Tommaso Lucchetti storico dell’alimentazione “O SALUMI BENE AMATI” Cinque storie di salumi. Memorie, tradizioni ed arti di trasformazione e cucina. Indice Presentazione....................................................................................................................pag. 4 Premessa dell’autore......................................................................................................... pag. 5 Una storia regionale di dispense, cucine e “mense” suine: fonti e documenti per la cultura alimentare marchigiana dei maiali e dei suini................................................................... pag. 7 Il Quattrocento..................................................................................................................pag. 13 Il Cincquecento................................................................................................................. pag. 16 Il Seicento.........................................................................................................................pag. 22 Il Settecento...................................................................................................................... pag. 32 L’Ottocento.......................................................................................................................pag. 38 Novecento......................................................................................................................... pag. 64 Cenni storici sul prosciutto............................................................................................... pag. 93 Cenni storici sul salame.................................................................................................... pag. 127 Cenni storici sulla lonza....................................................................................................pag. 151 Cenni storici sul lonzino................................................................................................... pag. 167 Un progetto a cura di A.S.P.eA. in collaborazione con: D.ssa Paola Castellucci - Direttore dell’ASPEA e Vicesegretario della Camera di Commercio di Ancona Ideazione e realizzazione grafica Segni e Suoni srl Stampa Tipografia Abbatelli Cenni storici sulla coppa di testa...................................................................................... pag. 179 Disciplinari di produzione: - Il prosciutto marchigiano..........................................................................................pag. 200 - Il salame lardellato....................................................................................................pag. 209 - La lonza delle Marche...............................................................................................pag. 217 - Il lonzino delle Marche.............................................................................................pag. 224 - La coppa di testa marchigiana................................................................................... pag. 230 Finito di stampare: giugno 2010 Bibliografia.......................................................................................................................pag. 241 ©Tutti i diritti riservati Note sull’autore.................................................................................................................pag. 248 Presentazione pubblicazione “O salumi bene amati” “A voi salve, o salumi bene amati, e a quei maiali dei vostri antenati.” Con questa citazione del poeta Riccardo Morbelli, vogliamo introdurre questa pubblicazione frutto di una iniziativa, intrapresa già da anni, di A.s.pe.a., tesa alla valorizzazione dei prodotti gastronomici tipici della Provincia di Ancona, le cui origini appartengono alla nostra storia, nelle tradizioni più profonde, nell’essenza della nostra cultura. Il maiale, con i suoi prodotti derivati, è stato da sempre il fulcro alimentare del nostro territorio, ma forse ancor di più è stato il primo prodotto, nel mondo rurale, che ha travalicato l’essenzialità della funzione di sostentamento per diventare leccornia: “cibo da amare”. La modernità caotica, la globalizzazione del mondo, ci ha distratto dalle nostre radici, spingendoci verso una omologazione delle abitudini, mentre riteniamo che sia importante identificarci, sia nel nostro essere che nella nostra cultura alimentare, e per fare ciò, sicuramente, i prodotti dal maiale sono quelli che ci fanno rivivere le storie dei nostri nonni. L’intento di questa pubblicazione è proprio tesa a tale scopo, narrandoci cinque nostre storie vissute, quelle del Salame Lardellato, della Lonza e del Lonzino, de Prosciutto marchigiano e della Coppa di Testa, tutti salumi che, da sempre, costituiscono l’eccellenza della storia gastronomica della Provincia di Ancona. L’iniziativa di A.s.pe.a. è finalizzata anche ad ottenere, per tali prodotti, il riconoscimento di Denominazione di Origine Protetta – DOP, ma le paludi della burocrazia ha impantanato il nostro slancio. Da buoni marchigiani non intendiamo mollare: con tanta pazienza ma con altrettanta tenacia. Dobbiamo dar merito a tutte le professionalità che hanno collaborato per la realizzazione di questo libro. Un particolare ringraziamento va allo storico dell’alimentazione Prof. Tommaso Lucchetti, che ha redatto con perizia e maestria questa pubblicazione e alla Organizzazione di Produttori Suinmarche Op che ha coordinato il progetto. Dott. Alessandro Alessandrini (Presidente A.S.Pe.A.) Premessa dell’autore Questa pubblicazione nasce per ferma volontà di Enrico Salvadego e Sergio Zambelli come ideale conclusione di un lavoro di ricerca iniziato nel 2006 per documentare storicamente la salumeria marchigiana nel tempo, con particolare attenzione a cinque produzioni d’eccellenza (prosciutto, salame lardellato, lonza, lonzino e coppa di testa). Il volume che qui ne consegue, concepito come presentazione delle ricerche emerse, è stato pertanto impostato seguendo il criterio originale: sono state dedicate cinque sezioni ad ognuno dei prodotti in questione, con un’ampia parte introduttiva che raccoglie nel suo insieme una disamina preliminare generale su culture e colture (gioco di parole forse abusato ma indispensabile) del maiale nel territorio marchigiano attraverso il tempo. Si sono così considerate nell’insieme di questa parte iniziale aspetti legati all’allevamento, alle pratiche persino ritualizzate della macellazione e quindi delle cosiddette “piste” o “salate”, esaminando non solo le arti di norcini o “mazzarini”, ma anche i saperi di cucina (considerando come la salumeria spesso sia in bilico tra i due ambiti, e alcuni celebri chef del passato abbiano scritto e disquisito su insaccati), e quindi alcune osservazioni sullo smercio ed il consumo, ed infine anche determinate annotazioni sulle modalità conviviali. Il lavoro è stato strutturato in maniera molto essenziale e schematica come una sequenza inventariale ragionata di attestazioni documentarie (fonti archivistico- librarie ma anche orali) sul tema, con la finalità principale e l’obiettivo dichiarato di essere una guida cronologica con i riferimenti di base destinata principalmente alle categorie professionali principalmente interessate, ossia un vademecum per produttori e salumieri, ristoratori, operatori turistici e promotori del settore enogastronomico. Per mantenere fino in fondo questo carattere di manuale di consultazione, ed al tempo stesso inventario delle attestazioni documentarie, alcune citazioni riferibili a più prodotti vengono pertanto ed ovviamente ripetute più volte, per delineare il quadro completo delle fonti a disposizione per ognuno dei cinque salumi. Nella compilazione di questo piccolo libro vanno ringraziati alcuni autori che si sono precedentemente dedicati a questa ricerca, tra cui Riccardo Ceccarelli, ex-direttore della Biblioteca Comunale di Cupramontana, che oltre ad aver scritto un testo importante a riguardo ha gentilmente concesso materiale fotografico in suo possesso. Chi scrive ringrazia poi Silvana Chiesa, docente di storia dell’alimentazione presso il corso di laurea in Scienze Gastronomiche dell’Università di Parma, per il suo contributo di apertura, e Ugo Bellesi, giornalista e Delegato di Macerata dell’Accademia Italiana della Cucina, per le pagine dedicate ad alcune ricette tradizionali marchigiane, ormai quasi “archeocucina” del maiale. E riguardo appunto alla dissolvenza inevitabile della memoria va onestamente riconosciuto come ancora tanto andrebbe fatto nel recupero della memoria su questo tema; del resto questo testo non può avere la presunzione di raccogliere tutte le testimonianze accumulate nel tempo lungo il territorio regionale su una pratica universale e capillarmente diffusa come la salumeria. In fase stessa di redazione del lavoro emergevano e venivano alla luce altri documenti, tenuti per forza di cose fuori dalla trattazione, ma intanto questa pubblicazione può essere un punto fermo di avvio, un primo “testo unico” sulla materia che non aveva mai visto sulla produzione regionale nessuna monografia redatta in una prospettiva storica. Presentando pertanto questo scritto, ci si rimette alla buona volontà degli anni a venire e dei futuri interlocutori, dando così appuntamento a nuovi prossimi approfondimenti. Tommaso Lucchetti “O SALUMI BENE AMATI” • Una storia regionale di dispense, cucine e mense “suine”: fonti e documenti per la cultura alimentare marchigiana del maiale e dei suini _Introduzione_ (contributo di Silvana Chiesa, Professore di Storia e cultura dell’alimentazione, Corso di Laurea in Scienze Gastronomiche, Università di Parma) Il maiale, fin dall’Antichità, si allevava nel bacino del Mediterraneo in modo assai diffuso come dimostrano le testimonianze letterarie a partire dai poemi omerici i quali, fermando per iscritto i racconti e i miti della tradizione orale (la forma di cultura che precede la scrittura), ci permettono di intuire quanto fosse importante dal punto di vista economico l’allevamento suinicolo. Nell’Odissea, ad esempio, la maga Circe trasforma i compagni di viaggio di Ulisse in maiali e li nutre con ghiande di leccio e di quercia; e proprio l’eroe Ulisse, quando torna in incognito alla sua amata isola Itaca, si rifugia a casa del porcaro Eumeo prima di affrontare i Proci. Se quindi si evidenzia l’importanza economica dell’allevamento, si può anche intravedere un atteggiamento di relativa discriminazione sociale nei confronti del porcaro infatti: se è vero che Ulisse si rifugia dal porcaro, che lo riconosce e quindi mostra una certa confidenza con il re, è altrettanto vero Rilievo Romano, La bottega del coltellinaio. che in quel luogo Ulisse era abbastanza certo che nesCittá del Vaticano, Musei Vaticani. suno sarebbe mai andato a cercarlo o che comunque di certo chiunque si fosse presentato non avrebbe ma pensato di potervi incontrare il re, nemmeno da fuggiasco…. Anche nella cultura gastronomica romana il maiale era ben presente come dimostrano le numerose testimonianze di “elargizione” di carne di maiale e pane da parte degli imperatori per ingraziarsi la popolazione, ma forse anche in questo caso vale la pena di soffermarsi per notare che non carne di agnello o capretto, ma carne di porco viene elargita, come se lo “statuto sociale” di questo cibo corrispondesse alla classe sociale a cui veniva destinato….. Gli antichi greci e romani consumavano quindi carne di ovini, caprini, bovini e anche suini, ma tendenzialmente si sentivano e si rappresentavano come popoli di agricoltori, cioè consideravano l’agricoltura come segno di civiltà dell’uomo, che era in grado con il suo lavoro e con le sue conoscenze di produrre il proprio cibo, non accontentandosi di ciò che poteva trovare in natura. Proprio questo modello “culturale” differenzia le popolazioni barbariche che si insediano dapprima nei territori del nord Italia (e poi via via in tutta la penisola), dai Romani che negli stessi (1) M. Corbier, Le statut ambigu de la vivande à Rome, in Dialogues d’Histoire ancienne, 1989. (2) M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp 12-19. • • “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” territori vivevano. I “Barbari” naturalmente praticavano l’agricoltura, ma si rappresentavano primariamente come popoli di cacciatori con una conoscenza della foresta, dei suoi segreti e dei suoi frutti che non appartenevano alla cultura classica. L’allevamento di bovini e di suini nei pascoli e nelle foreste era la forma principale di reddito e base del patrimonio famigliare per le diverse tribù barbariche che utilizzavano quindi l’incolto come risorsa, senza nessuna accezione negativa o di privazione (non coltivato) insita invece nello stesso termine di incolto. Le vicende politico-economiche che caratterizzano il periodo che va dal IV al VI secolo e che vedono la nascita dei regni Romano-Barbarici, portano anche un notevole cambiamento dell’aspetto del territorio con uno svuotamento demografico delle città e la nascita di numerosi piccoli centri agricoli periferici, un aumento smisurato dell’estensione delle foreste, che spesso prendono il sopravvento sulle terre coltivate, e una drastica riduzione delle vie di comunicazione Insegna del macellaio romano Tito Giulio Vitale, ca. 400 a.C. Roma, Villa Albani. (strade) che, per mancanza di manutenzi one finiscono per essere a poco a poco abbandonate . L’economia silvo-pastorale quindi assume una notevole importanza e l’allevamento del suino nella foresta diventa un aspetto centrale dell’economia dei piccoli centri agricoli i cui abitanti regolano sulla base di tradizioni tribali “barbariche” l’uso comune delle risorse della foresta. Branchi di maiali quindi scorazzavano per le foreste e si alimentavano con ghiande di quercia, di leccio, con castagne, ma anche con erbe di paludi e di salici. Il numero di maiali che si possono pascolare in un bosco diviene a poco a poco sinonimo dell’estensione del bosco stesso, infatti si trovano documenti notarili che per determinare il valore di alcuni terreni in compra-vendite o in eredità, si riferiscono ai boschi con la dicitura: silva ad saginandum porcos…, cioè un bosco in grado di alimentare un certo numero di maiali. Questo gran numero di maiali naturalmente necessitava di essere governato da un “maestro porcaro” (magister porcarius) che aveva alle sue dipendenze alcuni apprendisti perché se d’estate bisognava spostare i branchi di maiali da luogo ad un altro perché avessero sempre a disposizione cibo fresco, questo significava anche conoscere bene la flora di questi boschi, topografia dei terreni, le fonti di acqua o le possibilità di abbeverare gli animali nei fiumi o negli stagni. Anche la perizia nel costruire i recinti provvisori per i ricoveri notturni era una delle tante attività che il porcaro insegnava ai suoi aiutanti, come pure il quantitativo di ghiande da far cadere dagli alberi in autunno perché tutti gli animali potessero alimentarsi e la carne dei maiali risultasse migliore. Di tutto ciò sono testimonianze le numerose rappresentazioni di porci e porcari quasi sempre ambientate nei boschi o al limitare della foresta. E’ in questo quadro sociale ed economico che possiamo capire la rilevanza delle norme contenute nell’Editto di Rotari (653 d.C) che dedica alcune norme specifiche alla tutela della figura del porcaro per cui si stabilisce che Per l’uccisione di: Un maestro porcaro (che ha sotto di se due, tre o più apprendisti) 50 soldi Un maestro artigiano 20 soldi Un porcaro semplice 25 soldi Un artigiano semplice 25 soldi Un maestro capraio, pecoraio o bovaro 20 soldi Un contadino 20 soldi Un contadino che lavora presso un altro 16 soldi Un apprendistra capraio, pecoraio o bovaro 16 soldi (3) M. Montanari, Storia Medievale, Roma-Bari, Laterza, 2002. (4) M.Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-bari, Laterza, 1988, pp 13-21. (5) M. Baruzzi, M. Montanari, Porci e porcari nel Medioevo. Paesaggio economia alimentazione, Bologna, CLUEB, 1981. L’uso collettivo dei boschi, dei pascoli e delle paludi fu una caratteristica dell’alto medioevo, fino al X –XI secolo, ma spesso accadeva che i gradi proprietari terrieri (nobili, chiese e monasteri) chiedessero e ottenessero dal potere regio anche l’assegnazione delle cosiddette “aree incolte” per cui l’utilizzo del bosco divenne ad esempio soggetto ad un tassa detta “glandaticum” proprio perché il bene che si prelevava in abbondanza e che era necessario per l’allevamento del maiale erano proprio le ghiande; da qui breve fu il passaggio a richiedere la decima porcorum cioè la decima parte dei maiali pascolati. I maiali nel medioevo avevano un aspetto assai diverso da quello odierno: erano abbastanza simili ai cinghiali, con cui peraltro si accoppiavano vivendo entrambi nel bosco, e quindi l’iconografia li rappresenta come animali di piccola taglia, con il pelo rossiccio scuro (anche se c’erano maiali di colore chiaro), con le gambe sottili e lunghe, le setole erette sulla schiena, il grifo appuntito i canini ben sviluppati (e non tagliati Rilievo di sarcofago romano, Macellaio. Ostia, Museo Ostiense. come si usa ora) e le orecchie dritte. Anche nelle fonti scritte la differenza tra maiali e cinghiali è labile tanto che spesso i maiali vengono definiti porci silvestres o porci singulares da cui deriverebbe il termine francese “sanglier” che però si riferisce al cinghiale e non al maiale. Nel medioevo l’età di macellazione dei maiali era molto più elevata di quella odierna: la datazione delle ossa di suino ritrovate in scavi archeologici hanno evidenziato che la vita media degli animali superava sempre ampiamente il primo anno e che per lo più si uccidevano verso il secon- 10 • • 11 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” do anno di vita per arrivare a volte fino al terzo. Il motivo di queste scelte si può forse ricercare nelle tecniche di allevamento che non prevedevano (salvo rari casi) alcune forzatura alimentare per accelerare l’ingrassamento degli animali e poi anche nella genetica che, come possiamo vedere dalle rappresentazioni giunte fino a noi ci mostra suini di piccole dimensioni. A partire dal XIII secolo nelle regioni più ricche d’Europa si nota come i porci abbiano un’alimentazione più variata e che addirittura in alcune immagini si vedono allevati al chiuso e alimentati dai padroni che con un secchio versano una base liquida nel truogolo, forse il precursore dei nostri “pastoni” per suini. A tal proposito scrive Piero de’ Crescenzi, agronomo bolognese del XIII secolo: «si deono dar loro [ai maiali] le ghiande, le castagne, e simiglianti cose, o le fave, o l’orzo, o ’l grano: imperocché queste cose non solamente ingrassano, ma danno dilettevole sapore alla carne » L’epoca, invece, per l’uccisione dei maiali poco differisce dall’antichità fino alle soglie dell’era moderna riferendosi quasi sempre ai mesi invernali più freddi quindi da Novembre fino a Gennaio a seconda delle latitudini ma sempre in un periodo freddo in cui lavorazione e conservazione della carne e del grasso erano facilitate. Interessante da questo punto di vista è l’esame dei cosiddetti calendari illustrati che mostrano le lavorazioni del maiale proprio nei mesi di Dicembre e Gennaio con tale dovizia di particolari da permetterci di ricostruire, con l’ausilio naturalmente anche delle fonti scritte, le modalità e i tempi della macellazione. Nel Medioevo europeo grande attenzione veniva rivolta alla salubrità delle carni e quindi negli statuti delle città e/o delle corporazioni di macellatori vi erano norme che prescrivevano i luoghi, i tempi e i modi per la macellazione di ogni specie animale (bovini, suini, ovi-caprini). In particolare per quel che riguarda il maiale Carne di Maiale, da Tacuinum Sanitatis, XIV secolo. i centri urbani si dotarono di regolamenti che obbligavano a macellare entro le mura gli animali la cui carne fosse destinata al consumo nelle botteghe della città. Se per l’Europa cristiana il maiale non era considerato animale impuro, tuttavia era chiaro come numerose malattie fossero legate al consumo di carne proveniente da animali malati o la cui macellazione non era stata controllata. Quindi il primo obbligo era: “..che gli animali entrassero in città sulle proprie gambe..” ed ecco che nelle rappresentazioni del mese di novembre spesso si vedono gli animali che pascolano subito fuori le mura B oppure nell’atto di varcare la soglia delle porte di accesso alla città. Un’altra regola, come accennato, riguardava i luoghi della macellazione che doveva avvenire in “struttura cittadina” ed ecco che le immagini dell’uccisione del porco quasi sempre mostrano gli elementi tipici dell’architettura urbana come la chiesa o la torre del castello e un ambiente delimitato da un muro di mattoni ad indicare la macelleria. Due erano le tecniche di uccisione: o un colpo fra le costole dritto al cuore, effettuato con un coltello o uno stilo appuntito; o un colpo alla gola, che recideva la vena giugulare. Nel primo caso, per individuare con precisione il punto da colpire si ripiegava la zampa anteriore del porco, la seconda tecnica si impiegava soprattutto quando si voleva raccogliere e conservare il sangue dell’animale. La lavorazione gastronomica del sangue era una pratica costante che attraversava tutta l’Europa: dal nord della Francia alle Fiandre alla Borgogna fino all’Italia e le ricette si inserivano, in ciascuna regione, all’interno di un sistema alimentare che di volta in volta prediligeva le preparazioni salate, speziate oppure dolci, i budini le salsicce o le torte… L’uccisione era spesso effettuata da uno o più uomini ed era preceduta dallo stordimento dell’animale, colpito alla testa con uno strumento pesante: un martello o un manico di un’ascia10. Una volta ucciso e dissanguato il maiale veniva accuratamente pulito: si immergeva la bestia in una vasca di acqua bollente (pulitura cum aqua) che ammorbidiva le setole consentendo quindi la raschiatura della pelle, si passava poi l’animale in una vasca di acqua fredda dove si completava la pulitura e si toglievano le unghie. Un’altra tecnica consisteva nell’utilizzo del fuoco: in tal caso, la pelle veniva pulita dopo la strinatura delle setole, bruciacchiate con manipoli di paglia accesa e altri sistemi e quindi bagnata e raschiata. Questa è una delle rare rappresentazioni della pulitura del porco cum foco. Entrambe le tecniche di pulitura (cum aqua et cum foco) sono attestate nelle fonti medievali. Anche le operazioni di lavorazione e preparazione delle carni e dei visceri del maiale sono rappresentate nei calendari illustrati medievali e, sempre nel mese di dicembre, si vedono maiali appesi per le zampe posteriori a un gancio o con corde, che vengono sventrati e svuotati delle interiora: cuore , fegato, polmone reni e milza avranno destini gastronomici differenti, gli intestini saranno lavati per contenere la carne e il grasso tritati che opportunamente salati e speziati andranno a fare salsicce e salami in parte conservati e in parte consumati freschi, mentre la vescica, a volte, veniva consegnata ai bambini perché la utilizzassero per giocare usandola come una palla11. [S.C.] (6) Cfr., p. 30. (7) Perrine Mane, La vie dans lse cmpagnes au Moyen age, Paris, Ed De la Martiniere, 2004. (8) M. Ferrieres, Histoire des peurs alimentaires, Paris, Ed. Du Seuil, 2002. (9) M. FANTI, I macellai bolognesi, Bolgna 1980. (10) M. Baruzzi, M. Montanari, op. Cit., 1981, p.45. (11) VINCENZO TANARA, L’economia del cittadino in villa, Venezia, 1665, ppp193-194. _Cenni sull’ Antichitá e il Medioevo nelle Marche_ Alcuni ritrovamenti archeologici nel territorio marchigiano consentono di cogliere tracce davvero remote della suinicoltura e della presenza ed importanza del maiale come risorsa alimentare. In una tomba di Numana dell’VIII secolo a. C. sono stati ritrovati spiedi di ferro con resti di carne porcina. In un’altra sepoltura risalente fra l’VIII ed il VII secolo a. C., appartenente ad un guerriero, oltre alla sua armatura ed al suo corredo personale vi era anche un bacile in lamina di bronzo 12 • • 13 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” con 300 vinaccioli di uva coltivata e vicino i resti dello scheletro di un giovanissimo suino, con accanto un coltello di ferro: l’animaletto è integro, non cotto, e la vicinanza di un pugnale sacerdotale ne fanno capire assieme all’uva il carattere di rituale libagione votiva prima di chiudere la tomba ed il cerimoniale di inumazione (del resto immolare assieme l’uva ed un porcellino era usanza praticata anche dagli etruschi12). Altri scavi archeologici di epoca romana hanno portato alla luce abbondanza di spiedi, che sicuramente avranno infilzato molta carne di maiale, poiché notoriamente la letteratura agronomica latina ci fa capire come, per quanto propensi originariamente ad un vitto prevalentemente vegetale, gli antichi romani considerassero da sempre il maiale “carne ambulante”, un animale la cui unica destinazione d’uso era quella di fornire sostanza “per banchettare13 ”. E del resto i buongustai del periodo sembravano apprezzare i suini provenienti dalle Marche, dato che Marziale in un suo epigramma scrive “Sono una salsiccia, figlia di una scrofa picena: con me si può preparare un gustoso contorno per la bianca polenta14 ”. Nel ricettario di Apicio, il “De Re Coquinaria” compaiono diverse ricette con la carne di maiale, tra cui la preparazione di una “Perna”, ossia di un cosciotto posteriore e quindi di un prosciutto “allessato con molti fichi secchi e con tre foglie di alloro”, qua e là irrorato di miele ed infine rivestito “come di una nuova pelle […] con una sfoglia di pasta, fatta con farina ed olio” per essere poi cotto al forno; veniva “servito con pezzetti di pane, vino cotto o con i condimenti; meglio con i panini al mosto15”. Si tratta di una cottura della carne suina cruda, e molti concordano in effetti su come le pratiche di conservare sotto sale i prosciutti e nell’insieme tutte le lavorazioni suine siano state codificate dalle popolazioni barbariche provenienti dal Nord Europa. Non a caso nei primi secoli del Medioevo grande rilievo si darà alla tutela degli spazi ambientali e dei terreni per garantire l’allevamento dei maiali, ad esempio proteggendo anche gli spazi boschivi che costituivano abbondante fonte di foraggio per i suini, con ghiande, faggiole, castagne e radici (si misuravano le foreste in capi porcini a seconda di quanto nutrimento portassero al bestiame16). Nei fondi di monasteri e nelle abbazie sorti nelle Marche in quegli anni vi erano grandi allevamenti di maiali, e la suinicoltura continuò sempre a crescere, divenendo nei secoli una pratica basilare sempre più diffusa. A partire dall’XI e XIII secolo (quando ci fu una sensibile ripresa dell’agricoltura) allevare un porcellino, ottima e garantita fonte di sostentamento, divenne nei castelli un’attività comune anche nelle singole famiglie, anche per chi non aveva orti o campi da foraggio, confidando che l’animale sapesse procacciarsi cibo da solo. Molti documenti dell’epoca riportano le controversie per i furti di maiali, animali evidentemente davvero appetiti, mentre inventari ed altri atti relativi ai monasteri marchigiani citano l’importanza di questo allevamento e la coltivazione a foraggio in appoggio17. Con i secoli a venire la nascita anche nelle Marche delle istituzioni comunali porterà alla redazione di statuti, attraverso cui ogni comunità, anche se piccola o assoggettata a entità urbane maggiori, si darà un corpus di leggi e norme che regolano la vita cittadina. Naturalmente le pratiche di base, legate all’agricoltura ed all’allevamento ed alla sussistenza alimentare in genere, sono le più tutelate dagli statuti. La presenza di molti provvedimenti, controlli e sanzioni sull’allevamento suino fanno capire la radicale importanza di questa pratica e del maiale nell’economia alimentare e complessiva. Gli statuti disciplinano infatti il controllo dei boschi e di tutte le fonti di potenziale foraggio, il flusso dei capi di bestiame, il loro controllo, il lavoro dei guardiani, la pratiche di macellazione, la vendita della carne, stabilendo rigide penalità per chi contravviene agli accordi ed al sistema perfetto di questo fondamentale ciclo di produzione, dal pascolo del bestiame nei luoghi colti ed incolti fino alle modalità e procedure di vendita nelle botteghe, nelle pubbliche piazze e nei mercati18. Fondamentale per la diffusione della suinicoltura è poi stata la collaborazione delle più importanti istituzione monastiche. Un documento narra come il 24 giugno 1267 rappresentanti della comunità di Frattula, corrisponendente all’odierna Francavilla Bruciata (frazione di Castel Colonna) chiesero a S. Albertino, priore dell’eremo, la facoltà di poter lavorare e coltivare al meglio quei terreni, costruendovi case, ed allevandovi buoi, muli e naturalmente suini, il cui foraggiamento era lì naturalmente favorito dalla presenza di querceti, e quindi di ghiande19”. La documentazione di prodotti di salumeria è attestata infatti anche in secoli remoti, come ad esempio risulta da una carta notarile del 31 ottobre 1286 presso Arcevia (all’epoca Rocca Contrada), quando al notaio Tebalduccio di Palmolo viene restituita la somma di 136 libre, quattro in moneta sonante e le restanti 132 in “carne secca di porco20”. Esattamente un mercato tradizionale al confine tra Marche ed Umbria, tra Serravalle del Chienti e Foligno, si teneva nel Medioevo: si trattava della famosa “fiera di Pistia” (perché si teneva presso l’antica Chiesa di Santa Maria in Pistia), luogo privilegiato per la vendita di formaggi pecorini e soprattutto prosciutti21. (12) G. DE MARINIS – M. SILVESTRINI, La tomba di villa Clara, in Archeologia a Matelica – Nuove acquisizioni. Catalogo della mostra: Matelica, marzo – ottobre 1999, pp. 41-47; cfr. R. CECCARELLI, Come uno di casa: il suino nelle Marche, Ancona 2003, pp. 85-86. (13) M. T, VARRONE, Sull’agricoltura. (14) M. V. MARZIALE, Epigrammi, a cura di G. NORCIO, Torino 1991, pp. 810-811. (15) M. G. APICIO, L’arte culinaria, a cura di G. CARAZZALI, Milano 1990, p. 159. (16) M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza: storia dell’alimentazione in Europa, Roma – Bari 1997, p. 57. (17) R. CECCARELLI, Come uno di casa: il suino nelle Marche, Ancona 2003, pp. 87-88. Il Quattrocento _La legislazione statutaria_ Gli statuti di Jesi e del suo contado emessi tra il 1449 il 1450 e rimasti in vigore fino al 1808, in un territorio che comprendeva oltre al capoluogo jesino anche i suoi castelli, ossia Monsano, San Marcello, Morro d’Alba, Belvedere Ostrense, Montecarotto, Poggio San Marcello, Castelplanio, Rosola, Poggio Cupro, Massaccio (l’odierna Cupra Montana), Maiolati Spontini, Scosciano, Monte Roberto, Castelbellino, San Paolo di Jesi, Santa Maria Nuova. Le disposizioni che vi rinvengono mirano innanzitutto ad evitare una libera e caotica circolazione dei capi suini, salvaguardando naturalmente gli animali condotti per i mercati e i “porci di Sant’Antonio”, ossia i maiali la cui macellazione era destinata per confezionare il lardo impiegato come pomata o (18) Ivi, pp. 88-101; Il testo presenta un’analisi sugli aspetti sulla suinicoltura negli antichi statuti delle città di Jesi, Fabriano, Genga, Staffolo, Cerreto d’Esi, Serra San Quirico, Montemarciano, Offagna, Gradara, Peglio, Montefeltro, Offida. (19) R. CECCARELLI, Norcineria nelle Marche, in Terre di Frattula, a cura di M. GIARDINI, Ancona 2004, p. 36. (20) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 106; cfr. Regesti di Rocca Contrada (sec. XIII), cit., p. 336. (21) N. MAZZARA MORRESI, La cucina marchigiana tra storia e folklore, Ancona 1978, p. 190. 