viene mantenuto un adeguato tasso di filtrazione glomerulare per compensare la riduzione di unità nefrologiche funzionanti. L’aumento della pressione provoca dei danni alla parete glomerulare, che diventa sempre più permeabile alle macromolecole circolanti, dando origine a proteinuria. La patologia spesso evolve in modo progressivo, anche quando la causa iniziale del danno renale è stata eliminata. Si ritiene che l’effetto protettivo degli ACE-inibitori nella riduzione della progressione della nefropatia derivi da un’azione diretta anti-proteinurica, non mediata dalla riduzione della pressione arteriosa (1) e che, quindi, la loro efficacia possa essere superiore a quella di tutti gli altri antipertensivi. Per tale motivo si è sviluppato un ampio filone di ricerche per stabilire il vantaggio del trattamento con ACE-inibitori nei pazienti nefropatici. Sono state condotte numerose ricerche con ACE-inibitori, utilizzando diversi criteri per valutare l’efficacia della terapia; alcuni, come l’inizio della dialisi, l’esecuzione di un trapianto renale o la morte, vengono considerati criteri forti, in quanto la dimostrazione di una riduzione di tali eventi evidenzia la reale efficacia del farmaco. Altri effetti, come la riduzione della proteinuria o il raddoppio del valore della creatininemia, vengono considerati end point surrogati perché si riferiscono a indici di gravità della malattia il cui miglioramento non è stato correlato alla riduzione di eventi realmente importanti nella storia naturale di questi pazienti. Le ricerche Alla luce di queste considerazioni metodologiche sono stati letti i risultati delle ricerche cliniche prodotte con ciascun principio attivo e sono state autorizzate le nuove indicazioni cliniche. Benazepril I dati a sostegno dell’effetto del benazepril sulla nefroprotezione si basano su una ricerca condotta su 583 pazienti affetti da insufficienza renale di varia origine (clearance creatininica inferiore a 60 ml/min) BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 seguiti per tre anni (2). Alla fine della ricerca 31 pazienti (10%) trattati con benazepril e 57 (20%) trattati con placebo hanno avuto un raddoppio della creatininemia. Il vantaggio è stato maggiore tra quelli con insufficienza renale moderata rispetto a quelli con insufficienza renale lieve. Soltanto due pazienti hanno dovuto sottoporsi alla dialisi. Durante la ricerca sono stati riscontrati otto decessi tra i pazienti trattati con benazepril e uno nel gruppo placebo (p=0,04). Visto questo risultato inatteso della maggiore mortalità tra i pazienti trattati, i pazienti sono stati seguiti per altri tre anni, lasciando liberi i medici di prescrivere un ACE-inibitore (3). Alla fine dell’osservazione della coorte iniziale i decessi sono stati sovrapponibili (25 nel gruppo trattato inizialmente con benazepril e 23 nel gruppo trattato inizialmente con placebo) e parallelamente si è riscontrata una minor percentuale di pazienti che hanno dovuto sottoporsi alla dialisi, a trapianto renale o sono deceduti per causa renale (26% vs 36%; p=0,013). Lisinopril Il lisinopril è stato studiato in due ricerche (i cui dati non sono stati pubblicati) condotte con un lungo follow up. Nella prima sono stati studiati pazienti normotesi con diabete insulino-dipendente (IDDM) con normo- o microalbuminuria; dopo 24 mesi la media geometrica dell’escrezione di albumina è passata da 8 a 7,4 mg/min nei pazienti trattati con lisinopril e da 8 a 9,5 mg/min nei pazienti trattati con placebo. La differenza non è statisticamente significativa. La percentuale di pazienti che sono passati dalla categoria di normoalbuminurici a quella di micro- o macroalbuminurici è stata dell’8% per il gruppo trattato con lisinopril e del 6% di quelli trattati con placebo. Nella seconda ricerca sono stati studiati pazienti ipertesi con diabete non insulinodipendente (NIDDM) e microalbuminuria trattati con lisinopril o nifedipina; anche in questo caso l’obiettivo primario era quello di verificare la variazione del tasso di escrezione urinaria di albumina. Il valore mediano è passato da 65,5 a 39,0 mg/min nei pazienti trattati con lisinopril e da 63 a 58 mg/min in quelli trattati con nifedipina. Nei 123 pazienti in cui è stato possibile ottenere sia il valore basale sia quello a 12 mesi si è riscontrata una riduzione del tasso di escrezione di albumina di 17 mg/min e in quelli trattati con nifedipina di 2 mg/min (p=0,0006). La clearance creatininica è aumentata nel gruppo lisinopril (da 101 a 104 ml/min) e nel gruppo nifedipina (da 99 a 105 ml/min), a parità di riduzione della pressione arteriosa sistolica e diastolica con i due trattamenti. 3 DALLA CUF Ramipril L’efficacia del ramipril in pazienti con nefropatia iniziale (caratterizzata da una microalbuminuria (20-200 mg/min)) è stata studiata per 24 mesi in due ricerche con un piccolo numero di pazienti normotesi con diabete di tipo I, rispetto a due dosaggi (placebo vs ramipril 1,25 mg e vs ramipril 5 mg [ATLANTIS (4), PRIMA (studio non pubblicato)]. Nella prima si è dimostrata una riduzione dell’albuminuria nel gruppo trattato con 5 mg di ramipril rispetto al placebo e nella seconda no. In una terza ricerca [TRAIMAD (5)] 122 pazienti normotesi e ipertesi con diabete di tipo II sono stati trattati con 1,25 mg di ramipril vs placebo per 24 mesi. La riduzione dell’albuminuria nei pazienti trattati con ramipril (si è avuto un aumento dell’albuminuria in quelli trattati con placebo) era indipendente dalla riduzione della pressione arteriosa. I dati più consistenti sono stati ottenuti dallo studio GISEN (6) nel quale erano stati arruolati 352 pazienti con nefropatia cronica non diabetica e proteinuria persistente. I pazienti erano stati suddivisi in due gruppi in base al livello di proteinuria giornaliera (tra 1 e 3 g e >3 g/die) e randomizzati al trattamento con ramipril o placebo. Nel sottogruppo di pazienti con proteinuria >3 g/die la ricerca venne interrotta per eccesso di eventi combinati di scompenso renale terminale e raddoppio del valore basale di creatinina nel gruppo placebo: 45% rispetto a 23% nel gruppo trattato con ramipril (p=0,02). Tale differenza era da ascrivere principalmente al raddoppio del valore basale di creatinina, in quanto la differenza di scompenso renale terminale era meno importante: 33% nel gruppo placebo e 21% nel gruppo ramipril (p=0,20). La ricerca è stata in seguito proseguita in aperto (7) in 17 pazienti del gruppo placebo e in 26 di quelli inizialmente trattati con ramipril; in questa fase sono stati riscontrati altri 14 casi di scompenso renale tra i primi e 6 tra i secondi. Dunque, alla fine della ricerca e della sua estensione, ha avuto bisogno di dialisi o di trapianto, il 40% dei pazienti trattati inizialmente con placebo e il 24% di quelli trattati inizialmente con ramipril; il rischio di scompenso renale terminale è risultato pari a 1,71 (IC 95%: 0,86 ÷ 3,42) nella prima fase, e alla fine del periodo di estensione è salito a 2,95 (IC 95%: 1,13 ÷ 7,68). Dopo un periodo di osservazione più prolungato (32 mesi) anche nei pazienti con proteinuria <3g/die si è ottenuta una riduzione degli eventi dal 21% al 9%, con rischio pari a 2,72 (IC 95%: 1,22 ÷ 6,08) (8). Da un’analisi complessiva dei dati di tutti i 352 pazienti, l’incidenza di dialisi è stata pari al 30% nei pazienti che ricevevano il placebo e al 16% in quelli trattati con ramipril. ritardi l’incidenza di insufficienza renale o di eventi cardiovascolari. Infatti il razionale per iniziare un trattamento con ACE-inibitori nei pazienti diabetici con riduzione della clearance o con microalbuminuria non è solo quello di migliorare il filtrato glomerulare o di ridurre l’escrezione di albumina, ma quello di ridurre il rischio di scompenso renale e di morte cardiovascolare. I dati riguardanti l’efficacia del benazepril non sono stati considerati sufficienti per concedere l’estensione dell’indicazione perché basati esclusivamente sul tasso di pazienti a cui è stato riscontrato il raddoppio della creatininemia. Per il lisinopril è stata autorizzata la seguente nuova indicazione1: “Complicazioni renali e retiniche da diabete mellito: in pazienti ipertesi affetti da diabete mellito non insulino-dipendente con microalbuminuria il lisinopril riduce il tasso di escrezione urinaria di albumina. Il lisinopril riduce il rischio di retinopatia in pazienti normotesi affetti da diabete mellito insulino-dipendente”. È stata inoltre autorizzata l’aggiunta nella scheda tecnica, sotto la voce 5.2 Proprietà farmacologiche, il seguente commento: “In pazienti ipertesi con microalbuminuria e NIDDM, il lisinopril ha dimostrato di ridurre il tasso di escrezione urinaria di albumina in misura maggiore rispetto alla nifedipina. Nei pazienti non ipertesi con IDDM il lisinopril non ha dimostrato di ridurre il tasso di escrezione urinaria di albumina nell’arco di 24 mesi rispetto al placebo. In questi pazienti si è notata invece una riduzione della progressione della retinopatia, in quanto la progressione della retinopatia oltre ai due livelli considerati patologici si è dimostrata in 2 pazienti (1%) trattati con lisinopril e in 11 (7%) trattati con placebo (p=0,03)”. Per il ramipril sono state autorizzate le seguenti nuove indicazioni: “Complicazioni renali da diabete mellito: in pazienti affetti da diabete mellito con microalbuminuria, il ramipril riduce il tasso di escrezione urinaria di albumina. Nefropatia conclamata in soggetti non diabetici: il ramipril rallenta la velocità di progressione dell’insufficienza renale e lo sviluppo di insufficienza renale terminale che necessita di dialisi e di trapianto renale” Le nuove indicazioni Il raddoppio della creatininemia e la riduzione della microalbuminuria possono essere considerati end point surrogati, dal momento che l’aumento di tali parametri è un indice di aggravamento della malattia, ma non ci sono prove secondo cui la riduzione di tali parametri 4 1 Tale indicazione è stata concessa solo alla specialità Zestril, poiché gli studi sono stati condotti dall’Azienda titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio di tale specialità e che non risulta abbia concesso alle altre ditte licenziatarie l’estensione dell’indicazione. Si sottolinea infatti che le indicazioni vengono autorizzate sulla base di una richiesta specifica, supportata da documentazione scientifica adeguata, di una determinata Azienda. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 E’ stata inoltre autorizzata l’aggiunta del seguente commento nella scheda tecnica, nella sezione 5.2 Proprietà farmacologiche: “In pazienti non diabetici con nefropatia conclamata il trattamento con ramipril rallenta la velocità di progressione dell’insufficienza renale e lo sviluppo di insufficienza renale terminale, con conseguente diminuzione della necessità di dialisi o di trapianto renale. In pazienti diabetici con microalbuminuria il ramipril ha dimostrato di ridurre il tasso di escrezione urinaria di albumina nell’arco di 24 mesi, in misura maggiore rispetto al placebo e all’atenololo”. A titolo di confronto con le indicazioni autorizzate in un altro Stato della Comunità Europea, ci riferiamo al Regno Unito, dove il benazepril non è in commercio, il lisinopril è autorizzato per la “nefropatia diabetica in pazienti normotesi con diabete insulinodipendente e ipertesi con diabete non insulino-dipendente,” e il ramipril non è autorizzato per la nefroprotezione. Bibliografia DALLA CUF 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. Lewis EJ et al. The effect of angiotensin-convertingenzyme inhibition on diabetic nephropathy. The Collaborative Study Group. N Engl J Med 1993;329:1456-62. Maschio G et al. Effect of the angiotensin-convertingenzyme inhibitor benazepril on the progression of chronic renal insufficiency. The Angiotensin-ConvertingEnzyme Inhibition in Progressive Renal Insufficiency Study Group. N Engl J Med 1996;334:939-45. Locatelli F et al. Long-term progression of chronic renal insufficiency in the AIPRI extension study. The Angiotensin-Converting-Enzyme Inhibition in Progressive Renal Insufficiency Study Group. Kidney Int 1997;52 (suppl.63):S63–S66. O’Hare JP et al. Ramipril reduces albumin excretion rate in normotensive IDDM patients with microalbuminuria. Diabetologia 1998;41:abs 1095. Trevisan R, Tiengo A. Effect of low-dose ramipril on microalbuminuria in normotensive or mild hypertensive noninsulin-dependent diabetic patients. AJH 1995;8:876-83. The GISEN Group. Randomised placebo-controlled trial of effect of ramipril on decline in glomerula filtration rate and risk of terminale renal failure in proteinuric, no-diabetic nephropathy. Lancet 1997;349:1857-63. Ruggenenti P et al. Renal function and requirement for dialysis in chronic nephropahty patients on long-term ramipril: REIN follow-up trial. Lancet 1998;352:1252-6. Ruggenenti P et al. Renoprotective properties of ACEinhibition in non-diabetic nephropathies with nonnephrotic proteinuria. Lancet 1999;354:359-64. Variazioni e/o integrazioni di alcune Note-CUF Recentemente sono state introdotte alcune variazioni e/o integrazioni al testo delle note 51, 56, 65 e al regime di dispensazione dei farmaci soggetti a piano terapeutico di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano (v. GG UU n. 127 del 02/06/2000 e n. 170 del 22/07/2000). Di seguito si riporta il testo aggiornato evidenziando in neretto le parti aggiunte e barrando le parti eliminate. Nota 51 Nota 65 Al testo della nota 51 (v. BIF 1/2000, pagg. 5-7), limitatamente alle indicazioni “endometriosi” e “fibromi uterini non operabili” è stata aggiunta, in entrambi i casi, la specialità Zoladex “10,8” sc 1 Sir. Depot 10,8 mg a base di Goserelina. Il resto della nota rimane invariato. Classe A, limitatamente alla indicazione: sclerosi multipla relapsing-remitting (recidivante-remittente) nei pazienti con punteggio di invalidità compreso tra 1 e 5,5 all’EDSS di Kurtzke. Principi attivi: Interferone beta-1a ricombinante; Interferone beta-1b ricombinante Prescrizione e dispensazione riservata ai centri autorizzati, con compilazione delle schede di cui all’allegato 3 al decreto ministeriale 5 febbraio 1996. Nota 56 Classe A limitatamente a: trattamento prescritto in ambiente ospedaliero solo su diagnosi e piano terapeutico (posologia e durata del trattamento) di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano. a trattamento su diagnosi e piano terapeutico prescritto in ambiente ospedaliero. Registro USL Principi attivi: Aztreonam, Imipenem + Cilastatina, Meropenem, Rifabutina, Teicoplanina BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 Classe A, limitatamente all’indicazione: pazienti con sclerosi multipla secondariamente progressiva – forma clinica caratterizzata da iniziale decorso remittente seguito da progressione con o senza ricadute – che abbiano un punteggio di invalidità compreso tra 3 e 6,5 all’EDSS di Kurtzke e almeno 2 ricadute o 1 punto di incremento all’EDSS nei due anni precedenti. Principio attivo: Interferone beta-1b ricombinante Prescrizione e dispensazione riservata ai centri autorizzati, con compilazione delle schede di cui all’allegato 3 al decreto ministeriale 5 febbraio 1996, opportunamente modificate a livello regionale. 5 DALLA CUF Farmaci soggetti a “diagnosi e piano terapeutico (posologia e durata del trattamento) di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano” La dispensazione di tutti i farmaci, per i quali la prescrizione è possibile anche nel territorio da parte del medico di famiglia sulla base di una “diagnosi e piano terapeutico (posologia e durata del trattamento) di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano”, segue il regime previsto dalla nota 37 con la duplice via di distribuzione. Tali farmaci sono quelli contenenti i principi attivi sottoelencati e previsti nelle note sotto distinte. Conseguentemente a quanto previsto dal comma precedente, nel testo delle note indicate nel medesimo articolo le parole “con erogazione sia da parte delle strutture che hanno predisposto il piano terapeutico sia da parte delle farmacie aperte al pubblico” sono sostituite da: “con erogazione sia da parte delle strutture pubbliche e accreditate sia da parte delle farmacie aperte al pubblico”. Nota Principio attivo 12 30 32 36 39 40 51 52 56 61 71 71 bis 72 74 Epoietina alfa e beta Filgrastim, Lenograstim e Molgramostim Interferone alfa-2a e alfa-2b ricombinanti, Interferone alfacon-1 Fluoximesterone, Metiltestosterone e Testosterone Somatropina Lanreotide, Octreotide Buserelina, Goserelina, Leuprorelina e Triptorelina Interferone alfa naturale (linfoblastoide n1) Aztreonam, Imipenem + Cilastatina, Meropenem, Rifabutina, Teicoplanina Interferone alfa naturale (leucocitario n 3) Clozapina, Fattore VIII e IX di coagulazione da DNA ricombinante Risperidone, Olanzapina Dornase alfa Urofollitropina, Follitropina alfa e beta ricombinanti Programma di revisione per il biennio 2000-2001 di medicinali registrati da più di 10 anni La Legge 362/99 ha dato avvio, con nuove norme, alla procedura di revisione da parte della CUF dei farmaci presenti da oltre dieci anni sul mercato italiano, reimpostando con metodologia più appropriata una materia nata con il comunicato del Ministero della Sanità pubblicato nella GU n. 113 del 17/5/93. In tale comunicato venivano indicate 14 categorie terapeutiche da sottoporre a revisione con i rispettivi principi attivi. Nel febbraio 1998 la CUF ha approvato gli elenchi predisposti dalla Sottocommissione Farmacovigilanza e Revisione, contenenti il censimento dei prodotti rientranti nelle 14 categorie ritenute di dubbia efficacia. Questi elenchi sono stati ulteriormente aggiornati per la revisione programmata per il biennio 2000-2001 in base all’anno di prima registrazione dei principi attivi, ed abbinando a ciascuna delle categorie considerate i gruppi ATC ritenuti pertinenti. I principi attivi e le associazioni inclusi nell’attuale programma di revisione sono circa 270 e si trovano tutti in fascia C, a totale carico del cittadino. Ad ogni specialità è stata associata una codifica specifica: le sigle adottate sono A, B e C (v. Tabella 1). 6 A = specialità medicinali per le quali si richiede una verifica dell’adeguatezza complessiva dei dati di efficacia alla luce delle conoscenze oggi disponibili; B = specialità medicinali per le quali si richiede un riesame delle indicazioni terapeutiche alla luce delle attuali conoscenze; C = specialità medicinali a più componenti per le quali si richiede una verifica della congruità della formulazione alla luce delle attuali conoscenze. Non tutti i farmaci presenti sul mercato da più di dieci anni sono stati inclusi nella revisione programmata del biennio 2000-2001, ma questa esclusione, come indicato con chiarezza nel documento esplicativo redatto dalla CUF, non va intesa come riconoscimento assoluto della loro efficacia clinica e razionalità di composizione, ma derivata soltanto da una valutazione di non priorità ai fini della costruzione del programma di revisione del presente biennio. Per questo motivo, la revisione riguarderà tutti i farmaci inseriti in sette categorie specifiche, ossia coadiuvanti cerebrovascolari e neurotrofici, cardiometabolici, terapia epatica e biliare, vasodilatatori periferici, anaBIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA CUF stesse. In mancanza di questa dichiarazione, l’autorizzazione risulterà automaticamente ed irreversibilmente decaduta a partire dal giugno 2003. Entro 18 mesi dalla pubblicazione del decreto, inoltre, le aziende interessate dovranno fornire gli elementi necessari per dimostrare l’efficacia dei medicinali e l’appropriatezza delle indicazioni. Il materiale documentario ritenuto idoneo a sostenere tale dimostrazione è costituito da: a. risultati di studi clinici di tipo controllato e randomizzato e meta-analisi pubblicati su riviste internazionalmente qualificate dotate di comitato di referee; b. rassegne su riviste internazionalmente qualificate che facciano totalmente o in gran parte riferimento al farmaco oggetto di revisione; c. precisa indicazione di un’efficacia clinica in fonti internazionalmente accreditate; d. risultati di studi clinici di tipo controllato e randomizzato condotti dalla ditta e non ancora pubblicati. Nella Tabella 1 sono riportate le categorie di farmaci in revisione, con il corrispettivo numero di principi attivi e/o associazioni, il numero di specialità medicinali e corrispondente codifica di revisione. Il numero totale di specialità supera le 1.100 unità, distribuendosi in maniera consistente tra quattro principali categorie, ossia la numero 5 (vasodilatatori periferici) con 220 specialità, la numero 1 (coadiuvanti cerebrovascolari e neurotrofici), con 217 specialità, e le categorie 9 e 4 (vasoprotettori; terapia epatica e biliare) con 127 e 115 specialità rispettivamente. 991 farmaci sottoposti a revisione su 1110 totali (pari all’89% delle specialità) sono contrassegnati dalla codifica A, il che testimonia la priorità attribuita dalla CUF alla revisione di farmaci di cui risulti dubbia l’adeguatezza complessiva dei dati di efficacia. bolizzanti sistemici, antitrombotici eparinosimili e antidepressivi su base metabolica. Nell’ambito delle altre sette categorie, invece, sono state individuate delle priorità di valutazione. Per la categoria 3 (immunomodulanti) vengono esclusi il metisoprinolo per via sistemica e il levamisolo. Per quanto riguarda la categoria 7-8*, la revisione dei prodotti vitaminici, ematopoietici e sali minerali non è stata ritenuta prioritaria, salvo per quelle formulazioni che presentano problemi di riesame del rapporto rischio/beneficio, mentre sono stati inclusi i “farmaci che postulano effetti terapeutici su basi biochimiche o metaboliche”, per il tipo di indicazioni terapeutiche vantate; dal gruppo dei vasoprotettori (categoria 9) vengono escluse le preparazioni antiemorroidarie, salvo un prodotto a base di vaccino colibacillare. Per quanto riguarda il gruppo n. 11 (preparati contro la tosse e malattie da raffreddamento), l’inclusione nel programma di revisione coinvolge solo le preparazioni contenenti più di tre sostanze, per incongruità di formulazione, nonché quelle con presenza di antibiotici o di broncodilatatori adrenergici. Dei preparati dermatologici (categoria 12) sono inclusi i prodotti per i quali è opportuna una revisione del rapporto rischio/beneficio, nonché associazioni chemioterapiche di cui va giustificata la razionalità di formulazione. Per la categoria 13 (derivati biologici), infine, si è data la priorità alle sostanze destinate all’uso sistemico e vaginale. Il decreto ministeriale è stato pubblicato sul S.O. della GU n. 125 del 31/5/2000; entro il 30 giugno 2000 le aziende titolari della registrazione delle specialità medicinali incluse nel programma di revisione hanno dovuto manifestare l’intenzione di sostenere l’autorizzazione all’immissione in commercio delle specialità *Alla categoria è stato assegnato un numero doppio perché in alcuni documenti ministeriali il gruppo era suddiviso in due. Tabella 1. Categorie di farmaci sottoposte a revisione per il biennio 2000-2001, con i relativi principi attivi e specialità suddivise in base alla codifica di revisione Categoria 1234567-8 - 910 11 12 13 14 - N. di principi attivi e/o associazioni N. di specialità e corrispendente codifica di revisione A B C N. Totale specialità Coadiuvanti cerebrovascolari e neurotrofici Cardiometabolici Immunomodulanti Terapia epatica e biliare Vasodilatatori periferici Anabolizzanti sistemici Vitaminici, ematopoietici, sali minerali e farmaci che postulano effetti terapeutici su basi biochimiche o metaboliche Vasoprotettori Antitrombotici eparinosimili Preparati contro tosse e malattie da raffreddamento Dermatologici Derivati biologici Antidepressivi su base metabolica 17 15 12 50 40 5 217 93 38 115 220 / / 46 / 42 6 6 / / / 1 / / 217 139 38 158 226 6 34 40 / 7 47 55 6 9 12 9 3 127 67 2 14 30 28 / / / / / / / / 10 1 / / 127 67 12 15 30 28 TOTALE 267 991 100 19 1110 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 7 AGGIORNAMENTI EDITORIALE 1. Prevalenza ed incidenza dell’epatite cronica C L’epatite cronica C rappresenta uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Si calcola che la prevalenza globale di tale patologia oscilli intorno al 3% (variando dallo 0,1 al 5% nei vari paesi), tanto da contare nel mondo circa 150 milioni di portatori cronici di virus dell’epatite C (HCV), di cui 4 milioni negli USA e 5 milioni nell’Europa Occidentale (1). Nei paesi industrializzati, l’HCV è responsabile di circa il 20% dei casi di epatite acuta, del 70% delle epatiti croniche, del 40% delle cirrosi in fase finale, del 60% dei casi di carcinoma epatocellulare e del 30% dei trapianti di fegato (1). È stato stimato che l’incidenza di nuove infezioni sintomatiche sia di 1-3 casi/100.000 persone all’anno. L’incidenza reale di nuove infezioni, anche se sta declinando, è ovviamente molto maggiore, trattandosi frequentemente di infezioni asintomatiche (1). In Italia, da metà a due terzi delle cirrosi sono dovute all’evoluzione di epatiti croniche da virus C. Mentre è in decremento l’incidenza di nuove infezioni da virus C, esiste un serbatoio di soggetti infettatisi in passato che alimenterà lo sviluppo di cirrosi ancora per diversi anni. La cirrosi del fegato causa in Italia una mortalità pari a circa 13.000 unità/anno; poiché la durata media della malattia è di circa 10 anni, di cui gli ultimi 2-3 richiedono ripetuti ricoveri ospedalieri e terapie complesse, la cirrosi ha anche una pesante incidenza in termini di morbosità. È ipotizzabile che l’arresto dell’evoluzione delle epatiti croniche da virus C possa ridurre l’incidenza della morbosità e mortalità per cirrosi. 8 1. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Paris 26-28 February 1999. J Hepatol 1999;30:956-61. 2. Storia naturale dell’epatite cronica C La storia naturale dell’epatite cronica C può essere sintetizzata in tre fasi: 1. Epatite cronica propriamente detta, con un grado variabile di attività necroinfiammatoria e di fibrosi, della durata media di uno o due decenni, modestamente asintomatica o con sintomi non specifici (1, 2). 2. Cirrosi compensata, con fibrosi estesa e distorsione della struttura del fegato, che si sviluppa nel 30% dei casi di epatite cronica (2) e che dal punto di vista dei sintomi è assai simile alla prima; da questa fase il 510% dei pazienti/anno sviluppa complicanze della cirrosi (3-5), la cui comparsa segna il passaggio alla terza fase. 3. Cirrosi con complicanze (che includono il carcinoma epatocellulare (HCC)), caratterizzata da una grave compromissione della qualità di vita e conclusa dall’exitus dopo una durata media (in assenza di trapianto) di circa 2 anni (4). Alcuni cofattori giocano un ruolo importante nello sviluppo della cirrosi (6). Tra di essi: a. età al momento dell’infezione (i pazienti colpiti in età avanzata presentano, in media, una progressione della malattia molto più rapida rispetto ai soggetti più giovani); b. alcoolismo (tutti gli studi concordano che l’alcool è un cofattore assai importante nella progressione dell’epatite cronica a cirrosi); c. coinfezione con HIV; d. coinfezione con virus dell’epatite B. L’incidenza di carcinoma epatocellulare in pazienti con cirrosi è dell’1-4% per anno. Tale forma tumorale insorge raramente in pazienti con epatite cronica C ma senza cirrosi (6). Bibliografia La terapia tradizionale dell’epatite cronica C prevede la somministrazione sottocutanea di interferone alfa alla dose di 3 milioni di unità (MU) tre volte alla settimana per un anno, con controllo dei valori di transaminasi e di HCV-RNA a tre mesi, al fine di consentire una precoce interruzione del trattamento in pazienti che non rispondono. A fronte dei successi piuttosto limitati di tale tipo di intervento, vengono da tempo perseguiti nuovi tentativi terapeutici per migliorare la percentuale di successo a lungo termine, caratterizzato e definito dalla negativizzazione della viremia e dalla persistente normalizzazione delle transaminasi. Uno degli approcci più interessanti è costituito dalla combinazione della terapia con interferone con altri farmaci ad azione sinergica e/o complementare. Bibliografia Ribavirina–Interferone: una terapia per l’epatite cronica C 1. 2. 3. Niederau C et al. Prognosis of chronic hepatitis C: results of a large, prospective cohort study. Hepatology 1998;28:1687-95. Pagliaro L et al. Natural history of chronic hepatitis C. Ital J Gastroenterol Hepatol 1999;31:28-44. Fattovich G et al. Morbidity and mortality in compensated cirrhosis type C: a retrospective follow-up study of 384 patients. Gastroenterology 1997;112:463-72. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 Bibliografia AGGIORNAMENTI 4. 5. 6. D’amico G et al. Survival and prognostic indicators in compensated and decompensated cirrhosis. Dig Dis Sci 1986;31:468-75. Ginès P et al. Compensated cirrhosis: natural history and prognostic factors. Hepatology 1987;7:122-8. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Consensus Statement. J Hepatol 1999;30:956-61. 3. Trattamento dell’epatite cronica C con solo interferone Fino a poco tempo fa, il trattamento di prima linea dei pazienti con epatite cronica C ha previsto l’impiego di interferone alfa-2a, alfa-2b o interferone alfacon-1, farmaci dotati di efficacia pressoché simile (vedi nota CUF 32). Degli interferoni alternativi all’interferone alfa, l’interferone beta – naturale e ricombinante – è stato usato in Giappone, Spagna ed Italia in casistiche limitate. I più promettenti interferoni alternativi appaiono, al momento, il Consensus interferone e l’interferone peghilato. In diversi studi, i risultati della monoterapia con interferone sono stati valutati in rapporto a criteri intermedi e, in particolare, a normalizzazione delle transaminasi, assenza di viremia e modificazioni istologiche del fegato. Un trattamento di sei mesi con interferone alfa determina, di norma, una normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi nel 40-50% dei pazienti con epatite cronica C e una scomparsa dell’HCV-RNA nel siero nel 30-40% dei soggetti trattati. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, questa risposta è transitoria: a sei mesi dalla fine del trattamento, una normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi permane nel 15-20% dei pazienti mentre una risposta virologica sostenuta, cioè persistente a tempo indefinito, si mantiene nel 6-12% ed è seguita, molto più lentamente, da normalizzazione o spiccato miglioramento delle lesioni istologiche (1-3). Molto meno frequente e di incerto beneficio clinico è la risposta favorevole all’interferone alfa nella cirrosi compensata, mentre gli effetti sfavorevoli del farmaco escludono la prospettiva di trattamento nella terza fase (4). Un trattamento della durata di 12 mesi porta a risultati simili, con la differenza che dopo sei mesi dal termine del trattamento la percentuale di pazienti con normalizzazione delle transaminasi sale al 2030% e quella priva di HCV-RNA arriva al 13-19% (v. Box 1). BOX 1 Nuovi protocolli di monoterapia con interferone Studi mirati a verificare l’impatto di dosi crescenti e quotidiane di interferone sulla cinetica virale hanno suscitato interesse clinico per l’accelerazione sulla clearance virale operata da questi approcci, denominati “terapie di induzione” (1,2). Sotto attacco con interferone, la riduzione dell’HCV sierico nelle 24-48 ore che seguono una singola dose di interferone di 3 e 5 MU è rispettivamente del 41% e del 64%, ma è d’oltre l’85% dopo una dose di 10 MU (3-5). Sulla base di questi risultati sono state proposte terapie basate sulla somministrazione giornaliera, per 2-4 settimane, di interferone a 10 MU, a scalare in somministrazione di 5 MU per altre 4-6 settimane e di 3 MU fino a completare 24 settimane di terapia giornaliera; a quest’ultima seguono altri 6 mesi di terapia standard discontinua. Il fondamento logico di questo approccio è l’inibizione immediata e quanto più totale dell’emissione dell’HCV degli epatociti (nella fase di induzione), seguita da una fase di mantenimento della terapia necessariamente prolungata per permettere il turn-over degli epatociti che erano infetti al momento dell’inizio della terapia. Tuttavia, malgrado i precipitosi cali della viremia verificati negli studi clinici in corso, la terapia di induzione non ha finora sortito risultati più consistenti dei protocolli convenzionali per quanto riguarda la risposta a lungo termine (6,7). 1. Tassopoulos NC et al. Comparative efficacy of a high or low dose of interferon alpha 2b in chronic hepatitis C: a randomized controlled trial. Am J Gastroenterol 1996;91:1734-8. 2. Stewart et al. A randomized controlled trial of daily versus three times weekly interferon alfa-2a in patients with chronic HCV and either elevated or persistently normal ALT (abstract). Gastroenterology 1998;114:1345. 3. Lam NP et al. Dose-dependent acute clearance of hepatitis C genotype 1 virus with interferon alfa. Hepatology 1997;26:226-31. 4. Neumann AU et al. Hepatitis C viral dynamics in vivo and the antiviral efficacy of interferon-alpha therapy. Science 1998;282:103-7. 5. Zeuzem S et al. Quantification of the initial decline of serum hepatitis C virus RNA and response to interferon alfa. Hepatology 1998;27:1149-56. 6. Lindsay et al. Response to higher doses of interferon alfa-2b in patients with chronic hepatitis C: a randomized multicenter trial. Hepatitis Interventional Therapy Group. Hepatology 1996;24:1034-40. 7. Ouzan D et al. Comparison of high initial and fixed-dose regimens of interferon-alpha2a in chronic hepatitis C: a randomized controlled trial. French Multicenter Interferon Study Group. J Viral Hepat 1998;5:53-9. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 9 AGGIORNAMENTI Bibliografia Questi dati dimostrano la transitorietà dell’efficacia del solo interferone nella maggioranza dei pazienti con epatite C e suggeriscono che la negativizzazione dopo trattamento della viremia, sostenuta per almeno 6 mesi, è un convincente end point surrogato della progressione in cirrosi dell’epatite cronica C. A sua volta la progressione in cirrosi è sicuramente il passaggio decisivo nella storia naturale dell’epatite cronica C, non più reversibile e predittivo di complicanze gravi ed exitus, che di fatto non si manifestano in assenza di cirrosi (5). La monoterapia con interferone può mantenere un ruolo dove sia controindicata la ribavirina. 1. 2. 3. 4. 5. Reichard O et al. Two-year biochemical, virological and histological follow-up in patients with chronic hepatitis C responding in a sustained fashion to interferon alfa–2b treatment. Hepatology 1995;21:918-22. Lau DTY et al. 10-year follow-up after interferon-alfa therapy for chronic hepatitis C. Hepatology 1998;28:1121-7. Marcellin P et al. Long-term histologic improvement and loss of detectable intrahepatic HCV RNA in patients with chronic hepatitis C and sustained response to interferon alfa therapy. Ann Intern Med 1997;127:875-81. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Consensus Statement. J Hepatol 1999;30:956-61. Pagliaro L et al. Natural history of chronic hepatitis C. Ital J Gastroenterol Hepatol 1999;31:28-44. 4. Terapie di combinazione: interferone più ribavirina Delle terapie di combinazione proposte, quella con acido ursodesossicolico, con acetilcisteina e con ketoprofene non hanno dimostrato alcun vantaggio rispetto all’interferone da solo. La combinazione con corticosteroidi è potenzialmente dannosa in quanto tali sostanze aumentano il tasso di replicazione dell’HCV (1). Altresì detrimente sembra la combinazione con la colchicina, che in uno studio (2) ha diminuito la risposta terapeutica rispetto all’interferone da solo. Ancora sperimentale è la combinazione interferone più timosina alfa 1. Dati più concreti derivano dalla terapia di combinazione che utilizza interferone associato a ribavirina. La ribavirina è un nucleoside purinico sintetico, con un largo spettro di attività contro i virus a RNA e a DNA, largamente sperimentata nella terapia dell’epatite cronica C. Somministrata per via orale, la sua biodisponibilità è di circa il 40%. Si accumula soprattutto negli eritrociti. In monoterapia non riduce il livello di HCV-RNA in circolo, mentre abbassa moderatamente le transaminasi e le lesioni istologiche, effetti che però si esauriscono alla sospensione del farmaco in quasi tutti i pazienti (3,4). Per queste ragioni non è raccomandata per il trattamento dell’epatite cronica C. Dopo valutazione da parte della European Medicines Evaluation Agency (EMEA), la ribavirina ha invece ottenuto l’autorizzazione al commercio nell’Unione Europea per il trattamento dell’epatite cronica C, in associazione a interferone alfa-2b (v. Box 2). BOX 2 Indicazioni e posologia della ribavirina approvate dall’EMEA (specialità medicinale Rebetol) La ribavirina deve esserre utilizzata solo in associazione con l’interferone alfa-2b. Indicazioni - Trattamento di pazienti adulti affetti da epatite cronica C, che in precedenza hanno risposto alla terapia con interferone alfa (con normalizzazione delle transaminasi alla fine del trattamento) ma che successivamente hanno avuto una recidiva. - Trattamento di pazienti adulti affetti da epatite cronica C comprovata istologicamente, non trattati in precedenza, senza scompenso epatico, con transaminasi elevate, presenza di HCV-RNA sierico e fibrosi o elevata attività infiammatoria. I pazienti con sola fibrosi portale (fibrosi iniziale) devono avere un punteggio infiammatorio elevato. L’autorizzazione della ribavirina a livello europeo si è basata su dossier di studi clinici in cui il farmaco è stato sperimentato con interferone alfa-2b, per cui è diventato d’obbligo, da parte dei vari Paesi della Comunità, l’adeguamento a tale decisione centralizzata. È probabile che la ribavirina associata ad altri tipi di interferone possa essere altrettanto efficace, ma la certezza potrà essere raggiunta solamente alla conclusione di studi predisposti ad hoc che, a quanto risulta, sono attualmente in corso. 10 Bibliografia Posologia e modalità di somministrazione Le capsule di ribavirina sono somministrate per os alla dose di 1.000 mg (pazienti ≤ 75 Kg) o 1.200 mg al giorno (pazienti > 75 Kg), in due dosi suddivise, con gli alimenti (mattino e sera), in combinazione con interferone alfa-2b somministrato per via sottocutanea alla dose di 3 MU tre volte alla settimana (a giorni alterni). 1. 2. 3. 4. Magrin S et al. Hepatitis C viremia in chronic liver disease: relationship to interferon-alpha or corticosteroid treatment. Hepatology 1994;19:273-9. Angelico M et al. Colchicine worsens the efficacy of interferon-alfa in patients with chronic hepatitis. Interimin report of a randomized pilot study. Hepatology 1998;28:pt 2 A478. Di Bisceglie AM et al. Ribavirin as therapy for chronic hepatitis C. A randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Ann Intern Med 1995;123:897-903. Dusheiko G et al. Ribavirin treatment for patients with chronic hepatitis C: results of a placebo-controlled study. J Hepatol 1996;25:291-8. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI - la valutazione degli esiti è stata attuata alla fine del trattamento, ma anche sei mesi dopo la fine dello stesso (risposta “sostenuta”); quest’ultima è la risposta che maggiormente interessa e pertanto è quella riportata nelle tabelle; - l’end point principale è sempre stato l’assenza di viremia persistente sei mesi dopo la fine del trattamento; - sono stati utilizzati altri criteri di valutazione, quali la persistenza di transaminasi normali dopo sei mesi dall’interruzione del trattamento; - quando rientrava nello studio, la biopsia è stata valutata utilizzando l’indice infiammatorio di Knodell e la scala di fibrosi secondo il sistema Metavir. 4.1. Gli studi clinici Il dossier per la valutazione dell’associazione ribavirina più interferone alfa-2b dispone di tre gruppi di studi controllati e randomizzati: - studi in pazienti non ancora trattati per la loro epatite C (naif); - studi in pazienti che avevano risposto favorevolmente ad un primo trattamento con interferone alfa in monoterapia, ma che poi avevano presentato ricadute (relapsers); - studi in pazienti resistenti all’interferone alfa (non responders). Questi studi hanno in comune numerosi punti metodologici: - la ribavirina è stata somministrata per via orale alla dose di 1.000 o 1.200 mg/die, a seconda che il peso dei pazienti fosse rispettivamente inferiore o superiore a 75 Kg; - l’interferone alfa-2b è stato, di norma, somministrato alla dose di 3 MU tre volte alla settimana (4,5 MU di interferone alfa-2a tre volte la settimana nello studio di Bell et al. e 6 MU di interferone alfa-2b tre volte la settimana nel trial di Barbaro et al.; entrambi questi studi erano condotti in relapsers e non responders); 4.1.1. Studi clinici in pazienti non ancora trattati per la loro epatite C (naif) La Tabella 1 riporta le caratteristiche e i principali risultati di cinque studi clinici controllati e randomizzati (RCT) (1-5), che hanno testato l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b in confronto a una monoterapia con interferone alfa-2b. Tabella 1. Studi clinici di interferone più ribavirina vs interferone alfa-2b da solo in pazienti naif: percentuale di risposta virologica e biochimica sostenuta TRIAL Follow up % HCV-RNA negativo % ALT normale IFN alfa-2b post-trattamento IFN alfa-2b IFN alfa-2b IFNalfa-2b IFN alfa-2b +RIBA (mesi) 15 15 6 7 47 13 47 Poynard (2) Trattamento per: - 24 settimane - 48 settimane ---278 277 227 6 6 --19 35 43 --24 39 50 Mc Hutchison (3) Trattamento per: - 24 settimane - 48 settimane 231 225 228 228 6 6 6 13 31 38 11 16 32 36 Reichard (4) 50 50 12 18 36 24 44 Lai (5) 19 21 24 6 43 11 43 1° autore (rif. biblio.) Chemello (1) n. di pazienti IFN alfa-2b In base ai risultati, si è osservato che, in pazienti mai trattati, la combinazione ribavirina più interferone alfa2b determina percentuali di risposta virologica sostenuta, con normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi e miglioramento dell’attività necroinfiammatoria istologica, da 2 a 5 volte più elevate rispetto ai pazienti trattati con interferone alfa-2b da solo. Nei due trial maggiori (2,3), in pazienti naif, sono stati identificati con analisi multivariata i fattori predittivi della probabilità di risposta terapeutica di cui i principali sono, in ordine di significatività statistica: BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 +RIBA +RIBA - genotipo diverso dal genotipo 1 (di gran lunga quello a maggior prevalenza in Italia); - viremia uguale o inferiore a 2 milioni di copie/ml; - assenza di cirrosi o di fibrosi intralobulare. Nei pazienti con predittori sfavorevoli (genotipo 1, viremia superiore a 2 milioni di copie, presenza di fibrosi), le percentuali di risposta sono più elevate se il trattamento non si ferma a 24 settimane ed è protratto per 48 (v. Tabelle 2 e 3 tratte dall’European Public Assessment Report (EPAR) dell’EMEA per la specialità Rebetol) (6). 11 AGGIORNAMENTI Tabella 2. Risposta virologica sostenuta al trattamento in base al genotipo HCV e alla carica virale (valutazione a 4 settimane dalla conclusione del trattamento in pazienti mai trattati) Rebetol +IFN alfa-2b IFN alfa-2b Rebetol +IFN alfa-2b IFN alfa-2b 24 settimane 24 settimane 48 settimane 48 settimane Genotipo HCV 1 e ≤ 2 milioni copie/ml 32 4 33 25 Genotipo HCV 1 e > 2 milioni copie/ml 10 0,9 27 3 Genotipo HCV 2/3 e ≤ 2 milioni copie/ml 67 22 68 38 Genotipo HCV 2/3 e > 2 milioni copie/ml 67 11 63 27 Rebetol: denominazione della specialità medicinale a base di ribavirina Tabella 3. Risposta sostenuta in base alla fibrosi epatica (Metavir) (valutazione a 4 settimane dalla conclusione del trattamento in pazienti mai trattati) Rebetol +IFN alfa-2b IFN alfa-2b Rebetol +IFN alfa-2b IFN alfa-2b 24 settimane 24 settimane 48 settimane 48 settimane Genotipo HCV 1 F 0/1/2 F 3/4 18% 6% 2% 0% 31% 13% 10% 2% Genotipo HCV 2/3 F 0/1/2 F 3/4 71% 31% 9% 17% 66% 68% 34% 24% Contrariamente a quanto si è osservato con la monoterapia con interferone alfa-2b, una riduzione precoce della carica virale all’inizio del trattamento non sembra essere un fattore che consente di prevedere la persistenza di una risposta virale sostenuta alla conclusione della terapia. Malgrado una risposta virale tardiva (12 settimane o più), certi pazienti hanno presentato assenza di viremia sostenuta almeno sei mesi dopo l’interruzione del trattamento. Se tuttavia dopo 24 settimane di trattamento in pazienti naif non si osserva alcuna riduzione della carica virale, appare inutile continuare (6). Sul piano istologico, i dati disponibili tratti dai due studi maggiori (2,3), mostrano che l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b è più efficace della monoterapia nel ridurre le lesioni infiammatorie, almeno durante il semestre successivo all’interruzione del trattamento. L’associazione non ha permesso invece di ridurre le lesioni di fibrosi già esistenti. 12 Bibliografia Fibrosi Metavir (F) 1. Chemello L et al. The effect of interferon alfa and ribavirin combination therapy in naive patients with chronic hepatitis C. J Hepatol 1995;23:8-12. 2. Poynard T et al. Randomised trial of interferon a-2b plus ribavirin for 48 weeks or for 24 weeks vs interferon a-2b plus placebo for treatment of chronic infection with hepatitis C virus. Lancet 1998;352:1426-32. 3. McHutchison JG et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin as initial treatment for chronic hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1485-92. 4. Reichard O et al. Randomised, double-blind, placebo-controlled trial of interferon a-2b with and without ribavirin for chronic hepatitis C. Lancet 1998;351:83-7. 5. Lai MY et al. Long-term efficacy of ribavirin plus interferon alfa in the treatment of chronic hepatitis C. Gastroenterology 1996;111:1307-12. 6. The European Medicines Evaluation Agency (EMEA) – Committee for Proprietary Medicinal Products “European Public Assessment Report (EPAR) – Rebetol” 7 May 1999; www.eudra.org/humandocs/humans/EPAR/Rebetol/Rebetol.htm BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI 4.1.2. Studi clinici in pazienti relapsers o resistenti alla monoterapia con interferone alfa Uno studio eseguito su 345 pazienti relapsers (1) (Tabella 4), cioè con ricomparsa della viremia e di iper-ALT dopo risposta favorevole a un trattamento con interferone alfa, ha testato l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b (173 pazienti) confrontandola con una monoterapia con interferone alfa-2b (172 pazienti). I risultati evidenziano che la combinazione ribavirina più interferone alfa-2b ha aumentato il tasso di risposta virologica sostenuta al 48% (84/173), cioè 10 volte di più rispetto alla monoterapia (8/172 = 4,7%); il 63% dei soggetti trattati con la combinazione e il 41% dei pazienti trattati in monoterapia hanno dimostrato miglioramento istologico. Alla fine del follow up post-terapia, il 52% dei pazienti trattati con la combinazione presentava normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi rispetto al 15% dei soggetti trattati con interferone da solo. Anche nei pazienti relapsers di questa indagine (1) una valutazione non multivariata segnalava come fattori predittivi di risposta il genotipo non-1 e la viremia inferiore a 2 milioni di copie/ml. Simile è il risultato di un altro trial (2), mentre in un terzo trial, molto piccolo, la risposta fra interferone da solo o associato a ribavirina non era differente (3). Nei pazienti non responders a un primo trattamento con interferone alfa (Tabella 4), la risposta a un nuovo trattamento con o senza ribavirina è raramente positiva (da 0 a 15% con il trattamento combinato) (2-4). Tabella 4. Studi clinici di interferone alfa-2b più ribavirina vs interferone alfa-2b da solo in pazienti relapsers o resistenti alla monoterapia: percentuale di risposta virologica e biochimica sostenuta TRIAL 1° autore (rif. biblio.) n. di pazienti IFN IFN + RIBA % HCV-RNA negativo IFN IFN + RIBA % ALT normale IFN IFN + RIBA Relapsers: Davis (1) Bell (2) Barbaro (3) 172 13 100 173 14 100 5 38 9# 49 28 39# 5 NR 49 NR Non responders: Andreone (4) Bell (2) Barbaro (3) 24 13 100 26 13 100 0 7 1# 0 15 14# 0 NR 0 NR La posizione espressa dalla EASL International Consensus Conference on Hepatitis C è la seguente: “there are no clear data to indicate that retreatment [with interferon plus ribavirin] will be beneficial [in non responders]” (non esistono dati certi per indicare che il trattamento con interferone alfa-2b più ribavirina sarà di beneficio nei pazienti resistenti alla monoterapia con interferone alfa) (5). Inoltre, rimane ancora incerto il ruolo della terapia di combinazione nei cirrotici ed in varie altre situazioni. Negli studi clinici finora condotti la percentuale di pazienti con cirrosi era minima (< 5%) e si trattava comunque di forme ben compensate. Altresì sono ancora incerti il ruolo e il rischio della terapia di combinazione nei soggetti dializzati, in quelli immunocompromessi, con reattività autoimmuni concomitanti, nei linfomi e nella crioglobulinemia. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 Bibliografia Note: In tutti questi trial la durata del trattamento era di 6 mesi e la risposta sostenuta era valutata dopo 6 mesi dalla sospensione del trattamento. L’interferone (IFN) usato era l’alfa-2b, ad eccezione del trial di Bell et al. dove veniva utilizzato l’alfa-2a, alla dose di 4,5 MU tre volte la settimana. Nel trial di Barbaro et al. la dose di interferone era di 6 MU tre volte la settimana, negli altri era pari a 3 MU tre volte la settimana. NR: dato non riportato. #: la valutazione include le risposte virologica e biochimica, non separate. 