14 • • 15 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” medicamento nelle strutture ospedaliere gestite dai frati antonini. In ogni caso chiunque si fosse trovato un maiale libero “in una cantina di vino o in casa di altra persona privata” aveva il diritto di colpire e quindi anche di abbattere l’animale. In effetti le norme punivano con una sanzione pecuniaria di dieci soldi chiunque uccidesse senza motivo alcuno un maiale o altri capi d’allevamento, ma non era prevista alcuna pena per chi si trovava ad ammazzare l’animale colto a far danni a colture, come una vigna piena d’uva, un terreno in tempo di mietitura, un uliveto colmo di olive o anche un campo coltivato a canapa. Vi erano poi indicazioni precise sul trattamento e la vendita di carne porcini nei passaggi dello statuto in cui si disciplinavano le attività dei “beccai”22. Lo statuto comunale di Fabriano è stato invece redatto nel 1415: i riferimenti al maiali sono nella rubrica 159 (andata persa), che puniva chi teneva i maiali legati, o anche dove si punisce chi uccide arbitrariamente diversi animali, tra cui i capi suini. Anche qui norme precise disciplinavano la vendita di carne porcina e quindi il mestiere dei “beccai”, che non potevano smerciare le unghie Maestro Venceslao, Mese di Dicembre, 1400 ca., Trento, Torre dell’Aquila, e le teste dei maiali; era poi fatto divieto di vendere carni Castello del Buon Consiglio. di scrofa dal primo maggio al primo ottobre, di scuoiare maiali o bruciarne i corpi sopra il ponte del Mercato; considerato poi questo bestiame cruciale per il vettovagliamento cittadino era fatto obbligo di chiedere l’autorizzazione per far uscire dalla città maiali vivi o morti23. Gli statuti del comune di Monte Feltro (territorio oggi corrispondente ad un comprensorio di comuni delle valli del Marecchia, del Conca, del Foglia) sono stati redatti in volgare ne 1384 con aggiunte databili al terzo decenno del secolo successivo: vi sono ancora disposizioni sui danni che i maiali lasciati ad un pascolo incontrollato possono creare “in vigna d’alcuno quando vi pendessero l’uve, o non pendessero, o in horto, o in caneto, o in seminato altrui nato, o non nato”; il danno è stimato “in cinque soldi per ciascun porco”, che si raddoppiano qualora i maiali fossero stati al momento del danno sottoposti alla custodia di un guardiano (mentre non è prevista alcuna sansione se i porcelli sono più piccoli di due mesi)24. somigliare a quelli con le orecchie erette dell’Europa settentrionale, di cui parlano a lungo Roger Grand e Raymond Deltouche, spesso prodotti da incroci spontanei tra maiali e cinghiali nella selva. Quanto agli accoppiamenti domestici, essi avvengono ai primi di febbraio “acciò doppo quattro mesi le scrofe figliano che poi un’altra volta partoriscono nelle buone stagioni25”. Le scrofe, però non sono sempre di colore scuro. Almeno una volta è stato accertato (ma certo il fenomeno è più frequente) “unam scrovam pilamin albi [una scrofa dal pelo bianco, ndr]26”, e questo deve indurci a qualche prudenza circa il tipo di maiale più frequentemente ancora allevato. Il caso di questa scrofa bianca (Sarnano, anno 1388) consente di confermare per le Marche l’abitudine di ottenere dalla bestia suina tre parti l’anno, come precisa la soccida “usque ad tre fetus”, che la riguarda27. _Pascolo ed allevamento nel Quattrocento_ I maiali sembrerebbero di colore grigio scuro e piuttosto magri. Questi infatti sono i più diffusi nella regione fino a tutto l’Ottocento e – essendo allevati allo stato semi-brado – sembrano (22) R. CECCARELLI, Come uno di casa: il suino nelle Marche, Ancona 2003, p. 90; Cfr. Statuti o Sanzioni e ordinamenti della Città di Jesi, traduzione dell’edizione a stampa del 1516, Jesi 1996. (23) Ivi, pp. 91-92; Cfr. Lo Statuto Comunale di Fabriano (1415), a cura di G. AVARUCCI e U. PAOLI, Fabriano 1999. (24) Ivi, p. 100; cfr. Statuti di Gradara, Peglio e Montefeltro, cit. _Celebri banchetti rinascimentali marchigiani_ A partire dal quattrocento la documentazione ormai più ricca e dettagliata comincia a far figurare nel dettaglio qualche pezzo pregiato della produzione suina. In particolare il prosciutto ha una delle sue prime attestazioni in uno di quei solenni ed ormai cerimoniali banchetti che a partire dal XIII e XIV secolo in tutta Italia cominciano di nuovo ad officiarsi come riti di una socialità ormai cortese, eventi scanditi da una rinnovata ed elegante arte conviviale. Si sa pertanto che quando nel 1444 Bianca Maria Sforza fece visita a Camerino la cittadinanza volle naturalmente preparare un’accoglienza con un banchetto degno di tale prestigiosa ospite, e si affannò pertanto a procurarsi le più svariate cibarie, tra cui dolci, pesci, capretti, polli ed anche prosciutti28. Ecco che si può far qui iniziare la fortuna marchigiana, radicata nei secoli, del coscio posteriore suino, salato ed arte e stagionato con sapienza. Del resto una documentazione interessante a riguardo proviene dalla più importante corte quattrocentesca, eminente non solo nel territorio marchigiano ma modello imprescindibile e dominante anche in tutta l’epopea rinascimentale italiana: si tratta infatti del meraviglioso palazzo d’Urbino di Federico da Montefeltro, considerato l’archetipo non solo arAmbrogio Lorenzetti, chitettonico del palazzo ducale quattrocentesco, ma anche Effetti del Buon Governo in campagna, della realtà sociale, artistica, culturale del Rinascimento. 1337-1340, Siena, Palazzo Pubblico. Nell’ “Ordine et officij de casa de lo illustrissimo signor Duca d’Urbino”, compendio gerarchico di tutte le personalità e degli ufficiali di servizio della corte di Federico, dai maggiordomi più qualificati alle maestranze più umili, si fa riferimento (25) S. ANSELMI, La selva, il pascolo, l’allevamento nelle Marche dei secoli XIV e XV, Urbino 1975. Cfr. G. ARDITIO, Memoriale d’agricoltura, Fano 1592. (26) S. ANSELMI, La selva, il pascolo, l’allevamento nelle Marche dei secoli XIV e XV, Urbino 1975. L’autore fa riferimento al seguente documento: Archivio Comunale di Sarnano, In strumenti, II, Not. Dominicus Putii, c. 201r: 12.3.1388. (27) Ibidem. (28) Cfr. A. M. NAPOLIONI, La cucina storica delle Marche: stato delle fonti e contributi della ricerca, in La carte in tavola: manoscritti e libri di cucina nelle Marche, a cura di A. M. NAPOLIONI, Macerata 1996, p. 18. 16 • “O SALUMI BENE AMATI” naturalmente a tutte le professionalità ed i servitori deputati alle varie mansioni nell’imbandire e servire la mensa, partendo dai rifornimenti e passando attraverso i vari cuochi destinati al vitto di tutte le personalità a palazzo, dal duca in persona con la sua famiglia, ai cortigiani più importanti fino agli ospiti più dimessi. In proposito è interessante ciò che si scrive, nel capitolo trentasettesimo, ossia “Officio del factore generale”, quando si dice “E cum intelligentia del maestro de casa pigliare cura che le robbe siano conducti a quelli lochi et per quel tempo che el signore li ha a stare, commo è grano, vino, biade e strami, et consegnate al massaro grande; et similmente che le habia secondo lo ordini dicti et cusì olio, ligume, polli e piccioni, carne insalata, fructi, et garumi le qual cose perché sonno de cucina et de credenza se vogliono secundo el bisogno consegnare dal massaro al dispensiero29”. E proprio questa “carne insalata30”, termine che di certo indica salumeria suina, ricorre appunto anche nell’ “Officio del massaro” (capitolo trentottesimo) dove si legge alle prime righe: “el Massaro vole essere persona intendente, praticha e da sapere tener ben conti, ale mane del quale ha a pervenire tucti li grani, faine, biada da cavalli, legne, paglia, vino, cioè da tenerne cunto formaggi et carne insalata”; e più avanti si legge “E similiter ha a signare ingrosso la paglia che se rescote a chi l’ha a distribuire et vegliare spesso che non li sia inganno et farlo intendere al maestro de casa et al scalcho, li quali hanno ad usare diligentia in questo come in le altre cose. Et el simile de le legne cum chi l’ha a distribuire a lochi deputati, de olio, formagi, e carne insalata, legumio, e simile cose che se hanno a distribuire a dì per dì se vogliono per ordine de maestro de casa et del scalcho quanto et quando bisogna31”. Va poi riportato come invece in un inventario delle masserizie del Palazzo ducale, tra gli arredi e corredi da cucina si noti anche un tavolo per confezionare ed appendere salsicce. Il Cinquecento _La legislazione statutaria_ Lo statuto di Genga, risalente al 1562 ma pubblicato centodieci anni dopo, raccoglie consuetudini normative radicate nel tempo nel feudo dei Conti della Genga. Anche qui si riscontra la preoccupazione di punire con multe i danni che i maiali possono arrecare a colture, quali orti, campi seminati con “erba, legumi, grano e simili”, vigne, “alberi fruttiferi compresa la quercia”32. Similmente gli statuti di Staffolo, redatti e approvati tra il 1544 e il 1546 comminano multe, considerando i parametri di entità secondo mesi o stagioni o anche l’età dell’animale, per danni causati a orti, vigne, canneti, alberi e frutti, pagliai o mucchi di fieno, campi di stoppia, o anche lasciati a maggese o incolti, oltre naturalmente a coltivazioni di grano, legumi, lino, o erba. In proposito si inibisce di lasciare gli animale incustoditi. “Per ovviare ai danni che porci e (29) (30) (31) (32) Ordine et officij de casa de lo illustrissimo signor Duca d’Urbino, a cura di S. ECHE, Urbino 1999, p. 120. Ivi, p. 121. Ivi, p. 122. Cfr. E. PRINCIPI, Statutum Castri Genghe, Roma 1989. “O SALUMI BENE AMATI” • 17 Pieter Brueghel il Vecchio. La cucina ricca, incisione. capre sono soliti causare, si ordina e si stabilisce che nessuna persona nata o abitante a Staffolo osi permettersi di lasciare andare sciolti e senza custodia, nel castello e nel territorio di Staffolo, porci e capre di qualsiasi età di sua proprietà o ad essa affidati; debbano anzi tenere detti animali opportunamente chiusi affinché non escano fuori liberi o incustoditi, con la multa prevista di 5 soldi per ogni porco, scrofa o capra”. Tuttavia vigeva anche la multa di quaranta soldi per chi uccidesse un maiale (o altro animale) di altrui proprietà33.Gli statuti di Cerreto d’Esi, confermati e approvati il 26 dicembre 1537 dai Priori delle Arti, del Popolo e del comune di Fabriano, stabiliscono il divieto di tenere più di “doi porci da carne per foco”, intendendo ossia per unità familiare, con la concessione di un numero maggiore solo negli spazi al di fuori di determinati territori chiaramente circoscritti. La multa abbastanza limitata e quindi non molto scoraggiante per chi intendeva per guadagno contravvenire era di 10 soldi. Il transito dei maiali era consentito dietro garanzia della massima sorveglianza e quindi senza recare danno alcuno alla comunità ed ai suoi beni e possedimenti34. La redazione definitiva dello Statuto di Serra San Quirico, la cui compilazione fu avviata dalla Comunità nel 1450, è del 1545: anche qui vengono menzionati i maiali tra gli animali forieri di danni alle colture, e le multe vengono differenziate a seconda del periodo, considerando meno gravi eventuali assalti nel periodo dalla semina al primo di marzo; si fa riferimento anche all’importanza della quercia, citata tra gli alberi fruttiferi per le ghiande, foraggio importantissimo per i suini. Si parla anche di carne porcina nelle norme che disciplinano il lavoro dei macellai, che avevano l’obbligo di abbattere i maiali solo nei locali di beccheria e non in luoghi pubblici, e dovevano garantire di vendere carne di capi sani e non ammalati, come anche di non spacciare carni di scrofa per carni di maiale maschio; erano infine stabilite le imposte per il transito dei capi suini nel territorio del Comune secondo tipologia, con lobolo pertanto di un bolognino per la porcastra, due per un maiale grosso, otto per una scrofa piccola, 12 per un maiale (33) (34) D. CECCHI, Gli Statuti del Comune di Staffolo, Staffolo 1998. M. F. CONTI, L. LACCHÉ, G. GIORGETTI, Statuti del Comune di Cerreto d’Esi, Cerreto d’Esi 1995. 18 • • 19 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” destinato all’ingrasso (denominato “serbatoio”)35. Gli statuti di Montemarciano hanno avuto due redazioni distinte: la prima sotto i Malatesta lungo il Quattrocento, mai abrogata in effetti e per cui in gran parte confluita nella seconda redazione, nel Cinquecento sotto i Piccolomini. In questi ultimi statuti, in genere indicati anche come “nuovi” (oltre che con l’intestazione della famiglia dominante. Le disposizioni riguardano il tipo ed i numero di capi suini che potevano essere tenuti a gestione familiare: “Li buoni massari che fanno lavoracci possino tenere uno o due o tre o quattro porci per lo victo et massaritie et di loro famiglia; et questo stia a discrezione del Signore o suoi ministri et agenti”. C’è poi la raccomandazione che i maiali vengono tenuti “in stipa”, ossia in piccole stanzette adibiti appunto a porcilaie e vicini alle abitazioni. Il pascolo di maiali era affidato spesso ad albanesi o schiavoni, e la documentazione restituisce nel tempo l’affidamento nel 1488 di un branco di 155 suini a tal Rado di Martino, schiavone: era però anche qui ben tutelato ogni abuso, punendo con un bolognino per ogni maiale lasciato libero di scorrazzare nei prati del castello, sanzione che saliva a 14 se “se i porci nelli prati cavino la terra36”. Gli statuti di Offagna risalgono nel loro nucleo originale al XIV secolo, ma presentano aggiunte databili fino al Cinquecento. Anche qui si presta attenzione ai danni recati dai maiali a orti, vigne e prati, e multe di quattro soldi per chi sottrae paglia dai pagliai per foraggiare porci. Si consentiva poi a chi non possedeva maiali anche di affittare i propri terreni per il pascolo dei capi suini, raccomandando di evitare frutteti o comunque terreni con “alberi che menassero frutti buoni al victo humano37”. Gli statuti di Gradara risalgono al 1363 ad opera di Sant’Antonio Abate, affresco di Scuola Camerte, Malatesta Malatesti nel 1363, e poi riconfermati anche fine secolo XIV, Chiesa abbaziale di Santa Maria dellle Moje di Maiolati Spontini (Ancona). da Vittoria Farnese della Rovere nel 1552: riguardo all’allevamento dei maiali si raccomanda che vengano tenuti al chiuso, evitando così un loro girovagare scomposto per il castello ed i sobborghi, e facendo pertanto partire una multa di cinque bolognini da pagare per ogni capo suino lasciato in libertà e per ogni volta che questa infrazione fosse avvenuta; il maiale colto a far danni a vigne, orti e canneti poteva essere ucciso e ferito38. Anche gli statuti del castello di Peglio (approvati e confermati dal duca di Urbino Francesco Maria della Rovere nel 1517) fanno riferimento ai maiali per quanto riguarda i danni da loro potenzialmente causati alle colture, intendendo vigne o seminativi, alberi da frutto (si specifi- cano in particolare pere, mele, olive, fichi, more) o ortaggi (erbe commestibili, meloni, zucche, cetrioli), fino al grano mietuto e disposto a barchi, covoni o cavalletti; la multa era limitata solo al risarcimento dei danni per i porcelli di età inferiore ai due mesi39. Le fasi ultime di datazione di alcune redazioni degli Statuti di Offida (o meglio degli offidani, secondo la dizione originale, “Statuta Ophydanorum”) vanno datate al XV secolo. Alcuni passaggi alludono alle fasi di compravendita dei maiali tra proprietari venditori e macellai: “Se qualcuno ad Offida vende un maiale o una scrofa ad un macellaio, costui deve salvaguardare i propri interessi prima di uccidere la bestia, perché dopo l’uccisione della stessa il venditore in nessun modo può essere chiamato in causa per difetto o malattia dell’animale”. Si stabilisce poi il divieto di “vendere in qualche modo o alienare ad un forestiero o estraneo alcun genere di animale da ingrasso o animali seguenti, cioè agnelli, castrati, maiali”, salvo un’apposita licenza da parte del Consiglio Generale di Offida”. Non mancano poi disposizioni per i macellai, che devono sempre essere in grado di garantire carne abbastanza per la città, con l’obbligo “da metà settembre fino alle calende di ottobre di macellare e vendere almeno due maiali alla settimana”, e “lavorare carni di porci o scrofe sempre in abbondanza”; Immagine devozionale a stampa (“santino”) di Sant’Antonio Abate, il macellaio che deteneva l’appalto delle carni grosse “doveva lafine XIX secolo. vorare e vendere in maniera abbondante e con pesi convenuti, dalla metà di ottobre fino a tutto il mese di dicembre carni di scrofa”. Vi erano tasse per tenere maiali (come anche altri animali) nei pascoli di Offida, con l’esclusione dei porcelli di età inferiore ai quattro mesi. Multe toccavano a chi mandava in giro i maiali senza custode, e a chi li faceva abbeverare indebitamente nelle fontane cittadine40. _Citazioni di prodotti di salumeria in conviti_ Il porco di casa, tenuto come risorsa preziosa da quasi tutte le famiglie, costituiva davvero una potenziale ricchezza, al punto da divenire oggetto di preda, bottino di guerra da razziare anche alle famiglie più umili. Ad esempio nel 1517 i saccheggi effettuati dalle truppe del duca di Urbino Francesco Maria della Rovere nel contado fecero registrare la razzia di 846 maiali vivi agli abitanti di Castelbellino (oltre a 115 some di grano) mentre a Monte Roberto la cittadinanza venne depredata di 283 porcelli (insieme a 393 some di grano e 199 d’orzo)41. Sembra veramente che il prosciutto fosse considerato una squisitezza da offrire nei più solenni banchetti di rappresentanza: nel 1516 a Cupra Montana (all’epoca Comunità del Massaccio) è documentato un pagamento “per uno prosiucto per lu presente de Monsignore42”. Si tratta evidentemente di un acquisto fatto per il pasto d’accoglienza servito al prelato, o forse anche un (39) (35) D. CECCHI, Gli statuti di Serra San Quirico, Serra San Quirico 2000. (36) Ivi, p. 98; cfr. D. CECCHI, Gli statuti di Monte Marciano, Jesi 1985. (37) Ibidem; cfr. C. CIAVARINI, Collezione di documenti storici antichi inediti ed editi rari delle Città e Terre Marchigiane. Statuti di Offagna, Ancona 1878, tomo IV. (38) Ivi, p. 99; cfr. Statuti di Gradara, Peglio e Montefeltro, trascritti ed annotati da G. VANZOLINI. Ivi, p. 100; Cfr. Statuti di Gradara, Peglio e Montefeltro, cit. Ivi, p. 102; Cfr. Statuta Ophydanorum, Fermo 1589 (rist. anast. Offida 1983). (41) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 109; cfr. R. CECCARELLI, Monte Roberto. La terra. Gli uomini. I giorni, cit., p. 108. (42) ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CUPRAMONTANA, Istrumenti e trasatti, I, c. 102 r. ; cfr. R. CECCARELLI, Come uno di casa: il suino nelle Marche, Ancona 2003, p. 106. (40) 20 • • 21 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” dono di natura cerimoniale, spesso contraddistinto da omaggi in cibarie. Come sostiene a riguardo Riccardo Ceccarelli, storico e ex-bibliotecario di Cupramontana, “il prosciutto “nostrano” era sempre, anche allora, un gradito omaggio oltreché apprezzato su tutte le tavole, come lo era in quel di Mantova il prosciutto d’Abruzzo43”. Persino in una città di mare come Ancona nelle voci documentate relative al consumo di carne i maiali figuravano tra gli animali più macellati, stando almeno ai dati registrati nel 1517 dal “Libro della Becharia del magnifico Comune de Ancona” (registro della macelleria cittadina): da questo elenco risulta infatti che furono uccisi ben 1272 maiali, per un peso totale di 146.264 libbre (una libbra corrisponde circa ad un terzo di chilo), equivalente agli odierni 487,54 di quintali44. E tra tutti i prodotti derivati dalla macellazione suina il prosciutto aveva naturalmente un posto di rilievo: stando agli elenchi con i prezzi cittadini sembra che nel Cinquecento il prosciutto costasse 12 bolognini al chilo, prezzo abbastanza abbordabile se si calcola che il salario giornaliero di un operaio si aggirava da un minimo di dieci bolognini al massimo di sedici45. Probabilmente ciò è dovuto alla diffusa consuetudine anche in città (come nelle campagne circostanti) di allevare in casa un maiale per ricavarne annualmente la riserva di “salata”, una trasformazione domestica che naturalmente esulava dalla produzione censita ufficialmente nei pubblici macelli, ma che certamente riempiva di salumi molte dispense domestiche (la pratica della “pista” nelle famiglie cittadine verrà ampiamente documentata in seguito). Sulla fortuna e la diffusione del prosciutto nella cultura alimentare marchigiana del Cinquecento non va dimenticata la dotta testimonianza di Costanzo Felici da Piobbico, insigne medico (laureato a Padova) ed appassionato studioso di botanica, autore nel 1572 di un breve trattato, la “Lettera sulle insalate”, dove censisce tutti i vegetali commestibili. Saggiamente però nelle sue pagine compaiono anche molti riferimenti anche ad altri generi alimentari, che naturalmente si associano spesso tra di loro. Ad esempio quando descrive le lenticchie osserva che “è molto familiare alle cucine in minestre così de magro como di grasso, che così volentieri si accompagna con ossa e persciutti46” (e non va dimenticata la tradizione contadina sopraggiunta fino quasi ad oggi, che secondo una logica di assoluto risparmio di ogni commestibile riciclava l’osso ormai scarnificato del prosciutto come insaporitore di zuppe di legumi, chiamato per questo l’ oss cunditor nel pesarese). E’ quindi inevitabile che anche il piatto d’erbe per eccellenza, l’insalata appunto, possa arricchirsi anche di aggiunte proteiche, sposando così per i più golosi anche autentiche golosità di carne, ed in particolare leccornie suine. Così scrive il Felici: “Similmente si vedono in tavola insalate spesso volte di carne grosse, como bovino fredde e trite minutissime con aceto e sale e pepe, petrosello e alcuna volta cipolla o scalogna o altra sorte de agrume trito. Non vi mancano ancora de’ ghiotti che vogliono insalate de polpe de capponi, de faggiani, de pernice, de pavoni, fredde, condite como l’altre insalate e trite minutamente. Si servono ancora per simile insalate, con il medemo modo, de persciutti o altra carne porcina salata47”. E’ chiaro che si parla non certo delle umili misticanze d’erbe di tutti i giorni dei contadini (al massimo impreziosite con il lardo) ma di sontuose insalate per le mense signorili, che rendono più accattivanti le foglie profumate con aggiunta di costose e prelibate ghiottonerie. Si ribadisce ancora pertanto come anche nelle Marche il prosciutto venisse considerato una squisitezza degna delle imbandigioni più nobili. Il 23 aprile 1573 le carte dell’archivio priorale di Macerata registrano la “Venuta della principessa di Toscana”, con gli acquisti necessari ad imbandirle conviti degni del suo rango: tra frutta, ortaggi, erbe aromatiche, formaggi, carne e pesci assortiti, latte, acqua di rosa, sapa, neve, 100 uova ed addirittura oro in foglio “per ornare certe palle che furono messe in tavola”, risulano anche otto prosciutti, salsicciotti, lardo, barbagli, “distrutto”48. _Considerazioni sulle leggi suntuarie nelle Marche_ Le leggi suntuarie sono provvedimenti nati49 per arginare spese incontrollate e folli nei banchetti. Infatti l’emulazione tra famiglie ricche, nell’esibire il maggiore dispendio economico nei ritrovi conviviali, cominciò ad un certo punto addirittura a preoccupare i governi cittadini, e furono presi provvedimenti per arginare certi eccessi preoccupanti, oltre che per le spese elevatissime anche per timori di degenerazione della morale e dell’ordine pubblico. Per fare alcuni esempi marchigiani si può citare il caso di Macerata, dove i Capitoli Suntuari erano regolati da una riformanza del primo di aprile 1593, rimasta valida fino alla fine del ‘700. Il testo recita: “Si proibisce anco per togliere l’occasione di molte cose superflue che si fanno nelli conviti, et banchetti et nello presentare con offesa del Signore, et danno e scandalo di molti della città ogni sorta di pasticci tanto di grasso come di magro, et così anco le confetture, fatte con succaro e rosolij, come pignoccate, mustaccioli, pastevali et altre cose simili, eccetto cotognate et persicate con una sorte di confetture bianca (…) si permettono bene li antipasti, tre sorte d’arrosto et due d’allesso, et li pospasti. Che non si possano usare pavoni, faggiani, cotornici, caprij, cignali et altra sorte di selvaticini che non si trovano in provintia, et che sia lecito dar solo due sorte di torte o crostata et no più, et che in banchetti in grasso non si possa dare alcuna sorte di pesce eccetto li testacei. Che di tutto sorte d’uccelli et d’animali tanto domestici, come selvatici non possano darsi se non due sorti di vivande50”. Tra tutte le pietanze messe al bando non vi è traccia alcuna di prosciutto o salumi. A Camerino un codicillo suntuario venne inserito nel 1563 negli Statuti Comunali, tentando così di limitare eccessi ostentatori di ricchezza nel fasto conviviale: anche qui non vi è traccia di squisitezze porcine salate, poiché la censura si concentra infatti quasi esclusivamente sulle ambitissime ma costosissime confezioni di zucchero (non più di una per banchetto, ed ad(47) Ivi, p. 30. Citazione d’archivio tratta da U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana: Ricette, vini, personaggi, prefazione di G. LIUTI, Bologna 1993, p. 20. (49) F. BRAUDEL (La civiltà materiale, economia e capitalismo – Le strutture del quotidiano (secoli XV – XVIII), Torino 1979, p. 166) nota che “in Occidente, il lusso a tavola appare in una forma complessa e articolata relativamente tardi, rispetto alle altre civiltà (la cinese nel V secolo, la musulmana verso l’XI e il XII) ossia a partire dal secolo XV”. (50) Cfr. M. NATI, Editti e bandi di argomento alimentare nell’archivio priorale di Macerata, in La carte in tavola: manoscritti e libri di cucina nelle Marche, a cura di A. M. NAPOLIONI, Macerata 1996, p. 92. L’autore ha trascitto i capitoli suntuari dall’opera: Giuliozzi, G. “Gli statuti suntuari dal secolo XV al XVIII per la città di Macerata. Memoria storica seguita da tre statuti non mai stampati.”, Fano, 1879, opuscolo stampato in occasione delle nozze di Maria Buonaccorsi con il conte Leonardo Labia. (48) (43) R. CECCARELLI, Come uno di casa: il suino nelle Marche, Ancona 2003, p. 106. L’autore cita in proposito un passaggio del Baldus di T. FOLENGO, poema eroicomico cinquecentesco. (44) Archivio di Stato di Ancona , Archivio Storico Comunale, Liber Rubeus, c. 139: cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana: Vita quotidiana ad Ancona fra XVI e XVII secolo. Palazzo, feste, modi di vestire, di arredare e di mangiare di una città adriatica, Ancona 2005, p. 373. (45) P. GIANGIACOMI, Ancona…, pp. 82-83; cfr. cfr. F. M. Giochi – A. Mordenti, Civiltà anconitana..., cit., p. 371. (46) C. FELICI, Dell’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del’homo, Urbino 1986 , p. 126. 