1. Davis GL et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin for the treatment of relapse of chronic hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1493-9. 2. Bell H et al. Treatment with interferon alpha-2a alone or interferon alpha-2a plus ribavirin in patients with chronic hepatitis C previously treated with interferon alpha-2a. Scand J Gastroenterol 1999;34:194-8. 3. Barbaro G et al. Interferon alpha-2b and ribavirin in combination for patients with chronic hepatitis C who failed to respond, or relapsed, after interferon alpha therapy: a randomized trial. Am J Med 1999;107:112-8. 4. Andreone P et al. Interferon-a plus ribavirin in chronic hepatitis C resistant to previous interferon-a course: results of a randomized multicenter trial. J Hepatol 1999;30:788-93. 5. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Paris 26-28 February 1999 J Hepatol 1999;30:956-61. 13 AGGIORNAMENTI È noto che i principali effetti indesiderati dell’interferone alfa sono rappresentati da sintomi similinfluenzali (febbre, brividi, cefalea, mialgie, nausea e diarrea, che tendono a ridursi con la prosecuzione della terapia e con la somministrazione di paracetamolo), da tireopatie e da manifestazioni psichiatriche, in particolare di tipo depressivo. Altri effetti sono: astenia, alopecia, rash cutaneo, emorragie retiniche. Negli studi clinici che hanno valutato l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b, eventi indesiderati gravi si sono manifestati in circa il 6,5% dei relapsers e nell’11% dei soggetti precedentemente non trattati per la loro epatite C (1). I disturbi più frequenti sono stati quelli a carico della sfera emotiva, probabilmente dovuti all’interferone alfa-2b: depressione, stato d’ansia e idee suicide sono stati la causa più frequente di interruzione del trattamento. L’effetto sfavorevole più preoccupante in corso di trattamento con l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b è l’insorgenza di anemia emolitica, dovuta ad iperemolisi e ad inibizione degli stadi finali di maturazione eritrocitaria. Negli studi comparativi in precedenza citati, il 74% dei pazienti trattati con l’associazione ha presentato una diminuzione del tasso di emoglobina superiore a 2 g/dl, versus il 9% dei soggetti trattati con interferone alfa-2b in monoterapia (1). La scheda tecnica del Rebetol, nome commerciale della ribavirina, raccomanda di non iniziare il trattamento se il valore di emoglobina è inferiore a 12 g/dl. Si raccomanda un controllo dell’emoglobinemia due e quattro settimane dopo l’inizio del trattamento e successivamente ad intervalli regolari. La ribavirina quasi invariabilmente causa emolisi ed anemia: solitamente il calo dell’emoglobina di 1-2 g osservato durante la terapia, è ben tollerato e reversibile alla sospensione del farmaco. Una diminuzione maggiore del valore di emoglobina può comportare una riduzione del dosaggio della ribavirina o anche la sospensione della terapia. L’anemia emolitica può determinare un aumento dell’uricemia (rischio di gotta nei malati predisposti). La terapia di combinazione con ribavirina va usata con prudenza nei soggetti con discrasie ematiche e nei soggetti in cui un calo rapido dell’emoglobina può causare problemi di ipoperfusione d’organo (ad esempio nei coronaropatici a rischio di infarto miocardico). L’uso della ribavirina è da evitare nelle donne in gravidanza. La percentuale di pazienti che devono sospendere o ridurre le dosi dell’uno o dell’altro farmaco è maggiore per il trattamento combinato rispetto a quanto si verifica con interferone in monoterapia. Nella Tabella 5 è riportata la percentuale di sospensione del trattamento per reazioni avverse osservata negli studi clinici comparativi tra terapia combinata e 14 monoterapia (2-5). Si osserva che, quando la terapia di associazione viene proseguita per 48 settimane, il numero di pazienti che la abbandona oscilla intorno al 20%. Tabella 5. Percentuale di sospensione del trattamento per reazioni avverse negli studi clinici con campione di dimensione uguale o superiore a 100 pazienti TRIAL 1° autore (rif. biblio.) IFN IFN + RIBA Poynard (2) Trattamento: - 24 settimane - 48 settimane 13 8 19 Mc Hutchison (3) Trattamento: - 24 settimane - 48 settimane 9 14 8 21 12 32 3 6 Reichard (4) (Sospensione o riduzione di dosaggio) Davis (5) Bibliografia 5. Effetti collaterali della terapia con interferone alfa-2b e ribavirina 1. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Paris 26-28 February 1999. J Hepatol 1999;30:956-61. 2. Poynard T et al. Randomised trial of interferon a-2b plus ribavirin for 48 weeks or for 24 weeks vs interferon a-2b plus placebo for treatment of chronic infection with hepatitis C virus. Lancet 1998;352:1426-32. 3. McHutchison JG et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin as initial treatment for chronic hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1485-92. 4. Reichard O et al. Randomised, double-blind, placebocontrolled trial of interferon a-2b with and without ribavirin for chronic hepatitis C. Lancet 1998;351:83-7. 5. Davis GL et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin for the treatment of relapse of chronic hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1493-9. 6. Quali pazienti trattare e non trattare? In base a quanto previsto da EASL Consensus Statement (1) (v. Box 3), la decisione di iniziare un trattamento dell’epatite cronica C con terapia combinata ribavirina più interferone alfa-2b è un problema piuttosto complesso, che dovrebbe tenere in considerazione numerose variabili: età dei pazienti, condizioni generali di salute, rischio di cirrosi, probabilità di risposta e altre condizioni cliniche che possono ridurre la durata della vita o controindicano l’impiego di interferone o di ribavirina. Di seguito sono riportati i principali quesiti posti agli esperti della EASL e le risposte da essi formulate. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI BOX 3 European Association for the Study of the Liver (EASL): International Consensus Conference on Hepatitis C (Parigi 26-28 febbraio 1999) Membri del Comitato Organizzatore P Marcellin (Presidente) (Parigi), A Alberti (Padova), G Dusheiko (Londra), R Esteban (Barcellona), M Manns (Hannover), D Shouval (Gerusalemme), O Weiland (Huddinge), R Williams (Londra) Membri del Consensus Panel JP Benhamou (Presidente) (Parigi), J Rodes (Vice-Presidente) (Barcellona), H Alter (Bethesda), H Bismuth (Parigi), V Desmet (Lovanio), J Guardia (Barcellona), J Heathcote (Toronto), A Lok (Ann Arbor), WC Maddrey (Dallas), KH Meyer Zum Buschenfelde (Mainz), L Pagliaro (Palermo), G Paumgartner (Monaco), S Sherlock (Londra) Lista di Esperti S Abrignani (Siena), A Alberti (Padova), M Alter (Atlanta), F Bonino (Pisa), F Bortolotti (Padova), C Bréchot (Parigi), M Carneiro de Moura (Lisbona), V Carreno (Madrid), M Colombo (Milano), A Craxi (Palermo), G Davis (Gainesville), R De Francesco (Roma), F Degos (Parigi), A Di Bisceglie (Saint-Louis), H Dienes (Colonia), G Dusheiko (Londra), J Esteban (Barcellona), R Esteban (Barcellona), P Farci (Cagliari), C Ferrari (Parma), G Foster (Londra), S Hadziyannis (Atene), J Hoofnagle (Bethesda), R Koff (Framingham), D Lavanchy (Ginevra), K Lindsay (Los Angeles), F Lunel (Angers), M Manns (Hannover), P Marcellin (Parigi), M Mondelli (Pavia), B Nalpas (Parigi), N Naoumov (Londra), JM Pawlotsky (Créteil), S Pol (Parigi), P Pontisso (Padova), T Poynard (Parigi), J Prieto (Pamplona), M Rizzetto (Torino), M Roggendorf (Essen), M Ruiz Moreno (Madrid), D Samuel (Parigi), J Sanchez-Tapias (Barcellona), S Schalm (Rotterdam), D Shouval (Gerusalemme), P Simmonds (Edinburgo), V Soriano (Madrid), N Tassopoulos (Atene), H Thomas (Londra), C Trépo (Lione), CL Van der Poel (Amsterdam), W Vogel (Innsbruck), O Weiland (Huddinge), R Wejstal (Goteborg), R Williams (Londra), T Wright (San Francisco), A Zanetti (Milano), JP Zarski (Grenoble), S Zeuzem (Francoforte), F Zoulim (Lione) La decisione di trattare dipende dalle lesioni istologiche? Prima di iniziare la terapia, è appropriato e importante eseguire una biopsia epatica. Tale indagine fornisce l’opportunità di graduare la gravità della necroinfiammazione e lo stadio della progressione della fibrosi, che possono essere poi considerati in rapporto alla presunta durata della malattia, allo stato clinico e alle anormalità biochimiche, al fine di assumere le decisioni terapeutiche. La biopsia fornisce inoltre la linea basale dei singoli pazienti. Esiste l’accordo che i pazienti con necroinfiammazione moderata/grave e/o fibrosi dovrebbero essere trattati. La decisione di trattare dipende dall’età del paziente? L’età fisiologica del paziente è più importante di quella cronologica. Fattori da considerare nei pazienti più anziani comprendono lo stato di salute generale, con una speciale attenzione al sistema cardiovascolare, al fine di determinare il potenziale rischio di una diminuzione del livello di emoglobina se si pensa di iniziare il trattamento con ribavirina. La decisione di trattare dipende dalle manifestazioni cliniche? Nelle fasi iniziali, in assenza di cirrosi avanzata, esiste una scarsa correlazione tra manifestazioni cliniche e lesioni istologiche della malattia. Lo stato clinico nel suo complesso può influenzare la decisione di trattare con BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 riguardo alla qualità di vita. Alcuni studi hanno evidenziato l’abbattimento dei sintomi in pazienti in cui il trattamento aveva indotto sostenute riduzioni di HCV-RNA. La decisione di trattare dipende dal livello di viremia? Solo i pazienti che presentano manifesti livelli sierici di HCV-RNA sono candidati alla terapia. E’ ampiamente riconosciuto che i pazienti con più alti livelli di viremia (più di 2 milioni di copie/ml) presentano probabilità relativamente minori di rispondere alla terapia. Tuttavia, il livello di viremia non dovrebbe essere considerato un motivo per negare il trattamento. La decisione di trattare dipende dal genotipo del virus? Anche se è ben dimostrato che i pazienti con genotipo 1 rispondono alla terapia in modo meno efficace dei pazienti con genotipo 2 o 3, il genotipo non dovrebbe essere considerato un motivo per negare il trattamento. I bambini dovrebbero essere sottoposti a terapia? Non esistono studi di ampie dimensioni sul trattamento dell’epatite cronica C nei bambini. I dati disponibili suggeriscono che i bambini presentano percentuali di risposta alla monoterapia con interferone simili agli adulti. Non esistono dati sulla terapia combinata interferone più ribavirina nei bambini. La decisione di trattare un bambino dovrebbe tenere in considerazione gli stessi fattori degli adulti. Possono esistere fattori aggiuntivi specifici per i bambini più piccoli, in parti- 15 AGGIORNAMENTI I pazienti con infezione da HIV dovrebbero essere sottoposti a terapia? L’epatite cronica C è di frequente diagnosticata in soggetti con infezione da HIV. E’ stato accertato che la progressione dell’epatite cronica C è accelerata in pazienti coinfettati. Il trattamento dell’epatite C può essere indicato in quei pazienti in cui la terapia ha stabilizzato l’infezione HIV. Quando si trattano tali pazienti, dovrebbero essere anche considerate le possibili interazioni tra farmaci e le anormalità ematiche aggiuntive. I pazienti con cirrosi compensata dovrebbero essere trattati? I pazienti con cirrosi compensata possono essere trattati. Alcuni benefici potenziali, quali la riduzione dello sviluppo di carcinoma epatocellulare e la decompensazione, non sono stati provati e dovrebbero essere valutati in futuri studi controllati. I pazienti con transaminasi in persistenza normali dovrebbero essere trattati? I pazienti HCV-RNA positivi e con valori normali persistenti di transaminasi, generalmente presentano una malattia di lieve entità e una risposta incerta alla terapia. Al presente, non si raccomanda a questi pazienti di sottoporsi a trattamento, ma dovrebbero essere attentamente controllati ogni 4-6 mesi o inclusi in studi clinici. I pazienti con condizioni extraepatiche correlate all’HCV dovrebbero essere trattati? Il trattamento di condizioni extraepatiche correlate all’HCV, quali, ad esempio, crioglobulinemia sintomatica, glomerulonefrite o vasculite, va opportunamente valutato. Una remissione sostenuta è comunque improbabile e può essere richiesta una terapia di mantenimento a lungo termine con interferone. L’efficacia di una terapia combinata interferone più ribavirina deve essere provata. I pazienti con epatite acuta C dovrebbero essere trattati? La maggior parte degli esperti è favorevole al trattamento di pazienti con epatite acuta C. Inizio e durata del trattamento non sono stati chiaramente stabiliti. I pazienti con epatite acuta C vanno informati che hanno un 15% di probabilità di guarigione spontanea e un 85% di sviluppare epatite cronica C; inoltre è bene che siano informati sugli effetti indesiderati della terapia. Le decisioni concernenti il trattamento dovrebbero essere formulate su base individuale e, idealmente, i pazienti dovrebbero essere inclusi in uno studio sperimentale. La terapia combinata non è stata valutata. 16 Quali pazienti non si dovrebbero trattare? Data l’efficacia relativamente bassa e la frequenza delle reazioni avverse della terapia attuale dell’epatite C, il trattamento non è conveniente per molti pazienti con virus dell’epatite C. In particolare non sono candidati al trattamento i pazienti con abuso attivo di alcool, in quanto l’alcool aumenta sfavorevolmente la viremia ed interferisce con la risposta terapeutica. Non dovrebbero essere sottoposti a trattamento i soggetti che fanno uso di droghe iniettabili endovena a causa dell’alto rischio di nuove infezioni. L’adesione al trattamento è tra l’altro scarsa in pazienti in cui l’alcoolismo non è stato interrotto o che sono tossicodipendenti. La terapia appare potenzialmente dannosa e non esiste dimostrazione di utilità in pazienti con cirrosi scompensata. Dubbio è altresì il vantaggio terapeutico del trattamento nei pazienti con malattia istologicamente lieve, specie se anziani e con patologia associata. Con riferimento all’età, si fa rilevare che l’età media dei pazienti inclusi nei trial in precedenza ricordati (v. 4.1.1. e 4.1.2.) va da 39 a 45 anni, con deviazioni standard di 8-11 anni, il che implica che il 95% aveva meno di 60 anni. Siccome la storia naturale dell’epatite cronica C è molto lunga, sviluppandosi nell’arco in media di almeno un decennio, in pazienti anziani diventano probabili altre cause di morbosità e mortalità, che riducono o annullano il peso prognostico sfavorevole dell’epatite. Bibliografia colare l’effetto dell’interferone sulla crescita, che richiedono ulteriori studi. 1. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C. Paris 26-28 February 1999. J Hepatol 1999;30:956-61. 7. Modalità di attuazione della terapia Si rimanda al Decreto 19 novembre 1999 “Modalità di impiego di specialità a base di ribavirina”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 2 dicembre 1999 Serie generale n. 283. 8. Conclusioni Allo stato attuale delle conoscenze e della significatività dei dati disponibili è logico ritenere che la combinazione interferone alfa-2b più ribavirina rappresenti la terapia di prima scelta in differenti popolazioni di soggetti affetti da epatite cronica C. Tuttavia è indubbio che numerosi quesiti restano ancora insoluti e/o necessitano di ulteriori conferme, specie quelli relativi alle condizioni di trasferimento e di attuazione di questo intervento nella pratica clinica reale e quelli di follow up della terapia. A partire da quest’ottica, l’erogazione della ribavirina a carico del BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI SSN, in una prospettiva d’impiego su un’ampia popolazione di pazienti, ha offerto la concreta possibilità di dar luogo a un vero e proprio sistema di monitoraggio del suo utilizzo sotto il profilo sia dell’appropriatezza terapeutica sia della sua efficacia nel tempo. In altri termini, il nuovo intervento terapeutico ha offerto l’occasione per avviare un sistema di “rimborsabilità controllata”, in cui l’attenzione e l’interesse delle Istituzioni (CUF, Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza, Istituto Superiore di Sanità, Assessorati Regionali alla Sanità) non si sono limitati agli aspetti finanziari collegati all’erogazione, ma indirizzati soprattutto alla conoscenza e alla diffusione dei risultati dell’utilizzo del farmaco. Per una comprensione più dettagliata di questo particolare aspetto della terapia ribavirina - interferone, si rimanda il lettore all’articolo, di seguito riportato, relativo all’indagine multicentrica sul profilo d’uso della ribavirina. IMPROVE Indagine multicentrica sul profilo d’uso della ribavirina: un osservatorio per la valutazione degli esiti La logica e gli obiettivi dello studio A seguito di una procedura centralizzata europea, la commercializzazione della ribavirina è stata autorizzata anche in Italia e il farmaco è stato ammesso alla rimborsabilità nella fascia H del Prontuario Terapeutico Nazionale. Le indicazioni terapeutiche, approvate dalla Commissione Europea sulla base dei risultati ottenuti nelle sperimentazioni cliniche, prevedono l’uso di ribavirina in associazione con l’interferone alfa-2b per il trattamento dell’epatite cronica C in pazienti adulti che abbiano risposto in precedenza alla terapia con interferone, ma che abbiano avuto una recidiva, e in pazienti non trattati in precedenza, senza scompenso epatico, con transaminasi elevate e con presenza di HCV-RNA sierico (con fibrosi portale o elevata attività infiammatoria). L’immissione in commercio di ribavirina ha indotto il Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza del Ministero della Sanità e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ad attuare un programma multicentrico di farmacoepidemiologia in grado di fornire informazioni sull’uso routinario del farmaco. Dopo l’immissione in commercio i farmaci sono soggetti ad un uso allargato sia in termini quantitativi che qualitativi. Diventa pertanto particolarmente importante, soprattutto per molecole di elevato interesse clinico, continuare lo studio del profilo di beneficio/rischio nella popolazione naturalmente esposta alla terapia e nelle condizioni di uso che riflettono la realtà prescrittiva. È questa un’esigenza di carattere generale in quanto, a fronte di un’accelerazione dei tempi per l’approvazione e la commercializzazione dei farmaci, legata anche alla centralizzazione delle procedure a livello europeo, occorre valutare più attentamente l’effettiva trasferibilità nella pratica clinica delle conoscenze BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 originate nelle fasi pre-registrative dei farmaci (sperimentazioni cliniche controllate o RCT). Tale impostazione, sempre più evidente anche nel dibattito scientifico internazionale, non ha come finalità la ridiscussione dei risultati eventualmente ottenuti nell’ambito degli RCT, ma quella di completare il quadro conoscitivo complessivamente disponibile per un farmaco. Nel caso della ribavirina deve essere sottolineato che gli studi sperimentali di riferimento, pubblicati su riviste di indubbio prestigio, mostrano un’eterogeneità di risposta alla terapia da parte dei diversi sottogruppi di pazienti con particolari quadri clinici e virologici di epatite C. Tuttavia, come sottolineato da numerose associazioni scientifiche, è indubbio che una molecola quale la ribavirina meriti ulteriori verifiche soprattutto in termini di condizioni reali d’impiego. Secondo quanto riportato in un recente editoriale del British Medical Journal (1), la valutazione dell’utilità dei trattamenti dovrebbe avvenire in tre fasi: a) in uno o più trial randomizzati (“can it work?” La risposta a questa domanda definisce la efficacy del trattamento nelle condizioni ideali e, per molti versi, artificiali di un trial); b) nell’applicazione post-marketing, più ampia ed eterogenea (“does it work?” La risposta a questa domanda definisce la effectiveness del trattamento); c) infine, dovrebbe essere valutata la convenienza di applicazione del trattamento in termini non solo di salute preservata o restituita ma anche economici (“is it worth it?” La risposta a questa domanda definisce la efficiency, o cost/effectiveness del trattamento in confronto ad altri possibili interventi sanitari). Gli obiettivi principali dell’indagine sono la valutazione degli effetti terapeutici e della tollerabilità del trattamento dell’epatite cronica C con interferone alfa-2b più ribavirina al di fuori del disegno di un trial randomizzato. Gli effetti terapeutici vengono valutati in base ai due end point surrogati generalmente 17 AGGIORNAMENTI Bibliografia accettati: transaminasi e viremia a 6 mesi dal completamento del trattamento. Sarà inoltre esplorata la possibilità di un follow up a distanza dei pazienti trattati per una valutazione delle complicanze della cirrosi e della sopravvivenza. 1. Haynes B. Can it work? Does it work? Is it worth it? The testing of healthcare interventions is evolving. BMJ 1999;319:652-3. L’organizzazione dello studio L’indagine prevede il coinvolgimento dei centri ospedalieri che prescrivono la terapia con ribavirina. I centri partecipanti saranno coordinati, all’interno di ogni Regione, da un referente che avrà l’incarico di coordinare tutti i flussi informativi necessari al corretto andamento dell’indagine. In particolare, il referente regionale dovrà ricevere a cadenza periodica copia delle schede di raccolta dei dati compilate dai centri, operando una prima verifica della completezza delle informazioni. Con cadenza mensile, il referente regionale invierà copia di tutte le schede ricevute e, eventualmente, i dati già registrati, al Centro presso l’ISS. Presso l’ISS tutte le informazioni saranno registrate in un database centralizzato dove saranno effettuate tutte le operazioni di verifica di correttezza. Il Centro presso l’ISS produrrà con cadenza trimestrale dei rapporti di sintesi sull’andamento dello studio, che saranno sottoposti alla valutazione del Comitato Scientifico. Tali rapporti saranno successivamente inviati ai referenti regionali perché vengano resi disponibili a tutti i partecipanti allo studio. Al termine della durata prevista dello studio (circa 2 anni) sarà stilata, a cura del Comitato Scientifico, una relazione finale con tutte le valutazioni relative all’uso della ribavirina più interferone nella terapia dell’epatite C. Tale relazione finale sarà inviata per le opportune decisioni alla CUF. Alcune riflessioni conclusive La procedura di registrazione della ribavirina, atto di per sé puramente regolatorio, ha consentito di creare un’occasione che, grazie al coinvolgimento dei diversi livelli istituzionali (Ministero della Sanità, CUF, Istituto Superiore di Sanità, Regioni) e delle diverse componenti della ricerca clinica, ha portato alla predisposizione di un possibile “modello” di intervento utilizzabile anche in altre future occasioni. Indagini di questo tipo, mirate all’identificazione dei profili d’uso in relazione a possibili indicatori d’esito, possono consentire di avere a disposizione significativi osservatori clinici per una valutazione nel tempo del reale impatto dei farmaci sulla storia naturale delle malattie per le quali sono stati sviluppati e sperimentati. Comitato Scientifico: L. Pagliaro, A. Alberti, M. Levrero, M. Maggini, N. Martini, A. Mele, R. Raschetti, M. Rizzetto, T. Stroffolini, P. Viale. News Geni virali e cronicizzazione dell’epatite C Nella maggior parte degli individui colpiti dal virus dell’epatite C (HCV), all’infezione acuta fa seguito la cronicizzazione della malattia; in una minoranza fortunata di pazienti, all’incirca il 15%, si osserva invece una completa guarigione. Uno studio recente, pubblicato il 14 aprile 2000 su Science (1), segnala che sono gli eventi che si verificano subito dopo l’infezione primaria a determinare se i pazienti riescono ad eradicare il virus dall’organismo, o se invece mantengono l’infezione cronicamente. La ricerca a cui ci si riferisce, condotta da ricercatori dei National Institutes of Health degli Stati Uniti, dell’Università di Cagliari e di altre istituzioni, ha analizzato come i geni virali che codificano le proteine che rivestono la superficie dei virus si evolvono nei pazienti con infezione post-trasfusionale da HCV. Le modificazioni delle proteine di superficie consentono ai virus di eludere gli attacchi del sistema immunitario. I ricercatori hanno evidenziato che, nei pazienti in grado di eliminare con successo l’HCV, i geni delle proteine di superficie restano relativamente inalterati dopo la risposta immunitaria iniziale. Viceversa, nei pazienti che sviluppano un’epatite C cronica, i geni delle proteine di superficie evolvono rapidamente e mostrano una diversità genetica ben più evidente. Le nuove evidenze permettono di spiegare come l’HCV persista nell’organismo e suggeriscono che l’analisi delle modificazioni della sequenza virale nella fase precoce dell’infezione può aiutare i medici a meglio pronosticare quali pazienti svilupperanno un’epatite C cronica. 1. Farci P et al. The outcome of acute hepatitis C predicted by the evolution of the viral quasispecies. Science 2000;288:339-44. 18 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI La resistenza agli antimicrobici oggi: momenti e prospettive di intervento Uno degli aspetti della farmacoterapia più degni di considerazione ai nostri giorni è indubbiamente la resistenza batterica agli antibiotici ed ai chemioterapici, termini che si preferisce unificare in quello di “antimicrobici”. Definizione di resistenza e dati documentari La resistenza agli antibiotici, per la quale esistono documentazioni di preesistenza all’impiego degli antimicrobici (1), può esser considerata come la capacità dei microrganismi di alcune specie di sopravvivere, o anche moltiplicarsi, in presenza di concentrazioni di antimicrobici di regola sufficienti per inibire o uccidere microrganismi della stessa specie. La resistenza agli antimicrobici, riconosciuta in clinica negli anni ‘50 (penicillina e stafilococchi; sulfamidici e gonococchi), è un fenomeno che si è andato accentuando nell’ultimo decennio ed investe l’intera popolazione rappresentando un problema globale prioritario di salute pubblica, che riguarda Paesi sviluppati ed in via di sviluppo, con pesanti risvolti economici. Germi responsabili di infezioni anche assai gravi e pericolose per la vita, quali Pseudomonas, Klebsiella, Acinobacter baumanii ed altri Gram-negativi, enterococchi, stafilococchi, pneumococchi, hanno frequentemente raggiunto in diversi ambienti un tale grado di multiresistenza da diventare intrattabili anche con i più recenti antimicrobici (2). Problemi di primo piano sono posti dagli enterococcchi resistenti alla vancomicina (VRE), dagli stafilococchi meticillino-resistenti (MRSA), dai bacilli Gram-negativi che elaborano ßlattamasi ad ampio spettro, da pneumococchi penicillino- ed eritromicino-resistenti, senza parlare delle serie preoccupazioni connesse alla multiresistenza del Mycobacterium tuberculosis. Lo sviluppo di resistenza è stato molto veloce negli ultimi anni; in ospedali statunitensi, la percentuale di VRE è salita da 0,3% nel 1989 a valori tra 4,9 e 10% nel 1993 (segnalazioni di 9,1% nel 1994) (3) e nelle unità di terapia intensiva dallo 0,4% (nel 1989) al 13,6% nel 1993 (4); in grossi ospedali universitari statunitensi, la percentuale di MRSA tra ceppi di Staph. aureus è salita dall’ 8% nel 1986 al 40% nel 1992; in New York City la percentuale è del 50%; dati ottenuti da 17 Paesi europei danno recentemente un valore di circa il 60% (5). Pericoloso, anche se non quantificato, si profila il passaggio della resistenza alla vancomicina da enterococchi (VRE) a stafilococchi, per il largo impiego dell’antibiotico in pazienti con infezioni da MRSA (6,7). Relativamente a microrganismi responsabili di infezioni da BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 comunità, la percentuale di Strep. pneumoniae multiresistenti è salita dal 3,6% nel 1987 al 14,5% nel 1994 ed al 23,6% (da aggiungere un altro 14,1% con ridotta sensibilità) nel 1995 (3); dati più recenti danno la resistenza a circa il 46%. Si tenga presente che negli USA (~250 milioni di abitanti) lo Strep. pneumoniae è responsabile di 7.000.000 di casi di otite media, 500.000 casi di polmonite, 50.000 casi di sepsi, 3.000 casi di meningite all’anno, un numero imprecisato di bronchiti, endocarditi ed artrite settica (4). Fra le infezioni una volta sensibili ed ora resistenti agli antibiotici vanno ancora segnalate dissenteria da Shigella dysenteriae multiresistente, tifo da Salmonella typhi multiresistente, gonorrea da Neisseria gonorrhoeae resistente a penicilline e tetracicline (8). Come i batteri divengono resistenti Come è noto, i batteri diventano resistenti in vario modo: alcuni ereditano geni di resistenza; altri li acquisiscono a seguito di mutazioni spontanee o come rafforzamento di un carattere genetico preesistente. Altri (ad es., stafilococchi) acquisiscono il gene della resistenza agli antimicrobici da una cellula batterica vicina (es. enterococchi) per mezzo di plasmidi, sottili anelli di DNA che veicolano geni da una cellula batterica ad un’altra. La resistenza può essere anche trasferita da virus capaci di captare un gene di resistenza da un batterio ed inocularlo in un altro. Infine, quando batteri morti si disintegrano, altri possono acquisire il materiale genetico conferente resistenza appena reso disponibile (9). La resistenza: un fenomeno di ecologia genetica globale È oggi dato ben acquisito che il trasferimento di geni batterici di resistenza si verifica in tutta la biosfera, specialmente in siti ricchi di nutrienti come sistemi acquatici, sedimenti, suoli, aree vicine a radici delle piante, e nel liquame dei sistemi di trattamento biologico dei rifiuti (10-12). Batteri resistenti sono stati identificati in tutti questi siti. La resistenza può anche diffondersi da piante o vegetali trattati con antimicrobici o fertilizzati con concimi contenenti residui animali o umani. Si pensi che con un’insalata di pomodori, lattuga e cocomero vengono ingeriti all’incirca 109 batteri (13)! Pertanto, la resistenza dovrebbe essere considerata come un fenomeno di ecologia genetica globale. Gli antimicrobici, i batteri ed i geni che codificano per la 19 AGGIORNAMENTI resistenza sono fattori comuni tra i quattro compartimenti ecologici (uomo, animali, piante e acque al suolo). I geni si muovono tra i batteri in ciascun compartimento ed i batteri possono muoversi tra i compartimenti. Il momento unitario della resistenza Pur nella sua globalità trasversale, la selezione di microrganismi resistenti e quindi la resistenza agli antimicrobici ha un suo fondamentale momento unitario: l’uso di antimicrobici su larga scala nell’uomo e negli animali. Per una valutazione quantitativa del problema si tenga presente che negli USA sono prodotte circa 23.000 tonnellate di antibiotici all’anno (15.700 tonnellate nel 1980) (14), la metà per impiego terapeutico nell’uomo (solo per la metà ritenuto appropriato) (15) e l’altra metà per la promozione della crescita di animali e per il trattamento con aerosol di alberi da frutto. Su 10.493 tonnellate di antibiotici consumati in Europa nel 1997, circa il 52% è stato utilizzato per uso umano, il 33% in medicina veterinaria ed il 15% come additivo per la produzione animale (16). I momenti di acquisizione della resistenza Analizzando i grandi settori di utilizzo indicati si rileva che, prescindendo dall’impiego terapeutico (giustificato o meno) in molteplici affezioni ad eziologia batterica dell’uomo, altri due momenti sono essenziali nella determinazione della resistenza agli antimicrobici: il trattamento su larga scala con questi di animali destinati ad entrare nella catena alimentare umana, con il diretto trasferimento di patogeni all’uomo (17,18), la possibilità di diffusione di determinanti della resistenza tra patogeni animali ed umani, e l’impiego di taluni antimicrobici come promotori della crescita della produzione animale, capaci di interessare la flora intestinale e la digeribilità del materiale edibile. I due momenti detti spesso si confondono perché, nell’intento di evitare infezioni a rapida diffusione in allevamenti intensivi con un gran numero di giovani animali ristretti in aree limitate, piuttosto che migliorare le condizioni igieniche di allevamento si procede ad impiego massiccio di antimicrobici che esercitano una pressione di selezione per lo sviluppo di patogeni resistenti e batteri commensali. Batteri resistenti ad antimicrobici possono esser presenti nel tratto gastrointestinale di una gran parte di animali destinati all’alimentazione (19-21). Poiché è difficile prevenire la contaminazione di carcasse durante la macellazione e le successive tappe, batteri resistenti derivati dal tratto intestinale di animali produttori di alimenti possono essere trasmessi all’uomo attraverso questi ultimi. Ad es., gli enterococchi negli animali da allevamento portano geni di resistenza ad antibatterici usati in medicina umana, ed il potenziale 20 impatto di questo pool di geni di resistenza sulla salute umana ha causato di recente molti problemi. È interessante rilevare che l’emergenza e la diffusione di resistenza ad antimicrobici, ad es. Salmonella e Campylobacter, resistenti ai fluorochinoloni negli allevamenti, è un fenomeno che va di pari passo con i medesimi fenomeni rilevati negli ospedali, e antimicrobici simili sono utilizzati in ambedue gli ambienti. L’uso veterinario di antimicrobici può costituire un pericolo per la salute umana, ma l’impatto della resistenza tra i batteri zoonotici ed il rischio di trasferimento di determinanti della resistenza fra batteri animali resistenti e patogeni umani resta ancora un pericolo non quantificato. Situazioni di resistenza pericolose si sono verificate per impiego di antibiotici ai fini di controllare la crescita batterica e fungina in orticoltura: ad es. Burkholderia cepacia, usata per le sue proprietà antifungine per il trattamento delle discariche, per l’aumento di raccolti e per impedire il deterioramento di frutta e vegetali, può esser responsabile, come patogeno, di gravi infezioni in pazienti con fibrosi cistica ed essere resistente a tutti gli antibiotici (3). Per la protezione di verdure e alberi da frutto, in alcune aree, ai convenzionali pesticidi chimici (vietati in Italia dal 1971) si preferisce l’uso di antimicrobici che agiscono su microrganismi simili a pericolosi patogeni umani, come Pseudomonas e Burkholderia; nel nostro Paese, comunque, non sussistono problemi di trasferimento della resistenza legati all’utilizzo di tali antimicrobici. Invece, è vivo al presente il dibattito circa il possibile impatto sulla salute dell’uomo di organismi geneticamente modificati utilizzati come alimenti per l’uomo e per animali destinati alla catena alimentare umana. In realtà, un aumento della resistenza batterica non sembra possa derivare da tecniche di bioingegneria che permettano di ottenere organismi (piante e vegetali inclusi) geneticamente modificati (GMO, GMP)* e nei quali sono incorporati indicatori per valutare se la modificazione genetica ha avuto successo (3,22-24). Questi indicatori sono rappresentati da geni di resistenza per gli antibiotici, ad es. marker di resistenza contro kanamicina e neomicina (npt II)* e ß-lattamasi per l’ampicillina (61a TEM1)*; la preoccupazione che ne è derivata è la possibilità di trasferimento, nell’intestino, di tali geni di resistenza dai GMO o GMP a microrganismi, con conseguenti possibili rischi per la salute dell’uomo. Gli interrogativi che sono stati posti a riguardo (ed ai quali al presente è stata data risposta negativa) sono se l’enzima possa agire direttamente sugli antibiotici e se la resistenza possa essere trasferita a microrganismi da GMO o GMP. * Per il significato delle sigle si veda glossario in calce all’articolo. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI L’eventuale trasferimento di geni da vegetali geneticamente modificati a microrganismi può in effetti solo verificarsi in tempi assai lunghi e deve esser considerato solo nei casi in cui l’antibiotico è somministrato per via orale e vi è una pressione di selezione (23,25,26). Antimicrobici escreti dall’uomo e dagli animali così largamente esposti ad essi, sfuggendo alla biotrasformazione, si ritrovano immodificati nelle acque di scolo e possono lentamente degradarsi, esercitando una continua pressione di selezione. Così, gli antimicrobici impiegati per la protezione delle piante possono riversarsi al suolo e passare nelle acque sotterranee, dove si possono selezionare batteri resistenti. Nell’ambiente la maggior parte dei geni di resistenza è ristretta a batteri Gram-negativi che spesso hanno geni derivati da plasmidi localizzati su trasposoni codificanti per enzimi modificatori degli aminoglicosidi. La resistenza antimicrobica tra patogeni implicati in infezioni ospedaliere e acquisite in comunità è, come già rilevato, crescente e per molteplici motivi: sovraffollamento, aumento della popolazione anziana, mobilità della popolazione, uso aumentato ed inappropriato di antibiotici, disponibilità (in alcuni paesi) di antimicrobici come prodotti da banco, mancanza di aderenza al trattamento, minori risorse per l’educazione sanitaria e per il controllo di infezioni, riduzione dei mezzi a disposizione per la salute pubblica. Non è possibile al presente quantificare in modo scientifico l’importanza di tali fattori. In realtà, sebbene ospedale e comunità possano apparire come ambienti separati, vi è un considerevole potenziale di trasferimento di patogeni resistenti da e per entrambe le direzioni. L’impatto della resistenza La resistenza antimicrobica, che alcuni considerano una vera e propria azione sfavorevole dei farmaci antimicrobici da valutare in farmacovigilanza (5), ha un profondo impatto sulla salute della popolazione che deve esser considerato sotto diversi punti di vista: a) il trattamento di infezioni; b) la diffusione di infezioni; c) l’impedimento di interventi terapeutici di rilievo; d) il problema della resistenza nei paesi in via di sviluppo; e) il controverso impegno dell’industria per nuovi antimicrobici; f) i costi. a) Il trattamento di infezioni La resistenza antimicrobica aumenta la gravità e la durata di infezioni (14,27), sofferenze, periodi di ospedalizzazione, fallimenti di interventi chirurgici anche delicati, sequele (ad es. sordità per otite media da pneumococchi multiresistenti) (4), e crea la necessità di indagini aggiuntive. Si tenga presente che, dato che i test di sensibilità antibatterica richiedono ore o giorni per la scelta di un antibiotico mirato, possono verificarsi, in caso di resistenza dell’organismo infettante ad una terapia antimicrobica generalmente accettata, serie conseguenze per mancata cura della malattia (caso di soggetti trattati con cloramfenicolo per infezioni da Salmonella typhi) (28). La possibile maggiore virulenza di ceppi batterici resistenti è un problema largamente dibattuto (2,15); in ogni caso, morbilità e mortalità da malattie causate da Alcune azioni del medico e del paziente per limitare la resistenza (2) Medico • Lavarsi a fondo le mani dopo ogni visita. • Non soddisfare la richiesta dei pazienti per antibiotici non necessari. • Evitare l’uso di antimicrobici ad ampio spettro non necessari e comunque le prescrizioni di antimicrobici per infezioni autolimitantisi ad eziologia non batterica (ad es. infezioni virali dell’albero respiratorio). • Quando possibile, effettuare una prescrizione di antimicrobici mirata. • In ospedale, isolare pazienti con infezioni resistenti a molti antimicrobici. • Familiarizzare con i dati locali circa le resistenze agli antibiotici. Paziente • Non richiedere antimicrobici. • Assumere gli antimicrobici come prescritto, completare il ciclo di trattamento, non conservare compresse o capsule per uso futuro. • Lavare a fondo frutta e vegetali, evitare uova crude e carne poco cotta, specie in forma macinata. • Usare saponi e altri prodotti con antibatterici chimici soltanto per proteggere una persona ammalata le cui difese sono indebolite. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 21 AGGIORNAMENTI microrganismi resistenti risultano aumentate per il ritardo o l’impossibilità di una terapia efficace per infezioni specifiche, ad es. da VRE, Mycobacterium tubercolosis (29) o pneumococchi. In pazienti con meningiti da pneumococchi altamente resistenti o elaboratori di penicillinasi, la scarsa penetrazione di penicilline nel liquor rende impossibile raggiungere in questo le elevate concentrazioni necessarie (8-10 volte le concentrazioni minime battericide per il germe infettante non resistente) per una terapia efficace consentita dalla buona tollerabilità del farmaco, con necessità di ricorrere a più costosi antibiotici a largo spettro (6). Il fenomeno dell’aumentata morbilità e mortalità è particolarmente rilevante nei paesi in via di sviluppo, in cui la maggioranza della popolazione non ha i mezzi per utilizzare antibiotici alternativi e facilmente somministrabili. b) La diffusione di infezioni Una delle conseguenze più importanti della resistenza antimicrobica è rappresentata da periodi più prolungati di infettività, con possibile aumento della diffusione dell’infezione da ceppi resistenti tra la popolazione, ospedaliera e non (8,27,30). Ciò si verifica soprattutto quando il trattamento di soggetti infetti o portatori è un’importante strategia per la prevenzione di ulteriori casi di malattia: si pensi alla diffusione, da parte di portatori di infezione tubercolare ovvero di gonorrea multiresistenti, dei rispettivi microrganismi nell’ambiente. Conseguenze sfavorevoli nel senso detto possono anche verificarsi quando soggetti portatori di microrganismi potenzialmente infettanti o colonizzanti ricevono l’antimicrobico cui questi microrganismi sono già resistenti. In tal caso l’antimicrobico può distruggere microrganismi competitivi a quelli resistenti, conferendogli una potente pressione di selezione con persistenza nell’ospite per più lungo periodo, maggiore possibilità di diffusione della malattia o anche comparsa di questa (situazioni del genere possono ad es. riguardare Salmonellae). c) L’impedimento di interventi terapeutici di rilievo Un impatto particolarmente preoccupante della resistenza antibatterica deriva dal fatto che essa viene pesantemente, e negativamente, ad interferire - fino ad impedirli - con progressi terapeutici resi finora possibili proprio da un rilevante numero di antimicrobici efficaci (4). È il caso di lunghe e complicate procedure chirurgiche (ad es., in campo cardiologico) spesso eseguite in pazienti immunosoppressi, anziani o gravemente ammalati, trapianti d’organo, impiego di strumentazioni invasive complesse, chemioterapia antiblastica. Questo aspetto potrebbe vanificare decenni di strepitosi successi della biomedicina. d) Il problema della resistenza nei paesi in via di sviluppo Nei paesi in via di sviluppo, la disponibilità e l’impiego di antibiotici sono scarsamente controllati. Ciò ha portato ad un elevato grado di resistenza, soprattutto agli antibiotici più vecchi (31). Il fatto 22 preoccupante è che questi paesi vengono ogni anno visitati da un elevato numero di turisti provenienti da ogni parte del mondo, il che implica una probabile globalizzazione dei geni di resistenza (12). Sono diversi i motivi per cui l’impatto della resistenza antimicrobica nei paesi in via di sviluppo è particolarmente devastante (32). L’aumentata morbilità e mortalità, associate alla resistenza batterica sono più difficili da controllare in questi paesi, dove i più recenti antibiotici alternativi sono assai costosi (8,33,34). Inoltre, molti di questi antibiotici vengono somministrati per via iniettiva, il che comporta spese addizionali per siringhe, attrezzature per l’infusione endovenosa, assistenza infermieristica, ecc. (5). e) Il controverso impegno dell’industria per nuovi antimicrobici L’ultima nuova classe di farmaci antimicrobici, con un nuovo target, risale al lontano 1971. Nel contempo i clinici, nella universale tendenza all’impiego dell’ultimo antimicrobico posto sul mercato, anche se sostanzialmente poco differente da altri già esistenti, sono stati sempre largamente fiduciosi che l’immissione di nuovi farmaci attivi da parte dell’industria non finisse mai (35). In realtà negli anni ‘80 gli investimenti industriali per nuovi antimicrobici sono stati relativamente pochi (36). I motivi di questo interesse relativamente scarso possono essere identificati nel continuo aumento dei costi per la scoperta, sperimentazione e sviluppo di nuovi antimicrobici (calcolati da 100 a 350 milioni di dollari) (6), i tempi (6 - 7 anni almeno) per la commercializzazione (27,37) e, successivamente, il pericolo di azioni sfavorevoli inattese e possibilità di insuccesso nel diffuso impiego clinico. La possibile e rapida insorgenza di resistenza, associata alla breve durata di vita di un nuovo farmaco molto costoso, ha rappresentato un disincentivo all’impegno dell’industria in questo settore, dovuto anche ad un insufficiente ritorno economico (35). E’ indubbio che oggi l’industria non è più al passo con la resistenza agli antimicrobici ed è questo un altro impatto negativo della resistenza antimicrobica stessa. La situazione peraltro sembra stia mutando (3,38): la resistenza antimicrobica dilagante comincia a rappresentare una pressione di mercato e, d’altro canto, l’esplosione di informazioni derivanti dalla genetica batterica apre altre vie a farmaci con nuovi meccanismi di azione, eventualmente capaci di non dare resistenza, di revertirla ovvero ancora di potenziare antimicrobici divenuti poco o per nulla attivi. Si è tuttavia rilevato che anche il sequenziamento del genoma (raggiunto per il Mycobacterium tubercolosis) non significa trovare nel breve periodo farmaci attivi su di esso. f) I costi I costi derivanti dalla resistenza antimicrobica sono considerati assai elevati in rapporto ai prolungati tempi di ospedalizzazione, con conseguente riduzione del turnover dei pazienti, indagini di laboratoBIF Mag-Giu 2000 - N. 3 AGGIORNAMENTI rio addizionali, necessità di farmaci costosi alternativi, complicazioni e sequele invalidanti. Negli USA, i costi per una setticemia da VRE sono stati calcolati in 18.000 $/ospedalizzazione; in Europa, i costi per trattare un’infezione di microrganismi resistenti in terapia intensiva per una settimana ammontano a circa 12.000 $ (5). Per risolvere l’infezione si adoperano abitualmente antimicrobici iniettivi fra i più potenti (imipenem e consimili, fluorochinoloni, cefalosporine di III e IV generazione, aminoglicosidi ed associazioni) il cui impiego comporta ulteriori costi per siringhe, linee per somministrazione endovenosa, personale infermieristico. Nei paesi in via di sviluppo questi costi impediscono l’impiego, per infezioni da microrganismi multiresistenti, di pochi antimicrobici ancora efficaci, di regola iniettabili, costosi e non disponibili per la maggioranza della popolazione. I costi precedentemente esposti sono considerati diretti. Costi indiretti di infezioni da microrganismi resistenti sono il tempo maggiore trascorso lontano dalla famiglia e l’eventuale riduzione o perdita di entrate economiche. In terminologia economica, la resistenza antimicrobica è considerata una “esternalità” negativa nel trattamento delle infezioni, per le conseguenze sfavorevoli sull’intera società (40,41). Ciò significa che è improbabile che gli effetti dell’impiego di antimicrobici in termini di resistenza siano sentiti direttamente dal consumatore o dal fornitore del trattamento (che non hanno incentivi per ridurre l’uso di antimicrobici), ma si ripercuotono sul benessere globale della comunità. E’ chiaro che l’esternalità non è associata di per sé con la produzione di antimicrobici, ma con il loro consumo (come parte della produzione di salute) ed è negativa perchè comporta azioni sfavorevoli per l’intera società. Il solo modo per combatterla è, al presente, una riduzione dell’impiego di antibiotici, perseguibile con varie strategie. Si può contrastare la resistenza? (1,34,35,39,42,43) Tutti i problemi inerenti alla resistenza cui si è fatto cenno trovano un unico momento comune: l’entità del consumo di antimicrobici. Difatti l’uso esteso di antimicrobici nell’uomo e negli animali (e nei vegetali) è un fattore di primo piano nel determinare la selezione di microrganismi resistenti. Paesi con le più alte percentuali di resistenza antibatterica tra patogeni umani, e con il più elevato consumo pro capite di antibiotici (44), hanno documentato che vi è un livello critico di consumo di farmaci antimicrobici oltre il quale si scatena l’emergenza di resistenza. Lo scopo fondamentale degli interventi che da oggi possono essere attuati è impedire che la resistenza agli antimicrobici divenga un problema di dimensioni ancora maggiori e conservare l’utilità degli antimicrobici oggi disponibili. Va inoltre tenuto presente che, nell’ultimo BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 decennio, non è stato introdotto alcun antibatterico con nuovo meccanismo d’azione, sebbene ve ne siano alcuni di recente o prossima commercializzazione per scopi selettivi in terapia, come everninomicine e ossazolidoni. Bisognerebbe pertanto intraprendere azioni capaci di ridurre l’uso degli antimicrobici in tutti i settori di impiego: medicina umana e veterinaria, produzione animale e protezione di piante. La restrizione nell’uso degli antimicrobici esistenti in tutti gli attuali settori di applicazione dovrebbe portare al controllo ed al contenimento della resistenza. L’uso di antimicrobici in produzione animale dovrebbe essere totalmente abbandonato e, comunque, al più presto sostituito con quello di composti che non abbiano alcuna possibile relazione con antimicrobici impiegati in medicina umana e veterinaria, per evitare il rischio di selezionare microrganismi con resistenza crociata ai farmaci usati per trattare le infezioni batteriche. Le condizioni di stabulazione degli animali destinati all’alimentazione umana dovrebbero essere migliorate in modo da evitare il diffondersi di epidemie e il conseguente ricorso ad antimicrobici di impiego anche in medicina umana. Gli antimicrobici usati in terapia e quelli che possono presentare resistenza, anche crociata, con questi non dovrebbero essere utilizzati in GMO. I geni marcatori di resistenza agli antimicrobici dovrebbero essere rimossi dai vegetali transgenici prima della commercializzazione. Nell’uomo dovrebbe essere evitato l’uso di antimicrobici a largo spettro non necessari (ad es. nelle infezioni urinarie). Inoltre, l’uso di antimicrobici in molte infezioni dell’albero respiratorio non dovute a batteri può influenzare il decorso della malattia, eccetto in pazienti che abbiano o nei quali siano possibili superinfezioni batteriche. Ridotte permanenze ospedaliere, trattamento domiciliare (ove possibile) di pazienti con malattie serie o complicate, aumentato trasferimento ad ospedali per acuti ovvero a strutture per degenze prolungate, intensificazione degli schemi di pulizia e ricorso a stanze singole, sono tutti fattori che possono ridurre in assoluto l’insorgenza ed il trasferimento di resistenze in ospedale e nel rapporto ospedale-territorio. Negli ospedali americani si tenta di tener separati pazienti con VRE o MRSA per evitare che, per scambio di materiale genetico, si passi da un ceppo di Staph. aureus a resistenza intermedia alla vancomicina ad un ceppo pienamente resistente a tale antibiotico (42). È necessario poi cercare di ottimizzare l’approccio prescrittivo abituale degli antimicrobici. Ciò può esser ottenuto in diversi modi: nel medio periodo, migliorando e rendendo più sensibili e con risultati più rapidi possibili i test diagnostici per le malattie infettive, onde instaurare in tempi brevi una terapia con antimicrobici mirati; nel lungo periodo, rivisitando totalmente con inventiva gli schemi terapeutici finora adottati per i trattamenti con antimicrobici di malattie infettive, senza seguire soltanto quelli derivanti dai trial clinici finanziati dalle industrie produttrici per soddisfare le autorità regolatorie. 