22 • “O SALUMI BENE AMATI” dirittura in determinati casi era consentito solo un dolce di mele)51. Infine ad Ancona una severa riformanza del 1584 frena stravizi e lussi eccessivi a tavola, concedendo in occasione di nozze o banchetti non più di “una insalata e due vivande alesse, e due arrosti, con due savori” (composte o salse), vietando “pasticci intermedj di paste reale o di altra sorte, pasta, zuccari, torte, pinocchiate o di altra sorte di intermedj”, concedendo come dolci solo una torta ed i confetti. Anche qua nessun riferimento a salumi, neanche a quelli particolarmente pregiati52. Il Seicento _Importanza e attestazioni dell’allevamento suino_ Lo storico urbaniese Corrado Leonardi in uno studio sulle rendite terriere al momento dell’erezione della diocesi dell’antica Casteldurante riporta come tra i prodotti principali agro-alimentari fruttati dai beni terrieri del primiceriato, la carne suina aveva un posto di primo piano, assieme agli agnelli, mentre le pecore rendevano molto formaggio e lana, ed invece le colture più imporanti erano rappresentate da grano, mosto e biade; i possedimenti di Santa Maria del Borgo rendono anche legumi, “frutti vari” e “foglia di gelso per bachi da seta”53. La Santa Casa di Loreto acquistò nel 1546 un’area boschiva estesa per oltre duecento ettari e posizionata sotto Castelfidardo alla confluenza dei fiumi Aspio e Musone; lavorata da quei gironatari assodati abitualmente dalla Santa Casa per le grosse opere stagionali, nei due decenni successivi si procedette ad un disboscamento, e nel 1561 risulta la costruzione di una casa con palombara annessa, mentre dell’anno successivo è il primo contratto mezzadrile54. Se nel 1581 l’area dissodata aveva raggiunto circa cento ettari, l’area boschiva rimanente viene affidata in affitto nel 1624 per dieci anni, e verso la metà del Seicento, quando al completato dissodamento si aggiunge un parziale controllo delle acque dei due fiumi attraverso alcuni interventi di bonifica, la “possessione” viene divisa in due grandi poderi, “Mirano di sopra” e “Mirano di sotto”. Le coltivazioni applicate riguardano principalmente il grano e la vite, a cui si affiancano orzo e miglio, con modesta produzione di legumi tra cui fava, fagioli, ceci e veccia; nella seconda metà del Seicento tra le “bestie grosse” allevate dal colono si riscontrano quattro vacche ed alcune cavalle con relativi vitelli e puledri, 30-50 pecore e una decina di maiali oltre ai buoi aratori, mentre nel secolo precedente per una parte di terreno pià ridotta pascolavano 52 vaccine, 21 cavalle, 88 porci, e 40 capre oltre a un numero imprecisato di pecore. (51) A. A. BITTARELLI, Statuti particolari a Camerino alla fine della Signoria (1545) a tutto il ‘600, <Studi Maceratese>, 11, 1975, pp. 414-417. L’autore fa riferimento agli Statuta Populi Civitatis Camerini del 1563, in particolare all’appendice Ordini, statuti et reformationi della città di Camerino, fatte per moderare le soverchie pompe del vestire delle donne, delle nozze e delle esequie funerali, 20 febbraio 1562. (52) Biblioteca Comunale di Ancona, C. ALBERTINI, Storia di Ancona, MS, vol XI, p. I., c. 158; Cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 310. (53) C. LEONARDI, Investimenti terrieri nella erezione della diocesi di Urbania: 1636, in L’agricoltura marchigiana nella “crisi” del Seicento: atti del convegno di Morro d’Alba, maggio 1986, <Proposte e ricerche>, 17, 1986. (54) M. MORONI, Formazione e vicende di un podere lauretano, in L’agricoltura marchigiana nella “crisi” del Seicento: atti del convegno di Morro d’Alba, maggio 1986, <Proposte e ricerche>, 17, 1986. L’autore ha ricavato i dati da documenti dell’Archivio della Santa Casa di Loreto. “O SALUMI BENE AMATI” • 23 _Disposizioni riguardo alle “salate” domestiche e sontuosi conviti del ‘600_ Del resto, come già osservato, se era molto redditizio, e quindi comune per le famiglie dei castelli e dei contadi tenersi in casa almeno un maialino per la “salata”, era consequenziale che anche nelle città, chi ne aveva facoltà si teneva qualche suino tra le proprie mura, mantenendo così diffusa la produzione ed il consumo di prosciutti ed insaccati. Non a caso ad Ancona nel Seicento risulta una tassa per i possidenti di maiali che si facevano la “Pista” in casa, autoproducendosi così riserve di carne salata ed insaccati; tra questi oltre all’ovvia presenza dell’aristocrazia si segnalano anche famiglie di artigiani55. Sempre ad Ancona c’è un episodio che rivela quale fosse la frequente presenza di prosciutti e salumi nelle tavole dell’epoca. Quando la Granduchessa di Toscana giunse in città nel 1613 il cerimoniale di accoglienza previde naturalmente di imbandire un grande banchetto per lei ed il suo numeroso seguito, distinguendo le tavole e le rispettive liste delle portate secondo gerarchia. Ad occuparsi di questo ricevimento conviviale fu monsignor Domenico Marini, Commissario Apostolico delegato al viaggio della Granduchessa di Toscana nello Stato Pontificio, che scrisse al Governatore di Ancona alcune istruzioni per il convito del seguito inferiore: “Intanto basterà dirle, che per la Gente Bassa in numero di 200 e più dovrà essere in ordine una stanza grande con tavole poste, ed in esse, all’arrivo che faranno di mano in mano le dette Genti trovino pane, vino, casito [formaggio], presiutto, salami, e che in cucina separata si cuochino doi gran caldari, uno di carne vaccina e vitella grossa di libre 300 circa e l’altro di minestra, cioè e riso e macarini [maccheroncini lunghi tipo capellini] o taglierini o altra cosa simile, la qual cosa si distribuisce in piatti grandi nel detto tinello, dove anco, per qualche persona più di conto, ci potrà essere un poco di arosto di vitello sino a 50 libre […]56”.Ecco che ancora una volta si nota come quindi i salumi fossero considerati un cibo degno ed appetitoso, ma non certo di primissimo pregio, se serviti al corteo di dame e cavalieri di secondo rango; lo stesso prosciutto, per quanto considerato universalmente il più buono ed apprezzabile di tutti i prodotti della pista suina, era comunque servito a questa seconda mensa come cibo di immediato conforto, già affettato ed imbandito sulle tavole per queste duecento persone al seguito. Si trattava pertanto di un antipasto o portata “di prima credenza” (secondo il gergo conviviale dell’epoca), subito pronto sulla mensa imbandita per un gruppo numeroso e sicuramente molto affamato (al di là della continenza e della misura imposta dal loro ruolo). Del resto anche nel passaggio a Macerata della medesima Granduchessa di Toscana risultano acquisti di altre provviste suine, in particolare di salsicce e strutto, e forse va inquadrata in questo senso anche la voce relativa a “84 coppe di conciatura per dare a magnà57”. A conferma di un pregio anche popolare di questo salume, l’anno seguente, un bando del 27 gennaio 1616, emesso ancora dal medesimo Governatore della Marca Domenico Marini, fissa i (55) Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, Salata porcina 1606-1611, n. 1494; Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, Libro del Consigli 1604-1611, n. 1536, c. 134; cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 372. (56) BCAn, C. ALBERTINI, Storia di Ancona, MS, c. ; cfr. T. LUCCHETTI, L’arte conviviale nelle Marche centrale del Seicento: cultura e società nelle pratiche della cucina e del banchetto, <Le Marche: Folkore-Religiosità>, V, 2002. (57) Citazione d’archivio tratta da U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana: Ricette, vini, personaggi, prefazione di G. LIUTI, Bologna 1993, p. 24. 24 • “O SALUMI BENE AMATI” Incisione, Il corteo dei macellai di Norimberga con la salciccia gigante, 1658 ca. prezzi di molti prodotti in vista dell’imminente Carnevale, tra cui oltre a olio, formaggio anche prosciutto (ed anche lardo, salsicce e salumi vari), mettendo al riparo i cittadini ed il Governo stesso da eventuali abusi ed irregolarità da parte dei rivenditori58. Tornando invece ad un ruolo solenne del prosciutto si ricorda l’arrivo a Casteldurante (l’attuale Urbania) nel 1621 dei novelli sposi Federico Ubaldo della Rovere e Claudia de’ Medici. La “Lista del donativo mangiativo fatto dalla Comunità di Casteldurante” riporta gli omaggi cerimoniali di cibarie: l’elenco contemplava oltre a preparazioni raffinate, come “Confettura bianca di Venezia”, altri generi costosi ed esclusivi, come pani di zucchero e spezie (chiodi di garofano, cannella e pepe), ma anche carne come vitelle da latte, castrati, capretti, tacchini (“polli d’India”), capponi, ed infine “salsicciotti bolognesi”, formaggi ed anche prosciutti (ben 20 per un totale di 84 libbre59). Passando dal vitto donato ad una coppia di regnanti ad un contesto sociale tristemente opposto, si può testimoniare ulteriormente una certa trasversalità sotto molti aspetti del prosciutto nelle mense, notando come per quanto risorsa suina pregiata potesse figurare anche nelle tavole di gente particolarmente umile, come ad esempio il refettorio di un orfanotrofio. L’esempio in questione è un ricovero per orfane a Macerata, fondato da Vincenzo Berardi, figura di grande benefattore nella storia della città60, che iniziò ufficialmente ad esistere quando, il (58) Archivio di Stato di Macerata, Priorale, vol. 780, c. 3; Cfr. M. NATI, Editti e bandi di argomento alimentare nell’archivio priorale di Macerata, in La carte in tavola: manoscritti e libri di cucina nelle Marche, a cura di A. M. NAPOLIONI, Macerata 1996, p. 18. (59) C. LEONARDI, Il cibo nelle feste popolari dell’Alta Valle del Metauro tra Ottocento e Novecento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 57, nota 18. (60) Regola / delle Orfanelle Berarde / descritta per ordine / dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor / Cardinal d’Ascoli Vescovo / di Macerata / dal Reverendo Padre Don Doroteo Panicario / Barnabita / Penitenziero nella Cattedrale / di Macerata / In Macerata MDCXXXVI / Appresso Agostino Ansovini. / Con licenza de’ Signori Superiori. Una regola dell’orfanotrofio fu scritta già nel 1626 dal sanseverinate Ganimede Panfilo, ma evidentemente furono ritenute inadatte (L. PACI, La “Regola delle Orfanelle Berarde” del 1636, <Studi maceratese>, 29, 1993, p. 312). Sulla vita di Vincenzo Berardi, la storia della sua famiglia, il suo ruolo di esponente della “Riforma cattolica”, e le attività caritative da lui promosse nella Macerata si veda la stessa fonte (pp. 306-311). “O SALUMI BENE AMATI” • 25 28 dicembre 1626, le prime orfane entrarono nella casa; nel 1636 fu stampata la ”Regola” che disciplinava l’organigramma e le norme che articolavano il funzionamento dell’Istituto, e anche il regime di vita cui andavano sottoposte le orfanelle, compresi naturalmente anche gli aspetti legati al vitto quotidiano. Leggendo le disposizioni in essa contenute non solo abbiamo modo di conoscere come fosse strutturato tutto il servizio relativo all’approvvigionamento e alla cucina, ma anche quanto e come il cibo venisse considerato uno strumento per educare e formare le bambine e renderle consapevoli della loro condizione. Non solo infatti i pasti erano improntati nella quantità di cibo e nel comportamento a tavola a principi di austerità e morigeratezza, ma addirittura molti dei sistemi correttivi e delle punizioni vertevano su limitazioni da subire nel refettorio o su privazioni di pranzo o cena. Si doveva imprimere alle orfane, per renderle ancor più umilmente asservite, l’idea che il loro sostentamento dipendesse totalmente dalla benevola magnanimità dell’Istituto, per scoraggiarle dalla benché minima idea di possesso e autosufficienza, tanto che eventuali doni di cibo ricevuti dovevano tassativamente essere consegnati alla Madre Superiora, “la quale potrà darne la parte magiore a quella che ha avuto il presente se è cosa magiativa” (misura volta anche ad educare le orfanelle alla generosità e alla condivisione dei beni). La pigrizia era punita a pane e acqua, mangiare o bere senza permesso comportavano la privazione per un giorno di minestra o vino, a pranzo o a cena. I momenti dedicati al pasto erano scanditi con precisione dalla “Regola” (due volte al giorno ci si rifocillava nel “cenaculo”, definito “loco di corporale refettione”) così come il comportamento da tenere (“starvisi nell’hora di pranzo e cena, con modestia e silentio non parlandosi senza bisogna e, in tal caso, con voce bassa e con licenza”, “mentre si mangia, una sempre legga”). Le orfanelle seguivano così la disciplina: una volta entrate in fila si sedevano (tranne quelle che per gravi mancanze, ad esempio ingiurie, maltrattamento di compagne o schiamazzi dovevano mangiare a terra), con la ferrea raccomandazione che “in cenacolo si stia sempre con ogni modestia e nessuno guardi la porzione dell’altra e molto meno, la scambi con la sua, né meno si facci in verun modo, regali di cose da mangiare sotto qualsivoglia pretesto, ancorché di carità e compassione” Il vitto era fisso, articolato in una rigida cadenza settimanale che prevedeva cibi e pietanze determinati per ognuno dei sette giorni, ed ecco che la domenica a pranzo si servivano tagliolini e carne lessa e la sera prosciutto, mentre il salame compariva a tavola il giovedì sera, e la voce generica “salumi” figurava nei pranzi di mercoledì e sabato e nella sera di Venerdì (anche se in quel caso era molto probabile che si trattasse di conserve ittiche sotto sale, stoccafisso, sardelle, aringhe ecc.). La “Regola” prescrive minuziosamente anche le porzioni per persona: per il pane non vi erano limiti (“Per ciascuna quanto bisogna”), ognuna aveva a disposizione una foglietta di vino al giorno, la quantità di olio (usato esclusivamente per l’insalata) nei giorni di Vigilia e di magro era stabilita di volta in volta dalla Priora, e a sua discrezione era anche la scelta dei salumi. Per gli altri alimenti le dosi pro capite erano così fissate: “Carne compreso l’osso: Once 4 (gr.90 c.) Tonno: libbre 1 (gr.333) per 8 bocche Uova: uno ciascuna Saracche: mezza ciascuna Prosciutto: libbre 1 (gr.333) per 8 bocche 26 • “O SALUMI BENE AMATI” Salame: libbre 1 (gr.333) per 12 bocche Farro: libbre 1 per 6 bocche Formaggio: libbre 1 per 10 bocche Riso: libbre 1 per 6 bocche Sardelle: una ciascuna se grosse Baccalà: libbre 1 per 6 bocche Legumi libbre 1 per 4 bocche61”. Si trattava di un modello alimentare improntato sulle refezioni monastiche, con alcune significative migliorie, come ad esempio la presenza costante della carne, che in effetti nella realtà comune seicentesca era un lusso molto raro. L’adozione di questa formula riveduta e corretta era pertanto garanzia di un vitto completo, sostanzioso, anche variato e probabilmente appetibile, di certo invidiabile in un’epoca contrassegnata da diffusa condizione di povertà ed indigenza. _Memorie seicentesche sulla porchetta_ Un testo molto significativo della cultura gastronomica italiana seicentesca è sicuramente l’opera di agronomia di Vincenzo Tanara “L’economia del cittadino in villa”, dove la vita di campagna viene affrontata in un’ottica aristocratica, con suggerimenti utili riguardo al trascorrere del periodo di villeggiatura, ma anche con insegnamenti sulle problematiche di gestione dei possedimenti rurali. Vi viene pertanto descritto il mondo dei campi, la vita agreste nella sua quotidianità, i lavori dei campi necessari durante il corso dell’anno. Tra tutte le mansioni rurali viene anche trattato l’allevamento suino in tutti i suoi particolari, compresa l’uccisione del maiale fatta dai contadini, descritta minuziosamente, al punto che è facile trovare contiguità con le modalità che la tradizione ha perpetuato fino ad oggi62. E’ infatti decisamente interessante considerare come un intellettuale aristocratico possa essere stato spinto dalla curiosità di indagare il mondo dei contadini, soffermandosi sulla loro realtà di lavoro, ma anche nelle loro evasioni di festa con i vari cibi caratteristici delle varie ricorrenze celebrate. Nello spiare appunto il rituale dell’uccisione del maiale oltre a rilevare tutte le varie pratiche di confezione dei prodotti suini e dei salumi, l’autore cita anche anche i dolci fatti con il sangue del maiale, tipici proprio di questo momento (61) Ibidem. “Il modo d’ammazzare il porco che da’ nostri contadini si costuma parmi che seguiti lo stile da quel cuoco narrato in Ateneo, dimandando à convitati che gli mostrassero il luogo della ferita. Così li nostri rustici, atterrato il porco col tridente della stalla, passato il ferro di mezo per la bocca del porco e conficcato in terra, s’assicurano da ogni offesa qual col scuoter il capo loro potesse fare; poi signato ove l’unghia del piede anteriore piegato giugne alle coste, ivi dicono esser il cuore, e per ivi con un ferro sottile quanto un chiodo, overo un pugnale, con pochissima ferita procurano d’offendere quella parte vitale, e subito levatone il ferro con ago e filo chiudono la picciola apertura. Indi in una conca, overo vaso ove s’abbeveran le bestie, collocatolo con acqua bollente, lo liberano da peli, setole, e unghie; ogni volta però che con fuoco di paglia o sarmento non gli volesse abbruciar le sudete setole e peli, il che da molti è lodato, perché con lo star il porco nell’imondezze ha nella pelle sempre qualche imperfetto, quale col fuoco meglio si leva o mortifica che con l’acqua. Al lattante da un picciol foro pel fianco se gli levano l’interiora, ma il grande già fatto bianco nel sudetto modo, appendesi co’ piedi derettani, se gli apre il ventre con avertenza che nulla delle budella si tagli; queste si fanno entrare in un catino, e il sangue radunato e quasi rappigliato avanti la picciola ferita si fa cadere in una pignata; la lingua, polmone, fegato in dispensa col sangue si serbano; dalle budella la sollecita madre di famiglia con le serve leva il grasso senza offese di quelle, qual se per sorta succedesse, subito con preparato filo si ligano. Il grasso in vaso si conserva per dileguarlo”. (TANARA, V., L’economia del cittadino in villa, Bologna, 1644, in L’arte della cucina in Italia, a cura di E. FACCIOLI, 1987, p. 628). (62) “O SALUMI BENE AMATI” • 27 contadino di spensierato e meritato godimento collettivo. L’autore propone un repertorio “Del porco e delle centodieci maniere di farne vivande”, e tra questi nel parlare della porchetta fa un esplicito riferimento alle Marche63: “Nelle provincie dell’Umbria e Marca ne compariscono su le piazze di quelle città e terre ogni mattina di domenica molti, così cotti arrosto, da vendere, con molto utile de’ poveri, quali senza far pignatta all’ora di desinare ne comprano un pezzetto e con la sua famiglia godono”. In effetti molti bandi regolamentano nei piccoli e grandi centri abitati il lavoro dei porchettari e lo smercio della porchetta nelle grandi adunate cittadine, in occasioni particolari come fiere, mercati e feste patronali, proprio perché era questo uno dei cibi di strada più ricorrenti e consumati a livello popolare. Nell’archivio storico di Corinaldo tra i “Libretti del Datio della carne” del 1653 vi sono sette registrino relativi alla Gabella della Carne, riscossa da G.B. Bartoli “essattore delli Quattrini della Carne”, ed uno di questi è appunto denominato “Libro delle Porchette”64. _Un ricettario manoscritto seicentesco: Le carte di casa e cucina del maceratese cardinal Bonaccorsi_ Ma la nobiltà per dovizia di risorse e di tempo aveva da sempre trasformato la cucina in autentica arte tra le arti, a sua volta officiata su mense che divenivano palcoscenici artificiosi per l’ostentazione di uno status inarrivabile di prestigio e ricchezza. Per i tagli più svariati di carne di maiale e le diverse prelibatezze di salumeria si erano così individuati molti modi diversi per imbandirli, impiegandoli come ingrediente in molte e laboriose ricette. E’ estremamente interessante sfogliare in proposito il corpus di manoscritti tardo - seicenteschi contenenti ricette e suggerimenti per l’arte del banchetto, appartenuto alla famiglia maceratese dei Buonaccorsi e da far risalire in particolare alla corte di fine secolo del cardinal Bonaccorso. Una carta spiega la “ricetta, o sia istruzione per far l’oglia alla spagnola”65: la pietanza, chiamata anche “olla”, tuttora presente nella cucina tradizionale spagnola, sembra emblematica della cucina barocca, nel suo sfarzoso carico di ingredienti ricchi amalgamati in accordi talvolta stridenti. La variante contenuta nel ricettario Buonaccorsi prevede l’utilizzo di un opulento ed eterogeneo carico di carne (vaccina, castrato, cappone, pernici, prosciutto, piedi di porco, salsiccione) fatto cuocere a lungo con un saporoso assortimento di verdure, cavoli, cipolle, aglio e rape, e con aromi e spezie (zafferano, pepe, chiodi di garofano e noce moscata). Un’altra ricetta di “oglia”, detta “putrida”66 (aggettivo non certo invitante per un lettore contemporaneo): si preparava con cappone, vaccina, guanciale, prosciutto e salsiccia, aromi di cannella, chiodi di garofano, noce moscata e zafferano, e con le erbe delle campagne circostanti, ceci, cardi e sedani. Una ricetta per il cappone prevede di cuocerlo al forno assieme a prosciutto, prugne, visciole, (63) Ibidem: “Il porco da sei mesi fino alli due anni tutto intiero arrosto nel forno, ripieno d’erbe odorifere in questa patria molto non si costuma, ecetto però che il giorno tanto celebrato di San Bartolomeo, nel quale al popolo, per costume antico della città, in memoria di certa vittoria uno intiero arrostito al popolo si precipita.” (64) Il documento è citato in C. GIACOMINI, L’Archivio del Comune di Corinaldo: Antico Regime e Aggregati, coordinamento scientifico di M. MEI, Ancona 1998, p. 373. (65) B. S. Mc., Bn., “Ricetta o sia istruzione per far l’olia alla spagnola”, b. 4/22. (66) B. S. Mc., Bn., “Pranzo di nove persone a tavola servito in piatti reali di libbre otto per il cardinal Marescotti li 2 gennaio 1676”, b. 4/5. La “olla porrida” è un piatto tuttora esistente nella cucina spagnola. Lo Scappi la chiama “Oglia Podrida”, nel ricettario Buonaccorsi diventa “Oglia Putrida”. 28 • • 29 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” pinoli, passarina (uva passa), spezie e cannella67. Il ricettario della famiglia dei Bonaccorsi è un’autentica collazione di preparazioni di cucina raccolte un po’ ovunque, come succede nei quadernetti manoscritti di tutte le famiglia odierne, dove vengono copiate istruzioni prese da altri parenti ed amici. Nel vademecum generale vergato per decine di carte intitolato “nota di quanto si poterìa dare in un banchetto” si raccomanda in apertura di servire squisitezze di salumeria d’ importazione quali “presutti vestiti e investiture di Parma, e forse di Cremona e simili”, o ancora “presutto intiero cotto con vino, servito come la mortadella con schiuma d’ovo sopra”, o genericamente “Tondino di mortadella in fette, salame di Firenze, lingua di bue salata, coppa, filetti di Napoli, o altre investiture di porco salato dato in fette”; nel medesimo documento si vede poi la preparazione della “testa di rufalotto”, ossia di porco selvatico, da ricondurre decisamente alla odierna preparazione della coppa di testa68; nei medesimi fogli si leggono ricette come tortellini o anolini ripieni con “barbaglia o goletta di porco”, o preparazioni come “verdure diverse cioè cavoli, rape, cipolle, sellari, cardi, finocchi in scartozzi d’orto o finocchietti di vigna; tutte dopo rifatte cotte con bon brodo, con fette di presutto, o salsicce fina, o mortadella in fette, o ventresca schietta di odore, “o nduglie” o filetti di Napoli in fette, con pepe ammaccato e garofol sano”. In un’altra carta si legge la spiegazione di una ricetta che è nel tempo sopravvissuta nella tradizione gastronomica contadina regionale, ossia la frittata cosiddetta “rognosa”: con mortadella o ventresca, o presutto o barbaglia di porco, cioè goletta salata tagliata a dati, o in fette lunghe, desfritte prima con strutto poi buttatavi supra l’ova bene sbattute, con zuccaro e cannella sopra, e senza69”. In un elenco dedicato a crostate e torte si leggono due preparazioni caratterizzate da due provviste suine ugualmente impiegate in preparazioni dolciarie rustiche sopravvissute al tempo nella memoria collettiva, anche marchigiana: la prima è preparata con “sangue di porco con latte, ova, cipolla fritta trita e spetie; detto migliaccio”, la seconda è una “Torta di lardo […] ben lavato con acqua rosa, incorporato con rossi d’ova, candito, zuccaro e cannella”70. Riguardo agli affettati in un altro registro intitolato “vitto” si leggono le proposte di “Presciutto e salame” e “in piattini fette di presciutto cotto in vino, o mortadelle di Bologna, o coppe di Modena”; o ancora in “piattini sopra salviette e vi si puol mescolare qualche fetta di salame e questo è bono tutta l’estate”, o ancora piattini di “fette sottili di presciutto cotto sopra salvietta e foglie di laoro regio lavorate di mortadelle di Bologna o coppe di Modena71”. In un’altra carta dedicata alle minestre si leggono ricette con l’impiego di salumi, come la “Minestra de cavoli, rape, cipolle; dopo rifatte, poste in bon brodo con fette di presutto, pezzi di formaggio, rami di finocchio forte, pepe e garofalo con formaggio sopra”72. In una lista di servizi caldi si ritrovano pietanze elaborate come “Capponi bulliti in zuppa, hadornati di charciofoli ripieni e chavoli fiori con un potagietto sopra, fatti di bochoni di animelle e brugnioli con festone di mortatella gratata e torli di ova toste et erbette battute”, o ancora similmente “lardati di presiutto e spezie sane, cotti con malvasia, regalati di pagniottine fatte di spoglia di butiro et altro”73. Nella descrizione del “Pranzo del cardinale Albizi, dicembre 1675”, si legge come in apertura sia stata servita una “testa di porco”, o ancora di due capponi “allessi”, imbanditi con un cavolfiore, una libbra di salsiccia e sei once di tartufi freschi74. Nelle memorie di “Febraro 1677” tra i vari suggerimenti si legge di imbandire “Piattini con salsiccia o sanguinacci”, o il “piattino di prosciutto sfilato”ed anche la “Mortadella grattata con zuccaro sopra serve anche per mangiar con meloni”, nonché una ricetta per i cavoli decisamente arricchita con prelibatezze suine: “Si fanno ancora di grasso nel medesimo modo di giorni di grasso, con aggiungervi brodo in cambio della detta aqua e vi si mette fette di prisciutto, salcicie o mortadella, barbaglia; et è bene metterci a bollir dentro la pila, con detto prisciutto o panzetta, qualche pezzo di cascio o croste di detto75”. Salsiccia e prosciutto erano spesso impiegati come ingredienti per nobilitare baroccamente alcune pietanze superbamente sontuose come i capponi adornati trionfalmente, e per questo serviti su piatti speciali denominati appunto “da cappone” in queste note manoscritte: si legge di “Capone lesso coperto con finocchietti, o sellari, o cardi con salciccia libra ½, formaggio e cannella sopra”, o ancora di “Capone lesso coperto di rape, cavoli, cardi e sellari insieme, salciccia libra ½, presciutto libra ½, stecchi di cannella sana oncia ½, garofano intiero 1/8, rame di finocchio di vigna con formaggio sopra76”. In un documento si illustra poi un “hantipasto” ottimale, autentica antologia “salumaria”: “Per li hantipasti non ne ò fatto nota perché quelli sono più ordinarij, come fegato di mongana, animelle e cervelli di detta, animelle e coratelle di capretto, fegatelli di vitella e di porcho, tomasselle, tordi, lodole, quaglie, bechafichi, ortolanij, salsicie sopra fine, et altri che tutti servono per antipasto, tramezati a dispositione de signori scalchij. E presiuto e mortadelle, salami di Cremona, salcicioti di Fiorenza, salcicia di Luc[c]a, sopresato di Bologna et altro77”. Significativo ed interessante il “piatto di fette di lombetto di porco stretto con le coste, piatto grande di vaccina allessa con cipolle cotte, piatto grande di salsicce pelate cotte in vino tramezzate con qualche animella”, enumerato tra le portate nella descrizione di un soggiorno venatorio, a Formello, con il sig.Cardinal Chigi a caccia, eravamo sei persone li 29 dicembre 1670”78. Il “festone di mortadella grattata” è tra le trovate ornamentali della “Lista delli servitii caldi per l’alloggio del sig.Cardinale Altieri per 12 signori serviti a un solo piatto reale di libbre 8 di peso79”, o anche la ricetta del Capponi in bianco n. 4, adornati di fiori di borragine: fiori di borragine, herbetta e fette di mortadella libbra 1 ½, e vermicelli di frittatine sopra, ova per dette n. 8, butiro per le frittate once 4. (73) B. S. Mc., Bn., b. 3/18, Lista delli serviti caldi. B. S. Mc., Bn., b. 3/23, Pranzo del cardinale Albizi, dicembre 1675. (75) B. S. Mc. Bn. b. 3/28, Memorie Febraro 1677. (76) B. S. Mc. Bn. b. 4/26, Cotture e condimenti diversi del capone. (77) Ibidem. (78) B. S. Mc., Bn., b. 3/32, Formello, con il sig.Cardinal Chigi a caccia, eravamo sei persone li 29 dicembre 1670. (79) B. S. Mc., Bn., b. 4/30,Lista delli servitii caldi per l’alloggio del sig.Cardinale Altieri per 12 signori serviti a un solo piatto reale di libbre 8 di peso. (74) (67) (68) (69) (70) (71) (72) B. S. Mc., Bn., Cotture e condimenti diversi del cappone, b. 4/26. B. S. Mc., Bn., b. 2/5, Nota di quanto si potrìa dare in un banchetto. B. S. Mc., Bn., b. 2/6, Condimenti e cotture dello sturione. IB. S. Mc., Bn., b. 3/13, Crostate da grasso. B. S. Mc., Bn., b. 4/7, Vitto. B. S. Mc., Bn., b. 3/17, Minestre date dal dispensiere di Bologna. 