23 AGGIORNAMENTI Potrebbero derivarne utili indicazioni per ottimizzare le dosi, l’intervallo tra queste e la durata del trattamento. Infine, dovrebbero essere adottate note di indirizzo e guide terapeutiche che tendano a razionalizzare il più possibile l’impiego almeno dei più importanti antimicrobici nel trattamento di malattie dell’uomo e degli animali e a scoraggiare la pratica di prescrivere antimicrobici inutili o superflui per infezioni autolimitantisi ad eziologia non batterica. Si dovrebbero poi identificare nuove vie per controllare e contenere la resistenza e valutare quanto velocemente, e con quale intensità, la resistenza sia reversibile quando l’uso dell’antimicrobico si riduce. DA RICORDARE ➢ L’entità del consumo di antimicrobici è strettamente correlata alla resistenza batterica. ➢ La restrizione nell’uso degli antimicrobici (in medicina umana e veterinaria, nella produzione animale e nella protezione delle piante) è un fattore essenziale per il contenimento della resistenza batterica. ➢ L’uso di antibiotici in produzione animale dovrebbe essere totalmente abbandonato e sostituito con composti senza alcuna relazione con antimicrobici usati in medicina umana e veterinaria. ➢ Le condizioni di stabulazione negli allevamenti degli animali destinati all’alimentazione umana dovrebbero essere migliorate in modo da evitare il diffondersi di epidemie trattate su larga scala con antimicrobici corrispondenti o strettamente correlati a quelli di impiego in campo umano o veterinario. ➢ I geni marcatori di resistenza agli antimicrobici dovrebbero essere rimossi dai vegetali transgenici prima della commercializzazione. ➢ È necessario adottare note di indirizzo e guide terapeutiche che tendano a razionalizzare il più possibile l’impiego almeno dei più importanti antimicrobici nel trattamento di malattie dell’uomo e degli animali. Piccolo glossario Antimicrobico: qualsiasi composto che, a basse concentrazioni, esercita un’azione contro microrganismi patogeni e mostra tossicità selettiva verso essi Antibiotico: una sostanza prodotta o derivata da un microrganismo che distrugge selettivamente altri microrganismi o inibisce la loro crescita Batterio: un microrganismo che è più semplice e di regola più piccolo dei protozoi, con un singolo cromosoma rappresentato da DNA circolare a doppia elica b1a TEM1: gene di resistenza alle betalattamasi per l’antibiotico ampicillina Commensale: un membro della normale flora batterica Gene: parte del DNA, è l’unità di base del materiale genetico; a ciascun gene è legata una determinata funzione GMO: organismo modificato geneticamente GMP: piante modificate geneticamente Npt II: neomicinfosfotrasferasi II; gene che codifica la resistenza nei riguardi di antibiotici amiglicosidici quali kanamicina e neomicina Plasmide: un pezzo di materiale genetico (DNA) che si ritrova spesso nei batteri indipendente da cromosoma Transposone: un pezzo di DNA (spesso contenente geni per la resistenza) che può muovere da una molecola di DNA ad un’altra 24 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 Bibliografia AGGIORNAMENTI 1. 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Prevention of pulmonary embolism and deep vein thrombosis with low dose aspirin: PEP trial. Lancet 2000;355:1295-302. Sors H and Meyer G. Place of aspirin in prophylaxis of venous thromboembolism. Lancet 2000;355:1288-9. Se non si esegue una profilassi antitrombotica dopo un intervento ortopedico all’anca, il rischio di trombosi venosa profonda di solito supera il 50% e quello di embolia polmonare varia dal 4 al 23%. Quest’ultima rappresenta altresì una causa frequente di mortalità, essendo del 4% la percentuale di embolia letale. A partire da questi dati, è stato raggiunto un ampio accordo sull’opportunità di sottoporre i pazienti operati all’anca a profilassi mirata contro la tromboembolia venosa. È stato pure dimostrato che la somministrazione sottocute di eparina, non frazionata o a basso peso molecolare, è in grado di ridurre di almeno il 50% il rischio relativo di tromboembolia fintanto che il trattamento è attuato. Tuttavia, per ragioni pratiche, la profilassi eparinica (o con metodi di compressione meccanica) è generalmente interrotta prima delle dimissioni dei pazienti dall’ospedale, pur se il rischio di tromboembolia può persistere per alcune settimane o qualche mese. La profilassi con un antiaggregante piastrinico orale, ad esempio acido acetilsalicilico (ASA) a basse dosi, semplice da attuare, potrebbe rappresentare un facile trattamento nel periodo in cui il rischio tromboembolico è più alto. Anche se è stato inequivocabilmente dimostrato che la terapia antiaggregante riduce il rischio di infarto del miocardio, di ictus ischemico e di altri eventi arteriosi occlusivi maggiori, fino ad ora non è stata generalmente raccomandata o utilizzata per la prevenzione della tromboembolia venosa. Ciò può dipendere in larga misura dal fatto che non sono stati condotti, in passato, studi clinici rando- 26 mizzati sufficientemente ampi da fornire una documentazione attendibile sull’efficacia degli antiaggreganti nella prevenzione della tromboembolia venosa. Una meta-analisi di tutti questi studi, che ha analizzato i dati riguardanti circa 8.000 pazienti ad alto rischio per interventi di chirurgia ortopedica o di altro tipo, ha evidenziato che poche settimane di terapia antiaggregante riducono la frequenza di trombosi venosa profonda di circa due quinti e di embolia polmonare di circa due terzi, con riduzioni proporzionali similari in ciascuna delle differenti popolazioni di pazienti studiate. Lo studio PEP è stato progettato per valutare se l’ASA a bassi dosaggi, somministrato a pazienti ad alto rischio di tromboembolia venosa dopo chirurgia ortopedica maggiore, fosse in grado di confermare o meno il beneficio evidenziato con la meta-analisi. Dal 1992 al 1998, 17.444 pazienti (di cui 13.356 sottoposti a chirurgia per frattura del femore e 4.088 operati per artoplastica elettiva) sono stati assegnati per randomizzazione a due gruppi, uno trattato con ASA 160 mg/die, l’altro con placebo, iniziando prima e continuando per 35 giorni dopo l’intervento. I pazienti ricevevano altri regimi profilattici ritenuti necessari. Nei 13.356 pazienti con frattura del femore, il trattamento con ASA ha determinato una riduzione relativa del rischio di embolia polmonare del 43% (IC 95%: 18% ÷ 60%) e di trombosi venosa profonda del 29% (IC 95%: 3% ÷ 48%). Embolia polmonare e trombosi venosa profonda sono state confermate in 105 pazienti su 6.679 (1,6%) assegnati ad ASA rispetto a 165 su 6.677 (2,5%) assegnati a placebo, con una riduzione relativa complessiva del rischio di questi due eventi pari al 36% (IC 95%: 9% ÷ 50%) e riduzione assoluta dello 0,9% (o di 9 pazienti ogni 1.000 trattati). Effetti proporzionalmente simili sono stati osservati in tutti i maggiori sottogruppi di pazienti, compresi quelli trattati con eparina per via sottocutanea. L’ASA ha prevenuto 4 embolie polmonari fatali su 1.000 pazienti trattati (18 decessi nel gruppo ASA vs 43 nel gruppo placebo), il che rappresenta una riduzione proporzionale del 58% (IC 95%: 27% ÷ 76%), senza alcun effetto manifesto sulla mortalità per ogni altra causa vascolare o non vascolare. Pochi sono stati i decessi per emorragia (13 nel gruppo ASA e 15 nel gruppo placebo), mentre i sanguinamenti post-operatori che hanno reso necessaria una trasfusione si sono verificati nel 2,9% dei pazienti trattati con ASA e nel 2,4% dei pazienti sottoposti a placebo, con un eccesso di 6 sanguinamenti su 1.000 pazienti trattati nel gruppo ASA. La maggior parte di tali sanguinamenti in eccesso si è osservata in pazienti in trattamento anche con eparina per via sottocutanea. Nei pazienti sottoposti ad artoplastica elettiva, l’incidenza di tromboembolia venosa è risultata più bassa, ma gli effetti dell’ASA erano proporzionalmente comparabili con quelli osservati nei pazienti con frattura del femore. I risultati dello studio, di ampie dimensioni e ben condotto, forniscono una forte ed inequivocabile dimostrazione che l’ASA riduce il rischio di embolia polmonare (compresa BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA LETTERATURA quella fatale) e di trombosi venosa profonda nel periodo critico successivo a chirurgia ortopedica maggiore. In conclusione, secondo gli autori del PEP, esiste ora una convincente dimostrazione per considerare l’ASA come farmaco da usare di routine in un’ampia popolazione di pazienti ad alto rischio di tromboembolia venosa. Secondo Sors e Meyer, autori di un commentary che appare nello stesso numero di Lancet, sebbene lo studio abbia la sua validità, non può essere esente da critiche e solleva alcuni dubbi e perplessità. Innanzitutto, anche se l’obiettivo che la ricerca si poneva non era quello di confrontare il trattamento a base di ASA con altri regimi farmacologici, nel sottogruppo di 3.424 pazienti trattati anche con eparine a basso peso molecolare, la frequenza di embolia polmonare o di tromboembolia venosa profonda sintomatiche non è risultata statisticamente differente nel gruppo trattato con ASA (1,4%) rispetto al gruppo trattato con placebo (1,8%). Inoltre, il beneficio della profilassi con ASA è apparso evidente soprattutto dopo la prima settimana, cioè quando i pazienti, in maggioranza, erano stati dimessi e non erano sottoposti ad alcun altro tipo di intervento di prevenzione. Quest’ultimo punto solleva il problema di come i pazienti, sottoposti a chirurgia dell’anca, dovrebbero essere trattati una volta dimessi. Nonostante la schiacciante dimostrazione dell’efficacia di alcuni farmaci nella profilassi della tromboembolia venosa post-operatoria dopo chirurgia ortopedica, esiste tuttora incertezza circa la durata ideale di tale intervento. Il timore del potenziale rischio di embolia polmonare a partire da una tromboembolia venosa profonda asintomatica ha spinto i clinici a considerare l’ipotesi di estendere la durata della profilassi fino a un mese dopo le dimissioni dall’ospedale. Alcuni studi clinici sono stati indirizzati a questo problema, evidenziando che la frequenza di trombosi venosa asintomatica tardiva dopo sostituzione totale del femore (20-40%) si riduceva significativamente mediante profilassi extraospedaliera con eparine a basso peso molecolare. Vi è inoltre un trend che suggerisce una riduzione della tromboembolia venosa profonda dopo dimissione ospedaliera (2,8% nel gruppo trattato con eparine a basso peso molecolare rispetto al 5,8% del gruppo placebo) e di embolia polmonare (nessun caso nel gruppo eparine vs 1,6% nel gruppo placebo). Un semplice regime antiaggregante appare facilmente attuabile e vantaggioso sul piano del costo dopo la dimissione ospedaliera, quando il rischio di tromboembolia venosa resta elevato. Ma non è noto se l’ASA sia efficace quanto le eparine a basso peso molecolare nella prevenzione di questo evento indesiderato a livello extraospedaliero. Lo studio PEP non è stato progettato per rispondere a questo quesito e neppure fornisce la dimostrazione che l’ASA dovrebbe sostituire – o essere somministrato assieme a – altri regimi terapeutici nell’immediato periodo post-operatorio. Le implicazioni cliniche di questo studio non sono pertanto ancora chiare. Poiché sono stati suggeriti vari approcci alla profilassi della tromboembolia venosa profonda in pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica maggiore, si rendono necessarie ulteriori ricerche per stabilire la migliore strategia di intervento, in particolare, il miglior modo per continuare la profilassi dopo la dimissione ospedaliera. Rischi correlati ad ipertensione sistolica isolata nell’anziano: il trattamento antipertensivo appare giustificato Staessen JA, Gasowski J, Wang JG, Thijs L, Den Hond E, Boissel JP, Coope J, Ekbom T, Gueyffier F, Liu L, Kerlikowske K, Pocock S, Fagard RH. Risks of untreated and treated isolated systolic hypertension in the elderly: meta-analysis of outcome trials. Lancet 2000;355:865-72 L’ipertensione sistolica isolata è un’entità fisiopatologica a sé stante, conseguente soprattutto a ridotta elasticità delle grosse arterie, e non necessariamente accompagnata da aumento della pressione media arteriosa o delle resistenze periferiche. La sua prevalenza cresce con l’età, raggiungendo una percentuale dell’8% nei sessantenni e superando il 25% negli ultraottantenni. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 Precedenti meta-analisi di studi di esito sull’ipertensione non hanno fornito specifiche stime di rischio in pazienti anziani con ipertensione sistolica isolata trattati o non trattati, oppure hanno spiegato il beneficio del trattamento principalmente in funzione di una riduzione della pressione diastolica del sangue. Lo studio di Staessen et al. è una meta-analisi di otto studi, finalizzata a valutare i potenziali rischi associati a ipertensione sistolica isolata trattata o non trattata in pazienti anziani. I soggetti presi in esame avevano 60 anni o più, presentavano pressione sistolica uguale o superiore a 160 mmHg e pressione diastolica inferiore a 95 mmHg. Negli 8 trial sono stati seguiti complessivamente 15.693 pazienti con ipertensione sistolica isolata per un periodo 27 DALLA LETTERATURA medio di 3,8 anni. I tassi di rischio relativo associati ad una pressione sistolica iniziale più alta di 10 mmHg erano 1,26 (p=0,0001) per la mortalità totale, 1,22 (p=0,02) per l’ictus, ma solo 1,07 (p=0,37) per eventi coronarici. Indipendentemente dalla pressione sistolica del sangue, la pressione diastolica era inversamente correlata con la mortalità totale, mettendo in evidenza il ruolo della pressione pulsatoria quale fattore di rischio. Il trattamento attivo riduceva la mortalità totale del 13% (IC 95%: 2% ÷ 22%), la mortalità cardiovascolare del 18%, le complicazioni cardiovascolari complessive del 26%, l’ictus del 30% e gli eventi coronarici del 23%. Il numero di pazienti da trattare per cinque anni per prevenire un evento cardiovascolare maggiore (NNT) evidenzia che il beneficio assoluto del trattamento farmacologico è superiore negli uomini rispetto alle donne (18 vs 38), nei pazienti di 70 o più anni rispetto a quelli più giovani (19 vs 39) e in soggetti con precedenti complicazioni cardiovascolari rispetto a quelli non interessati da tali problemi (16 vs 37). Dunque, il trattamento farmacologico appare giustificato nei pazienti più anziani con ipertensione sistolica isolata, in cui la pressione sistolica è uguale o superiore a 160 mmHg, o con pressione pulsatoria più ampia. Il trattamento previene l’insorgenza di ictus più efficacemente rispetto a quella di eventi coronarici. Tuttavia, l’assenza di una correlazione tra eventi coronarici e pressione sistolica del sangue in pazienti non trattati suggerisce che la protezione coronarica può essere stata sottostimata. Ipertensione e terapia antipertensiva, fattori di rischio di diabete mellito di tipo 2? Gress TW, Nieto FJ, Shahar E, Wofford MR, Brancati FL. Hypertension and antihypertensive therapy as risk factors for type 2 diabetes mellitus. Atherosclerosis Risk in Communities Study. N Engl J Med 2000;342:905-12. Sowers JR, Bakris GL. Antihypertensive therapy and the risk of type 2 diabetes mellitus (Editorial) N Engl J Med 2000;342:969-70. L’obiettivo che si sono posti Gress et al. è di verificare se esista una correlazione tra impiego di farmaci antipertensivi e rischio di successiva insorgenza di diabete mellito di tipo 2. In base a studi in precedenza condotti, si è ipotizzato che alcuni gruppi di farmaci antipertensivi, e in particolare i diuretici tiazidici e i beta-bloccanti, possano favorire lo sviluppo di questo tipo di diabete. Tuttavia, i risultati di tali studi si sono dimostrati incoerenti e molti di essi appaiono limitati da dati inadeguati sugli esiti e da potenziali fattori di confondimento. Lo studio di Gress et al., di tipo prospettico, è stato condotto su 12.550 adulti, di età compresa tra 45 e 64 anni, non diabetici. Questi pazienti erano stati selezionati da uno studio in atto, Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC). Un’estesa valutazione dello stato di salute condotta all’inizio dello studio ha previsto anche la determinazione 28 dei farmaci usati e la misurazione della pressione arteriosa con uno sfigmomanometro random-zero. L’incidenza di nuovi casi di diabete è stata valutata dopo tre e sei anni mediante determinazione a digiuno della glicemia. Al sesto anno di follow up, sono stati registrati 569 nuovi casi di diabete tra i 3.804 pazienti con ipertensione e 577 tra gli 8.746 soggetti non ipertesi: tassi di incidenza rispettivamente di 29,1 e 12 per 1.000 persone/anno. Pertanto, in accordo con i risultati di studi condotti in precedenza, la probabilità di insorgenza di diabete è risultata circa 2,5 volte maggiore nei pazienti ipertesi rispetto ai pazienti normotesi. Dopo aggiustamento per fattori confondenti (età, sesso, razza, adiposità, anamnesi familiare di diabete, livello di attività fisica, ecc.), si è evidenziato che: - i soggetti ipertesi in trattamento con diuretici tiazidici non presen- tavano un rischio maggiore di successivo sviluppo di diabete rispetto a soggetti non sottoposti ad alcuna terapia antipertensiva; - i soggetti in trattamento con ACE-inibitori e calcio antagonisti non presentavano un rischio maggiore rispetto a quelli non trattati farmacologicamente; - i soggetti con ipertensione in trattamento con beta-bloccanti presentavano un rischio maggiore di sviluppare successivamente diabete pari al 28% (RR: 1,28; IC 95%: 1,04 ÷ 1,57). Secondo gli autori dello studio, i risultati emersi hanno tre principali implicazioni: 1. la correlazione tra ipertensione ed insorgenza di diabete dovrebbe stimolare la ricerca sui fattori di rischio coinvolti e mettere in guardia i medici sull’esistenza di un gruppo di soggetti facilmente identificati ad alto rischio di diabete; BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA LETTERATURA 2. il timore del rischio di diabete non dovrebbe dissuadere i medici dal prescrivere i diuretici tiazidici ad adulti non diabetici affetti da ipertensione; 3. anche se l’impiego dei betabloccanti mostra di aumentare il rischio di diabete, tale effetto indesiderato deve essere soppesato rispetto agli accertati benefici dei beta-bloccanti nel ridur- re il rischio di eventi cardiovascolari. Nell’Editoriale di Sowers e Bakris si sottolinea, tra l’altro, che i dati ottenuti da studi di breve e di lunga durata indicano che gli ACEinibitori possono addirittura ridurre il rischio di diabete. Questi autori suggeriscono l’opportunità di eseguire studi prospettici per determi- nare se gli effetti avversi dei betabloccanti sulla tolleranza al glucosio possano essere attenuati dal concomitante impiego di ACE-inibitori. Tuttavia, Sowers e Bakris ritengono che i beta-bloccanti, fino a che tali studi non saranno condotti, rivestano un ruolo importante nel trattamento dell’ipertensione in pazienti con malattia coronarica nota e in quelli con ipertensione e diabete. La somministrazione perioperatoria di ossigeno riduce l’incidenza di infezione delle ferite chirurgiche Greif R, Akca O, Horn EP, Kurz A, Sessler DI. Supplemental perioperative oxygen to reduce the incidence of surgical-wound infection. Outcomes Research Group. N Engl J Med 2000;342:161-7. L’infezione delle ferite è una complicanza post-chirurgica frequente, talora grave ed economicamente costosa. Circa il 5% dei pazienti sottoposti ad intervento operatorio e il 10-20% di quanti si sottopongono a chirurgia colorettale vanno incontro a infezioni delle ferite. La distruzione mediante ossidazione, o killing ossidativo, è la più importante difesa contro gli agenti patogeni chirurgici ed è dipendente dalla pressione parziale di ossigeno nei tessuti contaminati. Un metodo semplice per migliorare la tensione di ossigeno in tessuti adeguatamente perfusi è quello di aumentare la concentrazione dell’ossigeno inspirato. A partire da questa evidenza, è stato progettato uno studio per verificare se la somministrazione supplementare di ossigeno durante il periodo perioperatorio fosse in grado di ridurre l’incidenza di infezione delle ferite chirurgiche. Sono stati arruolati 500 pazienti da sottoporre a resezione colorettale e, per randomizzazione, 250 sono stati assegnati a ricevere ossigeno inspirato BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 al 30% (gruppo 1) e 250 ossigeno all’80% (gruppo 2) nel corso dell’intervento chirurgico e durante le due ore successive. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una profilassi antibiotica. Utilizzando un protocollo in doppio cieco, si è proceduto a valutare le ferite ad intervalli giornalieri fino alle dimissioni del paziente e, in seguito, durante una visita di controllo eseguita due settimane dopo l’intervento. Sono state considerate infette le ferite caratterizzate da pus con coltura positiva. Il momento in cui asportare i punti di sutura e la data delle dimissioni dall’ospedale sono stati stabiliti dal chirurgo, che non era a conoscenza del gruppo di trattamento di appartenenza del paziente. La saturazione di ossigeno del sangue arterioso è risultata normale in entrambi i gruppi; tuttavia, la pressione parziale arteriosa e sottocutanea di ossigeno è risultata significativamente maggiore nei pazienti del gruppo 2 rispetto ai pazienti del gruppo 1. Tra i 250 soggetti del gruppo 2, 13 (5,2%) hanno presentato infe- zione delle ferite chirurgiche rispetto a 28 del gruppo 1 (11,2%). Si è pertanto osservata una riduzione relativa del rischio di infezione tra i due gruppi dello studio di oltre il 50%, con una riduzione assoluta pari al 6% (IC 95%: 1,2% ÷ 10,8%). La durata della degenza ospedaliera è risultata simile nei due gruppi. In conclusione, lo studio evidenzia che la somministrazione perioperatoria di ossigeno supplementare può essere un metodo pratico per ridurre l’incidenza delle infezioni delle ferite chirurgiche. Altri fattori che influiscono in modo certo o probabile sulla frequenza delle infezioni operatorie sono: profilassi antibiotica, durata dell’intervento chirurgico, meccanismi di difesa dell’ospite, utilizzo di aria ultrafiltrata in sala operatoria, temperatura corporea del paziente in sala operatoria, presenza di ipovolemia, di diabete mellito e di adiposità del paziente, il suo stato nutrizionale, l’impiego di trasfusioni di sangue. L’importanza di ciascun fattore, tuttavia, è difficile da determinare. 29 FARMACOVIGILANZA FARMACOVIGILANZA Cisapride: limitate le indicazioni terapeutiche e prescrizione riservata ai centri ospedalieri L’uso di cisapride è stato correlato con l’insorgenza di gravi disturbi del ritmo cardiaco (tachicardia e fibrillazione ventricolari, torsioni di punta e prolungamento del tratto QT) e decessi. La maggior parte dei pazienti che ha presentato aritmie da cisapride era già portatore di disturbi predisponenti, come, ad es., storia di prolungato allungamento del tratto QT o di aritmie ventricolari, insufficienza renale, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca congestizia, squilibri elettrolitici non corretti e insufficienza respiratoria. Il rischio aumenta in caso di uso concomitante di farmaci in grado di prolungare il tratto QT, di inibire il citocromo P450 o di determinare la deplezione di elettroliti sierici (v. anche BIF 3/98, pag. 31). A causa di tali gravi effetti, negli USA la ditta produttrice Janssen ha volontariamente ritirato dal commercio le specialità a base di cisapride a partire dal 14 luglio 2000. 1 In Europa, il Committee for Proprietary Medicinal Products (CPMP) – presso la European Medicines Evaluation Agency (EMEA) – in data 14 giugno 2000 ha raccomandato la restrizione delle indicazioni delle specialità medicinali contenenti come principio attivo la cisapride. Alla luce di tali iniziative internazionali, il 28 luglio u.s. il Ministero della Sanità (Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza), visto anche il parere espresso dalla CUF, ha decretato che le uniche indicazioni per le specialità a base di cisapride siano: gastroparesi negli adulti e malattia da reflusso gastroesofageo nella prima infanzia1. Inoltre, la dispensazione di specialità a base di cisapride è soggetta alla presentazione di ricetta medica da rinnovarsi volta per volta rilasciata da centri ospedalieri. Attualmente la commercializzazione è stata temporaneamente sospesa in Germania e Gran Bretagna. Il Decreto in oggetto è in corso di pubblicazione nella GU. Approfondimenti in merito saranno pubblicati prossimamente su questo Bollettino. Prodotti a base di iperico (Hypericum perforatum): rischio di interazioni con altri medicinali Caro Dottore, Le scriviamo per segnalarle alcune recenti informazioni provenienti dalla European Medicines Evaluation Agency (EMEA), inerenti il rischio di interazioni tra preparazioni a base di iperico (Hypericum perforatum) ed altri farmaci, probabilmente correlate all’induzione di alcuni isoenzimi del citocromo P450. Prodotti a base di iperico sono presenti sia come prodotti erboristici sia come specialità medicinali. Sono stati riportati casi di significativa riduzione dei livelli plasmatici di indinavir, farmaco inibitore della proteasi dell’HIV, dovuta all’induzione dell’isoenzima 3A4 del citocromo P450 da parte dei principi attivi contenuti nelle preparazioni a base di iperico. Ciò potrebbe portare ad una riduzione dell’efficacia terapeutica e al possibile sviluppo di resi- 30 stenza da parte del virus. Al momento non sono disponibili dati sull’interazione con altri farmaci antiretrovirali, tuttavia, è probabile che essa possa avvenire con altri inibitori della proteasi e con gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa. Inoltre, nell’ultimo anno sono divenute disponibili informazioni sulle interazioni tra prodotti a base di iperico e warfarin, ciclosporina, teofillina e digossina. Anche queste interazioni sono dovute al fatto che i prodotti a base di iperico inducono alcuni isoenzimi del citocromo P450 responsabili del metabolismo dei farmaci, come ad esempio 1A2, 3A4 e 2C9 (v. Tabella allegata), con conseguente riduzione dei livelli plasmatici e, quindi, dell’efficacia terapeutica dei medicinali somministrati contemporaneamente. Se, in base a ciò, si ricorresse ad un aumento delle dosi di questi medicinali, tali dosi risulterebbero poi eccessive per il ritorno alla norma del metabolismo dei farmaci – prima accelerato – una volta cessato l’uso dei prodotti a base di iperico. Quindi non si raccomanda di aggiustare il dosaggio dei farmaci assunti assieme all’iperico, ma più semplicemente di evitare l’uso di prodotti a base di iperico quando si seguono altre terapie. Sono stati riportati anche casi di ripresa del ciclo mestruale, con perdita dell’effetto anticoncezionale, quando si assumono prodotti a base di iperico insieme a contraccettivi orali. Si invitano gli operatori sanitari italiani a monitorare attentamente gli effetti indesiderati delle preparazioni a base di iperico, con particolare riguardo alle possibili interazioni, ed a segnalarli prontamente alle Autorità Sanitarie. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 FARMACOVIGILANZA Principali farmaci metabolizzati da isoenzimi del citocromo P450 inducibili da preparazioni a base di Hypericum perforatum Principio attivo Estradiolo Activelle, Armonil, Biormon, Climara, Climen, Dermestril, Epiestrol, Estracomb TTS, Estraderm MX, Estraderm TTS, Estroclim, Estrofem, Femoston, Femseven, Filena, Gravibinan, Gynodian Depot, Kliogest, Menorest, Menovis, Nuvelle, Progynon Depot, Progynova, Systen, Tesor-C, Trisequens, etc.; disponibile anche come generico Imipramina Teofillina Tofranil; disponibile anche come generico Aminomal, Aminomal Elisir, Aminophilline, Diffumal, Euphyllina, Frivent, Paidomal, Respicur, Tefamin, Teobid, Theo Dur, Theo-24, Theolair, Unidur, etc.; disponibile anche come generico (aminofillina) Coumadin CYP1A2 Warfarin Fenitoina Aurantin, Dintoina, Dintoinale, Gamibetal Complex, Metinal Idantoina, etc.; disponibile anche come generico Tolbutamide Glucosulfa Torasemide Diuremid, Diuresix, Toradiur, etc. Carbamazepina Tegretol Chinidina Chinteina, Longachin, Naticardina, Natisedina, Ritmocor, etc.; disponibile anche come generico Ciclosporina Sandimmun, Sandimmun Neoral Digossina Lanoxin, Eudigox, Digomal, Cardioreg, etc.; disponibile anche come generico Diltiazem Altiazem, Angidil, Angipress, Angizem, Carzem, Citizem, Diladel, Dilem, Diliter, Dilzene, Etyzem, Longazem, Tiakem, Tildiem, Zilden, etc.; disponibile anche come generico Eritromicina Eritrocina, Eritrocist, Erytrociclin, Ilosone, Lauromicina, Rubrociclina, etc.; disponibile anche come generico Etinilestradiolo Diane, Dueva, Egogyn 30, Eugynon, Evanor D, Fedra, Garcial, Ginoden, Harmonet, Mercilon, Microgynon, Milvane, Minulet, Novogyn, Ovranet, Planum, Practil 21, Securgin, Trigynon, Triminulet, Trinordiol, Trinovum, etc.; disponibile anche come generico Flutamide Drogenil, Eulexin, etc.; disponibile anche come generico Losartan Hizaar, Lortaan, Losaprex, Losazid, Neo-Lotan Plus, Neo-Lotan, etc. Nifedipina Adalat Crono, Adalat, Anifed, Bionif, Citilat, Coral, Fenidina, Mixer, Nifedicor, Nifedin, Nifesal, Niften, Nipin, etc.; disponibile anche come generico Steroidi In generale, tutti i medicinali a base di principi attivi a struttura steroidea Tacrolimus Prograf Tamoxifene Kessar, Ledertam, Nolvadex, etc. Paclitaxel Taxol Docetaxel Taxotere CYP2C9 CYP3A4 Specialità ad uso sistemico commercializzate in Italia BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 31 DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA Questa rubrica intende portare all’attenzione dei lettori alcuni studi clinici apparsi in letteratura, particolarmente rilevanti per il riflesso che possono avere nella pratica della medicina. La presentazione degli studi sarà in forma sintetica e terrà conto anche delle obiezioni, critiche e rilievi che faranno seguito alla loro pubblicazione. Helicobacter pylori e dispepsia non ulcerosa Titolo L’eradicazione di Helicobacter pylori non apporta alcun beneficio ai pazienti affetti da dispepsia non ulcerosa. (Titolo originale: Absence of benefit of eradicating Helicobacter pylori in patients with nonulcer dyspepsia) Autori Nicholas J. Talley, Department of Medicine, University of Sydney, Nepean Hospital, Penrith, New South Wales 2751, Australia Nimish Vakil, University of Wisconsin Medical School, Milwaukee E. David Ballard II, Department of Family Medicine, Bethesda Hospital, Cincinnati M. Brian Fennerty, Oregon Health Sciences University, Portland Rivista The New England Journal of Medicine:1999;341:1106-11 Sponsor Abbott Laboratories and Astra Merck, USA Problema clinico sollevato Tra infezione da Helicobacter pylori (H. pylori) e dispepsia non ulcerosa esiste un rapporto di coincidenza o di causalità? L’eradicazione dell’Helicobacter porta a remissione dei sintomi dispeptici? Contesto e motivazione della ricerca In molti pazienti, che si rivolgono al medico per dolori o altri disturbi localizzati nell’alto addome indicativi di una malattia peptica, non è poi evidenziata, all’indagine endoscopica o radiologica, la presenza di ulcera o di altra patologia gastrica. Tale condizione, caratterizzata da sintomi fastidiosi più o meno ricorrenti alle prime vie digerenti in assenza di lesione organica significativa, è denominata dispepsia non ulcerosa o funzionale. 32 Ad almeno il 50% dei soggetti seguiti in medicina di base per questo tipo di disturbi è diagnosticata una dispepsia funzionale (1,2) e, pur se per il 30% circa risultano H. pylori-positivi, è controverso se debbano essere o meno sottoposti a trattamento eradicante. Nel 1994, una Consensus Conference dei National Institutes of Health degli Stati Uniti si è pronunciata contro l’impiego della terapia antinfettiva a causa della mancanza di evidenze circa la sua utilità (3). Più di recente, da parte di altri gruppi di esperti di Nord America, Europa e Australia è stata cautamente, anche se non all’unanimità, sostenuta l’opportunità di trattare i pazienti con dispepsia funzionale caso per caso (4-7). Per valutare l’efficacia del trattamento dell’infezione da H. pylori in pazienti con dispepsia non ulcerosa, sono stati già condotti molti studi, che però appaiono quantomeno discutibili sul piano metodologico e presentano risultati poco chiari e contraddittori (8). Poco più di un anno fa sono apparsi nello stesso numero del New England Journal of Medicine due studi ben disegnati, ma ancora con risultati tra loro conflittuali (9,10). I quesiti aperti sono dunque di particolare importanza. Tra infezione da H. pylori e dispepsia funzionale esiste un rapporto di coincidenza o di causalità? Di fronte a tale condizione, che cosa conviene fare? E’ opportuno sottoporre i pazienti dispeptici a trattamento con antibiotici, come si fa con la malattia ulcerosa? Se invece esiste la dimostrazione che la triplice terapia (v. oltre: Trattamento) determina un limitato o nessun beneficio, che senso ha un intervento che può provocare effetti indesiderati, creare resistenze e avere un considerevole risvolto economico? Lo studio in oggetto, randomizzato, in doppio cieco, controllato vs placebo con follow up di 12 mesi, è stato progettato per rispondere a questi quesiti. Disegno dello studio Doppio cieco, randomizzato, controllato vs placebo su pazienti degli Stati Uniti. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA Popolazione studiata 337 pazienti con dispepsia non ulcerosa e H. pyloripositivi sono stati randomizzati in due gruppi: 170 nel gruppo trattato con terapia eradicante (74 uomini), 167 nel gruppo placebo (67 uomini). Criteri di inclusione Nello studio sono stati inclusi pazienti di età compresa tra 18 e 65 anni con dispepsia da almeno tre mesi (definita come dolore o fastidio localizzato nell’alto addome), endoscopia normale di esofago, stomaco e duodeno, positivi all’H. pylori dopo apposito test. I sintomi dispeptici, valutati durante i sette giorni precedenti l’inizio del trattamento (periodo di run in), dovevano essere presenti per almeno tre giorni (pena l’esclusione dallo studio). Criteri di esclusione Esofagite da reflusso, esofago di Barrett, ulcera gastrica o duodenale cronica, erosioni duodenali o esofagee, cancro, più di cinque erosioni gastriche all’esame endoscopico superiore. Esclusi anche i pazienti che presentavano in modo predominante bruciore o sintomi riferiti a sindrome da intestino irritabile. Vietata l’assunzione di farmaci per il trattamento dei sintomi dispeptici durante il periodo di run in e per l’eradicazione dell’H. pylori durante i 30 giorni antecedenti l’inizio dello studio. Trattamento I pazienti positivi all’urea breath test e con sintomi di dispepsia durante il periodo di run in sono stati sottoposti ad indagine endoscopica il giorno prima della randomizzazione. 170 pazienti sono stati assegnati a trattamento per 14 giorni consecutivi con 20 mg di omeprazolo, 1.000 mg di amoxicillina e 500 mg di claritromicina (triplice terapia), tutti due volte al giorno; 167 pazienti sono entrati nel gruppo placebo. L’aderenza al trattamento (compliance) è stata eccellente. Follow up Dopo la conclusione del trattamento, tutti i pazienti sono stati seguiti per un anno, con visite programmate alla 4a-6a settimana e a 3, 6, 9, 12 mesi. Una scheda previamente standardizzata secondo una scala di quattro valori (da 0 a 3), e compilata dai pazienti, insieme ad una Gastrointestinal Symptom Rating Scale, utilizzata in modo retrospettivo per valutare i sintomi nella settimana precedente le visite programmate, hanno permesso di seguire l’andamento dei pazienti dispeptici nell’anno di follow up e di classificare la loro dispepsia in base alla sintomatologia prevalente. Alla 4a-6a settimana e dopo 12 mesi è stato eseguito un’urea breath test; a 12 mesi è stata anche eseguita un’endoscopia allo stomaco con duplice prelievo bioptico. E’stata pure valutata la qualità della vita dei pazienti al momento del loro inserimento nello studio e in occasione della visita finale, dopo un anno. Durante l’anno di follow up è stato dispensato, ad ogni visita, un antiacido con debole capacità neutralizzante (idrossido di alluminio, idrossido di magnesio, BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 simeticone) e ne è stato registrato l’eventuale impiego. Risultati Il trattamento veniva considerato efficace se un paziente non riportava più di un lieve dolore o fastidio nell’alto addome durante i sette giorni precedenti la visita finale, eseguita al termine dei 12 mesi di follow up; inefficace se un paziente assumeva farmaci per la dispepsia (oltre gli antiacidi) nei 30 giorni precedenti la visita conclusiva. In caso di pazienti i cui sintomi non erano stati valutati a 12 mesi, ma alla visita eseguita alla 4a-6a settimana o in quelle previste successivamente, al posto dei risultati della visita conclusiva venivano utilizzati quelli più recenti. Al controllo eseguito a 4-6 settimane (urea breath test), la quota di eradicazione dell’H. pylori è risultata del 2% (3 casi su 139) nel gruppo placebo e del 90% tra i pazienti sottoposti a triplice terapia (121 casi su 135). I dati sono risultati incompleti per 7 pazienti. A 12 mesi, all’urea breath test e alla valutazione istologica, le percentuali furono rispettivamente del 5% (6 pazienti su 119) e dell’80% (78 pazienti su 98; 19 indeterminati). Nell’86% dei pazienti sottoposti a trattamento attivo è stata osservata, a 12 mesi, una completa risoluzione di gastrite attiva (cellule polimorfonucleate), contro l’8% del gruppo placebo. Un miglioramento di gastrite cronica (cellule mononucleate) è stato riscontrato nel 67% dei pazienti trattati con la triplice terapia e nel 18% del gruppo placebo. A 12 mesi, l’efficacia del trattamento (definita come presenza di dolore o fastidio lievi) è stata evidenziata nel 46% dei pazienti sottoposti a triplice terapia e nel 50% dei pazienti del gruppo placebo (IC 95%: 0,73 ÷ 1,18). La percentuale di successo a 12 mesi è stata del 48% tra i pazienti H. pylori-negativi e del 49% tra quelli H. pylori-positivi. Nessuna differenza significativa dei sintomi è stata riscontrata tra i due gruppi in ogni momento del follow up. Anche le percentuali di esiti favorevoli sono apparse simili quando i pazienti sono stati analizzati in rapporto al tipo di dispepsia (simil-ulcerosa, tipo reflusso gastro-esofageo e motoria). Del tutto simile è risultata la qualità della vita nei due gruppi di trattamento. La visita al 12° mese di follow up ha evidenziato la presenza di ulcera duodenale nel 2% dei pazienti sottoposti a trattamento attivo e nel 4% di quelli trattati con placebo. Il tasso di insorgenza di ulcera gastrica durante il follow up è risultato uguale nei due gruppi (2%). Le evidenze più importanti che emergono dallo studio ➢ In base ai risultati dello studio non trova conferma l’ipotesi di una correlazione causale tra infezione da H. pylori e dispepsia non ulcerosa. ➢ La terapia eradicante (omeprazolo, amoxicillina, claritromicina) ha determinato una percentuale assai elevata di risoluzioni dell’infezione da H. pylori, della gastrite attiva e della gastrite cronica; nonostante ciò, non si è dimostrata in grado di eliminare i sintomi della dispepsia non ulcerosa. 33 Bibliografia DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA 1. 2. 3. 4. Richter JE. Dyspepsia: organic causes and differential characteristics from functional dyspepsia. Scand J Gastroenterol Suppl 1991;182:11-6. Heikkinen M et al. Etiology of dyspepsia: four hundred unselected consecutive patients in general practice. Scand J Gastroenterol 1995;30:519-23. NIH Consensus Development Panel on Helicobacter pylori in peptic ulcer disease. Helicobacter pylori in peptic ulcer disease. JAMA 1994;272:65-9. American Gastroenterological Association medical position statement: evaluation of dyspepsia. Gastroenterology 1998;114:579-81. 5. 6. 7. 8. Hunt RH, Thompson ABR. Canadian Helicobacter pylori consensus conference. Can J Gastroenterol 1998;12:31-41. Malfertheiner P et al. Current European concepts in the management of Helicobacter pylori infection — the Maastricht Consensus report. Eur J Gastroenterol Hepatol 1997;9:1-2. Lam SK, Talley NJ. Report of the 1997 Asia Pacific Consensus Conference on the management of Helicobacter pylori infection. J Gastroenterol Hepatol 1998;13:1-12. Talley NJ. A critique of therapeutic trials in Helicobacter pylori-positive functional dyspepsia. Gastroenterology 1994;106:1174-83. Spesa nazionale per inibitori della pompa acida e per anti-H2: 1997- stima 2000 Sono stati considerati i dati di vendita dei due gruppi di farmaci -inibitori della pompa acida e anti-H2- che rappresentano oltre il 90% del mercato degli antiulcera di fascia A e B (il rimanente 10% è da attribuirsi a sucralfato, misoprostolo, sali di bismuto). Si tratta di un mercato in progressiva crescita (+22% nel 2000* vs 1997) anche se il trend per le due categorie di farmaci considerate non risulta lineare; infatti la spesa per anti-H2 nel 2000 rispetto al 1997 è diminuita del 25% mentre quella per gli inibitori di pompa ha fatto registrare nello stesso periodo un aumento del 69%. (*): la stima 2000 è stata effettuata sulla base dei dati del primo quadrimestre. 34 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA Obiezioni, critiche, rilievi allo studio Risposta degli Autori Gli autori dello studio concordano con l’autore della lettera (1). Il beneficio sintomatico registrato in alcuni studi europei in pazienti con dispepsia non ulcerosa dopo eradicazione dell’H. pylori è probabilmente spiegato, almeno in parte, dall’inclusione di pazienti sia con ulcera peptica non riconosciuta che con diatesi ulcerosa (6). E’ probabile che questo effetto sia BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 osservabile in Paesi in cui la prevalenza ambientale della malattia ulcerosa dovuta a infezione da H. pylori è notevolmente elevata (ad es., Scozia e Irlanda), e il disegno dello studio dovrebbe tenere conto di questo bias potenziale. Poiché il beneficio dell’eradicazione dell’H. pylori in pazienti con malattia ulcerosa è fuori da ogni discussione, è stato deliberatamente deciso di non contaminare i risultati della ricerca sulla dispepsia non ulcerosa includendovi pazienti con ulcere. I criteri di selezione della coorte di pazienti arruolati sono simili a quelli utilizzati in studi sulla dispepsia non ulcerosa condotti in vari Paesi (6,7). I risultati dello studio concordano inoltre con quelli di un’altra ricerca recentemente condotta negli USA (8). Bibliografia In una lettera inviata all’Editore (1) si sottolinea che i risultati dello studio sono inusuali per quanto concerne il beneficio assai modesto che denotano nell’insorgenza della malattia ulcerosa dopo eradicazione dell’infezione da H. pylori. La percentuale di pazienti in cui nell’arco di 12 mesi si sono manifestate ulcere gastriche o duodenali è stata del 4% nel gruppo trattato con terapia eradicante e del 6% nel gruppo placebo, mentre in altri studi sulla dispepsia non ulcerosa l’eradicazione dell’H. pylori aveva determinato effetti ben più rimarcati. Ad esempio, nello studio di Blum et al. (2), sono comparse ulcere nel 6% dei pazienti sottoposti a placebo, ma solo nell’1% di quelli trattati con terapia eradicante. Studi in precedenza condotti sulla malattia ulcerosa avevano dimostrato che l’infezione da H. pylori ha un ruolo causale meno rilevante negli USA che in altre parti del mondo, forse perché negli USA si assiste ad un più elevato impiego di antinfiammatori non steroidei. Il beneficio sintomatico dell’eradicazione dell’H. pylori in pazienti con dispepsia funzionale può essere correlato alla prevalenza ambientale della malattia ulcerosa da H. pylori nella popolazione studiata. Irlanda del Nord, Irlanda del Sud e Scozia presentano un’elevata prevalenza di malattia ulcerosa da H. pylori e studi effettuati in ognuno di questi Paesi hanno evidenziato un beneficio sintomatico dopo eradicazione dell’H. pylori in pazienti con endoscopia normale di esofago, stomaco e duodeno (3-5). A causa delle differenze geografiche e nazionali all’origine sia della malattia ulcerosa che della dispepsia funzionale, il trattamento che risulta utile in un Paese potrebbe dimostrarsi inefficace in un altro. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. McColl KEL. Absence of benefit of eradicating Helicobacter pylori in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 2000;342:589. Blum AL et al. Lack of effect of treating Helicobacter pylori infection in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 1998;339:1875-81. McColl K et al. Symptomatic benefit from eradicating Helicobacter pylori infection in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 1998;339:1869-74. Gilvarry J et al. Eradication of Helicobacter pylori affects symptoms in non-ulcer dyspepsia. Scand J Gastroenterol 1997;32:535-40. Heaney A et al. A prospective randomised trial of a “test and treat” policy versus endoscopy based management in young Helicobacter pylori positive patients with ulcer-like dyspepsia, referred to a hospital clinic. Gut 1999;45:18690. Xia HH et al. Helicobacter pylori eradication in patients with nonulcer dyspepsia. Drugs 1999;58:785-92. Talley NJ et al. Efficacy of omeprazole in functional dyspepsia: double-blind, randomized, placebo-controlled trials (the Bond and Opera studies). Aliment Pharmacol Ther 1998;12:1055-65. Greenberg PD et al. Lack of effect of treatment for Helicobacter pylori on symptoms of nonulcer dyspepsia. Arch Intern Med 1999;159:2283-8. In una seconda lettera di autori italiani, F. Perri e A. Andriulli, (1) si sottolinea che quanto è affermato nella conclusione dello studio - che non si ha beneficio con l’eradicazione dell’H. pylori in pazienti con dispepsia funzionale - può trarre in inganno in quanto, sulla base dei dati riportati, appare quantomeno evidente un miglioramento istologico della gastrite. Non è chiaro se tale miglioramento determini la remissione dei sintomi dispeptici anche se, in un precedente studio, Talley et al avevano evidenziato una correlazione positiva tra miglioramento della gastrite e remissione dei sintomi (2). Inoltre, nello studio attuale appare raddoppiata (anche se il dato non è significativo) la percentuale di ulcera duodenale a 12 mesi. Ciò suggerisce che l’eradicazione dell’H. pylori può risultare vantaggiosa in un sottogruppo di pazienti con dispepsia non ulcerosa. Gli autori della ricerca avevano stabilito che, in caso non fosse possibile valutare i sintomi a 12 mesi e gli stessi fossero stati valutati alla visita effettuata alla 4a-6a settimana o successivamente, al posto dei risultati della visita conclusiva si utilizzassero quelli più recenti. Gli autori riportano dati conclusivi sullo stato dell’H. pylori alla visita di 12 mesi solamente per 217 pazienti; 19 (tutti nel gruppo sottoposto a trattamento attivo) presentano risultati indeterminati. Di conseguenza, 57 dei 274 pazienti valutati alla visita effettuata a 4-6 settimane o si sono persi durante il follow up o il loro stato relativo all’H. pylori alla visita dei 12 mesi non è chiaro. Nonostante ciò, questi pazienti sono stati inclusi nell’analisi finale. La quota di trattamenti efficaci è stata determinata estrapolando i valori sintomatici a 12 mesi da quelli registrati alla visita alla 4a-6a settimana o in quelle successive. Questi dati possono essere imprecisi, in quanto i sintomi possono essersi sostanzialmente modificati dopo l’ultima visita. La quota di drop out (soggetti che non hanno completato lo studio) nel gruppo di pazienti ancora considerati H. pylori-positivi a 12 mesi era dell’11% (17 pazienti su 150), rispetto al 32% (40 su 124) del gruppo di pazienti considerati H. pylori-negativi. E’ possibile che i pazienti in cui l’infezione è stata curata abbiano presentato un sostanziale miglioramento dei sinto- 35 DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA Risposta degli Autori Da parte degli autori della lettera si afferma che i risultati dello studio sono in parte ingannevoli a causa del miglioramento istologico della gastrite dopo terapia eradicante. Tuttavia, con l’eradicazione efficace dell’H. pylori tale miglioramento era atteso, e questa critica dimentica che, a 12 mesi, la percentuale di risoluzione dei sintomi tra i pazienti sottoposti a trattamento attivo non è stata significativamente maggiore rispetto a quella del gruppo placebo, nonostante il miglioramento istologico riscontrato nel gruppo sottoposto a triplice terapia. È vero che in uno studio precedente era stata eviden- ziata una correlazione significativa tra completa risoluzione della gastrite e miglioramento dei sintomi in pazienti con dispepsia non ulcerosa, ma questa era un’analisi secondaria (2), ed era possibile che il risultato non fosse confermato dallo studio attuale, in cui è stata testata l’ipotesi. Gli autori della lettera esprimono inoltre perplessità sul fatto che, nell’analisi dei dati, siano stati utilizzati quelli più recenti nel caso non fossero disponibili i risultati della visita conclusiva, a 12 mesi. Questa è una tecnica normalmente accettata quando si è di fronte al problema di dati mancanti. La percentuale di successo (definito come dispepsia di grado lieve o del tutto assente) in 210 pazienti, di cui erano disponibili i dati completi sullo stato dell’H. pylori e sui sintomi a 12 mesi, è stata del 46% (44 pazienti su 95) nel gruppo sottoposto a terapia eradicante e del 52% (60 su 115) nel gruppo placebo (p=0,41). Questi risultati sono altamente compatibili con l’originale analisi intention to treat. La quota di drop out dovuta a mancanza di disponibilità di dati relativi ai sintomi è risultata simile nei due gruppi: 32 pazienti su 150 nel gruppo sottoposto a trattamento attivo e 25 su 143 nel gruppo placebo. E’ pertanto improbabile che il non completamento dello studio sia dovuto alla risoluzione dei sintomi in seguito a trattamento attivo, per cui le conclusioni originali sono riconfermate dagli autori dello studio. Bibliografia mi e siano stati meno disponibili, rispetto ai pazienti con infezione persistente, a completare la parte di follow up dello studio. Qual è stata la percentuale di trattamenti efficaci nei 217 pazienti il cui stato dell’H. pylori e i valori dei sintomi sono stati effettivamente valutati a 12 mesi? 1. Perri F, Andriulli A. Absence of benefit of eradicating Helicobacter pylori in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 2000;342:583. 2. Talley NJ et al. Eradication of Helicobacter pylori in functional dyspepsia: randomised double blind placebo controlled trial with 12 months follow up. The Optimal Regimen Cures Helicobacter Induced Dyspepsia (ORCHID) Study Group. BMJ 1999;318:833-7. Commento a cura del Comitato di Redazione del Bollettino d’Informazione sui Farmaci È stato chiaramente dimostrato che l’eradicazione dell’H. pylori mediante brevi regimi di antibiotici è, di norma, in grado di curare l’ulcera peptica e di prevenirne le ricadute. Questo straordinario risultato è stato estrapolato all’ipotesi di un possibile beneficio dell’eradicazione dell’H. pylori nella dispepsia non ulcerosa. Nel 1999, in Europa (1), Nord America (2) e in altri Paesi (3) sono state proposte strategie di eradicazione dell’H. pylori in pazienti con dispepsia non ulcerosa a partire da alcuni dati desunti da studi di piccole dimensioni, non randomizzati, con follow up brevi, oppure basati su meta-analisi di tali studi. Tra dicembre 1998 e maggio 2000 sono comparsi in letteratura cinque studi metodologicamente ben condotti (6-10), che hanno affrontato il problema dell’eradicazione dell’H. pylori nella dispepsia non ulcerosa in modo più organico e approfondito. I risultati portano a conclusioni di altro segno, tanto da indurre a riconsiderare l’intera materia. 36 Oltre a quella riportata in questa rubrica, sono state condotte tre altre sperimentazioni sostanzialmente simili per tipo di trattamento del gruppo attivo (breve ciclo di due antibiotici orali a largo spettro più omeprazolo), per numero e caratteristiche dei pazienti (circa 300 in ogni studio, con test positivo all’H. pylori e diagnosi di dispepsia non ulcerosa formulata dopo endoscopia gastrointestinale superiore), per disegno sperimentale (doppio cieco randomizzato e controllato vs placebo), per end point principali (presenza o meno di sintomi dispeptici alla visita conclusiva dopo un anno di follow up dal trattamento). I principali risultati sono sinteticamente riportati nella Tabella 1. Come si può osservare, la percentuale complessiva di frequenza della dispepsia ad un anno non risulta statisticamente diversa tra gruppi sottoposti a trattamento eradicante (70%) e gruppi di controllo (75%). Un quinto studio (10) ha valutato l’effetto eradicante l’H. pylori sulla dispepsia e sulla qualità della vita in una popolazione di età compresa tra 40-49 anni di un’area del territorio inglese ben definito (Leeds e Bradford: 1.200.000 abitanti). Le persone arruolate, positive all’Helicobacter, sono state selezionate da liste di 36 centri di medicina primaria e assegnate, per randomizzazione, per una settimana a trattamento attivo (omeprazolo 20 mg, claritromicina 250 mg e tinidazolo 500 mg, ognuno due volte al giorno: 1.161 soggetti) o a placebo (1.163 soggetti). I partecipanti allo studio sono stati seguiti e valutati a sei mesi e a due anni. Tra quanti si sono presentati a quest’ultima data, dispepsia o sintomi di reflusso gastro-esofageo sono stati riportati in 247 individui su 880 (28%) del gruppo trattato con terapia eradicante e 291 su 871 (33%) del gruppo placebo (riduzione assoluta del rischio: 5%; IC 95%: 1%÷10%). In definitiva, lo screening di popolazione e il trattamento eradicante hanno determinato una modesta riduzione della dispepsia, senza alcun impatto sulla qualità di vita dei pazienti. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA È disponibile inoltre in Medline una meta-analisi Cochrane (11) che, includendo sette sperimentazioni, conclude per un possibile beneficio “non robusto” e marginale dell’eradicazione dell’H. pylori sulla dispepsia non ulcerosa. La modestia di questo ipotetico effetto si evince chiara- mente dall’alto numero di dispeptici che andrebbero trattati – 19 – per migliorare i sintomi di uno solo di essi (NNT). Tabella 1. Studi randomizzati di strategie di eradicazione di Helicobacter pylori nella dispepsia non ulcerosa Trial (rif. biblio.) Terapia/durata n. di casi senza remissione/totale (valore %) Gruppo trattato con antibiotici Blum et al. (6) McColl et al. (7) Talley et al. (8) Talley et al. (9) Totale A,C,O/1 settimana A,M,O/2 settimane A,C,O/2 settimane A,C,O/1 settimana 119/164 (73) 121/154 (79) 81/150 (54) 101/133 (76) 422/601 (70) Gruppo di controllo 130/64 (79) 143/154 (93) 71/143 (50) 111/142 (78) 455/603 (75) Bibliografia A=Amoxicillina, C=Claritromicina, M= Metronidazolo, O=Omeprazolo 1. 2. 3. 4. Current European concepts in the management of Helicobacter pylori infection: the Maastricht Consensus Report. Eur J Gastroenterol Hepatol 1997;9:1-2. Talley NJ et al. American Gastroenterological Association: evaluation of dyspepsia. Gastroenterology 1998;114:582-84. Asia Pacific Consensus Conference on the management of Helicobacter pylori infection. J Gastroenterol Hepatol 1998;13:1-12. Laheij RJF et al. Review article: symptom improvement through eradication of Helicobacter pylori in patients with non-ulcer dyspepsia. Aliment Pharmacol Ther 1996;10:843-50. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 5. 6. 7. 8. Jaakkimainen RL et al. Is Helicobacter pylori associated with nonulcer dyspepsia and will eradication improve symptoms? A metaanalysis. BMJ 1999;319:1040-44. Blum AL et al. Lack of effect of treating Helicobacter pylori infection in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 1998;339:1875-81. McColl K et al. Symptomatic benefit from eradicating Helicobacter pylori infection in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 1998;339:1869-74. Talley NJ et al. Absence of benefit of eradicating Helicobacter pylori in patients with nonulcer dyspepsia. N Engl J Med 1999;341:1106-11. 9. Talley NJ et al. Eradication of Helicobacter pylori in functional dyspepsia: randomised double blind placebo controlled trial with 12 months’ follow up. BMJ 1999;318:833-7. 10. Moayyedi P et al for the Leeds HELP Study Group. Effect of population screening and treatment for Helicobacter pylori on dyspepsia and quality of life in the community: a randomised controlled trial. Lancet 2000;355:1665–9. 11. Moayyedi P et al. Eradication of Helicobacter pylori for non-ulcer dyspepsia. Cochrane Database Syst Rev 2000;2:CD002096. 37 ABC DEGLI STUDI CLINICI EDITORIALE Gli end point surrogati In alcuni articoli pubblicati recentemente sul Bollettino di Informazione sui Farmaci è stato usato il termine end point surrogati, distinguendoli dagli end point veri, che sono quelli veramente rilevanti per il paziente (ad es., guarigione di una malattia, prolungamento della sopravvivenza, miglioramento o prevenzione del deterioramento della qualità della vita). Questo articolo è finalizzato a chiarire che cosa si intenda con il termine end point surrogato, perché gli end point surrogati vengono scelti in luogo degli end point veri nelle sperimentazioni cliniche, e come devono essere interpretati i risultati delle sperimentazioni in cui sono stati valutati gli effetti di un trattamento su end point surrogati. Un ricercatore, quando si accinge a impostare il protocollo di una ricerca clinica, deve decidere a priori quali criteri intende adottare per stabilire se il trattamento sperimentale è efficace, in modo da offrire un vantaggio reale ai pazienti a cui verrà prescritto. Medici e pazienti si aspettano che un trattamento riduca la mortalità o altri eventi gravi e invalidanti (per esempio, l’incidenza di infarto miocardico, di ictus cerebrale, di un intervento chirurgico, di ulcera gastrica, di fratture ossee, o la necessità di iniziare la dialisi renale), ma dimostrare la riduzione di tali eventi richiede di dover seguire un gran numero di pazienti, per un lungo periodo di tempo, in attesa che si possa evidenziare una differente incidenza tra i pazienti trattati e quelli di controllo. Oltretutto bisogna affrontare il rischio che, dopo 5 anni e alcuni miliardi investiti nella ricerca, si dimostri che la sopravvivenza è del tutto sovrapponibile nei gruppi a confronto. E’ allora molto più semplice e più rapido accontentarsi di dimostrare che un trattamento: riduce la colesterolemia e non necessariamente l’incidenza di infarto miocardico; la pressione arteriosa e non l’incidenza di ictus; lo spessore delle placche coronariche e non l’incidenza di interventi di bypass aortocoronarici; il tasso ematico della creatinina e non la necessità della dialisi; aumenta la densità ossea e fa diminuire il numero di fratture vertebrali e del collo del femore. Tutti questi obiettivi “minori” (la riduzione di colesterolemia, pressione arteriosa, spessore delle placche, creatininemia o l’aumento della densità ossea) sono appunto considerati end point surrogati, perché vengono utilizzati al posto degli end point veri (1-3). Al medico, che deve decidere se utilizzare un certo farmaco, basta sapere che quel principio attivo agisce nel ridurre un end point surrogato o deve pretendere che il trattamento riduca la mortalità, l’incidenza di eventi gravi e migliori in modo sostanziale la qualità della vita del paziente a cui intende prescriverlo? 38 E se fosse solo un surrogato? A prima vista sembra ragionevole pensare che se l’ipercolesterolemia provoca l’infarto e la morte precoce (come dimostrato da numerosissime ricerche epidemiologiche), ridurre il tasso ematico di colesterolo debba ridurre l’incidenza di infarto e prolungare la sopravvivenza. Sembra ragionevole pensare che se la mortalità dopo infarto è maggiore in coloro che hanno all’Holter aritmie ventricolari non sostenute, ridurre la comparsa di tachicardie ventricolari debba ridurre il numero di morti improvvise. Sembra infine ragionevole pensare che se una bassa frazione di eiezione del ventricolo sinistro è il fattore principale che determina la morte, la stimolazione della capacità contrattile del miocardio debba migliorare la sopravvivenza. In clinica non sempre ciò che è ragionevole è anche vero. Questi tre esempi ci riportano infatti ai risultati di tre ricerche, in cui si era riscontrata (in modo inatteso sulla base delle conoscenze di fisiopatologia allora note) una maggiore mortalità nonostante si fosse ottenuta un’importante riduzione della colesterolemia con clofibrato (4), una riduzione quasi totale delle tachicardie ventricolari con flecainide (5) e un miglioramento della frazione di eiezione con milrinone (6). Se i medici avessero prescritto questi farmaci fidandosi della loro efficacia su end point surrogati, avrebbero indotto una serie di decessi di cui sarebbe stato impossibile individuare la causa. Prendiamo l’esempio della flecainide: dopo circa 10 mesi di trattamento è stata riscontrata una mortalità del 4,5% nei pazienti trattati con il farmaco e dell’1,2% in quelli trattati con placebo. La differenza di decessi è apparsa importante soltanto perché era stata rilevata nell’ambito di una ricerca clinica randomizzata e controllata; nessun medico né alcun centro cardiologico avrebbe infatti potuto accorgersi di una differenza del 3,3% tra pazienti trattati e non trattati. Surrogati o sostituti? Un end point surrogato può essere considerato un reale sostituto dell’end point vero solo se è in grado di predire in modo inequivocabile l’evento maggiore e se è possibile dimostrare che l’intervento sull’end point surrogato modifica sempre anche l’incidenza dell’evento. Sono state esemplificate quattro condizioni in cui un end point surrogato può non essere un affidabile sostituto dell’end point vero (7). Innanzi tutto quello che viene considerato un end point surBIF Mag-Giu 2000 - N. 3 ABC DEGLI STUDI CLINICI Colpevoli o innocenti? Con queste considerazioni non si intende demonizzare il ruolo degli end point surrogati, che è fondamentale nelle fasi iniziali dello sviluppo di una molecola, quando è indispensabile sapere se quel nuovo principio attivo è in grado di ridurre la pressione arteriosa, la colesterolemia, l’escrezione urinaria di proteine, o aumentare la densità ossea. Quando invece si passa alla fase della commercializzazione, siccome lo scopo dei clinici è quello di prolungare la vita dei pazienti e di farli stare meglio e non certo di portare nei limiti della norma alcuni valori ematochimici o alcuni parametri di laboratorio, bisogna essere sicuri, prima di prescrivere un farmaco, che il singolo principio attivo abbia dimostrato una reale efficacia su end point veri. Alcuni autori distinguono gli end point surrogati (una variabile biochimica come l’ipercolesterolemia o patofisiologica come l’ipertensione arteriosa, o una variabile morfologica come l’ipertrofia ventricolare sinistra) dagli end point intermedi, come la frequenza di angina pectoris, i sintomi da iperglicemia, la tolleranza allo sforzo (10). Questi ultimi non sono esattamente end point veri, ma il loro miglioramento rappreBIF Mag-Giu 2000 - N. 3 senta comunque un traguardo importante nella storia naturale di una malattia e un risultato apprezzabile per i pazienti. Considerazioni conclusive Sulla base delle considerazioni che riguardano il ruolo degli end point surrogati l’FDA (l’agenzia americana incaricata di fornire l’approvazione all’immissione in commercio dei farmaci) rifiuta di approvare un farmaco se manca la dimostrazione di un beneficio clinico prodotto dall’effetto su un end point surrogato (11). La CUF ha recentemente deciso di non concedere ad alcuni ACE-inibitori l’indicazione della nefroprotezione, in quanto nelle ricerche con quei farmaci era stata dimostrata una riduzione del tasso di escrezione di albumina e non la riduzione dell’incidenza di dialisi. Non ha concesso ad alcuni bifosfonati l’indicazione nella prevenzione dell’osteoporosi in corso di trattamento con glucocorticoidi, in quanto nelle ricerche era stato dimostrato soltanto un aumento della densità ossea in alcuni distretti e non una riduzione delle fratture. Inoltre, la CUF ha deciso di non concedere ad alcune statine l’indicazione di utilizzo per aumentare il tasso di colesterolo HDL in quanto, pur sapendo che elevati valori di HDL sono correlati a un minor rischio cardiovascolare, non ci sono prove che l’aumento artificiale di quella frazione lipidica riduca l’incidenza di infarto miocardico. Bibliografia rogato è un fattore non coinvolto in modo diretto nel meccanismo patogenetico della malattia (nonostante la nota relazione tra leucocitosi e processo infettivo, non ha senso proporre un farmaco citotossico per trattare una polmonite). In secondo luogo, l’end point surrogato ha un ruolo patogenetico, ma il modificarlo non determina alcun cambiamento sull’evento finale, in quanto un altro meccanismo fisiopatologico è essenziale per lo sviluppo della malattia (l’ipertrigliceridemia ha un ruolo nel processo aterosclerotico, ma finora non è stato dimostrato che ridurre il tasso di trigliceridi riduca l’incidenza di infarto miocardico). In terzo luogo, l’intervento terapeutico agisce su un meccanismo fisiopatologico diverso da quello controllato dall’end point surrogato, che non viene modificato dal trattamento (inizialmente l’efficacia degli agenti antiretrovirali è stata dimostrata sull’aumento dei CD4). Infine, l’efficacia dell’intervento si riscontra per un’azione contemporanea sull’end point surrogato e sull’evento finale, dando l’illusione che modificando il primo si ottenga anche una riduzione del secondo. Spesso infatti il trattamento fornisce risultati non attesi, indotti da meccanismi di azione non conosciuti che sono indipendenti dal processo della malattia. Nel campo dei trattamenti dello scompenso cardiaco si ritiene attualmente che non si possano utilizzare end point surrogati al posto della valutazione diretta degli effetti del farmaco sulla riduzione dei sintomi o della mortalità (8) e che nel campo dell’osteoporosi non ci si possa basare sull’aumento della densità ossea piuttosto che sulla riduzione dell’incidenza di fratture ossee (9). 1. Herson J. The use of surrogate end points in clinical trials. Stat Med 1989;8:403-4. 2. Psaty BM et al. Surrogate end points, health outcomes, and the drug-approval process for the treatment of risk factors for cardiovascular disease. JAMA 1999;282:786-90. 3. Sobel BE, Furberg CD. Surrogate, semantics and sensible politic policy. Circulation 1997;95:1661-3. 4. Oliver MF et al. WHO cooperative trial on primary prevention of ischemic heart disease using clofibrate to lower serum cholesterol: mortality follow-up. Lancet 1980;2:37982. 5. The Cardiac Arrhythmias Suppression Trial (CAST) investigators. Preliminary report: effect of encainide and flecainide on mortality in a randomised trial of arrhythmias suppression after myocardial infarction. N Engl J Med 1989;321:406-12. 6. Packer M et al. Effect of oral milrinone on mortality in severe chronic heart failure. N Engl J Med 1991;325:146875. 7. Fleming TR, DeMets DL. Surrogate end points in clinical trials: are we being misled? Ann Intern Med 1996;125:60513. 8. Lipicky RJ, Packer M. Role of surrogate end points in the evaluation of drugs for heart failure. J Am Coll Cardiol 1993;22(suppl A):179A–84A. 9. Bucher HC et al. Users’ Guide to medical literature. XIX Applying clinical trial results. A: How to use an article measuring the effect of an intervention on surrogate end points. JAMA 1999;282:771-8. 10. Temple R. Are surrogate markers adequate to assess cardiovascular disease drugs? JAMA 1999;282:790-5. 11. Food and Drug Administration Modernization Act § 112,1997. 39 ABC DEGLI STUDI CLINICI Prescrivere in base ai numeri Interpretare con obiettività i dati numerici degli studi clinici - e i risultati che ne derivano - richiede una valutazione attenta del loro significato in relazione a diversi fattori, quali il numero di soggetti coinvolti, l’importanza e la gravità delle patologie considerate e degli eventi misurati nonché la rilevanza in termini di trasferibilità degli effetti osservati. Non sempre, tuttavia, i risultati vengono espressi utilizzando gli indicatori che possono descrivere in modo più immediato l’effettiva validità del trattamento sperimentato. Per evitare di enfatizzare certi risultati è opportuno saper derivare dai dati presentati gli indicatori più idonei per una valutazione più completa e conseguentemente per un’adeguata prescrizione. I risultati degli studi clinici sono spesso presentati in termini di riduzione relativa di rischio (RRR) di eventi sfavorevoli osservata in un gruppo di pazienti sottoposti a trattamento in sperimentazione (EER = Experimental Event Rate) rispetto a un gruppo di controllo (CER = Control Event Rate). La riduzione del rischio relativo, di solito espressa in valore percentuale, è un indicatore che, se non completato da ulteriori elementi di valutazione, può enfatizzare l’efficacia del trattamento al di là del suo significato clinico reale. L’esempio di seguito riportato ne dà spiegazione. Supponiamo che, in uno studio, 10.000 pazienti siano trattati con un farmaco sperimentale e altrettanti (gruppo di controllo) con placebo, e che siano complessivamente evidenziati 1.000 eventi sfavorevoli nel gruppo sperimentale e 2.000 nel gruppo di controllo. La EER è pari al 10% e la CER al 20%. La RRR nel gruppo trattato è del 50%. In un’altra ricerca clinica, in cui uno stesso numero di pazienti è stato sottoposto a trattamento sperimentale o di controllo, si osservano rispettivamente 100 (EER = 1%) e 200 (CER = 2%) eventi sfavorevoli. Anche in questo caso la RRR nel gruppo trattato è del 50%. Lo stesso valore RRR (50%) si ottiene se la EER è pari allo 0,1% (10 casi) e la CER allo 0,2% (20 casi) oppure se la EER è 0,01% (1 evento) e la CER 0,02% (2 eventi). Da tutto ciò deriva che, se la RRR è enucleata dall’incidenza reale dell’evento che in una data condizione clinica si desidera prevenire, è limitatamente significativa e poco utile al medico. La riduzione assoluta del rischio (ARR) è la differenza tra la quota di eventi osservati nel gruppo sperimentale e nel gruppo di controllo. Nei quattro casi citati, mentre la RRR è sempre del 50%, la ARR è, in termini percentuali, rispettivamente del 10%, 1%, 0,1%, 0,01%. Detto in altro modo, rispetto al gruppo di con- 40 trollo, nel primo esempio su 100 pazienti trattati, 10 presentano una riduzione del rischio di eventi sfavorevoli; negli altri tre casi, 1 paziente vedrà il rischio di eventi ridotto rispettivamente ogni 100, 1.000, 10.000 pazienti trattati. Il reciproco della riduzione assoluta del rischio permette di conoscere il numero di pazienti che devono essere trattati per prevenire un evento. Questo è l’NNT (dall’inglese Number Needed to Treat), un indicatore particolarmente utile in campo clinico in quanto offre al medico la possibilità di porre in rapporto l’efficacia del trattamento (espressa dalla RRR) con il rischio dell’evento sfavorevole in assenza di trattamento (CER): è chiaro infatti che un trattamento efficace ha un’utilità clinica tanto maggiore quanto più elevato è il rischio di base. Formule I concetti sopra riportati possono essere trasformati in formule matematiche, come di seguito riportato. Incidenza di EER = numero di eventi nel gruppo sperimentale numero di soggetti del gruppo sperimentale Incidenza di CER = numero di eventi nel gruppo di controllo numero di soggetti del gruppo controllo % RRR = (CER – EER) x 100 CER ARR = CER – EER NNT per prevenire un evento = 1 ARR BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 ABC DEGLI STUDI CLINICI Esempio di applicazione delle formule ai risultati di uno studio clinico Studio Helsinki Heart Study: studio di prevenzione primaria, in doppio cieco, controllato e randomizzato, sull’utilizzo di gemfibrozil in uomini di media età con dislipidemia (Frick MH et al. N Engl J Med 1987;317:1237-45). Risultati Numero di eventi (infarto miocardico fatale o non fatale, morte cardiaca): gruppo gemfibrozil 56, gruppo placebo 84. Calcoli Incidenza di eventi gruppo placebo = 84 = 0,041 (4,1%) 2.030 56 = 0,027 (2,7%) 2.051 Numero di soggetti 4.081 uomini asintomatici, di età compresa tra 40-55 anni, con dislipidemia (colesterolo totale meno HDL > 5,2 mmol/L) Incidenza di eventi gruppo gemfibrozil = Trattamento Gemfibrozil 600 mg due volte al giorno (gruppo sperimentale: 2.051 soggetti) vs placebo (gruppo di controllo: 2.030 pazienti) per la durata di 5 anni. Riduzione assoluta del rischio = (0,041 – 0,027) = 0,014 (1,4%) Riduzione relativa del rischio % = 0,041 – 0,027 = 0,34 (34%) 0,041 NNT per prevenire un evento = 1 = 71 soggetti 0,014 Considerazioni finali 1. I risultati del Helsinki Heart Study mostrano una riduzione relativa del 34% dell’incidenza di eventi nei pazienti trattati con gemfibrozil rispetto ai controlli. Questa espressione, statisticamente corretta (RRR), non riassume però appieno il significato clinico della ricerca. 