30 • “O SALUMI BENE AMATI” _Prezzi di salumi e suini ed alcuni menù Jesini a fine ‘600_ Al di là di queste sontuose elaborazioni della cucina e dell’arte d’imbandire presso l’aristocrazia di vertice, il prosciutto restava comunque un alimento diffuso: ad esempio nel 1696 un documento (conservato all’Archivio di Stato di Macerata) riferisce i prezzi, a Belforte sul Chienti di molti prodotti di derivazione suina, come prosciutto, lardo, strutto, salame, lonza, ciauscolo80. Nel 1697 ad Offagna le salsicce costavano tre baiocchi alla libbra (esattamente come ad Osimo nel 1600), secondo quando emerge da uno studio dell’osimano Carlo Grillantini sui prezzi di alcuni generi di prima necessità, dove si legge anche come ad Osimo nel 1673 un maiale da carne valesse scudi 2,3081. Agli sgoccioli del diciassettesimo secolo, nel 1699, alcuni salumi figurano nelle liste di due pranzi serviti nella famiglia nobile jesina dei Vespucci durante una circostanza luttuosa, offerti a persone venute a portare il loro cordoglio: “Nota delli Pasti fatti dalli parenti nella morte del S. Card. Ludovico, 1699”: “Pranzo fatto il p.° Giorno dal S. Gentiluccio Rocchi” Un antipasto di salame e Prosciutto Quatro Pollastri alessi in suo stufato Un Polpettone Quattro Pollastri soffocati Piccioni arrosto n.° 6 Frutti Pane e vino82” Ed ancora: “Pranzo fatto dal S. Attilio Guglielmi il 2° giorno Un antipasto di salami e prosciutto Quattro pollastri e minestra d’ovi Un Piatto d’Indivia ripiena Quatro Pollastri sul tegame Piccioni arrosto n.° 6 Frutti, vino e pane83” Si tratta di due pasti non particolarmente ricercati (ad esempio privi del dolce conclusivo) ma sicuramente decisamente abbondanti e ricchi per il cospicuo numero di piatti di carne; soprat(80) M. G. PANCALDI, Fonti documentarie per la storia dell’alimentazione dell’Archivio di Stato di Macerata, in La carte in tavola: manoscritti e libri di cucina nelle Marche, a cura di A. M. NAPOLIONI, Macerata 1996, p. 156. (81) GRILLANTINI CARLO., Misure, monete, prezzi, compensi nella vita osimana dei secc. XVI –XIX, <Atti e Memorie di Deputazione di Storia Patria delle Marche>, 88, 1983, pp. 224-226. (82) Biblioteca Comunale di Jesi, Archivio Colocci Vespucci, Memorie e affari, domestici, n. 4. (83) Ibidem. “O SALUMI BENE AMATI” • 31 tutto può incuriosire l’apertura, affidata ad antipasti di affettati, con appunto il prosciutto, degni antenati di una tradizione tuttora viva nei banchetti delle campagne marchigiane. _Editti contro i “porci sciolti”_ Come si è già visto anche nelle ricorrenti norme contenuti negli statuti comunali il pascolo disordinato ed incostudito ma anche la circolazione libera dei maiali erano spesso causa di danni di varia natura, con insidie ricorrenti per l’economia cittadina. Nel 1610 a Monte Roberto, il Consiglio della Comunità venne convocato per discutere su “che pare di fare per rimediare alli porci ed altri animali che vanno per le strade comuni dove fa cattivo odore a tutti”, arrivando a stabilire la multa di mezzo scudo per ogni maiale ed ogni volta in cui si fossero verificati episodi di mancato controllo nei confronti di “porci di nessuna sorta né piccoli né grandi”; il provvedimento in questione si rivelò poi scarsamente efficace se solo cinque anni dopo, nel 1615 alcuni maiali di proprietà di alcuni abitanti dentro le mura del castello entrarono nella nuova chiesa di San Carlo imbrattando e stracciando lo tovagli ed i paramenti sacri dell’altare84”. Provvedimenti analoghi si registrano anche a Mergo, piccolo borgo fortificato soggetto a Serra San Quirico, stabiliti dal Consiglio della Comunità nel 1607 e nel 1613, e poi ribadite anche nel 164285. Venivano anche promulgati editti per porre rimedio a questa situazione, come quello emanato nel 1686 dal Governatore di Jesi, per la città ed anche i castelli del suo contado: “Essendosi esperimentato in altre congiunture, e occasioni li pregiuditij, che apporta il tener li Porci scioli, e con liberta dentro questa città, e luoghi di questo stato, li quali scavando, non solo guastano le strade e muraglie, ma cagionano fetori, e infettioni d’aere per lo scavamento dell’immonditie, che s’adunano in dette strade, e desiderando Noi di poner rimedio à tale disordine per accudire all’istanze de molti, che ne fanno doglianze, col presente nostro Editto ordiniamo, e espressamente comandiamo à tutte, e singole persone di qualsivoglia sesso a Noi soggette, che non ardischino di lasciar vagando, e con libertà tal sorte di Animali si dentro questa città come dentro li Castelli di questo Stato, sotto pena di scudi dieci per ciascheduno, e ciascheduna volta, e della perdita di essi Porci che sarranno trovati per le strade sciolti, e in libertà, e anco se stassero ligati vicino alle Porte delle loro Case, e altre pene a nostro arbitrio, d’applicarsi per un quarto all’inventore, e il residuo a nostra disposizione. Avverta però ogn’uno di obedire, altrimenti si procederà all’esecutione di detta pena irremissibilmente contro li tra del 1765 sgressori”86. In effetti una ricognizione d’archivio, come quella effettuata da Riccardo Ceccarelli, storico e ex-direttore della Biblioteca Comunale di Cupramontana, rivela episodi davvero al limite del grottesco, addirittura di involontaria profanazione di riti e luoghi sacri, causati da questo brado pascolare ed errare dei maiali sciolti: appunto a Massaccio (antica nome di Cupramomtana) risulta come nel 1659 un porcello incustodito aveva fatto cadere a terra un sacerdote che recava in processione l’eucarestia ad un infermo, e più di un secolo dopo, il 28 luglio 1765, un editto (84) (85) (86) R. CECCARELLI, Monte Roberto. La terra. Gli uomini. I giorni, Monte Roberto 1995, p. 238. R. CECCARELLI, Mergo attraverso i secoli, Mergo 2000, p. 89. R. CECCARELLI, cit., p. 104; cfr. A. NOCCHI – R. CECCARELLI, Editti e bandi del sec. XVII, Cupra Montana 1986. 32 • • 33 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” del luogotenente generale del governatore si riferisce a maiali che “entrano ancora nelle case particolari, ed anche nelle chiese con scandalo e pregiuditio”87. A San Vito, tuttora frazione di San Lorenzo in Campo, il 29 dicembre 1764 Antonio Colonna Branciforte da Pesaro riferisce alle autorità locali sul “disordine che accade a San Vito per lasciar gire vagando liberamente i maiali per luogo, essendo ne pure libbera la Chiesa Parrocchiale dall’indecenza di vedersi li maiali sudetti entrare nella medesima”, auspicando provvedimenti attraverso “editto penato88”. porci similmente non s né trovavano molti e quelli che si compravano bisognava pagarli scudi 3 il cento e il lardo sei bajocchi la libbra92”. Per citare invece un esempio di una rendita fondiaria a pieno regime nel diciottesimo secolo l’azienda Fiorini di Montefano, estesa per 300 ettari, oltre a produrre granturco, legumi, zucche (fave, fagioli, ceci e cicerchie) disponeva di 11 vacche, 5 vitelli, 14 maiali, 50 pecore e gallinacci93. Gli studiosi di storia locale Filippo Maria Giochi ed Alessandro Mordenti in uno dei loro lavori riportano due inventari settecenteschi, della “stessa famiglia colonica e medesimo fondo sito nella zona di Numana94”: nel primo inventario “della successione Nicolò Palunci” del 1710 risultano due “scrofe da frutto”, sei “porchetti nati quest’anno”, e un “porco da carne”(rispetto a cinque “bovi da lavoro”, due “manzi sopra l’anno”, tre “vitelle di quest’anno”, una “cavalla d’anni cinque”, sedici “pecore da frutto”, dodici “agnelli di quest’anno”), mentre nell’altro “della successione Corrado Ferretti” datato 1775 risultano due “troglie da frutto”, cinque “majali serbatori”, sei “majali mezzanucci”, undici “porchetti piccoli” (oltre a due “manzi d’anni due”, cinque vanni citati con i rispettivi nomi, due “tori sopra l’anno”, due “vitelle”, due “vitelli”, due cavalle morelle rispettivamente di anni dieci e cinque, un “poliedro da mesi 9”)95. Ancora a Macerata risultano da uno studio i prezzi dei generi alimentari tra il 1707 e il 1797, riportando come in una “pizzicarìa” si potessero acquistare lardo, prosciutto, lonza, salame, mortadella, ciauscolo, strutto; l’autore nel ricostruire il pasto medio giornaliero di un salariato riporta come talvolta uova e salame costituissero la pietanza principale del pranzo, spesso in sostituzione della carne96. Ad Ancona gli archivi gentilizi ricordano molti conti annuali di pagamenti ai norcini ed inventari conclusivi della pista domestica. Ad esempio nel 1729 nell’inventario di casa Troili tra la “carne salata di fresco” si contano otto prosciutti di libbre 70” (oltre a oltre a 6 lardi, golette, panzette, lonze, salami e ciauscoli)97. O ancora nell’inventario di dispensa di palazzo Trionfi nel 1744 risultano 5 prosciutti (oltre a 21 lardi, 18 ventresche, 19 coppe di casa, 69 salami, 250 ciauscoli, e 16 mortadelle di Bologna)98. Non a caso molti inventari di abitazioni riscontrabili negli archivi notarili rivelano come le dimore più agiate fossero attrezzate per la “pista” domestica, come ad esempio attesta “un bancone da far battute di porcina con suoi Cavalletti di legno”, registrata nella casa in “Borgo di San Il Settecento _Allevamenti suini, citazioni di prodotti di salumeria_ Secolo movimentato il Settecento per le Marche, attraversate spesso da “ospiti” invadenti, tutt’altro che graditi, ma soprattutto esosi ed affamati. Nel 1707 arrivarono a Senigallia le truppe austriache di Carlo III d’Austria, impegnate nella Guerra di Successione Spagnola: lo stato pontificio non partecipava direttamente al conflitto ma consentiva che gli eserciti passassero attraverso i suoi domini nel Centro Italia per raggiungere il Regno di Napoli sotto il dominio iberico di Filippo V. Nei diari manoscritti tenuti da Giovanni Maria Mastai Ferretti si riferisce di molti arrivi di questi soldati, decisamente onerosi per la cittadinanza ed in particolare per gli abitanti più eminenti che dovevano provvedere ad alloggiarli, sfamarli e rifornirli di approvvigionamenti alimentari per il proseguimento della loro avanzata verso Sud. La comunità di Senigallia fece pertanto al generale conte Daum, primo comandante dell’esercito, il dono di quantitativi massicci di “paste diverse” , formaggi, zucchero, fragole, ciliegie, astici, paguri, limoni, finocchi, mele, vitella, castrati, capponi, pollastri, piccioni, moscatello, vernaccia e vino in genere ed anche “presciutti” (ben 12)89. Agli altri tre generali subalterni (Vauban, Veijzel e Paté) i prosciutti donati erano cinque a testa, oltre a due canestrelle per ciascuno delle solite pregiate “paste diverse”, agli stessi vini, a trenta formaggi e 12 pani di zucchero per ognuno, alle stesse qualità di vino, a finocchi, piselli, limoni, ai vari capponi, pollastre, piccioni (al posto dei quali al generale Paté, tra l’altro ospite a casa Mastai Ferretti, vennero regalate invece diverse quaglie)90. Qualche anno dopo a Macerata, sempre per un ennesimo passaggio degli eserciti austriaci la cittadinanza dovette offrire un tripudio di carne, ossia manzo, vitello, castrato, agnello, capretto, capponi galline, ma anche prosciutto, salame, lardo, strutto, lonza, ciauscolo91. Oltre a queste razzie da parte degli eserciti non mancavano anche le carestie, come quella ad esempio che ha colpito nel 1715-1717 lo Stato di Camerino, dove secondo un cronista locale “li (87) Ivi, p. 104; cfr. ARCHIVIO STORICO COMUNALE, Consigli IX 1653-1663. Cfr. Gli Statuti di San Lorenzo in Campo e di San Vito, San Lorenzo in Campo 1997. (89) A. SEGALE – A FIORANI (a cura di), La salumeria nella Marca Anconetana, Ancona 2004, Cfr. S. ANSELMI, Soldati corsari regine nella Senigallia del Settecento 1707 –1759, Senigallia 1986, pp. 11 e segg. (90) Cfr. S. ANSELMI, Soldati corsari regine nella Senigallia del Settecento 1707 –1759, Senigallia 1986, pp. 11 e segg. (91) M. G. PANCALDI, Fonti documentarie per la storia dell’alimentazione dell’Archivio di Stato di Macerata, in La carte in tavola: manoscritti e libri di cucina nelle Marche, a cura di A. M. NAPOLIONI, Macerata 1996, p. 18. (88) (92) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, vol. II, p. 18. L’autore fa riferimento ad un documento della Sezione Archivio di Stato di Camerino, Fondo Notarile Camerino, prot. 1715-1717, notaio Dante di Dante, carta non numerata. (93) C. GRILLANTINI, Misure, monete, prezzi, compensi nella vita osimana dei secc. XVI –XIX, <Atti e Memorie di Deputazione di Storia Patria delle Marche>, 88, 1983. (94) F.M. GIOCHI – A. MORDENTI, Costume tradizione ambiente nella campagna marchigiana, Loreto 1978, p. 98. (95) Ivi, p. 99. (96) Citazione d’archivio tratta da U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana: Ricette, vini, personaggi, prefazione di G. LIUTI, Bologna 1993, p. 24. (97) Archivio Nembrini Gonzaga, (Fondo Troili). Testamento ed inventario de beni del Conte Gio. Battista Troili. A rogito del notaio Angelo Bonvini in data 23 gennaio 1729, Ms; cfr. F. M. Giochi – A. Mordenti, Civiltà anconitana: Vita quotidiana ad Ancona fra XVI e XVII secolo. Palazzo, feste, modi di vestire, di arredare e di mangiare di una città adriatica, Ancona 2005, p. 373. (98) Archivio di Stato di Ancona, notaio Giovanni Giuseppe Ricci – Eredità Trionfi, n. 2651, c. 67; cfr. F. M. Giochi – A. Mordenti, Civiltà anconitana..., cit., p. 412, nota 54. 34 • • 35 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Venanzo in Cont.a la Piazzetta della Nunziata” ereditata da Domenico Belli99. Nel mese di settembre 1733 a Massaccio (l’odierna Cupramontana) i “Molto illustrissimi Signori Priori” stabilirono così i “prezzi della Carne Porcina”: la “Salsiccia fina” costava quattro bajocchi per libra, che scendeva a due baiocchi e due quattrini per la carne senz’osso, ed ancora calava a due baiocchi per la carne con l’osso100. A Montefano nel 1724 un maiale da carne costava 4 scudi, mentre ad Osimo mel 1743 quattro porci si compravano con 16,5 scudi101. A Camerino nel 1737 il “bilancio della bottega di Giuseppe di Camillo e Francesco Bartolucci”, datato 29 novembre, riporta tra l’elenco complessivo di cibarie diverse provviste suine, ossia “prosciutti, barbaglie, lardo, ciabuscoli, strutto, salami e mortadella102”. Nei macelli si vendevano anche salami ed il “maiale fatto in porchetta”, ed in proposito sempre nell’antica Cupramontana uno dei “capitoli” per il pubblico macello, redatto nell’11 aprile 1770 stabiliva che “le Porchette che verranno e saranno portate alle nostre Fiere debbano godere l’esenzione della Gabella come è stato sempre solito”, ed Certificazione sanitaria per il trasporto di una ugualmente si stabiliva “che nessuno possa aprir Bottega porchetta da Staffolo a Massaccio (Cupramontana) del 18 giugno 1769 (Archivio di carne fresca Porcina”, riservata dall’autorità della Sacra storico comunale di Cupramontana, Miscellanea, Consulta al gestore del macello pubblico103. Vi erano an1718-1769). che particolari controlli da parte di un’autorità competente per certificare e garantire lavorazioni suine vendute al di fuori di ogni singola realtà cittadina: il Gonfaloniere ed i Priori della Terra di Staffolo il 18 giugno 1769 rilasciarono una dichiarazione per cui “Saverio Poeti estrae da questa nostra Terra un Maiale fatto in Porchetta che dice voler trasportare nella Terra del Massaccio, qual animale prima di esser macellato è stato secondo il solito riconosciuto senza veruna imperfezzione [sic]” Era indispensabile l’allevamento suino per l’economia agraria ed ecco perché nella costruzione delle case coloniche si provedeva sempre lo spazio adibito a porcile, come si legge in un “Capitolato d’appalto per la costruzione di una casa colonica”, datato 29 giugno 1763, dove si contempla “uno stanzino, ossia stipo per la porcina104”. Del resto non solo i signori si cimentavano nella produzione di salumi: nel 1738 a Camerano i raccolti del contadino Matteo Tartaglino comprendevano grano, fave, fagioli, lino, granturco, mosto, fichi secchi, annoverando però oltre a granaglie, legumi e frutta anche dei prosciutti, sicuramente prodotti da lui stesso in casa nella “salata” annuale105. Che il grasso di suino fosse il condimento più universalmente impiegato lo dimostra anche una testimonianza significativa di un modello alimentare ben preciso, quello di una struttura ospedaliera: in effetti a Macerata i “Libri cibari” dell’ospedale del Santissimo Sacramento, nella loro contabilità registrata attraverso più di un secolo, dal 1678 al 1785, dimostrano l’impiego massiccio di “assogna106”. Nel 1732 a Ripatransone la porchetta si pagava bajocchi 4 per libbra, il fegato 2 come anche i lombetti, mentre il prezzo dello strutto poteva variare da quattrini 18 a bajocchi 4 e mezzo; la salsiccia costava quattrini 17, il prosciutto 19, e la mortadella di Bologna veniva otto baiocchi alla libbra107. Nel 1748 a Recanati nel calmiere figuravano molti prodotti di salumeria come mortadella, salame, ciauscolo, presutto sez’osso, lardo grosso, lardo sottile, ciauscolo vecchio, Frontespizio de “L’Eccellenza et Trionfo del porco”, ciauscolo cotto, salame vecchio, oltre anche a “carne fresca di Giulio Cesare Croce, di porco senz’osso e con l’osso, lonza, salsiccia, assogna108. stampato a Ferrara nel 1594. Nell’antica società rurale il piacere di assaporare il prosciutto era comunque universale, e questo salume figurava orgogliosamente anche nei pasti serviti a gente di riguardo. Ad esempio ad Agugliano nel 1772, i priori offrirono un pranzo a monsignor Lante, all’avvocato Bonavia d’Ancona, ed al notaio Domenico Piermarini: si servirono agnello del peso di libbre 26, un paio di capponi, una profusione di spezie (garofoni, cannella, pepe), insalata, formaggio, “pane di pasta molle”, fava, piselli, un barile di vino, tre paia di piccioni, lardo, prosciutto e (parte) di vitella di mongana di libbre 18 e mezza109. (104) R. CECCARELLI, Monte Roberto. La terra. Gli uomini. I giorni, cit., p. 323. Archivio parrocchiale di Camerano, decime; Cfr. M. MASTROSANTI, Storia dei castelli anconitani attraverso i documenti negli attuali comuni di; Agugliano – Ancona – Camerano – Camerata Picena – Falconara Marittima – Monte San Vito – Numana – Offagna –Polverigi –Sirolo, s. l, s.a., p. 370. (106) A. M. NAPOLIONI, Una fonte archivistica per la storia dell’alimentazione: i “libri cibari” dell’ospedale del Santissimo Sacramento di Macerata, in Storia dell’alimentazione marchigiana, a cura di S. ANSELMI - R. DAVICO, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84. (107) C. GRIGIONI, Il costo della vita in una città del Piceno nella prima metà del Settecento, <Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti>, Anno VIII, N.S., 1908, vol. III, fasc. VI. La’autore fa riferimento allo spoglio di un volume di spese della Congregazione dell’Oratorio di Ripatransone, dal titolo 1732. Libro dell’Esito cartolato di pagine quarantaquattroche principia il 17 gennaro 1732 e termina li 15 gennaio 1756. (108) Citazione d’archivio tratta da U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana: Ricette, vini, personaggi, prefazione di G. LIUTI, Bologna 1993, p. 24. (109) Archivio Storico Comunale di Agugliano, Libro delle Bollette sulle spese comunali dal 1771 al 1790; Cfr. M. MASTROSANTI, Storia dei castelli anconitani attraverso i documenti negli attuali comuni di; Agugliano – Ancona – Camerano – Camerata Picena – Falconara Marittima – Monte San Vito – Numana – Offagna –Polverigi –Sirolo, s. l, s.a., p. 254. (105) (99) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 75: l’autore fa riferimento ad documento alla sezione Archivio di Stato di Camerino, Fondo Notarile Camerino, Reg. 7947, Francesco Piccioni di Camerino, 1747-1750. (100) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 109; cfr. ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CUPRAMONTANA, Miscellanea 1731-1740. (101) C. GRILLANTINI, Misure, monete, prezzi, compensi nella vita osimana dei secc. XVI –XIX, <Atti e Memorie di Deputazione di Storia Patria delle Marche>, 88, 1983, p. 226. (102) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 206; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino, registro 7762, Giuseppe Castelli notaio di Camerino, 1737. (103) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 109; cfr. ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CUPRAMONTANA, Miscellanea 1731-1740. 36 • • 37 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Sempre nel 1772, a data 13 aprile risulta un documento con due liste di cibarie della città di Camerino, dove si riferisce che il “ciabuscolo” si vende a 4,1 bajocchi la libbra, la “carne salata” a 3,1, il lardo a 3,3, il “salame, e mortatella” a 8,1 e lo strutto a 6110. Ai priori di Camerino è indirizzata la lettera inviata in data 4 marzo 1729 dai Gonfalonieri di Caldarola in merito alla gestione del macello della loro cittadina: “A tenore della licenza della Sag. Congregazione del Buon Governo, e risoluzione di questo consiglio si è determinato locare questo nostro macello con il pagamento di un quatrino per ciascuna libra di carne che si macellerà anche da pizzicaroli tanto di Porcina, come di Polli d’India, e venirne di transatto per li 13 del corrente mese, e successivamente ne’ giorni festivi susseguenti. Supplichiamo perciò le SS. VV. Ill.me à degnarsi farne correre così la pubblicazione […]111” Nel 1777 ad Ancona una “Tariffa de’ Prezzi della Carne Porcina Fresca”, bandita all’11 di ottobre, fissava i vari prezzi dei salumi e della carne fresca di maiale: oltre alla salsiccia (“fina, buona, ricipiente, e ben speziata”), alla lonza, alle coste, alla coratella, alle cotiche senz’osso, alla ventresca, allo strutto ed al lardo, vi è il prezzo della “carne spolpata nel Presciutto112”. Riguardo al vitto giornaliero di una persona agiata, servito nel 1792 a Sant’Elpidio a Mare al visitatore apostolico Giuseppe Ciavoli (come anche al suo computista) si nota come il pasto mattituno contemplasse appunto “salato con fichi o mellone”, oltre a “minestra, lesso, fritto, arrosto, formaggio e frutti”, oltre al “caffè ogni mattina113”. Nel 1786 sempre a Sant’Elpidio a Mare un atto consiliare riporta come i generi alimentari più consumati in città fossero pane, lardo, strutto, olio, formaggio, prosciutto, sgombri e sardelle conservati, baccalà114. Nel febbraio 1799 a Cupramontana (allora chiamata Massaccio) la cittadinanza dovette rifornire di vettovaglie le truppe francesi di passaggio provenienti da Ancona e da Jesi, e tra le provviste risultano anche salami e “ciabuschi115”. in ossequio al raffinato modello gastronomico francese allora imperante, che impiegava questo salume come ingrediente nobilitante in moltissime preparazioni. In una tavola illustrata che descrive l’imbandigione ottimale di un pranzo di gala si propongono tra le portate piatti con fette di prosciutto e salame. Al contrario figura molto poco la carne fresca di maiale. Nelle pagine dedicate alle “Istruzioni: per ciascheduna stagione quali serviranno ancora per regolare i servizi che si aumenteranno e diminuiranno secondo le occasioni e spese che si vorrai fare”, viene elencato il “majale” come ottimale “in carne di beccaria [macelleria]” nella stagione autunnale (di certo intendendo verso la fine del trimestre, in prossimità degli inizi di dicembre)116. Nell’insieme delle pietanze proposte con la carne porcina si nota una ricetta di “orecchio di vitella, o di majale, in diverse maniere”, dove si raccomanda di lessare questa parte, ben pulita, con “sale, un mazzetto di erbette, cipolletta, majorana, ed una fetta della superficie di limone”, e dopo di farle soffriggere in cazzeruola con un battuto di lardo, “erbette, majorana e pure aglio”, aggiungendo anche “sale e speziarie dolci” e poi “un cazzaruolo di sugo”, ed infine “quando dovete mandare in tavola, vi sbatterete due rossi d’uova con una presa di farina stemperata col brodo dell’orecchio e un poco di sugo di limone, e la farete stringere con la composizione, e la manderete in tavola calda”; si sottolinea infine come può essere servita “in più modi” ossia “rifredda, tagliata a filoni con sopra erbette, pepe, aceto, e olio dolce”, o anche “fritta calda indorata con ovi”, arrosto, o alla graticola. In questo stesso testo si suggerisce come le medesime preparazioni siano applicabili anche ai “zampetti di porco, prima perà disossati e poi fatti nella graticola117”. Un’altra accurata descrizione è poi dedicata alla composizione della “Lingua di majale fatta in diverse salse”: “Dopo di averla alquanto lessata in sale, se la volete con salsa alla provinciale, passatela, dopo di avergli datoli prolesso, in una cazzaruola, o in fette e paccata in mezzo, con un buon sugo e speziaria dolce, e quando sarà arrivata a cottura, mettete nel piatto la salsa alla provinciale, che troverete notata nel capitolo delle salse, sopra la lingua; così se la vorrete fritta con salsa di prosciutto, o qualunque altra salsa che vi verrà in mente, le troverete tutte al proprio capitolo. Son buone le sopraddette lingue lessate con vino, fieno, e cipolla e laoro, e fettate e mandate in tavola con salsa piccante e sughiglio”118. Verrà poi più avanti ricordato come in questo ricettario settecentesco possa essere ravvisata una preparazione riconducibile alla odierna coppa di testa. Ma soprattutto la raffinata e dominante gastronomia francese del Settecento imporrà davvero il prosciutto e la sua nobile polpa come ingredienti di molte preparazioni di cucina di base, come salse e ripieni, davvero molto ricorrenti anche nelle pagine maceratesi del Nebbia. _“Il primo ricettario a stampa nelle Marche: il Cuoco Maceratese di Antonio Nebbia”_ La seconda metà del Settecento vede nelle Marche la pubblicazione del primo ricettario a stampa edito nel territorio regionale, e pertanto va assolutamente citato questo repertorio di squisitezze illustrate nel celebre testo “Il Cuoco Maceratese”, redatto da Antonio Nebbia (in effetti cuciniere operante a Macerata), e uscito in diverse edizioni dal 1779 fino a buona parte dell’Ottocento. Tra le provviste di origine suina ricorre molto frequentemente tra le ricette illustrate il prosciutto, (110) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. I, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVI e il XVIII secolo, Macerata 2008, p. 94. L’autore fa riferimento al documento con la seguente segnatura: Archivio Storico Comunale di Camerino, Istromenti B. 27, Prezziario di cibi vari, 13 aprile 1772. (111) Ivi, p. 84. Archivio Storico Comunale di Camerino, Coll. Lettere, B. 13 fasc. 199. (112) Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, Bandi e notificazioni, n. 6.432. (113) D. NICOLAI TAU, La vita quotidiana nella prima metà dell’Ottocento, <Proposte e ricerche>, p. 222; l’autrice fa riferimento ad un documento conservato all’Archivio Storico Comunale di Sant’Elpidio, Segreto, Relazione della visita economica eseguita in Sant’Elpidio terra della Marca da Monsignor Giuseppe Ciavoli ponente della Sacra Congregazione del Buon Goeverno nel mese di settembre 1792, cps. XII, n. LV. (114) Ivi, p. 226. L’autrice fa riferimento al documento conservato all’Archivio Storico Comunale di Sant’Elpidio, Amministrativo, A consigli, b. 45, vol. 1778-1788, c. 100v. (115) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 110; cfr. ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CUPRAMONTANA, Contabilità dell’edile 1798-1799, 11 ventoso anno VII. (116) (117) (118) Ivi, p. 99. A. NEBBIA, Il cuoco maceratese, a cura di E. H. ERCOLI, Macerata 1994, p. 57. Ivi, p. 93. 38 • “O SALUMI BENE AMATI” L’Ottocento _Prodotti di salumeria tra contabilità domestica e commerciale_ Nel 1801 tra le carte dell’archivio gentilizio della famiglia Bonarelli di Sappanico (castello della città di Ancona) si ritrova anche la ricevuta del “mazzarino” o “pistarino” Giovanni Gili rilasciata al conte Pietro Bonarelli della Colonna, con la contabilità di quanto prodotto dalla lavorazione della “salata” suina di quell’anno: cinque “pache salate”, 132 libbre di salami, 45 libbre di “chutighini”, 41 libbre di ciauscoli, otto libbre di “calcica”, 163 libre di “distrutto”, e numero otto “cupize”119. Nel 1802 a Cupramontana l’ “Assegna di Pietro Campana de generi vendibili nella sua Bottega”, datata al 27 gennaio, riporta tra le provviste smerciate oltre a vino ed olio, baccalà, “stokfisso secco” e “stokfisso mollo”, “salacche” [aringhe], “sardella grossa”, anche lardo e “presciutto120”. A Montenovo (oggi Ostra Vetere) il diario manoscritto “Miscellanea Veritas” di Francesco Procaccini costituisce una preziosa documentazione della vita quotidiana, tra periodi di carestia e momenti più tranquilli, con riferimenti anche al vitto popolare ed al mercato cittadino: oltre all’obbligo citato nel 1817 per tutti i possidenti di distribuire ogni giorno alla popolazione una minestra di legumi “cotta e condita” (quindi con riferimento al lardo, il grasso più comunemente adoperato una volta), scorrendo queste cronache si può registrare come nel 1824 i “cciabuscoli” [sic] costassero sei baiocchi e mezzo per libbra, per calare poi a sei baiocchi nel 1625, quando il termine adoperato è invece “ciabuschi”; in questo stesso anno la carne “Porcina” costava quattro e mezzo bajocchi, mentre sei bajocchi era invece il prezzo della “salciccia fina”, mentre quella “Grossa” veniva cinque”121. _L’allevamento dei suini in un trattato di agronomia marchigiano: “Il Dottore della villa” di Angelantonio Rastelli_ Nel 1808 viene stampato a Jesi alla Stamperia Monelli un ricco trattato di agronomia in due volumi, composto dall’abate Don Angelantonio Rastelli, che come recita il frontespizio era “Parroco di Mosciano, e membro della Società Georgica di Treja, e di altre Accademie”: il corposo scritto si intitola “Il Dottore della Villa su tutti i principali oggetti dell’Agricoltura”, e secondo il sottotitolo è “Opera, che serve d’istruzione ai Coloni de’ Predj, e di lume ai loro Padroni, e Fattori, accomodata al Clima, e alla miglior Pratica d’Italia, in tutti i rami d’industria agraria”. Tra tutte le unità che compongono il testo la cosiddetta “Veglia XXVI” nel secondo tomo tratta appunto “Dei majali, e del Bestiame Porcino”, aprendosi così: “Il Bestiame Porcino è in una Possessione Colonica una latro capo d’entrata considerabile, se siamvi quelle quercie per le ghiande, o selve, o boschi per il pascolo. Assai ricavasi “O SALUMI BENE AMATI” dall’ingrassamento de’ majali, e dalla vendita dei Porcelli nati dalle Troje122”. L’autore propone poi tre avvertimenti iniziali; nel primo descrive l’animale in questione: “Il Porco è un animale per se stesso immondo, perché atteso il di lui calore ama ravvolgersi nel fango. Vuol però dormire nell’asciutto, e nel caldi, come vi dissi parlandovi delle stalle de’ majali, che assai che conferisce per tenersi sano, e per ingrassarsi. Egli è ancora assai ghiotto, perciò a scanso de’ danni, che può arrecar una mandra di porco, è necessario un attento e sollecito Guardiano123”. Nel secondo avvertimento, l’autore elenca le tipologie di capi suini: “I porci castrati, che tengonsi per ingrassare, diconsi Majali: le femine, che tengonsi per la razza, diconsi Troje, quelle, che Voi dite Scrofe; il Porco maschio non castrato, che serve per la generazione, chiamasi Verro, i figli di fresco nati, si dicono Porcelli; tra questi quei, che si scelgono per ingrassare, voi chiamate Servitori; e quei che attualmente s’ingrassano per ucciderli, Voi li dite Porci ammazzatori124”. Riguardo alle tipologie aggiunge: “Dicesi, che i bianchi riescano più fecondi; i rossi più soavi a mangiarsi, e i negri siano di carne più dura. Nella vostra mandra siano tutti d’un colore, la quale nel numero ha da essere relativa, e proporzionata al governo, che potrete avere e dai Incisione, Biblioteca di un buongustaio, 1800 ca. Milano, Civica Raccolta delle Stampe pascoli, e dalle selve, e dalle Patate, che potete seminA. Bertarelli. are125”. Passando poi alle istruzioni “Del governo del bestiame porcino”, si delinea il foraggio ottimale, che secondo tradizione ormai millenaria asseconda il famoso (e famigerato) appetito onnivoro del maiale: “Il bestiame porcino s’adatta ad ogni cibo anche immondo. Le ghiande o di quercia, o di cerro, o di elce, o di faggio; le frutta selvatiche, o le domestiche gettate a terra dal vento, l’erbe de’ prati, e de’ campi, le radiche di gramigna, e d’altre erbe, le zucche, le scorze di meloni, le patate, i cavoli, le rape, i navoni; la crusca di grano, di granturco, le farinate d’orzo, di veccie, di fave, di mellica, le focaccie di semi di lino, dopo premuto l’oglio, tutte queste cose gli servono di governo, e anche per ingrassarlo. Le vinacce poi non gli si diano, se non dopo stemprate in acqua. Sempre però ricordatevi d’abbeverarli più volte il giorno, specialmente nell’estate, perché la sete li annoja e dimagrisce. I luoghi fangosi, che pregiudicano all’altre bestie, recano ristoro ai porci. Badisi però sempre di non condurli al pascolo la mattina in tempo di guazza, o di brina, perché li pregiudica, ed è lor causa di molte malattie126”. Dopo questo elenco di tipologie di foraggio adatto ai maiali l’autore aggiunge però altri due im(122) (119) La salumeria nella marca anconetana, testi di A. SEGALE – A. FIORANI, Ancona 2004, pp. 149-150. R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 110; cfr. ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CUPRAMONTANA, Lettere diverse 1792-1802. (121) Il Procaccini riporta anche i prezzi di carne porcina, salsicce e ciauscoli anche negli anni seguenti 1826 e 1827. Cfr. La salumeria nella marca anconetana, cit., pp. 151-152. (120) • 39 A. RASTELLI, Il Dottore della Villa su tutti i principali oggetti dell’Agricoltura, Jesi 1808 (rist. anast. Ancona 2009), tomo II, p. 118. (123) Ibidem. (124) Ibidem. (125) Ivi, p. 119. (126) Ibidem. 40 • • 41 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” portanti “avvertimenti”: nel primo raccomanda che per un buon ingrassamento i majali “debbono esser nutriti di buoni, e abbondanti cibi”, e pertanto “Dopo che sono stati nelle selve a mangiar le ghiande, o castagne mature per parecchi giorni, stallateli a parte, e oltre le ghiande date lor a mangiar cavoli cotti, o rape, o patate bollite con crusca, e a bere acqua tepida con farina de segala127”. Come mangime miracoloso per la crescita della stazza si raccomandano “le farinate d’orzo, d’avena di mellica, di veccie, miste e bollite con siero, loro saranno buon prò, e al più in due mesi l’ingrassano”. Il secondo avvertimento in proposito al nutrimento per i suini raccomanda la massima variabilità del cibo e del “beverone” in particolare, “facendolo ora in un modo, ora in un altro anche con erbe cotte, e con farine di diversa specie, acciò non abbiano a prendere nausea d’uno stesso cibo”; nel caso poi che divenissero improvvisamente inappetenti, “fateli stare un dì senza cibo in luogo oscuro, che non patiranno, anzi ripiglieranno poi con appetito il cibo”. Il terzo avvertimento raccomanda la pulizia della porcilaia, da tenere sempre “ripurgata dal letame […] ben asciutta, ed impagliata ogni sera, che ciò ad essi giova, quanto il cibo128”. Successivamente il Rastelli illustra le troje, le loro caratteristiche e qualità ottimali, con i suggerimenti migliori per la riproduzione, individuando il periodo di fertilità (“si conosce, che è in caldo, quando si razzola nel fango, Incisione, Il macellaio, da un disegno di ha l’orecchie pendenti, e quando non fa che fuggire”), Ambrosius Gabler, da una erie di illustrazioni, e raccomandando di far coincidere la gestazione con i 1788. mesi invernali, “poiché le sue figliature v’incontreranno allora ne’ mesi, in cui avrete abbondante governo per cibare le Madri, e i figli; giacché, se il parto s’incontra sul cupo d’inverno, patiscono assai e per la fame, e pel freddo129”. Dopo aver descritto anche le caratteristiche migliori del verro, si suggerisce di evitare che le troje “pregne” mangino troppe ghiande perché potrebbero esser causa d’aborto, e dopo il parto di cibarle “con buoni beveroni, acciò meglio possano nutrire i figli, e non siano costrette a mangiarseli per la fame130”. Il capitolo successivo è dedicato ai porcelli, che a tre settimane dalla nascita “benché poppino” possono essere già alimentati anche con “siero con crusca intrisa”; passati i due mesi “si slattano seguitando a nutrirli con crusca, e siero, frutta infradiciate, rape, patate, navoni, e ghianda; quelli che non verranno venduti scegliendo invece di ingrassarli (l’autore spiega secondo quali caratteristiche selezionarli a questo fine), a tre o quattro mesi vengono castrati “nello scemar della luna di primavera, o d’autunno a digiuno, in giornata quieta, e nella ferita pongasi cenere di sarmenti impastata con unto, e si tengano per un giorno serrati in istalla131”. L’autore dedica poi diverse pagine alle varie malattie o problematiche accidentale del bestiame porcino, con indicazioni su come curarle: ad esempio “i morsi de’ cani arrabbiati si medicano con molto sale per fermare il veleno, aggiuntovi grasso di porco bianco, sugo di porro, e qualche semplice, come ellera terrestre, assenzio romano, genziana, sempre pestate con sale132”. Ai maiali con infiammazione di milza o di fegato si dà per cibo “un beverone di farina d’orzo, e sarà bene assai il darglielo in un secchio fatto con doghe di tamerice”; invece alle bestie che soffrono il male delle vertigini (“per aver dormito al sole, o per aver camminato in giornate assai calde nel sole”) va somministrato dopo un giorno di digiuno al chiuso “un beverone lungo, in cui abbiano bollito radiche peste di cocomeri amari, con cui gli si provocherà il vomito, dopo gli si dia da mangiare la fava stata a molle in acqua di salamoia, e a bere acqua calda133”. Il capitolo successivo è infine dedicato alla “carne porcina”, definita “assai nutritiva, quando il porco ammazzato non sia né troppo giovane, né troppo vecchio, sia anche castrato, ma perché è di difficile digestione, non è carne sana per gli ammalati, e per gli stomachi delicati134”. Seguono pertanto nel primo avvertimento i suggerimenti sulla pratica della macellazione: “I majali ingrassati s’ammazzano a luna vecchia in giorno asciutto, e freddoso; e un giorno prima d’ammazzare i majali si tralasci di dar loro il cibo, acciò la carne venga più asciutta. Dopo ammazzato il proco, e scarnicciato, si salano tutte le parti divise sopra un intavolato a pendìo esposto all’aria di tramontana 135”. Seguono tutte le prescrizioni sulla salatura (riportate nei capitoli successivi sulle singole preparazioni di salumeria). Il secondo avvertimento ricorda le preparazioni di salumeria (“colla carne del maiale potrete formare salami, ciauscoli, salsicciotti”), come si riporterà in seguito nei vari capitoli specifici, ed anche gli impieghi specifici del grasso: “Lo stesso facciasi dei lardi, che sono di grandissimo uso, e vantaggio per la cucina136”. Aggiunge poi nel terzo avvertimento: “col grasso di porco si fa il distrutto per uso di cucina, che si conserva in vesciche, in vasi inverniciati, tenendolo in luogo fresco nell’estate, e sevendosene al bisogno137”. _L’inizio Ottocento degli agricoltori: situazione produttiva ed almanacchi_ Gli “Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia” compilati da Filippo Re nel 1811 attestano come del resto la suinicoltura fosse una risorsa determinante nel Dipartimento del Metauro: riguardo ai “porci” si legge infatti “se ne provvede abbondantemente tutta la popolazione; e siccome il numero di questi animali è assai grande, si può dire che questo è il ramo di commercio più esteso che facciasi nel dipartimento; quasi tutt’i majali che si vedono lavorati in salumi nello (131) (132) (133) (127) (128) (129) (130) Ibidem. Ivi, p. 120. Ibidem. Ivi, p. 121. (134) (135) (136) (137) Ibidem. Ivi, p. 123. Ivi, p. 124. Ivi, p. 125. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 126. 42 • • 43 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” stato Veneto, Ferrarese ed in Roma, vengono tutti da questo dipartimento, quantunque il modo con cui si nutrono non sia il più felice138”; l’autore prosegue poi ad elencare i salumi, e pur ammettendo la loro mancanza di “fama assoluta” riconosce la peculiarità della porchetta, ammette che “i prosciutti sarebbero eccellenti se li sapessero tagliare come si pratica a San Daniele nel Friuli, e soprattutto afferma che “si fabbricano però delle mortadelle che non la cedono in bontà a quelle di Bologna, e le salsicce a quelle di Mantova139”. Un tipo di pubblicazione ricorrente all’epoca erano i lunari e gli almanacchi, stampati ad inizio anno e smerciati nelle città ma soprattutto nelle campagne, come sorta di vademecum per l’annata agricola successiva per i proprietari terrieri ed anche per i fattori, grazie ad annotazioni e pro-memoria contenuti sui raccolti e le pratiche rurali via via necessarie mese dopo mese. Nel 1819 viene pubblicato in Ancona il “Fa per tutti”, una di queste tradizionali pubblicazioni di avvio d’annata, strutturata come calendario didascalico, almanacco ed agenda da lettura spicciola, con curiosità, motti e proverbi, ossia un valido supporto o aiuto domestico con suggerimenti e precetti di carattere pratico, comprese alcune brevi ricette di cucina per ogni mese. Tra le ricette proposte latita la carne di maiale, ma ancora una volta (come si vedrà meglio in seguito) presenzia lautamente il prosciutto, ingrediente nobile e nobilitante140. questo ramo d’industria e ella fetatura si darà la coppa di sembola e più, come ancora si usa per i maiali serbatori”144. Le statistiche raccolte da fonti d’archivio da Riccardo Ceccarelli, studioso e ex-direttore della Biblioteca Comunale di Cupramontana, dimostrano l’importanza e la diffusione dell’allevamento suino in diversi borghi della Vallesina: a San Paolo di Jesi nel 1818 per 817 abitanti si contavano 16 scrofe, 90 maiali da ingrasso e 16 lattonzoli145; nel Comune di Palazzo nel 1808 i suini erano 464; nel territorio di San Pietro nel 1851 si contavano 54 maiali per 151 abitanti146. Nel 1887 in un “Libretto di colonìa” stampato a Fossombrone si legge in apertura un immaginario “Dialogo fra il Padrone, e Bastiano suo colono”, una decina di pagine dove, secondo una tipologia di testo ricorrente nei trattati agronomici settecenteschi, si ipotizza una chiacchierata tra il signore ed il suo contadino, e dove le considerazioni, anche un po’ ingenue, dell’umile agricoltore prestano il braccio, attraverso le risposte ed i commenti dell’illuminato proprietario all’elargizione di informazioni generali e suggerimenti tecnici spiccioli sulle coltivazioni e la gestione del fondo. In questo breve testo il Signore offre delucidazioni ad esempio sulla manutenzione delle vigne, sulle colture di erbe da Incisione, Macellazione, da un disegno di Ambrosius Gabler, da una disegno di foraggio, sugli ortaggi, ed in particolare sulle patate considerLudwig Richter, 1861. ate fondamentali, e raccomandate al contadino poiché se prodotte in abbondanza consentono, si raccomanda il padrone, una lauta rivendita al mercato ricavando così anche i soldi per riuscire a comprare anche un po’ di carne durante la settimana, ideale per condire proprio quegli “eccellenti gnocchi” confezionati appunto con quei tuberi, e che sono appunto “migliori se conditi col sugo di carne cotta in umido”; del resto, dice il Padrone, le patate sono buone cotte in umido nel tegame con un po’ di battuto147”. Ogni signore sapeva comunque che al di là della carne fresca, decisamente rara nella mensa contadina, le riserve di lardo o di altre provviste suine salate non mancavano mai anche nelle dispense più umili: non a caso la conclusione di questo edificante e forse utopistico rapporto tra padrone e colono, all’offerta del contadino di bere un bicchiere di vino (“Ma sor Padrone, vuol andar via senza neanche bagnar la bocca?”) il signore risponde che non può essendo a digiuno, ed allora arriva il cordiale invito a dividere la tavola, “ma venga in casa, cuoceremo alla meglio quattro salciccie”148. _“Contratti mezzadrili, inventari ed allevamenti suini”_ Le contabilità delle colture agricole e dell’allevamento censite e repertoriate dagli storici continuano a dimostrare la centralità dei suini: ad esempio a Tolentino nel 1811 la documentazione riferisce della presenza di 600 bovini, 430 equini, 2600 porci, 6570 ovini per una cospicua produzione di lana e di latticini), 380 asini, oltre a pesce del fiume Chienti (lasche, barbi, anguille), ed alle consuete produzioni di grano, granturco, legumi, olio e vino141. Nel 1812 a Camerino l’inventario dei beni del defunto Francesco Sabbiati Bonelli e del fratello Pietro descrive ciò che è stato rinvenuto nel “Dispensino ad uso di magazzino”: “Cotiche e zampetti, Cose diverse di majali, Lonze de’ majali, Presutti […] unitamente a diverse spallette di majale”, Lardo, e Barbaglio, Distrutto”142. Un “Patto di colonìa” del 24 agosto 1816 tra il sig. Emilio Salvati di Monte Roberto e Giambattista Uncini di Massaccio (oggi Cupramontana) stabiliva all’articolo che “Il Padrone al tempo dell’ingrassatura de’ maiali somministrerà al Colono coppe numero una di sembola per ciascun maiale143”. Nel 1833, in data 22 maggio, la “Poliza Colonica” tra l’amministratore della Confraternita del Santissimo Sacramento di San Paolo di Jesi, proprietaria del fondo, ed il colono Giovanni Rosetti, si legge: “Se col crescere delle quercie fruttifere potrà tenersi una scrofa, non si trascurerà (138) F. RE, Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia compilati dal cav. Filippo Re, prof. d’agraria nella R, Univ, di Bologna, contenenti fatti, osservazioni e memorie sopra tutte le parti dell’economia campestre, Milano 1811, tomo IX, p. 161. (139) Ivi, p. 162. (140) La citazione de Il Fa per tutti è tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 86. (141) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 34. (142) SANTARELLI MARCO, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 144; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino. (143) R. CECCARELLI, Monte Roberto. La terra. Gli uomini. I giorni, cit., p. 329. (144) (145) (146) (147) (148) R. CECCARELLI, San Paolo di Jesi, San Paolo di Jesi 2001, p. 255. Ibidem; cfr. V. VILLANI, Palazzo. Castrum Palatii, Arcevia 1998. Ibidem; cfr. V. VILLANI, San Pietro, Castrum Sancti Petri in Musio, Arcevia 1999. Dialogo fra il Padrone, e Bastiano suo colono, in Libretto di colonia, Fossombrone 1887, p. 13. Ivi, p. 18. 44 • “O SALUMI BENE AMATI” _Mense con carne di suino: esempi di modelli alimentari_ Diverse testimonianze e fonti documentarie continuano a raccontare ancora nell’Ottocento la centralità della carne suina in diversi modelli alimentari, attraverso realtà sociali differenti. Ad Urbania, facendo riferimento alle “Costumanze generali de’ contadini del circondario di Urbania e delle cure rurali e suburbane” lo studioso Corrado Leopardi registra la cucina e la tavola dei giorni ordinari e soprattutto delle ricorrenze festive, dove gli insaccati di maiale figurano149. Sempre ad Urbania una certa frugalità stringata e severamente pedagogica emerge dal vitto per i giovani frequentanti il seminario, con una netta distinzione tra i giorni ordinari e le ricorrenze da celebrare: scorrendo i registri della contabilità alimentare si nota come tra il 1859 ed il 1871 tra i consumi di carne, oltre a quella vaccina, è importante quella di maiale sia fresca che naturalmente salata, oltre a salumi vari; tra il 1860 e 1871 si riscontrano invece “muselli di maiale” oltre agli immancabili strutto e lardo150. Nel convento di San Paterniano di Fano il pranzo e la cena nel settembre 1832 contemplava “minestra in casa”, carne di manzo. Salsiccia, prosciutto, uova e frutta, mentre nel febbraio 1833 oltre a polenta condita (molto probabilmente coin lardo o altre riserve suine salate), gallinaccio, coratella di agnello, prosciutto e baccalà151. Nel seminario vescovile di Mercatello sul Metauro si registra invece un vitto particolarmente ricco, con polli, gallinacci, piccioni, carne da macello, vaccina, castrato, capretto, bistecche di maiale, prosciutto, aringhe, sardelle, merluzzo, vongole, patate, fagiloni, uova e formaggio, pasta e fagiolini152. A fine secolo un miglioramento nelle condizioni alimentari può essere proprio identificato nel restringimento dell’impiego di strutto e lardo come condimenti a favore del più costoso olio, come si registra nelle carte di acquisto tra il 1889 ed il 1893 dell’ospedale di Santa Maria della Misericordia dipendente dalla Congregazione della Carità di Urbino153. _“La cuciniera all’uso moderno”: Un ricettario a stampa borghese dei primi decenni dell’Ottocento_ Nella terza pagina di questo volumetto una deliziosa stampa raffigura appunto la protagonista del titolo nel suo ambiente consueto, una cucina con le pareti piene di stampi e pentole in rame e una graticola appesa, intenta a tenere con la destra una padella sul focolare, dove è appeso anche un caldaio a bollire, e con la destra con un bastone a scacciare un gatto che si propende verso un cesto sul tavolo, lasciando invece curiosamente in pace due galline che razzolano; la scena è inquadrata da un arco e in alto campeggia la scritta in maiuscolo “la cuciniera”, in basso si legge invece in corsivo “all’uso moderno”, ed ancora più in basso come di consueto la firma (149) C. LEONARDI, Il cibo nelle feste popolari dell’Alta Valle del Metauro tra Ottocento e Novecento, in Storia dell’alimenazione marchigiana, a cura di S.ANSELMI – R. DAVICO, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84. (150) C. LEONARDI, La mensa nel seminario di Urbania tra Settecento e Novecento, in Storia dell’alimenazione marchigiana, a cura di S.ANSELMI – R. DAVICO, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84. (151) Ivi, p. 31. (152) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 19. (153) S. PRETELLI, Il vitto negli istituti della Congregazione di Carità di Urbino alla fine dell’Ottocento, a cura di S.ANSELMI – R. DAVICO, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84. “O SALUMI BENE AMATI” • 45 dell’incisore “Fogazza fecit”, e questo verbo in latino fa capire come all’autore sia toccata anche l’ideazione del disegno oltre alla sua traduzione nella lastra da stampa. A fianco sulla pagina sinistra il frontespizio interno, con il titolo per esteso: “La / Cuciniera / All’uso moderno / ossia / la maniera di cucinare/ ogni sorta di vivande / con la massima economia / e buon gusto / e con un trattato / di Credenza”. Subito sotto, oltre all’immagine a stampa di un ape, con il cartiglio ed il motto “utile dulci”, una scritta in corsivo in calce alla pagine che specifica “si vende in Ancona da Arcangelo Sartorj, Fermo da Stanislao Fossi, Loreto da Bernardino Giostra”. Molte le ricette dedicate al maiale, che per certi versi ricamano gli stilemi allora alla moda delle cucine europee dominanti nelle mense più esclusive e raffinate (come nel caso delle ricette per il prosciutto, trascritte in seguito nella sezione riservata a questo salume), altre volte invece con nette somiglianze e giustapposizioni alla cultura e tradizione contadina, del resto così familiare anche ai ceti signorili di una realtà a vocazione agraria come le Marche dello stato pontificio. Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume E’ il caso dei “Fegatelli di maiale in “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). più maniere”, preparati secondo consuetudine anche rurale avvolti nella rete ed infilzati in spiedino con foglie di alloro154. E’ notevole poi la contiguità con le feste agresti della “pista” nella ricetta dei “Budini, o siano sanguinacci in più modi”, che l’autore descrive nella “maniera” di farli “molto delicati”, perché “se poi vorrete farli più inferiori vi potrete regolare con mettervi meno condimenti”; con una certa modernità nella concezione dei sapori, ormai lontana dal dominio di spezie e zucchero ancora imperante nel tardo Settecento, l’autore afferma che “ancora si può far di meno del zucchero a chi non piacesse il dolce”. La ricetta cosiddetta “eccellente” prevede per “una foglietta” di sangue l’aggiunta di panna (o anche “assogna”), mezza foglietta di “capo di latte” (o anche latte solo), e poi “un’oncia e mezza di cioccolata rapata [grattugiata], un poco di sale, droghe buone in polvere, e specialmente cannella, pignoli, passerina [uva passa], e scorrette di cedrato, o di arancio candita, e trita, e due oncie, o due oncie e mezza di zucchero”; oltre alla variante dolce con il cacao, del resto sopravvissuta nelle nostre campagne, la variante con “mollica di pane inzuppata nel latte, sale, droghe, ed erbe fine, oppure cipolla trita”, che presenta anche la sua omologa tendente “al dolce con latte, pignoli e passerina”; la versione più schiettamente brusca contempla invece erbe, come indivia e spinaci, sale, ma anche “qualche uovo ed un poco di parmigiano grattato155”. Molto elaborata, e in definitiva quindi distante dai canoni abituali moderni la ricetta del “Por(154) (155) Ivi, p. 60. Ivi, p. 60-62. 