2. Osservando i risultati numerici della ricerca si rileva infatti che l’incidenza di eventi si è ridotta dal 4,1% nei soggetti trattati al 2,7% nei controlli. La differenza fra le due cifre, pari a 1,4%, rappresenta la riduzione assoluta del rischio (ARR). 3. Detto in altri termini, se si trattano 1.000 pazienti per 5 anni con gemfibrozil si evita il verificarsi dell’evento in 14 di essi; 986 pazienti sono stati trattati per 5 anni senza beneficio. 4. Questo risultato è efficacemente esprimibile con NNT, cioè devono essere trattati per 5 anni 71 pazienti per evitare 1 evento. 5. È stato dimostrato che quando i risultati di uno studio sono espressi solo come RRR, i medici sono indotti ad interpretarli in termini falsamente ottimistici; è pertanto necessario, nella valutazione degli studi terapeutici, esaminare anche la ARR e l’NNT da essa ricavato. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 41 NOTIZIE DAL DIPARTIMENTO EDITORIALE Il collegato alla finanziaria 1998 (Legge 27 dicembre 1997, n. 449) al comma 14 dell’art. 36 ha previsto uno stanziamento di fondi “per iniziative di farmacovigilanza e di informazione degli operatori sanitari sulle proprietà, sull’impiego e sugli effetti indesiderati dei medicinali, nonché per le campagne di educazione sanitaria nella stessa materia”. Il Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza del Ministero della Sanità ha così predisposto il “Programma di informazione sui farmaci, farmacovigilanza ed educazione sanitaria” (di seguito definito “Programma”) che, articolandosi in diverse specifiche attività, si ispira agli obiettivi e agli indirizzi del Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000 e ai principi della Riforma Ter. Informazione sui farmaci ed educazione sanitaria: le iniziative editoriali Tra le varie attività specifiche previste dal Programma e attuate dal Dipartimento, assumono particolare rilevanza quelle rivolte allo sviluppo di una corretta informazione sui farmaci, nell’ambito delle quali si inseriscono alcune importanti iniziative editoriali. Il settore dell’informazione sui farmaci e dell’educazione sanitaria è sicuramente un settore prioritario. Si è voluto perseguire l’obiettivo strategico di promuovere una cultura critica sui farmaci, per garantire una dialettica seria in un settore fortemente complesso e caratterizzato da interessi spesso contrapposti. È infatti noto che in Italia, mancando una tradizione culturale in grado di contrapporre alla promozione del mercato - pur legittima - una informazione pubblica qualificata ed indipendente, il rapporto tra promozione ed informazione scientifica risulta sbilanciato ed asimmetrico, tanto che le attività di marketing finiscono spesso per influenzare le abitudini prescrittive dei medici. In tale contesto il Dipartimento sta realizzando una serie di iniziative editoriali e (in)formative che, nell’intento di riequilibrare il rapporto tra informazione scientifica e promozione, sono tese a stimolare un dialogo diretto tra autorità regolatoria, operatori sanitari, industria farmaceutica e cittadini. Il Bollettino di Informazione sui Farmaci Nell’ambito di una rinnovata politica farmaceutica, che vede il Ministero impegnato in un’azione di maggiore efficienza, tempestività e trasparenza, si è ritenuta necessaria un’iniziativa volta ad assicurare un’informazione più appropriata e completa sui farmaci, destinata agli operatori del SSN ed in particolare alla classe medica. In tale prospettiva si colloca la pubblicazione di questo Bollettino, recentemente rinnovato nei contenuti e nella veste grafica, che intende dare un contributo nel rendere più consapevoli e partecipi i medici prescrittori, i farmacisti e gli operatori sanitari sui principali aspetti dell’assistenza 42 farmaceutica, sulla farmacovigilanza e sulle principali decisioni della CUF. In particolare, l’impegno nella realizzazione del Bollettino vorrebbe rispondere ad alcune fondamentali esigenze: – qualificare l’informazione scientifica tramite articoli facilmente sfruttabili dai lettori ed i cui contenuti possano essere trasferiti nella pratica professionale; – contribuire al miglioramento della pratica professionale dei farmacisti e dei medici, dando un’informazione che consenta loro di svolgere la propria attività in modo altamente professionale e di effettuare una prescrizione razionale, consapevole e basata sulle prove di efficacia; – avviare un processo di collaborazione e di dialogo con medici e farmacisti al fine di garantire la comprensione e la trasferibilità delle decisioni assunte a livello centrale e per superare il distacco, oggi esistente, tra gli organismi regolatori e il mondo della professione. Per il perseguimento degli obiettivi anzidetti, gli articoli del BIF si soffermano sui temi di maggior interesse, quali nuovi farmaci, nuove indicazioni e strategie terapeutiche, effetti collaterali, revisioni, meta-analisi, e gli argomenti vengono spesso presentati in modo comparativo affinché si possano confrontare, ad es., rischi e benefici, nuovi e vecchi farmaci, farmaci della stessa classe, trattamenti farmacologici e non. Il Repertorio Farmaceutico del Servizio Sanitario Nazionale Non esistendo ancora una edizione “istituzionale” da parte del Ministero che comprendesse l’elenco di tutti i farmaci del SSN1, è stata avvertita come prioritaria 1 Tale compito era stato lasciato all’iniziativa privata; sono note, in particolare, due iniziative: l’Informatore Farmaceutico edito da OEMF e il REFI edito da Farmindustria. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 NOTIZIE DAL DIPARTIMENTO l’esigenza di un’edizione predisposta in tal senso dal Dipartimento. Si sta così ultimando la stesura del Repertorio Farmaceutico del SSN, in cui i farmaci sono organizzati per: classe terapeutica, principio attivo, nota CUF e prezzo. L’importanza del Repertorio Farmaceutico del SSN risiede nel fatto che esso è uno strumento fondamentale di ogni farmacista e di ogni medico per poter valutare, nell’ambito delle differenti categorie terapeutiche e delle patologie ad esse correlate, la gamma dei principi attivi disponibili, i medicinali ad essi rispondenti, la loro rimborsabilità, i dosaggi e le confezioni. Tale pubblicazione sarà gratuitamente distribuita a tutti gli operatori sanitari e si caratterizza anche per essere molto maneggevole e di facile consultazione. Successivamente, verrà realizzata un’edizione integrativa per comprendere i farmaci non dispensati dal SSN, ovvero i farmaci di fascia C, quelli senza obbligo di prescrizione (SOP) e i medicinali da banco (OTC). Per i farmaci in rimborsabilità verranno inoltre inseriti i costi della terapia giornaliera e le dosi-definite-die (DDD). In particolare, questi parametri consentono: - ai prescrittori, una valutazione comparativa dei farmaci disponibili e dei costi di terapia per ciascuna categoria terapeutica omogenea; - ai servizi farmaceutici, l’acquisizione di un riferimento metodologico univoco, necessario a garantire l’omogeneità dei dati e la comparabilità delle elaborazioni e delle analisi dell’attività prescrittiva. Edizione italiana del British National Formulary Nel contesto delle iniziative editoriali tese a diffondere una corretta ed appropriata informazione sui farmaci, si inserisce anche un progetto di traduzione in lingua italiana del British National Formulary (BNF), il prontuario commentato per i medici del Servizio sanitario inglese che, dato il suo alto livello scientifico, rappresenta una delle iniziative editoriali più conosciute ed apprezzate in campo medico. L’edizione in lingua italiana assumerà, comunque, una valenza esclusivamente culturale: il testo tradotto non avrà, infatti, alcuna implicazione regolatoria e non impegnerà gli aspetti amministrativi e normativi definiti dal Ministero nel settore dei medicinali. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 Altre iniziative Al fine di promuovere una cultura critica sull’utilizzo dei farmaci e di accrescere la consapevolezza sulle prestazioni del SSN, il Dipartimento sta anche realizzando alcuni opuscoli divulgativi, su specifici temi di interesse. L’intento è quello di avviare una comunicazione chiara e diretta non solo con gli operatori sanitari, ma anche con il cittadino, in modo da fornirgli informazioni utili alla tutela della salute e alla comprensione delle motivazioni, scientifiche ed economiche, che guidano le scelte del SSN nell’erogazione delle prestazioni farmaceutiche. Fra queste iniziative di educazione sanitaria si colloca la stesura di un opuscolo, destinato alle famiglie italiane, sul corretto impiego dei medicinali. Tale opuscolo intende rendere consapevole il cittadino degli aspetti relativi alla difesa della salute, attraverso chiare e semplici informazioni che lo guidino ad un utilizzo appropriato dei farmaci (dall’acquisizione, alla conservazione, allo smaltimento delle confezioni scadute) e lo aiutino a comprendere anche altri aspetti relativi alle prestazioni offerte dal SSN (es., classificazioni dei farmaci, fasce di erogabilità, esenzioni, ticket, spesa farmaceutica in Italia, ecc.). È anche in corso di distribuzione a tutti i medici e farmacisti un opuscolo nel quale è riportato il protocollo di monitoraggio dei piani di trattamento farmacologico per la malattia di Alzheimer. Data la dimensione sociale del problema, che riguarda una parte cospicua della popolazione, questa iniziativa assume una notevole rilevanza. L’opuscolo contiene numerose informazioni relative all’identificazione delle unità di valutazione, al percorso per l’ammissione al trattamento, al programma terapeutico, alla valutazione della risposta, nonché ai criteri di cessazione del trattamento stesso, e si pone come strumento utile a favorire l’integrazione dell’attività dei centri specializzati e dei medici di medicina generale, con l’obiettivo di promuovere la continuità terapeutica ed assistenziale. Per un aggiornamento scientifico in tempo reale e per un dialogo aperto tra medici, cittadini ed esperti del Ministro della Sanità, è disponibile il sito internet: www.alzheimer-cronos.org. 43 FARMACOUTILIZZAZIONE EDITORIALE La spesa farmaceutica nel 2000: andamento nel primo quadrimestre e proiezione a fine anno La Commissione per il monitoraggio della Spesa Farmaceutica, a conclusione della prima fase di lavori per il 2000, ha rilevato, nel primo quadrimestre, un consistente incremento della spesa, tale da far prevedere a fine anno un aumento del 15% sulla spesa 1999 e un significativo sfondamento del tetto programmato (+17% circa). A partire dalla spesa farmaceutica lorda del 1999, la Commissione ha effettuato una stima per l’anno 2000 valutandone gli elementi costitutivi, sulla base dei dati riferiti al primo quadrimestre dell’anno. In particolare, uno dei principali fattori che concorrono al superamento del tetto di spesa, è stato identificato in un aumento generale dei consumi. Si stima, infatti, che tale aumento determini un incremento di spesa del 4% per farmaci in rimborsabilità sia nel 1999 che nel 2000 e dell’1,65% per classi di farmaci ammessi alla rimborsabilità nel corso del 1999. Il peso della multiprescrizione sui consumi, e quindi sulla spesa, è in corso di approfondimento. Un’ulteriore conferma di tale tendenza si evince dall’aumento del numero di ricette prescritte: nel primo quadrimestre 2000, infatti, si è registrato un incremento del 6,7% rispetto al corrispondente periodo del 1999. Gli altri fattori che contribuiscono a determinare un incremento della spesa e che, seppur con pesi diversi, si ripetono costantemente negli ultimi anni, possono essere così schematizzati (v. anche BIF 2000;1:47): – aumento dei prezzi per adeguamento al prezzo medio europeo - PME - (+2,9%); – effetto mix dei consumi, cioè l’impiego di farmaci più recenti e più costosi al posto di altri di minor costo La Commissione per la Spesa Farmaceutica, prevista dall’art. 36, comma 16, della legge n. 449 del 27 dicembre 1997 (“Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”) è stata istituita nel luglio 1998 per consentire all’Amministrazione pubblica la valutazione delle eccedenze della spesa farmaceutica per ciascuna classe terapeutica omogenea, identificando le misure per fronteggiare il superamento del tetto di spesa. Il suddetto comma 16 prevede, infatti, che qualora la spesa per l’assistenza farmaceutica ecceda, secondo proiezioni trimestrali, gli importi stabiliti dall’art. 36, comma 15 della stessa legge, il Ministro della Sanità, avvalendosi di un’apposita commissione da istituire con proprio decreto, che includa una rappresentanza delle aziende del settore e della Commissione Unica del Farmaco, valuti l’entità delle eccedenze per ciascuna classe terapeutica omogenea e identifichi le misure necessarie. e con profili di efficacia e sicurezza sovrapponibili (+4,8%); – incidenza relativamente minore del ticket, stabilito in cifra fissa per confezione, su una spesa lorda aumentata, nonché un minore gettito assoluto del ticket stesso per effetto di un minor prelievo dalla multiprescrizione. Gli elementi costitutivi della previsione di spesa a carico del SSN per l’anno 2000 sono riportati in Tabella 1. Tabella 1. Elementi della proiezione della spesa farmaceutica 2000 a carico del SSN sulla base dei dati di spesa 1999 (in Mld di Lire) Spesa lorda 1999 Effetto mix Aumento dei consumi Adeguamento al PME Estensione alla rimborsabilità di nuovi farmaci o nuove categorie di farmaci Ammissione alla rimborsabilità di altri farmaci (es., per il morbo di Alzheimer, inibitori COX-2) nel corso del 2000 Totale spesa lorda Ticket (8,9%) Sconto (4%) Totale spesa netta 44 16.970 + 815 + 679 + 492 + 280 + 140 19.375 – 1.724 – 775 16.876 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 FARMACOUTILIZZAZIONE In sintesi, dalla relazione della Commissione per il monitoraggio della Spesa Farmaceutica, emerge che nel 2000 si prevede che la spesa netta raggiunga 16.876 Mld di Lire, con uno sfondamento di 2.455 Mld di Lire del tetto programmato che è fissato in 14.421 Mld di Lire (+17%) e con un incremento del 14,8% rispetto alla spesa netta del 1999. Analizzando i dati di vendita* nei due periodi di riferimento, si evince che i farmaci che hanno fatto registrare le maggiori variazioni assolute di spesa sono rappresentati da statine, antagonisti dell’angiotensina II, comprese le associazioni con diuretici, inibitori della pompa acida e glicocorticoidi, in particolare quelli a lunga emivita (v. Tabella 2). Per quanto riguarda le statine si sta confermando il trend già evidenziato negli scorsi anni con un aumento dei pazienti trattati, mentre sui sartani e le relative associazioni con diuretici, ha notevolmente influito l’eliminazione della nota 73 nel corso del 1999. Relativamente a inibitori di pompa e glicocorticoidi va rilevato che la variazione assoluta di spesa non è imputabile esclusivamente all’aumento dei consumi; su di essa pesa, infatti, anche lo spostamento dei consumi di antiulcera anti-H2 verso inibitori di pompa e quello di derivati glicocorticoidi a breve emivita verso quelli a lunga emivita (di più recente immissione sul mercato). Tabella 2. Primi 10 gruppi terapeutici per variazione assoluta della spesa tra il 1° quadrimestre 1999 e il 1° quadrimestre 2000 (in Mld di Lire) ATC GRUPPO TERAPEUTICO Spesa Spesa Increm. gen/apr 1999 gen/apr 2000 assoluto Increm. % 1 C09DA Antagonisti dell’angiotensina II e diuretici 37,5 104,5 67,0 179,0 2 C10AA Inibitori dell’HMG CoA reduttasi (statine) 181,3 247,5 66,2 36,5 3 C09CA Antagonisti dell’angiotensina II, non associati 97,8 144,9 47,1 48,2 4 A02BC Inibitori della pompa acida 208,0 259,2 51,2 24,6 5 R03BA Glicocorticoidi 166,1 205,4 39,3 23,7 6 C08CA Derivati diidropiridinici 363,2 392,1 28,9 8,0 7 C07AB Betabloccanti, selettivi, non associati 42,1 68,1 26,0 61,7 8 B01AB Eparinici 48,1 73,5 25,4 52,8 9 B03XA Altri preparati antianemici 78,3 103,2 24,9 31,8 129,9 152,1 22,2 17,1 10 M01AX Altri farmaci antinfiammatori/antireumatici non steroidei In Tabella 3 sono richiamati i primi dieci gruppi terapeutici per incidenza di spesa nel primo quadrimestre 2000; le incidenze percentuale e cumulativa di spesa sono state calcolate sul totale del mercato (spesa SSN+spesa privata) per farmaci di fascia A e B nel primo quadrimestre 2000, pari a 7.200 miliardi. Nel caso degli antibiotici riportati (cefalosporine e sostanze correlate; macrolidi), va considerato che, essendo i dati riferiti al primo quadrimestre del 2000, i consumi riflettono necessariamente la stagionalità delle patologie; sull’utilizzo dei macrolidi ha influito, inoltre, l’ammissione alla rimborsabilità di confezioni * Nelle Tabelle sono riportati i dati complessivi di vendita attraverso le farmacie al pubblico BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 “ottimali” rispetto alla durata della terapia per l’eradicazione dell’Helicobacter pylori. Un’importante quota di mercato è rappresentata dai farmaci per il sistema cardiovascolare (antipertensivi, ipocolesterolemizzanti, antianginosi), dagli inibitori di pompa (3,6%) e dai glicocorticoidi (2,9%). In generale, considerando sia l’incremento sia l’incidenza di spesa, i dati mostrano come, nella maggior parte dei casi, le variazioni più significative riguardino classi di farmaci tradizionalmente presenti nel Prontuario Terapeutico Nazionale. In definitiva, quindi, la causa dell’incremento di spesa può essere identificata soprattutto in un maggiore utilizzo di farmaci (in particolare di molecole immesse recentemente sul mercato, seppur appartenenti a categorie già rimborsate) piuttosto che in opportunità terapeutiche nuove. 45 FARMACOUTILIZZAZIONE Tabella 3. Primi 10 gruppi terapeutici per incidenza di spesa nel 1° quadrimestre 2000 (in Mld di Lire) e relativa incidenza % e cumulativa ATC GRUPPO TERAPEUTICO Spesa Incidenza Incidenza % cumulativa 1 J01DA Cefalosporine e sostanze correlate 510,4 7,1 7,1 2 C09AA ACE-inibitori 386,6 5,4 12,5 3 C08CA Derivati diidropiridinici 392,1 5,4 17,9 4 C09BA ACE-inibitori e diuretici 297,3 4,1 22,0 5 J01FA Macrolidi 292,2 4,1 26,1 6 C10AA Inibitori della HMG CoA reduttasi 247,5 3,4 29,5 7 A02BC Inibitori della pompa acida 259,2 3,6 33,1 8 R03BA Glicocorticoidi 205,4 2,9 36,0 9 C01DA Nitrati organici 156,2 2,2 38,2 10 M01AX Altri farmaci antinfiammatori/antireumatici non steroidei 152,1 2,1 40,3 Alla luce dei dati emersi, la Commissione approfondirà nella prossima relazione al Ministro lo studio delle misure per il controllo della spesa farmaceutica, aggior- nando il ventaglio delle proposte avanzate nel 1999 ed ancora attuali, e presentandone di nuove in relazione all’aumento osservato nei prossimi mesi. Comunicazioni e osservazioni al Bollettino dovranno essere inoltrate presso: Redazione Bollettino di Informazione sui Farmaci Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza Ministero della Sanità Viale della Civiltà Romana, 7 00144 Roma Fax 06-59943117 Le comunicazioni relative a variazioni di indirizzo, dovranno riportare nome, cognome e nuovo indirizzo del destinatario, ed essere preferibilmente accompagnate dall’etichetta allegata ad una delle copie ricevute, in cui figurano codice, nome, cognome e vecchio indirizzo del destinatario stesso. 46 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 SCHEDA DI SEGNALAZIONE DI SOSPETTA REAZIONE AVVERSA (Da compilarsi a cura del medico o farmacista) N.B. È OBBLIGATORIA SOLTANTO LA COMPILAZIONE DEI SEGUENTI CAMPI: 2; 4; 7; 8; 12; 22; N.B. È OBBLIGATORIA SOLTANTO LA COMPILAZIONE DEI SEGUENTI CAMPI: 2; 4; 7; 8; 12; 22 1 INIZIALI DEL PAZIENTE 2 3 7 DESCRIZIONE DELLE REAZIONI ED EVENTUALE DIAGNOSI* ETÀ 4 SESSO DATA D’INSORGENZA DELLA REAZIONE 5 6 ORIGINE ETNICA 8 CODICE MINISTERO SANITÀ: GRAVITÀ DELLA REAZIONE MORTE ■ HA PROVOCATO O HA PROLUNGATO L’OSPEDALIZZAZIONE ■ HA PROVOCATO INVALIDITÀ GRAVE O ■ PERMANENTE HA MESSO IN PERICOLO LA VITA DEL PAZIENTE 10 RISOLTA * NOTA: SE IL SEGNALATORE È UN FARMACISTA, RIPORTI SOLTANTO LA DESCRIZIONE DELLA REAZIONE AVVERSA, SE È UN MEDICO ANCHE L’EVENTUALE DIAGNOSI. 9 ■ ESITO: ■ RISOLTA CON POSTUMI PERSISTENTE ■ ESAMI STRUMENTALI E/O DI LABORATORIO RILEVANTI ■ MORTE: 11 DOVUTA ALLA REAZIONE AVVERSA SPECIFICARE SE LA REAZIONE È PREVISTA NEL FOGLIO ILLUSTRATIVO ■ IL FARMACO POTREBBE AVER SI ■ NO ■ CONTRIBUITO ■ NON DOVUTA AL FARMACO COMMENTI SULLA RELAZIONE TRA FARMACO E REAZIONE SCONOSCIUTO ■ ■ INFORMAZIONI SUL FARMACO 12 13 FARMACO (I) SOSPETTO (I) LA REAZIONE È MIGLIORATA DOPO LA SOSPENSIONE DEL FARMACO? (NOME SPECIALITÀ MEDICINALE (*) A) SI ■ NO ■ B) C) * NEL CASO DI PRODOTTI BIOLOGICI INDICARE IL NUMERO DEL LOTTO 14 15 DOSAGGIO IN VIA DI SOMMINISTRAZIONE GIORNALIERO (I) 16 DURATA DELLA TERAPIA DAL A) A) A) B) B) B) C) C) C) 17 AL SI INDICAZIONI PER CUI IL FARMACO È STATO USATO 19 FARMACO (I) CONCOMITANTE (I) E DATA (E) DI SOMMINISTRAZIONE 20 CONDIZIONI CONCOMITANTI E PREDISPONENTI ■ NO ■ RICOMPARSA DEI SINTOMI SI 18 RIPRESA DEL FARMACO 21 ■ NO ■ LA SCHEDA È STATA INVIATA ALLA: AZIENDA PROD. DIR SANITARIA ■ ■ MINISTERO DELLA SANITÀ USL ■ ■ INFORMAZIONI SUL SEGNALATORE 22 FONTE: MEDICO DI BASE ✄ SPECIALISTA ■ FARMACISTA ■ ALTRO ■ OSPEDALIERO ■ ■ 23 NORME ED INDIRIZZO DEL MEDICO O FARMACISTA - N.UMERO ISCRIZIONE ORDINE PROFESSIONALE - PROVINCIA 24 DATA DI COMPILAZIONE 25 26 CODICE USL 27 BIF Mag-Giu 2000 - N. 3 FIRMA FIRMA RESPONSABILE 47 INFORMAZIONI SULLA DITTA FARMACEUTICA NOME E INDIRIZZO FONTE DELLA SEGNALAZIONE STUDIO CLINICO LETTERATURA PERSONALE SANITARIO NUMERO DI REGISTRO DATA IN CUI LA SEGNALAZIONE È PERVENUTA ALL’IMPRESA TIPO DI RAPPORTO: INIZIALE SEGUITO DI ALTRO RAPPORTO DATA DI QUESTO RAPPORTO Note sulla compilazione della scheda di segnalazione • Il campo N. 6 (codice Ministero della Sanità) non va compilato dal sanitario che segnala, ma dall’Ufficio competente del Ministero della Sanità. • Per ciò che attiene il campo N. 7, la descrizione della reazione deve essere il più ampia possibile e non limitarsi a pochi termini, cioè la descrizione dell’evento avverso dovrebbe, per quanto possibile, non coincidere con la diagnosi. • Il campo N. 8 è stato inserito come obbligatorio in quanto, dato che da alcune segnalazioni originano poi interventi incisivi per la salute pubblica, è di fondamentale importanza conoscere il livello di gravità della reazione stessa. Ovviamente, se la segnalazione si riferisce a reazioni non gravi il segnalatore può scegliere se scrivere non grave o non applicabile, sbarrare l’intero campo, o semplicemente lasciarlo in bianco. • Il campo N. 11 è anch’esso importantissimo, in quanto la menzione o meno della reazione avversa nel foglio illustrativo, e di conseguenza nella scheda tecnica permette al Ministero della Sanità di classificare tale reazione come inaspettata o meno. Ciò è 48 particolarmente utile nel caso vada avviata una procedura d’urgenza di variazione degli stampati. Sempre in questo stesso campo è riportata la richiesta di commenti sulla possibile relazione tra l’assunzione del farmaco e l’insorgenza della reazione avversa. In questo caso è opportuno rispondere dopo aver compiuto opportune verifiche (consultazione degli stampati e di testi scientifici, follow up, esami di laboratorio). • Il campo N. 21 serve soprattutto ad evitare le duplicazioni in caso la scheda sia stata spedita a più destinatari (Azienda USL, Industria Farmaceutica, etc.). • Il campo N. 27 va firmato dal responsabile del servizio farmacovigilanza della USL dopo che questi ha controllato la congruità della segnalazione stessa. In caso la segnalazione risultasse mancante di elementi importanti, è auspicabile che il responsabile suddetto si adoperi per acquisirne il più possibile. • Per quanto riguarda il retro della scheda si fa presente che esso va compilato dall’Azienda titolare dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio, e non da chi riporta né dalla USL. BIF Mag-Giu 2000 - N. 3