46 • • 47 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” chetto di latte ripieno in diverse maniere”: “Abbiate un porchetto da latte ben pelato, disossategli l’interno per il ventre senza guastarlo, e poi riempitelo di qualunque farsa, oppure di tartufi in fette ben conditi, ovvero di salsiccie di carne, e castagne arrostite, e passate con butirro, sale, droghe, ed erbe fine; ed ancora potrete riempirlo con qualunque ragù cotto, o crudo; ma il ripieno migliore sarà il seguente. Tritate la corata del porcheto con del lardo buono, uniteci una mollica di pane inzuppata nel latte, tartufi in fette, prugnoli, pistacchi, sale, droghe, uovi, erbe fine, parmigiano grattato, e se volete, pignoli, e passerina; cucinatelo bene, e fatelo cuocere arrostito allo spiefo, ovvero al forno, o in una breda, indi scuscitelo, e servitelo con sotto una buona salsa di vostra scelta.La miglior maniera però di mangiarlo è arrostito al forno, o allo spiedo, e senza alcuna salsa156”. Interessantissimo poi anche il testo dedicato alle “Salciccie d’ogni sorte”: “Parlando prima delle salciccie di carne, dirò dunque, che prendiate tre libre di carne di majale grassa, e magra, conditela con mezz’oncia di sale, cannella, garofani, e pepe Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume pesto, e tritate il tutto ben “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). fino; indi formate le salciccie dentro i budelli, e fatele asciugare. Volendo fare le salciccie di vitella, o di agnello ec. vi mescolerete del lardo buono, o della panna fresca di maiale [ci si riferisce allo strutto]. Nelle salciccie, vi si possono mescolare tartufi triti, ed in alcuni paesi si mettono ancora le castagne arrostite, e tritate; altri vi mettono del finocchio, o dell’aglio, ed altri una mollica di pane inzuppata nel latte, ed ancora pistacchj, o pignoli, e passerina e formaggio parmigiano. Si fanno ancora le salciccie di carne senza tritare, ma bensì tagliata la carne in piccoli dadini, e per oggni libra di carne, vi si mettono tre oncie, o quattro di panna di majale, e si finiscono come le altre. Le salsiccie di fegato si fanno con tritare grossamente il fegato in quantità di due libre e mezza, con due libre di lardo fresco tagliato in dadi, e si condisce con due oncie di sale, droghe buone, pignoli, passerina, e candito trito; indi se ne formano le salciccie dentro i budelli, e si fanno asciugare in stufa. Queste salciccie ancora le potrete fare a pezzetti, cioè con il fegato tagliato a dadini. La maniera migliore di mangiare le salsiccie è di farle cuocere arrosto sulla gratella. Quelle di carne però si possono ancora cuocere con erbe fine, butirro, vino, ed un poco di culì, ovvero dentro una bresa; indi servirle pelate con sotto una salsa a vostro arbitrio157”. Vi è poi una ricetta di salsicce particolari, le “Cervellate”, che riprendono una denominazione che ricorre negli alti ricettari dell’aristocrazia di vertice cinquecentesca: sono preparate con “due libre di ventresca fresca di majale”, e “mezza libra di parmigiano grattato, un poco di erbe, e droghe buone”, ed una volta modellate le salsicce nei budelli si pone “in infusione dentro l’acqua tinta di zaffrano per tre ore”, ed una volta asciugate possono essere impiegate, secondo uso caratteristico anche oggi nelle tradizioni delle regioni padane, “dentro alle zuppe di riso, o di erbe158”. Da citare anche il capitolo sul “Lombetto di majale in maniere diverse”: “Tagliate le ossia della schiena ad un lombetto bene infrollito, e fatelo marinare per quattr’ore; indi fatelo cuocere arrosto, o alla genovese, in bresa (ed allora dopo cotto glassatelo), e servitelo con sotto qualunque salsa, o ragù. Le salse d’erbe, e le salse piccanti, o agrodolce le convengono più che le altre159”. Curiosa davvero, tra le conserve, la ricetta delle “Fette di prosciutto160”, ossia una composizione di zucchero creata ad imitazione di affettati di coscio salato, trascritta più avanti nel capitolo interamente dedicato a questo salume nella storia e tradizione marchigiana. _Un ricettario manoscritto conservato a Fermo_ Alla biblioteca comunale di Fermo è conservato un manoscritto anonimo (segnato come numero 432) con alcune ricette tra cui tre di preparazioni di salumeria. Si illustra la preparazione “Per salsicce di fegato”: “Fegato, polmone, cuore e grasso a discrezione. Il grasso va pestato separatamente. Ciambella d’ovi pesta ridotta a farina. Una piccola dose di mosto cotto. Scorza d’arancio dolce tritata assai. Maggiorana secca tritolata un odore. Passarina [uva passa]. Un odore di aglio, se si vuole sale, pepe dolce”. Un’altra composizione per “Salsicce” è frammentaria: “Si pestano le coratella. Prima però terminare la pestatura vi tiene preparati li seguenti condimenti: Ciambella d’ove ben pesta, oppure mostacciolo [antico dolcetto secco, originariamente preparato con il mosto da cui la denominazione] la di cui polvere si spande sopra la coratella pestata. Poi vi si aggiunge il sale a sufficienza, un odore di garofolo, ed un odore di aglio, corteggia del Portogallo [arancia] tritata finissima, maggiorana secca ben polverizzata, passarina, ed un poco di mosto cotto. Quindi si continua a ripestar bene tutto acciocché si uniscono li condimenti. Nella coratella bisogna unire un poco di grasso buono, altrimenti le salsicce non riscono […]”. Vi è anche una ricetta per “cotichini”, con tocco finale per colorirli davvero brutale e decisamente cruento, da risultare davvero inquietante se non rivoltante per la sensibilità odierna: “Prendi (?) 15. Carne di salcicce Prendi (?) 15. Cotiche scelte di musetti, ceppi d’orecchio e simili Garofani, sale, pepe forte, e dolce, noce moscata, Sangue stritolato di cappone a discrezione” Prendi (?) 6. Lardelli di barbaglia, meno de’ salami (158) (156) (157) Ivi, p. 64. Ivi, p. 63-64. (159) (160) Ivi, p.65. Ivi, p. 66-67. La cucinera all’uso moderno, Ancona 1831, p. 137. 48 • • 49 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Si scelgano le cotiche che devono essere musetti, ceppi di orecchie, ceppi di coda. Si pesano e quindi si aggiunge altrettanto peso di carne di salcicce er un terzo di lardelli di barbaglia. Per condimento occorrono un odore di garofani, un odore di noce moscata, sale, pepe forte, e pepe dolce, e quando è arrivata la pestatura per farli venire colorati si scannano sopra uno o due polli secondo la quantità dei cotechini”161. Ancora, in un quadernetto manoscritto ottocentesco di “una famiglia del patriziato anconetano165” sono stati trascritti vari suggerimenti per le pratiche domestiche tra cui numerose ricette di cucina. Tra queste va segnalata la “Dose per un Pasticcio, per quattro Persone”, che illustra la preparazione di un pasticcio di maccheroni, pietanza sontuosa emblematica della nobile tradizione cucinaria italiana, in quanto portata - feticcio della convivialità più remota, fin dai banchetti medioevali e rinascimentali, quando l’ingresso in tavola di questa elaboratissima pietanza rappresentava un momento di giocosa sorpresa nell’indovinare e riconoscere gli ingredienti del ricco ripieno sotto la crosta di pasta, ornata ad arte e modellata nelle sembianze più stupefacenti. La farcitura dei pasticci infatti era quasi un veicolo cerimoniale di ostentazione per la ricchezza della casa, che dentro l’involucro serviva cibi esemplificativi della suprema abbondanza e ghiottoneria mescolati tra loro, come la pasta e la carne, combinate in queste portate che nel tempo hanno codificato il timballo di maccheroni, autentica gloria della gastronomia nazionale. Ebbene il pasticcio del ricettario manoscritto anconetano è proprio ripieno di “Macaroni”, conditi oltre che con “Cagio Parmigiano” con “un picione, selleri [sedani], cardo, presuto, salame” che assieme costituiscono appunto la “sostanza”, ossia il condimento per i maccheroni; la pasta esterna, secondo una tradizione sopravvissuta ancora ai primi del Novecento, era dolce come una frolla, preparata in questa ricetta anconetana con “zuccaro”, farina, “distrutto”, “quattro o cinque Ova ed una sol Chiara”, pepe, cannella e spezie166. E’ un segno non trascurabile che nel ripieno goloso di questo pasticcio di maccheroni non mancassero proprio i salumi più apprezzati, come prosciutto e salame. _Un anonimo ricettario a stampa del 1861: il “Cuoco delle Marche”_ Sempre a proposito di ricettari nel 1861 viene pubblicato a Loreto un libro intitolato “Il Cuoco delle Marche162”. L’autore, anonimo, dichiara il suo intento nella presentazione del volume dedicata al “Caro lettore”, dove asserisce l’esigenza di un vitto “adatto al nostro clima ed al nostro gusto […] poiché manca un metodo di cucina proprio per ciò che producono le terre delle nostre Marche ”: e così tra le pagine emergono le istruzioni per le nostre minestre anche della tradizione più umile, come i passatelli o i tagliolini di pangrattato, la zuppa di cardi o gobbi (che si insegna anche a friggere), la galantina, le costolette d’agnello fritte, il brodetto chiamato “alla marinara”, i cialdoni al vino che ricordano gli eterni biscotti contadini di mosto della vendemmia. Tra le varie preparazioni come da tradizione radicata già dal secolo precedente, in particolare secondo il nobile ed esclusivo modello della cucina francese, il prosciutto figura spesso come pregiato ingrediente per insaporire preziosamente molte ricette e preparazioni anche ricercate; se ne parlerà più dettagliatamente nel capitolo dedicato a questo salume. _Un ricettario manoscritto borghese ottocentesco di Urbania_ Sempre alla metà del secolo risale un ricettario borghese manoscritto, appartenuto alla famiglia Feligiotti di Urbania; l’estensore di questo quadernetto domestico di cucina è stato forse Mariano Feligiotti, morto ottantenne nel 1870, che ha redatto in bella copia centoundici preparazioni culinarie diverse163. Si tratta di un quadernetto di cucina, composto da trentacinque fogli rigati, del formato di 19 centimetri per 13, ricoperti da un leggero cartoncino, andato per metà disperso. I Feligiotti di Urbania, benestanti imprenditori che si dedicarono anche all’attività di appaltatori di forni, oltre che anche di fornai e bottegai164. Come si avrà modo di vedere più avanti ricorre spesso il prosciutto tra gli ingredienti delle 110 ricette, e vi si leggono ben tre differenti preparazioni di “coppa”. _Un quadernetto manoscritto ottocentesco con segreti di casa, di una famiglia nobile di Ancona_ (161) Questo ricettario manoscritto è stato trascritto in appendice nel volume di B. MUZI – A. EVANS, La cucina picena, Padova 1991, pp. 159-162. (162) La citazione de Il cuoco delle Marche è tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 95. (163) L’attribuzione specifica della paternità del ricettario è formulata da C. LEONARDI (La cucina borghese del Montefeltro nel XIX secolo: il ricettario della famiglia Feligiotti di Urbania, in Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 149). (164) Il ricettario è stato studiato e trascritto da C. LEONARDI (La cucina borghese del Montefeltro nel XIX secolo: il ricettario della famiglia Feligiotti di Urbania, in Le Marche a tavola: La tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 146-174). _Un ricettario aristocratico ottocentesco di Pesaro_ Un altro ricettario manoscritto, redatto a metà Ottocento dal conte pesarese Pietro Pietrucci (conservato alla Biblioteca Oliveriana di Pesaro), tra le tante preparazioni raffinata di cucina francese ed in particolare provenzale (memoria dell’esilio per motivi politici del compilatore) presenta anche spunti campagnoli e locali: tra gli esempi di questo sincretismo, tra esclusivi modelli gastronomici d’oltralpe e suggestioni rustiche delle campagne circostanti, possono essere appunto le ricette come “Modi di cuocere i prosciutti salati e preparati come più addietro”, o anche i “crostini di prosciutto salato”, oltre ad un “Modo di acconciare i prosciutti”167 che il compilatore annota essere stato copiato dal celebre e diffuso ricettario francese “Cuisinier bourgeois”. C’è poi la ricetta delle “salcicce di majale”, preparate con “carne di lombetto”, sale, pepe, “piccola dose di noce moscata”, da insaccare in “budella non tanto sottili”. Si leggono poi annotazioni sul “Guanciale di Majale”, “Rognoni di majale”, i “Piedi di Majale”, il “Sanguinaccio di Majale”. Oltre alla ricetta dei crostini di prosciutto (si veda la trascrizione nel capitolo dedicato appositamente a questo salume), si nota la ricetta dei “Crostini al lardo”, con “lardo tagliato in dadi, e maneggiato con un uovo crudo, prezzemolo, cipolla, scalogna ben pesta, e pepe grosso, friggeteli (165) Così scrive, senza specificare l’identità della famiglia, il curatore della pubblicazione V. PIRANI, Ricette e segreti: in uso delle famiglie anconitane nei secoli XVIII e XIX, Ancona 1992, p. 5. (166) Ivi, p. 59. (167) Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Ms, P. PIETRUCCI, Ricettario, pp. 57 e segg. 50 • “O SALUMI BENE AMATI” a picciol fuoco168”. _Istruzioni di norcineria ottocentesche di un aristocratico di San Lorenzo in Campo_ Un altro aristocratico della provincia Pesarese ha invece lasciato un’interessante documentazione riguardo invece alle pratiche di norcineria e conciatura dei differenti tipi di salumi, nel 1855, ai primi di gennaio (per la precisione all’8, appena concluse le feste natalizie), il conte Duranti di San Lorenzo in Campo (provincia di Pesaro) scisse alcune istruzioni per la salata. Nello specifico si trascrive la parte iniziale e conclusiva di queste carte: “Metodo per lavorare la carne salata ed il modo di salare i Prosciutti, Capomazzi e lombetti” Per ogni libre Cento di Carne di prosciutto, capomazzi e lonzetti libre quattro ed oncie sette di sale bene asciutto, e ben pesto, mescolandovi bene insieme cinque oncie di nitro pure bene pesto, avvertendo che si vi debba dare un poco di sale ai prosciutti, a seconda del bisogno particolarmente della nocella, devono stare sotto il sale i prosciutti circa quaranta giorni […] tolti che saranno i prosciutti dal sale si devono lavare con acqua tiepida, meglio è fare bollire l’acqua con del buon fieno, e lavati che siano con acqua di fieno si devono lavare con vino pure caldo, poi metti a scolare in luogo asciutto, si mettano sotto il camino, per otto o dieci giorni, poi messi in luogo fresco si conservano per vari anni.169” _Pratiche di norcineria e ricette di maiale e salumi nelle carte manoscritte di monasteri marchigiani_ Sempre a metà dell’Ottocento risale un altro suggerimento per la confezione del prosciutto, rinvenuto però in ambito monastico, ossia presso la congregazione dei Padri Filippini di Ascoli Piceno: in una nota si legge infatti che “Nei prosciutti, prima di salarli si mettano a sopresso sotto grosse pietre, dopo che sono asciutti, cioè dopo un paio di giorni si salano bene e quando sono stati un tempo conveniente sotto sale, prima di metterli al fumo, si mettono nuovamente a soppresso, poi dopo che si vedono bene asciutti si mettano al fumo, e questo sia molto, perché più fumo hanno, e più vengono migliori basta che non brucino170”. Un’altra importante testimonianza conventuale viene dal monastero delle clarisse di Santa Maria Maddalena di Serra de’ Conti, di cui si conservano le note di dispensa ottocentesche, che riportano quanto ogni taglio o residuo della bestia dovesse essere conservato sotto sale: “gli ossami otto giorni, le panzette, golette e orecchie dodici, i lardi grossi venti ed i più piccoli diciotto”; si annotavano naturalmente anche i tempi di salatura per i vari insaccati (per i “presciutti” quaranta giorni, le spalle trenta, ed infine “i Capocolli e Lonze ci deve stare dieci, o dodici giorni secondo che sarà asciutti”)171. Tra le note manoscritte delle consorelle, per tradizione eccellenti cuoche, non mancano poi anche ricette di cucina come quella “Per fare i crostini di prosciutto, ovvero “O SALUMI BENE AMATI” a modo di salsa”: “Si fa tutti pezzettini di Prosciutto magro, si mette a cuocere con un poco di astrutto, e brancioline di salvia, quando è cotto vi si pone anche zucchero, e cannella, e quando diventa un unguentino si può adoperare per il lesso172”. Le clarisse del monastero di Santa Maria Maddalena di Serra de’ Conti avevano tra le loro carte manoscritte di dispensa e cucina anche istruzioni annotate per la concia delle carni di maiale macellati in due momenti diversi tra il volgere di ogni vecchio e nuovo anno (“Prima ammazzata” a dicembre, “Seconda ammazzata” a gennaio). Le suore onoravano pertanto la tradizione di natura mezzadrile delle campagne marchigiane, dove si dava rilievo solenne alla scannatura del maiale. Del resto andava sottolineato con festeggiamenti rituali questo momento cruciale, in cui si iniziavano a tesaurizzare per tutto l’anno le provviste più preziose e sostanziose173. Nelle carte di dispensa del monastero di Serra de’ Conti sono pertanto registrati utili accorgimenti di cucina su come far fruttare il più possibile alcuni scarti suini ricavati durante la “prima” e “seconda ammazzata174” (dicembre e gennaio), imbandendo così quanti più possibili pranzi non solo per il refettorio interno delle consorelle, ma anche per le tavolate dei norcini e dei lavoranti addetti alla “salata”. E così accanto a pietanze di lesso o di polpette fritte, si legge di una accorta cucina dei rimasugli e degli avanzi, come il “pan unto175” (che raccoglieva Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume tutto il grasso avanzato), o le “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). varie preparazioni con tutte le frattaglie, come il guazzetto o il “tigame” (con diverse interiora tra cui il cervello), la coratella fritta ed il fegato arrosto, le lingue in insalata e le coste in insalata176. Le stesse “coste” erano donate ai fattori: da questo documento delle clarisse di Serra de’ Conti, si legge infatti quasi un manuale sulla spartizione gerarchica delle carni di maiale dopo la canonica macellazione annuale. Di tutte le vettovaglie che il dispensario annotava in uscita ed in entrata ci sono appunto le prescrizioni su cosa donare delle bestie macellate, secondo una specie di corrispondenza tra il ceto dei destinatari di queste regalìe e la partizione anatomica del povero porco con i tagli ed insaccati ricavati: e così, partendo dal “basso”, venivano regalati i miseri ossi del muso “agli (172) Ivi, carta non numerata. N. MAZZARA MORRESI riporta (op. cit., pp. 181-191) i giorni dell’anno secondo la tradizione riservati all’uccisione del maiale, e quali erano le tecniche adoperate. Oltre ad un breve accenno alle tradizioni legate a questo momento (il dono augurale del sanguinaccio, o di dolci sempre a base di sangue), vengono illustrate le ricette degli insaccati tipici della regione. (174) Archivio Storico Monastero di Santa Maria Maddalena, b. 7, Ricettario, Registro cartaceo con ricette. (175) Archivio Storico Monastero di Santa Maria Maddalena, , b. 7, Ricettario, Registro cartaceo con regolamento di dispensa. (176) Ibidem. (173) (168) Ivi. Il documento manoscritto è stato riprodotto in copia fotografia nel volume di F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro ed Urbino. (170) A. BUCCIARELLI, A tavola con i P. P. Filippini, Ascoli 1991, p. 77. (171) Archivio Storico Monastero di Santa Maria Maddalena, , b. 7, Ricettario, Registro cartaceo con regolamento di dispensa. (169) • 51 52 • • 53 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” uomini che scarnificano, fattori, acquarola, a quelli che insaccano le salsicce, vestono le lonze, fanno salami e ciauscoli”177 . Via via verso l’ “alto” poi i tagli di carne ed i prodotti suini ottenuti venivano donati ai vari notabili e personaggi di spicco legati al convento, secondo il consueto codice di rispetto della gerarchia di merito: le cresce con i grasselli (focacce preparate con pezzettini di scarto residuali nella preparazione dello strutto) venivano portate a “sindaci, professori, sagrestano, fornara e fattori”; a questi ultimi toccava anche un quantitativo indefinito di strutto, mentre al Padre confessore si donavano delle salsicce178. In un altro monastero marchigiano, quello benedettino di Monte San Giusto intitolato a Maria Santissima Assunta in Cielo, è conservato un quadernino di cucina datato al 1883, “Memorie degli anni delle Giovani, Eufrasia di Tomaso Rufini”, tra cui si legge una ricetta di “Timballo di zucca” impreziosito da tre once di prosciutto nel soffritto di base179. A Pollenza nel monastero di San Giuseppe le clarisse conservavano ancora nel 1978 alcuni quaderni di “ricette, avvertimenti e consigli per le madri dispensiere e cuciniere”, che furono iniziati da suor Chiara Francesca, entrata in clausura quasi bambina e morta ad ottacinque anni alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. In questo “Libro di tutte le meraviglie che servono per soddisfare la gola di tutti i ghiottoni che si trovano nel mondo” si legge tra l’altro la ricetta dei “Crostini di milza di porco”, insaporiti con burro, alici, “l’agro di tre aranci”, “herbette” e “una “grazietta d’aglio”, e poi la preparazione delle “canne d’oro”, sorta di cannelloni dal ripieno sontuoso che prevede anche carne di maiale180. cipolla, / più di un villan ne facci / discreta una satolla182”. Ma ben più democraticamente, dopo che il poemetto procede nell’elencazione di leccornie varie (lonze, ciauscoli, salsicce, salami, coppe183) la chiusura è affidata ad un auspicio animato da spirito egualitario, che elegge appunto il piacere di gustare la carne di maiale come una grande “livella” sociale: il porco alla sua ultima ora dichiara infatti solennemente “Il villico ed il padrone / li sentirò dall’Orco, / lietissimi esclamare: “E’ bello questo porco184”. Questa la trascrizione integrale del poemetto: _“Il Testamento del porco”_ Questo “spartitraffico” gerarchico tra tutti i prodotti, alimentari e non, ottenuti dal maiale, lo si trova perfettamente codificato in un genere di componimento letterario comico - realistico che ha una lunga tradizione nella letteratura popolare, con infinite varianti locali. Infatti nelle molte redazioni de “Il testamento del porco” si immagina un maiale parlante che alla sua ultima ora convoca solennemente un notaio per registrare ufficialmente tutti i lasciti di se stesso, compilando così un inventario dei beni che gli spietati norcini ricaveranno da esso stesso, con la corrispondente lista dei destinatari, individuati per ogni singola spettanza secondo merito e censo sociale. Ed appunto in un “Testamento del porco” di un autore anonimo marchigiano della seconda metà dell’800, una quartina sentenzia così: “Le lonze e le spalette / le possono mangiar tutti, / ma sol per i signori / io lasso i miei pregiutti181”: si evince così appunto una scala di pregio tra i salumi, che segnala come appunto i prosciutti fossero la preparazione più esclusiva ed apprezzata dai gourmands più raffinati e dai palati signorili. Invece, sul versante di una gastronomia più marcatamente plebea, nel “Testamento si legge: “Vojo che del mio sangue, / condito con (177) Ibidem. Per i lavoranti intenti per giorni alla macellazione e lavorazione del maiale il regolamento di dispensa prevedeva che andassero loro offerti anche colazione, pranzo e cena. In queste carte era inoltre previsto di ricompensare con l’ospitalità i contadini che portavano i maiali, con “una pigna di cece e altri legumi cotti, minestra, pane e vino”, ed ancora “tagliolini con la carne”, ed infine specialità di pasticceria del convento, come le “mane speziate e quattro biscotti grossi in una canestra”. (178) Archivio Storico del Monastero di Santa Maria Maddalena , registro cartaceo con regolamento di dispensa, b. 7, Ricettario XIX secolo. (179) S. PAPA, La cucina dei monasteri, Milano 1978, p. 151. (180) Ivi, p. 36 e p. 41. (181) Tratto da L. PACIFICI, Il ciauscolo: un salume antico dal gusto moderno, Pollenza 2003, p. 50. “Fra tutti gli animali che popolano il mondo, io “porco” son chiamato perché schifoso è il mondo. Eppur per le mie carni che passano tra i denti. delle civili e nobili e delicate genti e fino sulla mensa de’ principi e dei re. il primo a comparire sempre è toccato a me. Di un anno e pochi mesi e proprio sul più bello, mi si conficca in gola un barbaro coltello. Ma pria che bemga il giorno del mio mortal tormento, di fare ho stabbèlito l’ultimo testamento. Di quanto son per dire Esecutor destino, quello che fa, pro tempore, l’arte dello scortechino. Veterinari e medici, (182) Ibidem. Ibidem: “Co’ le budella grosse / se veramente m’ami, / insacca ben le lonze / ciauscoli e salami / Dell’altra metti dentro / Della mia carne il resto, / e ne faràe salcicce / che mangiaràe più presto / Con zampe, orecchie e muso / con cotiche e con groppa, / le genti più dabbene / ci vuole far la coppa”. (184) Ibidem. (183) 54 • voi testimoni siate, ch’io son tutto sano: scrivere ed approvate. Scrivere in carta semplice Perch’io non ho danaro, né per pagare ilo bollo, Né per paga’ ‘l notaro. Del piede mio la corda e ‘l sudicio stalletto, lascio ad un altro piccolo fratello mio porchetto. Vojo che appena ucciso, con l’acqua ben bollita, quattro facchin mi lavino per tutta la mia vita. Il pelo si raccolga e sia tenuto a caro, da consegnarsi poscia a qualche scopettaro; acciò lustrar si posa le scarpe e gli stivali che formano degli uomini la base principale. Vojo che del mio sangue, condito con cipolla, più di un villan ne facci discreta una satolla. Il mio cervel di lessi e friggasi in padella cogli ovi ben s’indori unito all’animella. Il fegato e il polmone, le coste ben salate, son tutte cose bòne “O SALUMI BENE AMATI” se arrosto vue le fate. Vojo che a parte a parte Sia tutto ben spolpato, il grasso sia dal magro diviso e separato. Il lardo e le spallette Le posson mangiar tutti, ma sol per i signori io lasso i miei pregiutti. Se cacciator tu sei, per mangiar ben gli uccelli usa la mia barbaglia per fette e per lardelli. Co’ le budella grosse, se veramente m’ami, insacca ben le lonze ciaùscoli e salami. Dell’altra metti dentro Della mia carne il resto, e ne faràe salciccie che mangiaràe più presto. Con zampe, orecchie e muso Con cotiche e con groppa, le genti più dabbene ci suole far la coppa. Per ungere e ingrassare conserva, amico mio, la mia pregiata assogna ch’è proprio un ben di Dio. Le mie scarpette dono, acciò in onor le tenga, a chi vi avrà scannato e sorte ugual gli avvenga. “O SALUMI BENE AMATI” • 55 Sia questo “testamento” Da tutti rispettato, a norma de le leggi vigenti nello Stato. Aggiungo ‘n codicillo E vojo ch’ognun l’oda Ch’io sia lasciato in pace Finché vi è ghiande e broda. Giacché morire è d’uopo, far vojo questo passo nella stagion più fredda e ben satollo e grasso. Il villico e il padrone Li sentirò dall’Orco, lietissimi esaclamare: “E’ bello questo porco!”.185” _L’allevamento dei suini nelle Marche. Dall’Inchiesta Jacini_ Il 15 marzo 1877 con legge numero 3730 il giovanissimo Regno d’Italia, istituisce l’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, che diverrà denominata e nota nel tempo come “Inchiesta Jacini” dal nome di Stefano Jacini presidente della giunta che ne conduceva i lavori. L’obiettivo è quello di fornire un censimento finalmente sufficientemente indicativo della situazione della produzione agraria nazionale, oltre che dello stato delle campagne, e della realtà sociale e delle condizioni di vita di chi le abitava e laFoto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). vorava. Il territorio nazionale viene suddiviso per questa inchiesta in dodici circoscrizioni, e la quinta comprende la macroarea di Lazio, Maremma Toscana, Umbria e Marche. Il relatore finale per questo ambito territoriale è il (185) Il ciauscolo: un salume antico dal gusto moderno, a cura di L. PACIFICI, Macerata 2007, pp. 49-50. 56 • • 57 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” marchese Francesco Nobili Vitelleschi, mentre l’opera di raccolta dei dati avviene sotto la direzione di Ghino Valenti, proprietario terriero maceratese e professore di economia agraria. Nel 1884 l’inchiesta viene stampata da “Forzani e C.”, tipografi ufficiali del Senato, e l’undicesimo volume presenta la relazione sulle province marchigiane, la loro produzione agricola e pastorale, le colture e gli allevamenti, le produzioni d’eccellenza, ed anche le condizioni di vita dei contadini. Questo il paragrafo dedicato alla razza suina: “Secondo l’ultimo censimento 1881, i suini ascenderebbero solo a 71.942, mentre nel 1869 raggiungevano il numero di 112.816. Evidentemente questa enorme diminuzione non può riguardarsi come reale, potendo dipendere principalmente dall’epoca in cui il censimento viene eseguito come già sopra si è notato. Nel febbraio, epoca del censimento 1881, mentre i maiali grassi erano stati macellati, le femmine non si erano ancora sgravate. I ruoli per la tassa bestiame 1869 ci darebbero infatti non una grande diminuzione ma un notevole aumento. Per essi il numero dei suini ascenderebbe a 144.872. Tuttavia noi non vogliamo credere nemmeno ad un grande Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). aumento della specie. Contro di esso sta il fatto del continuo atterramento delle quercie per il quale si toglie ai suini il principale nutrimento senza che vi sia modo di trovare facilmente dei succedanei o almeno di trovarli con mite dispendio. Indipendentemente però da ogni considerazione di aumento o diminuzione, si può dalla statistica dei suini attingere un’idea adeguata dell’importanza relativa dell’allevamento nella zona superiore ed inferiore e nelle quattro provincie delle Marche distintamente. Dividendo secondo il metodo innanzi seguito i mandamenti in due gruppi, si avrebbero in quello della zona montana e summontana 12 suini per chilometro quadrato, e 18 in quello delle colline e delle vallate. Riferendosi invece alle circoscrizioni delle provincie, si avrebbero per Ancona 18 suini per chilometro quadrato, per Macerata 17, per Ascoli 15, e per Pesaro 12. Una razza di suini con caratteri spiccati non esiste nelle Marche. Essa è l’effetto dell’ incrociamento di tutte le varie razze esistenti nell’Italia centrale col predominio or di questo or di quel tipo. Nel circondario di Urbino si accenna ad un incrociamento lontano del tipo indigeno con quello del Casentino. Nel circondario di Ascoli si risente invece l’influenza dell’incrocio coll’abruzzese, e nel circondario di Camerino con quello dell’agro romano. La vera distinzione e più importante da farsi è quella che riguarda non tanto le forme zoologiche ma il modo di allevamento. Sotto questo rispetto si hanno i suini da macchia e quelli allevati in stalla. I primi popo- lano principalmente la regione montana e summontana, vengono allevati all’aperto e si pascono principalmente di ghiande, erbe, radiche, di tutto quanto insomma può loro offrire il pascolo nelle boscaglie. Essi sono piccoli di statura, a manto nero e pelo ruvido; presentano una certa difficoltà ad ingrassare e ingrassati non raggiungono mai un peso notevole, ma danno in compenso carne molto saporita. I maiali che si tengono continuamente a stalla s’ingrassano artificialmente e si alimentano oltre che con ghiande, con zucche, patate, frutta mezze, erbe, farinacei e residui di cucina. Essi hanno statura più vantaggiosa, manto nero e talvolta pezzato bianco e risentono del tipo casentinese. L’allevamento dei maiali da ingrasso si fa in tutta la zona delle colline e della pianura ed anche in parte della summontana. Né solo dai coloni, ma anche fuori dagli operai agricoli, pei quali costituisce forse l’unica fonte di guadagno all’infuori della mercede giornaliera. Il metodo di allevamento è alquanto trascurato specialmente per ciò che riguarda la prima età. Le stalle parimenti sono in condizioni infelici. Nota giustamente il relatore del Sottocomitato di Ascoli che “se fra noi non migliora punto la razza suina e non rende tanto prodotto quanto in altri paesi, devesi ciò attribuire ai difetti di una poco razionale alimentazione ed al deplorevole sistema di allevamento e di custodia, mentre dal vedere che il porco prende diletto a rotolarsi nel fango si arguisce a torto che la immondizia giovi al suo sviluppo. Per conseguenza il porcile è ordinariamente stretto, scuro, sudicio e non areato, condizione sommamente contrarie alla salute e allo sviluppo del maiale”. V’hanno tuttavia coloni nei poderi più prossimi ai centri e in quella parte della regione più progredita nell’agricoltura, dove le condizioni di allevamento e di custodia dei suini sono assai migliori, e ne fa prova il maggior peso che ivi raggiunge il maiale ingrassato. Si accenna dal Relatore del Sottocomitato di Ancona che nella provincia i suini raggiungono eccezionalmente anche il peso di chilogrammi 300, con un periodo di ingrasso di un anno e mezzo e con un’ alimentazione molto abbondante e nutritiva. Generalmente i maiali grassi superano sempre il quintale. Così dal Comizio agrario di Camerino, come dal marchese Bartolucci nel circondario di Fermo, si è tentata l’introduzione della razza del Berkshire e del Yorkshire, ma non sembra un buon risultato, imperocché richiedendo tal razza un miglior nutrimento di quello che esige il maiale nostrano e presentandosi anche di corporatura minore, sebbene compensata dalla piccolezza delle ossa e dall’abbondanza relativa della carne, si sarebbe incontrata grande difficoltà a farla accettare dai coloni. Può ritenersi che lo sviluppo dell’allevamento suino sia maggiore nella zona delle colline e delle vallate, da dove annualmente si fa un’esportazione abbastanza rilevante di capi. Invece il Relatore del Sottocomitato di Camerino lamenta che quell’esportazione che una volta si faceva larghissima dalla regione alta per Roma, per Firenze, per la Romagna ed anche per la Francia, e che era per il paese una non lieve risorsa, si sia oggi ristretta d’assai per la concorrenza del maiali provenienti dal Napoletano186”. Nel capitolo XII dedicato alle esportazioni, nel paragrafo dedicato agli “animali” vi sono natu(186) Inchiesta Jacini: Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, Volume XI, Relazione del Commissario Marchese Francesco Nobili-Vitelleschi, Senatore del Regno, sulla V Circoscrizione (Provincie di Roma, Grosseto, Perugia, Ascoli Piceno, Ancona, Macerata e Pesaro), Tomo II, (Provincie di Perugia, Ascoli-Piceno, Ancona, Macerata e Pesaro), Roma 1884 (rist. anast. 1975), p. 73. 58 • • 59 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” ralmente diverse righe dedicate ai “Suini”: “L’esportazione dei suini è notevolissima. Le indicazioni dei Municipii portano a ritenere che soltanto nel circondario di Camerino l’allevamento non superi che di poco il consumo locale e che negli altri circondari si verifichi ovunque una rilevante esportazione. Si può ritenere che soltanto nel circondario di Camerino l’allevamento non superi che di poco il consumo locale e che negli altri circondari si verifichi ovunque una rilevante esportazione. Si può ritenere che non meno di 15.000 maiali grassi vengano annualmente esportati dalle Marche. L’esportazione dei maiali grassi è più specialmente diretta per la Romagna, per l’Alta Italia ed in parte anche per la Francia. Dai territori di montagna i maiali di pascolo (non ingrassati) vengono esportati per Roma”187. Nel paragrafo successivo, dedicato ad “altri prodotti animali e delle industrie derivanti dai medesimi” c’è naturalmente una cospicua citazione dedicata alla “carne salata e grassi”: “Al consumo locale viene provveduto principalmente con la produzione del paese. E’ uso comune che i proprietari e i coloni fabbrichino i salumi in casa. Per le specialità e per i prodotti raffinati, come salami, zamponi, mortadelle, ecc., si ricorre all’importazione dalla Romagna. La produzione più ordinaria e specialmente quella dei grassi dà luogo ad esportazione notevole188”. Nell’insieme la tabella conclusiva sull’ “Importanza della produzione relativamente al consumo” include le distinte voci “suini” e “carni salate e grassi” nell’elenco dei “Prodotti che vengono esportati in notevole quantità”; entrambe le citazioni sono inquadrate nella qualificazione di “notevole” in termini di “Entità del consumo locale dei prodotti contro indicati”. La considerazione conclusiva, pur riconoscendo quindi notevole importanza alla suinicoltura ed alle produzioni di salumeria, non fa però emergere un particolare apprezzamento di salumi ed insaccati locali. Si stabilisce infatti che le eccellenze a riguardo sono di importazione emiliano- romagnola, pur ribadendo l’importanza assoluta della confezione di provviste suine salate nell’ambito domestico e quindi dell’auto-consumo. Ed in effetti il compilatore nel capitolo “Delle condizioni fisiche, intellettuali, morali ed economiche dei lavoratori del suolo” così inquadra le consuetudini alimentari dei lavoratori della terra di questa regione: “Il contadino marchigiano è assai parco nel mangiare e lo è non solo per necessità, ma anche per abitudine. Tanto che le famiglie coloniche che godono di un certo benessere non si cibano molto più lautamente di quelle che sono strette dal bisogno. Polenta di granturco, condita con formaggio, olio, lardo, cipolle; ricotta, pomodoro, ortaglie, legumi, ecc: pane di grano misto a granturco, vino soltanto nelle epoche di maggiore fatica, qualche volta carne di maiale salata, ecco il cibo ordinario del nostro contadino189 ”. E’ poi importante osservare come i redattori dell’ Inchiesta riscontrino il carattere anche imprenditoriale, persino nelle famiglie più umili, dell’allevamento del porco: “Quanto sia in grado di acquistare un maiale per l’ingrasso, di possedere un somaro con cui esercitare l’industria dei trasporti, egli ha raggiunto il massimo delle sue risorse190”. Emerge pertanto da questo primo importantissimo censimento sulla produzione agraria nazionale dopo l’Unità d’Italia un’importanza notevole dell’allevamento suino e della produzione salumiera marchigiana, seppur priva di autentiche riconosciute eccellenze produttive a riguardo. Evidentemente era sfuggito ai compilatori un importante salame che già da decenni aveva raggiunto una certa celebrità, ossia, come si vedrà in seguito, il salame di Fabriano. (187) (188) (189) (190) Ivi, p. 454. Ivi, p. 457. Ivi, p. 591. Ivi, p. 602. _Un importante ricettario a stampa di fine Ottocento: “Il Cuoco Perfetto Marchigiano”_ Nel 1891, a trent’anni dalla pubblicazione a Loreto de “Il Cuoco delle Marche” viene stampato nella medesima cittadina, ma da un’altra tipografia, il “Cuoco perfetto marchigiano”, il cui autore è ancora una volta anonimo ma che con una certa abile disinvoltura saccheggia ampiamente formule e preparazioni del ricettario di tre decenni prima. Se “Il Cuoco delle Marche” insiste nella sua presentazione introduttiva sull’importanza dell’orgoglio locale e dell’identità propria del territorio nelle colture e nelle proprie ricette tradizionali, secondo un gusto proprio e caratteristico, “Il Cuoco Perfetto Marchigiano” dichiara invece nella sua pagina introduttiva l’importanza Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). sanitaria di una corretta alimentazione e l’esigenza di un metodo ed un rigore disciplare in cucina, riprendendo in questo l’assunto principale del capolavoro dell’Artusi “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” pubblicato propriamente in prima edizione in quel medesimo 1891. In questo testo sono diverse, anche se non moltissime, le ricette con tagli di carne suina, mentre invece è ancora una volta onnipresente l’impiego del prosciutto come ingrediente, assieme anche a lardo e strutto. Va ricordata la ricetta complessa del “Cotichino alla galera”, dove l’insaccato è avvolto in una “fetta di carne di manzo o di vitella dello spessore di uno scudo”191. L’impiego di carne di maiale va anche a caratterizzare le ricette di un piatto laborioso che caratterizza uno degli orgogli distintivi della tradizione cucinaria storica delle Marche, ossia la galantina: nella prima versione i musetti e le orecchie di maiale (bolliti per tre quarti d’ora) e del lombo di maiale tagliato a filetti lunghi vengono impiegati assieme anche a lombo di vitella, petto di pollo e l’immancabile prosciutto “grasso e magro” (il tutto condito con “sale, pepe dolce, noce moscata, rhum e sugo di limone”) per farcire il cappone lessato e disossato192; invece per la variante della “galantina calda” vengono impiegati “filetti con lombo di maiale, con lombo di vitella e con grasso e magro di prosciutto”, da mettere im umido con battuto di prosciutto, cipolla (191) (192) Ivi, p. 53. Ivi, p. 47. 60 • • 61 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” e prezzemolo, insaporita con vino e conserva, ed il tutto va a comporre il ripieno per la pollastra disossata da cuocere poi in casseruola con “un battuto di prosciutto semplice con poco burro”. Per una ricetta di un “cappone rifreddo con la gelatina” si vede invece ancora l’impiego semplice di prosciutto e cipolla per la casseruola dove viene cotto il cappone193. Nel medesimo capitolo “filetti di prosciutto grasso e magro” vengono impiegati per lardellare la carne per l’ “umido di mongana194”. Le “bragiuolette al prosciutto” sono invece servite come un timballo, cotto in una casseruola dove si alternano strati di queste “bragiuolette” di vitella con prosciutto grasso e magro “tagliato a piccoli dadi”. Nella ricetta del “vitello ripieno” sopra la fetta battuta “fino a farlo rimanere dello spessore di un soldo” si adagiano “fettine di prosciutto e di mortadella finissima” con uova sode tagliate a metà195.Un pezzo di prosciutto arricchisce anche il “Ragù di animelle196”. Un lombo di maiale, pestato con altra carne ed il consueto prosciutto costituisce la farcitura ricca di un “Arrosto ripieno”, ossia una tacchina da cuocere poi in pentola con olive verdi, castagne arrostite, ed anche prosciutto in parte tritato ed in parte “tagliato a piccoli dadi”197. Vanno poi ricordate le ricette dell’ “Arrosto di braciuolette al prosciutto”, ed il “lombetto di maiale all’italiana”, cucinato in casseruola con la solita “fettina di prosciutto198”. Naturalmente nella sezione dedicata agli arrosti, grande importanza ha quello che universalmente era una volta considerato il grasso universale e condimento nobile per le portate centrali e più sontuose: molte ricette prevedono la lardellatura, come ad esempio per un pezzo di magro di vitella nella preparazione dell’ “Arrosto alla genovese”, o anche della “spalla di castrato al forno” (trapunta “con lardelli di lardo e prosciutto conditi con sale e spezie fine”) o per i “pollastri piccioni, od anche beccacce, pizzarde e simili animali199”, dove “si pone nel loro pezzo dei pezzetti di lardo con aglio e rosmarino” e poi si legge che “si spalmano di distrutto200”, impiegando pertanto per la conserva di lardo fuso e raffreddatto l’antico termine dal latino “destructum” (e che si legge anche nella ricette dell’ “Arrosto di braciuolette al prosciutto201”, mentre in un’altra ricetta si legge dell’impiego “di un foglio di carta unto di butirro o di strutto202” per coprire la casseruola nel forno. Nel quindicesimo capitolo dedicato ai “piatti diversi” si impiega una fetta di prosciutto per cuocere la “Fricassé di pollastri alla delfina203”, mentre fette di lardo servono per “involtare” le cosce dei “Pollastri all’inglese204”. In un’altra preparazione, i “Filetti di lepre alla provenzale” vanno lardati “con lardelli di lardo205” e poi passati in pentola con un pezzo di prosciutto che viene poi tolto, come anche nella ricetta della “Escaloppe di mongana alla Pulette206”. Nella ricetta delle “Quaglie alla Martine” una fetta di prosciutto viene impiegata per il fondo di cottura207 . Il “Lombo di manzo alla Delfina” va cotto su una braciera dove “si mette nel fondo una fetta di lardo e di prosciutto208”, da coprire poi “con altre fette di lardo e prosciutto ”. Le “cotolette di castrato alla Delfina” invece “si lardano per traverso con lardelli di lardo e prosciutto rifilati al paro della carne209”. (193) Ivi, p. 47-48. Ivi, pp. 48-49. (195) Ivi, p. 52. (196) Ivi, p. 53. (197) Ivi, p. 67. (198) Ivi, p. 69. (199) Ivi, p. 67. (200) Ibidem. (201) Ivi, p. 69 : « Queste braciuolette si accomodano in un cassettone di carta, spalmato di distrutto, si fanno cuocere nella gratella voltandole con diligenza e si servono ». (202) Ivi, p. 69. (203) Ivi, p. 67. (204) Ibidem. (194) _Una composizione popolare in versi dedicata a Sant’Antonio_ Sant’Antonio è da tempo immemore protettore degli animali ed in particolare del maiale, che nelle raffigurazioni pittoriche affianca il suo patrono come attributo iconografico tradizionale. Molte le leggende fiorite attorno a questa familiarità del suino con il santo, alcune riconducono la vicenda ad un addomesticamento quando non ad una conversione del vagamente diabolico e peccaminoso porco, altre invece con lirica dolcezza da fiaba popolare consolatoria riportano l’alleanza alla grazia chiesta da una scrofa per il suo lattonzolo ammalato. La ricostruzione storica ci racconta poi molto più prosaicamente di come nel Medioevo i frati di Sant’Antonio fossero soliti curare gravi infiammazioni cutanee con impacchi di lardo, e per questo scopo le città riservavano all’ordine capi suini di loro esclusiva competenza. Sta di fatto che nel tempo la festa di Sant’Antonio, variamente festeggiata ovunque nelle Marche (e non solo), era vissuta come giornata celebrativa e rituale anche in onore degli animali e dei maiali, condotti in processione per una speciale benedizione, mentre un’immaginetta votiva del santo ugualmente aspersa di acqua benedetta era collocata nelle stalle. Tra riti e mangiate collettive per ogni diciassette di gennaio non mancavano anche balli e canti, e tra questi si riporta qui un’ antica composizione in onore del santo, con tanto di riferimento, questa volta molto prosaico, al maiale. Si tratta di un canto, raccolto ad Acquasanta da un folklorista (che non si firma) nel primissimo numero della rivista”Vita popolare marchigiana”, pubblicata a fine Ottocento sotto la direzione di Alighiero Castelli e stampata ad Ascoli Piceno presso l’editore Luigi Cardi. Il canto ha un carattere gioioso e vagamente stralunato nel raccontare la placida pazienza e l’inventiva del Santo nelle sue peripezie. La funzione di questo canto era infatti quella di accompagnare una questua (“nelle nostre campagne vien cantato in coro, la notte della vigilia di Sant’Antonio Abate (16 gennaio), sotto le case, per averne regali, specialmente di carne salata, uova e vino”) caratteristica propria della festività in onore del santo protettore degli animali e dei maiali in particolare. Era una serata speciale, chiamata “la notte del vecchione”, tanto aspettata dai ragazzi quanto quella dell’Epifania210”. (205) Ibidem: l’anonimo autore non teme le ripetizioni, scrivendo testualmente in apertura di ricetta “Si lardano per lungo quattro bei filetti di lepre con lardelli di lardo”. (206) Ivi, p. 102. (207) Ivi, p. 101. (208) Ivi, p. 101. (209) Ivi, p.102. (210) Canti narrativi religiosi, <Vita popolare marchigiana>, 19 marzo 1896, p. 9. 62 • “Bona sera, boni amice, tutti bone cristiane; senza che io ve lu stenga e dice, voi sapete che è domane: Sant’Antonie beneditte Co ‘nu basò e co ‘nu porchette. A ‘stu sante na bella moglie Li parente aveva offerte: isse disse: - no la voglie – se ne scappa da lu deserte, pe ‘n avé la seccatura de nannà ‘la creatura. Lui viveva da bon romite, lu demoniu lu visitava; lu sfidava a fa ‘na partita, e lu sante sempre vinceva. Sant’Antonie areccuncieva Mo co la subbia e mo coll’ache; lu demonie ghie stuccheva mo lu file e mo lu spache. Sant’Antonie mena ‘nu pugne E ghie ammacca tutte le grugne – Lu bastone s’era cascate Camminando giù pe ‘na valle: sant’Antonio l’è ritrovate ghie l’arriva pe li spalle Lu demone che correva Ghie se mangia lu porchitte: Sant’Antonio vive vive Se lu scorteca a zampitte; fece la pelle a marocchine, ce se fa li scarponcine. Lu demonie scorticate Pure lu iava angustianne: sant’Antonio spaventate pe porcelle se lu scanna se lu spezza e se lu sala, ce se fa bon carnevale. Sant’Antonio là de ‘na buscia Ce teniè li péra mézze: lu demonie belli belli ghie s’arrubba la forcina; “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” • 63 sant’Antonio non s’encagna, co le mane se li magna. Sant’Antonie co ‘n piatte de legno Se mangiava ‘na zuppa del latte: lu demonie belli belli ghie lu fa cascà lu piatte: sant’Antonie ghie l’accipolla de zampate se ne satolla. ……………………….. ……………………….. Già c’ho date ‘na bella nova Che vò esse regalate ‘nu cestine se secient’ova, sei prosciutte e sei lombate; se mi date sei porce sane, sia benedette chesse mane. Stanghe stanghe e mezze morte, me vorrebbe riposare: fate preste a aprì li porte pe poterme riscaldare Quiste fridde maledette Me fa batte li ranchette. Quante è lunghe ‘stu sant’Antonie, pe cantà ce vo’l demonie ‘Nu tucchitte de campanelle : gloria ‘n ciele e pace ‘n terra !211” _La tradizione della pista in versi secondo un folklorista ottocentesco_ Un folklorista di fine Ottocento, Antonio Gianandrea, racconta in un periodico marchigiano dell’epoca le tradizioni e consuetudini rituali e domestiche caratteristiche del periodo natalizio e di tutte le scadenze e tappe preparatorie di avvicinamento al 25 lungo tutto il mese di dicembre. In riferimento alla data del 31, ossia san Tommaso osserva “che sarebbe regola anche di uccidere il maiale da confezionare in casa, secondo l’uso marchigiano per la famiglia”, e riporta pertanto un “proverbio comune” nella regione212: “S.Andrea [30 novembre] Pija ‘l porco e ppela; Sci ‘l porco non è grasso, (211) (212) Ivi, p. 8. A. GIANANDREA, La festa di Natale nelle Marche, <Vita popolare marchigiana>, 31 maggio 1896. 64 • “O SALUMI BENE AMATI” Lassalo per San Tomasso;213” L’autore riporta anche una variante fermana: “Si San Tomassu non lu vò Lassalo per Sant’Antò”. Secondo un altro proverbio ancora: San Tomasso: [cioè di S. Tommaso] Ammazza ‘l porco grasso; Sci non è ggrasso bene Per Natale se tene214”. Il Novecento _La carne di maiale e gli insaccati in modelli alimentari di inizio secolo_ Dalla pubblicazione “Sentinella” del 1901 si viene a sapere che il vitto di un operaio era costituito al mattino da polenta condita con lardo e formaggio, oltre a pane e vino, che naturalmente accompagnavano la minestra nel pranzo, ed il companatico (che potevano essere di certo spesso salumi) la sera a cena215. Nel già citato seminario di Urbania nel 1902 gli acquisti documentati di cibarie registrano una maggior prodigalità ed al tempo stesso una maggior saggezza negli acquisti di cibarie. Così oltre a comperare grano, pomodori, cacio (si raccomanda il pecorino che rende meglio del parmigiano, essendo anche più nutriente ed igienico), mele, patate, cipolle, peperoni, cicerchie, pasta, riso, uova, insalata, spezie, vongole ma anche carne suina, oltre a quella di manzo, ed in particolare lombo di maiale216. Nel medesimo 1902, in data 8 giugno, la Società Operaia di Macerata offre un banchetto, ed il rendiconto degli acquisti riferisce di due prosciutti, oltre a animelle, fegatini, coratella, maghetti ed a condimenti come capperi, limoni, aceto, olio, cipolle, carote, agli, maggiorana, chiodi di garofano, noce moscata, conserva di pomodoro, ma anche funghi e fagiolini, paste all’uovo, dolci come crostate, fragole, liquori come rhum e marsala, e vino cotto217. Nel 1911 il lardo figura ancora come condimento principale nei pranzi sia per la pasta sia per il riso nelle tabelle alimentari degli istituti della Congregazione di Carità di Urbino, mentre i salumi vanno a sostituire spesso le porzioni di carne (castrato o manzo in genere), o di pesce (merluzzo, tonno e altro), mentre a cena i salumi vanno ad integrarsi con l’insalata o la verdura cotta, o le uova e la frutta218. (213) Ibidem. Ibidem. (215) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 44. (216) C. LEONARDI, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84. (217) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana: Ricette, vini, personaggi, prefazione di G. LIUTI, Bologna 1993, pp. 43-44. (218) S. PRETELLI, cit. (214) “O SALUMI BENE AMATI” • 65 _Un trattato di agronomia del 1905_ Agli albori del secolo scorso l’economia agro - alimentare marchigiana, ancora in grandissima parte e capillarmente rurale, dà enorme rilievo all’allevamento del maiale, presenza costante in ogni famiglia contadina, al punto da essere definito “come uno di casa” da Riccardo Ceccarelli in un suo studio sulla tradizione dei prodotti suini nel territorio anconetano e marchigiano219. Così nel 1905 scrivevano gli autori del “Manualetto del campagnolo anconitano”, preziosa guida didattica di agronomia riservata ai proprietari terrieri ed ai coltivatori della zona: “I suini non difettano in nessun remoto angolo delle nostre Marche: qualunque famiglia, ricca o povera che sia, alleva uno o più maiali per proprio esclusivo uso e consumo tantoché il prezioso quadrupede è considerato come un salvadanaio. Nella riproduzione dei suini certo i nostri contadini non pongono una grande attenzione e la mescolanza di tutte le razze, di tutti i tipi, di tutte le tinte della pelle, continua ad imporsi come razza locale. Non è qui il caso di raccomandare ai contadini con molte parole di eleggere alla riproduzione i migliori soggetti che abbiano, mi si permetta l’espressione, un buon casato: in generale da noi il commercio dei giovani maiali da allevo è in mano dei numerosi porcari, più testardi ed ignoranti dei muli, e che ostacolano, d’accordo con qualche fattore caparbio, ogni miglioramento. Chi è libero delle pastoie di questo tradizionale costume e può allevare da sé, allevi animali che abbiano buone gambe, che sieno raccolti, che abbiano un’ossatura corretta, che abbiano la testa corta, la spina dorsale arcuata, setole fine. Le cure d’allevamento pei suini si sommano in una maggior capacità e pulizia dei porcili e in un trattamento migliore. Generalmente si crede che il porco sia, fra gli animali domestici, il più sporco per nascita. Tantoché, quando si vuol nominare qualche cosa d’immondo, si paragona subito al maiale e quando, nel conversare fra gente pulita, accade si dover nominare questo saporito Fototeca della Regione Marche, Foto tratta dal volume di animale di suole far precedere la Raimondo Orsetti, La Civiltá contadina nelle Marche del `900. sacramentale frase con licenza. Eppure non è, in realtà così: noi vediamo le razze di maiali ben tenute, allevate con cura, vivere nei porcili nella maniera più pulita che si possa immaginare. Se noi continueremo a dare ai nostri maiali dei porcili che sono degli oscuri sotto-scala, dei soffitti che lasciano cadere polvere, dei muri tutti crepacce, senza pavimento, stretti, oscuri: se la pozzanghera più vicina sarà il lago dove scola l’urina della stalla e l’acqua delle grondaie; se noi non cambieremo spesso la lettiera o se adopereremo per lettiera della roba che è già letame, i maiali certamente saranno sudici, avranno la pelle piena di malattie, si gratteranno e si svoltoleranno nella prima pozza di liquido (219) R. CECCARELLI, Come uno di casa..., cit., 66 • • 67 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” o fango che troveranno. Diamo loro invece dei porcili grandi, puliti con aria e luce, che abbiano pavimento impermeabile e fossa di scolo, cambiandogli spesso la lettiera di buona paglia o d’altro asciutto avanzo di foraggi o fogliame, prepariamogli poco lungi una vaschetta d’acqua sempre pulita e vedremo i maiali urinare e defecare sempre in un posto, fare il loro bagno, mantenersi puliti e sani. L’alimentazione è il problema capitale, anche per il maiale, d’un buon allevamento. Aumentare la produzione del maiale vuol dire darsi d’attorno per aumentare le risorse alimentari, poiché la mania distruggitrice delle quercie ha già fatto scomparire la ghianda; distillerie o altre industrie che diano cascami non ve ne sono nelle Marche e perciò i rifiuti della casa e le croste del caldaio della polenta sono poca cosa in confronto della voracità delle bestie. Se i padroni desiderano che i loro contadini non rubino a man salva i cereali, colla scusa del mantenimento del maiale, contribuiscano anch’eglino a questo gravame dell’azienda. Nelle Marche non si può fare assegnamento per il maiale che in una maggior quantità di cereali di scarto tradotti in farine, nella crusca, nella farina di mais, nelle patate, nelle zucche e nelle frutte cascaticcie o sovrabbondanti. La distribuzione dei pasti deve essere ben regolata e in generale bastano tre: la mattina, il mezzogiorno e la sera. Bisogna usare truogoli fissi che permettano al maiale di ficcarvi la tesa, senza che riesca a ribaltarli. La troia ha una gravidanza che dura quattro mesi circa220”. Queste erano le istruzioni per l’allevamento ottimale del maiale, che nelle campagne marchigiane aveva però ancora agli inizi del secolo un carattere soprattutto di autoconsumo, ricavandone ossia salumi ed insaccati (e pochissima carne fresca) destinati alla dispensa casalinga, o a doni al proprietario terriero, dovuti per contratto mezzadrile o sentiti come vincolo di riconoscenza in particolari circostanze (talvolta qualche pezzo pregiato, come il prosciutto, era venduto nei mercati per racimolare un po’ di liquidità monetaria). C’era tuttavia un certo orgoglio familiare nel far assaggiare la propria “salata”, che era un emblema di abbondanza golosa da affettare copiosamente non solo nelle feste comandate ma anche all’arrivo di parenti o ospiti, in visite importanti e nei momenti solenni della vita privata, in particolare i fidanzamenti e le nozze. Trent’anni dopo il “Patto generale di mezzadria per la Provincia di Ancona”, approvato dalla prefettura di Ancona il primo febbraio 1935 contempa al Titolo XI la suinicoltura tra gli “Allevamenti sussidiari”. Si legge all’articolo 52: “Il concedente non potrà rifiutarsi di allevare un maiale in comune onde dare al mezzadro la possibilità di avere l’occorrente per il consumo famigliare221”. d’origine francesizzante (ormai dominanti), con la tradizione apparentemente umile e dimessa delle ricette tipiche marchigiane, sia rurali che marinare. In questo intento di conciliare l’ “alto” della convivialità più eccelsa con il “basso” delle pratiche di dispensa basilari ed universali di campagna dedica un capitolo sul maiale illustrando schiettamente “la salata”, e scrivendo così in apertura: “Tutti sappiamo che del maiale nulla si perde; quindi non credo utile perder tempo nel descrivervi l’importanza di questo animale; poiché, tutti sanno la sua grande utilità222”. Dopo aver raccomandato di ammazzare il maiale “nella stagione più rigida, ossia nel cuore dell’inverno223” ed affidandosi a “persone pratiche224”, raccomanda di lasciarlo all’aria libera per qualche giorno illustrandone poi la divisione in “prosciutti, spalle, lombo, arista (ossia braciole), costarelle, spolpatura (tutta la parte grassa e magra con la quale si fanno le salsicce), lardo, guanciale (tutta la parte grassa che si trova nel collo, barbaglia), assogna (una parte molto grassa che si trova all’interno che ricopre le costole)225”. Si sofferma poi su “il modo di conservare il lardo”, ossia mettendolo sopra una tavola di legno, ponendovi sotto qualche stecca “acciocché prenda aria”, per poi ricoprirlo di sale grosso che “rinnoverete di giorno in giorno”, per un totale di tempo dai venti ai venticinque giorni “secondo l’ertezza”, finché “passato il Fototeca della Regione Marche, Foto tratta dal volume di suddetto periodo di tempo lo leverete dal sale Raimondo Orsetti, La Civiltá contadina nelle Marche del `900. e lo appenderete all’aria libera226; successivamente riporta pure le istruzioni per le preparazioni del “distrutto di maiale”, con grasso di maiale tagliato in piccoli pezzi e poi fatto “distruggere a fuoco vivo”, colato “per un passa brodo fino”, e messo in “barattoli di vetro,” anche se “generalmente si conserva dentro la vescica dello stesso maiale227”. Riguardo alle salsiccie, raccondanda di passare due volte la “spolpatura del maiale” per la “macchina pestacarne”, inizialmente, e poi dopo averla condita “con abbastanza sale fino, una proporzionata quantità di pepe macinato al momento, odore di noce moscata grattugiata, odore di cannella in polvere ed un odore di corteccia di arancia”; la doppia macinatura viene effettuata “in modo da formare una pasta abbastanza fina228”. Con il pesto ottenuto si riempiranno le budella del maiale (“che debbono essere state pulite, come è da costume, in anticipo”), per poi legare il tutto “con uno spago in tanti bastoncini”, da appendere “all’aria libera per un periodo di tempo abbastanza lungo”, finché “dopo un mese o due di possono mangiare tanto crudo che cotte229”. _I Ricettari a stampa di Cesare Tirabasso_ Nel 1927 il raffinato cuoco Cesare Tirabasso, originario di Montappone (nel maceratese) dà alle stampe a Macerata un elegante ricettario, “La Guida in Cucina: 503 Ricette Marchigiane e Nazionali”, dove cerca di far convivere il gusto elegante ed aristocratico di modelli di cucina (222) (223) (224) (225) (220) A. COTINI – A. BARTOLUCCI, Manualetto del campagnolo anconitano, parte III, Industrie Agrarie (Enologia, bachicoltura, allevamento del bestiame), Ancona 1905, pp. 135-138. (221) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 111; cfr. Patto generale di mezzadria per la Provincia di Ancona. Libretto Colonico, Ancona 1939, p. 26. (226) (227) (228) (229) C. TIRABASSO, La Guida in Cucina: 503 Ricette Marchigiane e Nazionali, Macerata 1927, p. 150. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 151. Ivi, p. 155. Ibidem. Ibidem. 68 • • 69 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Viene poi illustrata la ricetta delle “Salsicce di fegato di maiale”, composte con “tutta la coratella di un maiale, cuore, fegato e milza”, addizionata con “un terzo di grasso e magro dello stesso”, passato il tutto per la consueta macchina anche qui una prima volta e poi una seconda dopo aver condito con “parecchio sale fino, pepe macinato, odore di noce moscata grattugiata, mezza corteccia di un’ arancia grattugiata, 150 gr. di pignoli, due spicchi d’aglio se vi aggrada”; per l’autore vanno cotte “sulla graticola a fuoco lento”, ma “sono ottime anche crude230”. Dopo aver descritto la confezione dei “ciabuscoli di maiale” (ricetta riportata in seguito in un paragrafo ad hoc) propone la modalità di preparazione per i cotechini, impiegando “due parti di cotiche ed una parte di carne”, specificando poi come vadano serviti solo lessati, previa una bollitura di quattro ore a fuoco moderato, preferibilmente accompagnati da puré di patate231”. Non manca anche la ricetta dei “Sanguinacci di maiale”, che sembra letteralmente ripresa, nella sequenza meccanica delle pratiche necessarie, da memorie (quando non da osservazioni dirette) raccolte dalla realtà contadina: “Prendete il sangue di un maiale appena scannato, mescolatelo con un bastone Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume acciocché non si coaguli, “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). passandolo poscia per uno staccio. Mettetelo in una pentola di ferro smaltato, oppure di alluminio. Confezionatelo nella seguente maniera: mettete per ogni chilo di sangue 20 gr. di sale fino, 120 gr. di zucchero oppure miele, 100 gr. di uva passa, 50 gr. di pignoli, un cucchiaino di cannella in polvere, odore di noce moscata grattugiata. Mettete anche per ogni chilo di sangue 200 gr. di grasso di maiale tagliato in piccoli pezzetti, fatto rosolare in padella. Mescolate il tutto con una spatola di legno, mettete la pentola a bagno maria, facendo bollire per tre ore circa, rimuovendo di tanto in tanto con la spatola di legno. Levatelo dal bagno maria e lasciatelo freddare alquanto nella stessa pentola. Quando è quasi freddo lo metterete nelle budella come se si dovessero fare delle salcicce. Legato con spago in grossi bastoni lunghi 15 centimetri circa. Legateli a gruppi ed immergeteli per un istante nell’acqua bollente. Appendeteli poscia all’aria libera facendoveli stare 15 giorni circa. Modo di cucinarli: prendete due o tre sanguinacci, metteteli in una teglietta con un pezzo di burro che farete rosolare a fuoco moderato. Quando vi sono rosolati verserete nella teglia mezzo bicchiere di vino marsala. Coprite la teglia e lasciate ridurre il vino fino alla metà. Serviteli ben caldo con un contorno di verdura”. Tra le altre ricette con il maiale il Tirabasso riprende ancora una volta la tradizione contadina con il “Fegato di maiale alla gratella”, tagliato a pezzi, insaporiti con “un pizzico di sale, una presetta di pepe, mezzo cucchiaino di anici”, involti “in un pezzetto di velo (crepina) di maiale”, infilzati in piccoli spiedini con “qualche foglia di lauro”, e messi a cuocere “nella graticola a fuoco leggerissimo”, ed infine serviti “ben caldi con un’ insalatina”232. Invece riprende un piatto umile ma fiero delle campagne, arricchendolo per ingredienti e preparazione ed anche nobilitandolo nella denominazione di “Manicaretto233 di maiale con polenta”: vengono rosolati, nel canonico soffritto di “battuto” marchigiano di lardo, cipolla, “cuore di sedano”, carota e qualche spicchio d’aglio, coscia e petto di maiale a pezzetti assieme a “costarelle”, e poi salsicce a metà cottura, aggiustando con “un pizzico di sale, una presettina di pepe macinato e qualche ramettina di timo (serpendaria), e con un cucchiaio di salsa di pomodoro ed un po’ di brodo o acqua per proseguire la cottura; il tutto va servito “ben caldo con fette di polenta”234. L’autore riporta poi anche ricette di derivazione compiaciutamente straniera, assecondando la sua vocazione ed ambizione di chef alla moda e cittadino, come i “Sanguinacci uso Francese” (senza ingredienti dolci, mettendovi “solo sale e pepe macinato insieme ad un’eguale quantità di coriandoli” ed una terza parte di carne macinata suina come per le salsicce235), o alcune “salsicce con la trippa (Antoyettes)”, macinata con 300 grammi di carne di maiale grassa e magra, (“con un pizzico di pepe bianco macinato all’istante, odore di fiori di macis, coriandoli, cannella, ed un pizzico di sale fino”) da cuocere “sulla graticola a fuoco moderato innaffiandole con sugo di limone”, e servire infine “ben calde”236. Non mancano poi delle “Salcicce alla spagnola (Chorizos)”, per le quali l’autore si sbilancia: “Benché le salcicce alla Spagnola non siano tanto in uso nelle nostre parti, pur tuttavia meritano di essere registrate, poiché esse sono veramente migliori di quelle che si preparano da noi”; sono caratterizzate dall’impiego di 500 grammi di farina di peperone rosso dolce, e 100 grammi di peperone rosso piccante macinato, incorporate a sette chili di carne di maiale tritata237. Nel capitolo appositamente dedicato alla cottura più sontuosa si legge anche la descrizione di un “arrosto di maiale”, per cui l’autore sostiene che i pezzi migliori siano, “senza dubbio, lo schienale (arista) e la coscia, aromatizzato con un “miscuglio pestato fino, composto di due spicchi di aglio, un pizzico di foglie di finocchi e mezza foglie di lauro”, e poi cucinato con una “proporzionata quantità di patate tagliate in pezzi regolari”, o anche con “Verdura insaporita al burro238”. Tra le altre ricette con la carne porcina, come le “Braciolette di maiale sulla graticola” (insaporite e profumate con sale, pepe “fogliuzze di finocchio pestate fine e uno spicchio d’aglio”, e servite (230) (231) Ivi, p. 152. Ivi, p. 155. (232) Ivi, p. 157. Per manicaretto l’autore intende “uno spezzatino di carne, fatto in teglia; oppure in casseruola, il quale deve essere un po’ succulento” (ivi, p. 126). (234) Ibidem. (235) Ivi, p. 156. (236) Ivi, p. 154. (237) Ivi, p. 152. (238) Ivi, p. 144. (233) 70 • • 71 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” con “insalatina verde a parte239), o anche la “Costata di maiale sulla graticola240”, e le “Crepinette di maiale in graticola”, così chiamate perché vengono “involte con la crepina di maiale ossia con il velo”, ossia polpette preparate con “300 grammi di magro di maiale, 30 grammi circa di mollica di pane inzuppate nel latte, 60 grammi di formaggio parmigiano grattugiato, un odore di noce moscata, sale e pepe a discrezione”, ed una volta cotte accompagnate “con fette di polenta fritta al burro241”. In questo testo di Tirabasso altri ingredienti suini vanno a caratterizzare preparazioni tradizionali, come ad esempio il guanciale che insaporisce i “zucchini freschi alla Marchigiana242”, o le “Fave novelle al guanciale243”, altra ricetta rustica tipica delle Marche, come anche i “Piselli freschi al guanciale244”. Per una preparazione di base importante come la “Gelatina di carne”, l’autore suggerisce di impiegare 350 grammi di cotenne di maiale fresco245. Nel 1959 il Tirabasso, ormai assurto a grande fama, stampa a Roma, per l’editore Tambone il volume “La gioia del focolare”, mentre l’esteso e dettagliato sottotitolo presente nel frontespizio interno recita: “Manuale completo di ricette per cucina e pasticceria con l’aggiunta di un capitolo di igiene sull’alimentazione per sani e ammalati. Utile per le famiglie e per i principianti cuochi. Compilato dal chef di cucina”. In calce a questa pagina si legge “Per le richiese di questo libro presso l’autore Cesare Tirabasso Roma – via Mario de fiori n. 33”; nell’edizione visionata in questa sede questo indirizzo è stato però depennato, ed un timbro impresso poco sopra rettifica “Cesare Tirabasso, via Felice Nerini 22, int. 9 – Roma”246. Nella lunga sezione dedicata alle carni il capitolo assai articolato riservato al maiale inizia con la figura intera del suino con tutte le sezioni dei principali tagli, e si avvia quindi a delineare le ricette in proposito. Oltre all’ “Arista di maiale” arrosto, al “Coscio di maiale al forno alla casalinga”, alle “Braciole di maiale con patate fritte”, alla “Braciola di maiale alla salvia”, alla “Costoletta di maiale alla milanese”, alle “Costolette o spuntature di maiale alla tedesca”, alle “Costarelle di maiale in agrodolce”, allo “Spezzatino di maiale con polenta”, al “Bottaggio di maiale alla lombarda”, alle “Fettine di maiale alla robert”, ai “Messicani di maiale alla casalinga”, agli involtini di maiale”, alle “coppiette di maiale”, alle “Cotolette di maiale”, ed al “Maialetto da latte arrosto”, si legge la lunga preparazione della “Porchetta alla marchigiana”. Eccone la trascrizione integrale: “Si tratta niente meno che di cucinare un grosso maiale intero, disossato e riempito di erbe aromatiche diverse, in prevalenza finocchio selvatico fresco. Si ammazza e si depila il maiale come è di uso. Si apre perpendicolarmente dalla parte della pancia, si tolgono tutte le interiora, si lava poi il maiale e si asciuga. Quindi si disossa lasciandolo intero. Fatto ciò si condisce internamente con sale fino (al 2 %, cioè 20 grammi per ogni chilo di maiale), un cucchiaino di comino dei prati (questi semi si vendono nelle erboristerie), molto pepe macinato (2 per mille, cioè 2 grammi per ogni chilo di maiale) e un po’ di foglie di menta piperita. Poi, s’imbottisce bene il maiale di ramettine di finocchio selvatico fresco, e alcune foglie di lauro. Poi si pianta, lungo il centro, un grosso bastone, in modo che del bastone ne esca fuori 30 centimetri circa per parte (il bastone dovrà servire da maniglia). Si cuce il maiale con spago per mezzo di un’ago apposito, si lega in 4 legature, in senso circolare, per tenerlo ben compatto, si solleva poi per le maniglie, cioè per le due stremità del bastone sporgente, e si colloca nell’apposita capancia (è un arnese fatto apposta per cuocere la porchetta) e si mette al forno (del pane) ben caldo per farlo cuocere. Occorrono da 3 a 4 ore di cottura. Mentre cuoce, il grasso che getta fuori cade nella capancia. Si serve fredda, con i suoi aromi di riempitura e col grasso di cottura che, unito alla parte acquosa del maiale, rappresenta una salsa piccante aromatica247”. Il capitolo successivo è dedicato alla “frattaglie di maiale”. In molte di queste preparazioni riecheggiano piatti caratteristici e da tempo immemore tradizionali delle campagne marchigiane per i giorni festosi ed al tempo stesso di alacre lavoro per la “pista” annuale di inizio inverno: si legge pertanto dei “Fegatelli di maiale con la rete” ma anche “al finocchio” e al “crostone”, dei “Zampetti e ginocchietti di maiale lessi”, ma anche “fritti panati” e i più particolari “a la crapaudine” (“dopo lessati e disossati, si condiscono in un piatto con sale, pepe, un po’ di farina di senape, prezzemolo, odore di aglio, olio e sugo di limone; si spolverano di pane grattugiato e si fanno gratinare in graticola, ponendola sulla Fototeca della Regione Marche, Foto tratta dal volume di brace accesa. Si servono ben caldi con spicchi di Raimondo Orsetti, La Civiltá contadina nelle Marche del `900. limone248 ”). Non manca poi la ricetta di una preparazione laboriosa, qui chiamata “coppa di maiale alla norcina”, che rappresenta un orgoglio distintivo della salumeria tradizionale marchigiana, e di cui pertanto si riporta la trascrizione integrale in seguito nel capitolo ad essa dedicata. Naturalmente è di grandissimo interesse il capitolo dedicato alla “Salatura delle carni di maiale”, che l’autore apre dichiarando con la schematicità che gli è consueta: “I metodi per salare le carni di maiale (prosciutti, spallette, capicolli ecc.) sono due, salatura a secco e salatura a soluzione (239) Ivi, p. 140. Ibidem. (241) Ivi, p. 141 (242) Ivi, p. 103. (243) Ibidem. (244) Ivi, p. 101. (245) Ivi, p. 178. (246) Copia consultata nella collezione di Luciano Scafà (che si ringrazia per la squisita disponibilità) presso l’hotel David Palace di Porto San Giorgio. (240) (247) (248) C. TIRABASSO, La gioia del focolare, Roma 1959, pp. 232-233. Ivi, p. 234. 72 • • 73 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” satura249”. Riguardo alla prima specifica che “si pratica nella stagione fredda, oppure in una camera refrigerata a zero gradi di temperatura”. Viene poi delineata la preparazione in proposito: “Per salare a secco, ad esempio, due prosciutti di maiale del peso di 8 kg ciascuno, due spallette dal peso di 8 kg, e una capocollo o lonza, dal peso di 3 kg circa, si prepara la salamoia con un kg di sale grosso, 200 gr. di salnitro (nitrato di potassio KNO3), 500 gr. di sale pastorizio (sale grezzo), 500 gr. di zucchero250”. Riguardo alla salatura a soluzione satura spiega invece come questa preparazione vada preparata calcolando una percentuale di sale superiore rispetto a quella di saturazione in acqua semplice (36 %), poiché “bisogna tenere conto anche della perdita di acqua che le carni lasciano in soluzione nella salamoia”, e quindi il 45 % di sale. L’autore riporta quindi un esempio di salamoia satura e aromatizzata per la salagione delle carni: “Acqua litri 10, sale comune cioè sale da cucina kg 4,5, zucchero gr. 150, pepe intero gr. 150, peperoncino piccante spezzettato n. 2, cannella a pezzetti gr. 50, noce moscata grattugiata gr. 20, bacche di ginepro gr. 200, chiodi di garofano gr. 30, origano, timo, foglie di lauro e salvia a volontà”; Tirabasso aggiunge poi che “se si vogliono delle carni di un rosso carneo, si aggiungono nella soluzione satura 100 gr. di salnitro251”. Si procede poi a spiegare come vadano salati il lardo e la ventresca (“senza salnitro e senza aromi, ad eccezione di un po’ di pepe, foglie di lauro, origano e rosmarino252”), poi le istruzioni per la preparazione dello strutto di maiale con “la sugna e tutto quel grasso che non può essere conservato sotto lardo”, per metterli poi a struggere sul fuoco, ed infine Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume suggerire di metterlo, una “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). volta freddato, “entro alle vesciche o nelle pignatte di terraglia”, secondo consuetudine registrata ovunque nelle campagne marchigiane di appena qualche decennio fa253. Naturalmente poi, seguendo certamente memorie di questo territorio, l’autore si sofferma a parlare anche dei residui, quei “ciccioli che oltre a mangiarli conditi di sale e pepe, si usa farci anche la pizza”, riportando così la ricetta, di questa “focaccia gustosa da mangiarsi tanto calda che fredda accompagnata da un buon bicchiere di vino asciutto254”. Nel capitoletto dedicato ai “salami, zamponi, cotechini, ciabuscoli e salsiccie” vengono descritte alcune preparazioni che rivelano ancora una volta, con ripetizioni, aggiunte e novità rispetto ai testi precedenti dell’autore (ed in particolare rispetto alla “Guida in cucina” del 1927), l’origine marchigiana di questo creatore e scrittore dell’arte dei fornelli e della mensa. Nella descrizione dei salami si vedrà in seguito nel capitolo ad hoc come la pratica rimandi al tradizionale lardellato marchigiano, e lo stesso può dirsi nelle istruzioni per i “ciabuscoli o ciausculi alla marchigiana. Oltre alle descrizioni dei “cotechini e zamponi” e delle “salsiccie di maiale alla spagnola”, va assolutamente prestata attenzione, in una ricerca a vocazione territoriale tradizionale marchigiana, alla parte dedicata alle “Salsiccie di maiale alla picena”. Eccone la trascrizione: “Si prende la così detta spolpatura di maiale (carne grassa e magra che si distacca dalla superficie del lardo, ritagli del prosciutto, della spalla ecc.) si fa a pezzetti e si macina con la macchinetta trita-carne (a stampo a buchi piccoli) due volte, onde ottenere un trito fino ed omogeneo. Macinata, si mette in una concola e si condisce con i seguenti ingredienti: Per cinque chili di carne macinata si mettono: le buccie di due arance, la buccia di mezzo limone, 5 gr. di noce moscata grattugiata, 10 gr. di cannella in polvere, 4 chiodi di garofano pestati nel mortaio, 3 spicchi di aglio pestati e 25 gr. di pepe macinato di recente. Si tritano le buccie delle arancie e del limone e si mischiano con tutti gli ingredienti con mezzo chilo circa della carne macinata suddetta. Si macina questo miscuglio con la macchinetta trita carne due o tre volte. Si raccoglie il pesto (anche quello che può essere rimasto nella macchinetta) e si mette nella concola insieme alla carne macinata. Poi si condisce tutta la carne macinata con 150 gr. di sale fino (al 3 %) e si mischia il tutto con la spatola di legno per 20 minuti circa, onde averla condita, misciata e compatta. (Alcuni aggiungono, oltre agli ingredienti suddetti, anche un po’ di vino cotto, questo nuovo ingrediente non è disprezzabile). Tale carne, così condita, s’insacca nelle budelle piccole dello stesso maiale, precedentemente pulite come è di uso. Dopo insaccata nelle budelle, si lega, come suol dirsi, a bastoncelli, lunghi 8 o 9 centimetri (ognuno potrà pesare 50 gr. circa) e si appendono all’aria libera in cucina. Dopo un mese circa si possono mangiare anche crude255”. In seguito sono altre le preparazioni insaccate descritte che, seppur non citando direttamente o indirettamente le Marche o territori e realtà ad esse collegate, rimandano anche nelle stesse denominazioni a produzioni che tuttora caratterizzano l’antica tradizione norcina di questa regione , manche solo semplicemente domestica: si legge delle “salsiccie matte di maiale” da mangiarsi arrostite, composte con “trippa, coda, orecchie, ossa della testa” cotte e disossate, e poi grasso di maiale tritato e soffritto, sale (al 2 %), pepe (al 0,2 %), “odore di noce moscata, qualche chiodo di garofano macinato” e infine “uno o due decilitri di aceto bollente256”; non mancano poi le “salsiccie di fegato di maiale” da mangiare “anche crude” (addizionate nel pesto di aggiunte gentili se non arcaicamente dolci per assecondare il gusto naturale di questo particolare taglio di carne, oltre all’ormai consueto “odore di corteccia di arancia grattugiata” anche “l’uno per cento tra pignoli e uva sultanina257”; ed infine vengono descritti i “Sanguinacci di maiale o parrocchiani”, (249) (250) (251) (252) (253) (254) Ivi, p. 235. Ibidem. Ivi, p. 236. Ibidem. Ivi, p. 237. Ibidem. (255) (256) (257) Ivi, p. 238. Ivi, p. 239. Ibidem. 74 • • 75 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” ossia la tradizionale leccornia dolciastra di inizio salata, quando “appena si scanna il maiale, si raccoglie il sangue di esso in un catino e si sbatte subito con la frusta per evitare che coaguli”, da impreziosire con pinoli, uva sultanina, zucchero o miele (oltre ad un po’ di sale ed ai consueti aromi), per poi imbuseccare il tutto nei budelli e poi tuffare nell’acqua bollente per un minuto prima di lasciar asciugare “in cucina all’aria libera”, e consumare infine “anche crudi, ma generalmente arrostiti in graticola oppure soffritti in padella con un po’ di grasso di maiale258”. ovini e caprini, godendo così di episodica ed appetitosa carne fresca da cucinare), per i signori “la pista” era il momento in cui si testava la produzione di leccornie suine particolarmente appetite. Dai più pregiati prosciutti alle più comuni salsicce si produceva della carne, conservata sotto sale ma comunque carne, cibo della festa, delle celebrazioni gioiose, dalle ricorrenze del calendario liturgico alle tappe di quello agrario, poiché i salumi in dispensa accompagnavano le merende per i grandi lavori come la mietitura. All’inizio dell’anno nel prosieguo delle festività natalizie, per Capodanno o per l’Epifania c’era la scanzonata usanza tradizionale della questua. Uomini, ma anche donne e talvolta bambini, riuniti in gruppo, e talvolta buffamente acconciati, andavano in giro per le case ad officiare quello che per il sei di gennaio era conosciuto come rito della “Pasquella”: si andava di famiglia in famiglia a danzare ed a intonare alcuni canti che in genere omaggiavano e blandivano i padroni di casa cercando di ottenere come premio il dono di qualche cibaria, in una colletta alimentare che avrebbe poi dato modo di imbandire una mangiata di gruppo. Tra le richieste di alimenti cantate in rima naturalmente salsicce e lardo avevano un posto di primissimo piano nei desiderata, in quanto da sempre i salumi sono ben saldi nel gradimento dell’immaginario goloso (di ogni tempo). Da tempo si sta cercando di recuperare questi canti perpetuati di generazione in generazione ormai da secoli solo a voce affidandoli alla memoria degli officianti. Ecco una versione in dialetto maceratese, nella trascrizione di Giuseppe Procaccini di Corridonia: _L’esperienza monastica nel Novecento_ Altri ricettari importanti, fonti di preziose informazioni, sono da tempo immemore quelli conservati nei monasteri, da sempre oltre che luoghi di preghiera e meditazione anche centri di ricerca e sperimentazione di tutti i saperi, compresi quello agronomici e di ottimizzazione delle risorse tra dispensa e cucina, per imbandire al meglio i pasti nel refettorio, non solo per frati e suore ma anche per i numerosi ospiti accolti ed ospitati. Non stupisce pertanto che nel tempo i luoghi claustrali siano diventati raffinate e celebrate officine del gusto, dove si codificavano squisite ricette, spesso filtrate anche all’esterno e perpetuate all’interno, o attraverso appunti manoscritti di cucina o grazie al mutuarsi di gesti e nozioni tra le generazioni di confratelli e consorelle che si avvicendavano in cucina. Quando la studiosa Sebastiana Papa nel 1978 ha pubblicato il suo libro “La cucina dei monasteri” giunse anche presso le clarisse di Belforte in Chienti, dove la cuciniera suor Maria Francesca raccontò alcuni suoi piatti, preparati da decenni perché disse “sono quarant’anni giusti che prego e cucino e non faccio altro”: tra le sue specialità, che son quindi databili circa dagli anni Quaranta del Novecento, si ricorda appunto un coniglio in porchetta arricchito con prosciutto tagliato a dadini259, e poi il “Sangue cotto in paurosa” per cui la medesima consorella racconta: “Una volta l’anno chiediamo una licenza straordinaria a monsignore arcivescovo per fa entrare in monastero un uomo per un lavoro che noi monache non possiamo fare. L’uomo uccide il maiale e ci prepara la pista, ossia la salata, e il sangue del maiale, dopo averlo lessato, si cuoce in paurosa, vale a dire tagliato a pezzetti con molta cipolla soffritta, pancetta fresca di maiale, sale e pepe260”. Nel monastero di Santa Caterina a Ripatransone tra le pietanze più ricorrenti, analoghe ad un modello alimentare decisamente simile alla tavola contadina, figurava la polenta con le cotiche. Oltre al “pipo”, focaccia ugualmente rustica, condita con i lardelli di maiale, chiamati “li strisce”261. _Tradizioni e feste popolari marchigiane_ La “pista” era un momento rituale nel ciclo agrario annuale, che interessava tutti i ceti nell’antica società rurale: se appunto per i contadini la macellazione del maiale rappresentava la provvista della carne più ordinaria per i giorni comuni (solo nelle feste si sacrificavano pollame o capi (258) (259) (260) (261) Ivi, pp. 239-240. S. PAPA, La cucina dei monasteri, Firenze 1978, p. 92. Ivi, p. 96. Ivi, p. 124. “Nu’ vvinima, vòna jente, Ogni jornu de Pasquella, A cantavve allegramente Questa solita storiella : Che possate tuttu l’annu No ‘n zuffrì mango u – malannu. Ogni vène ve rechi Epifania ‘Ncinamente la morte, e cuscì scia. Dopo fatta sta sonata Quarche cosa preparate; O de cì, ‘na vucalata, Du’ sarzicce e ddu’ patate; Tutto è bbobo a li puritti Che sta spisso a denti stritti. Ogni vène ve rechi Epifania ‘Ncinamente la morte, e ccuscì sia!262” Ancora le salsicce ricorrono in un’altra versione di canto della Pasquella, raccolta per uno studio recente nel territorio pesarese tra le vallate del Metauro e del Cesano263. “E’ arrivata la Pasquella con l’aiuto del Signore (262) G. PROCACCINI, La Pasquella, in G. CROCIONI, La gente marchigiana nelle sue tradizioni, cit., p. 87. T. LUCCHETTI – O. ZANINI DE VITA, L’aratro, l’arola, l’aia: storie e memorie di tradizioni, colture, cucine, feste tra Metauro e Cesano, Pergola 2008, p. 150. (263) 76 • “O SALUMI BENE AMATI” con l’aiuto di Maria. Buona Pasqua il ciel vi dia. Buon anno novo ed Epifania. Sia lodato Gesù Cristo, giunti siam anche quest’anno a portare questa novella. L’anno novo e la Pasquella”. Tre re magi dall’Oriente con tre regni e la corona son venuti di gran fretta ad adorar la capannella. L’anno novo e la Pasquella”. (…) [Il riferimento si faceva poi chiaro verso Gesù Bambino e i Re Magi, protagonisti delle’Epifania, con una citazione anche del primo miracolo di Gesù durante il pranzo delle Nozze di Cana] “Là sul fiume del Giordano, dove l’acqua diventa vino per lavar Gesù Bambino, per lavar la faccia bella. L’anno novo e la Pasquella264. In questa casa c’è una sposa fresca e rossa che par ‘na rosa risplendente come una stella. L’anno nova e la Pasquella265”. “Venga giù il signor capoccia con le chiavi della cantina ne bevian una goccina, ne beviam una mastella. L’anno novo e la Pasquella266”. “Se ci date o non ci date, non ci fate tanto aspettare noi lontan dobbiamo andare a portare quesa novella… I gallinacci son troppo grossi non li vogliam davver, davvero se un cappon fosse vertiero, oppur ‘na pollastrella… Se ci date una forma di cacio, la metteremo sui maccheroni con’na resta di salsicce, pur sarìa ‘na cosa bella. L’anno novo e la Pasquella267”. Si ricordano i canti della questua anche in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, santo particolarmente legato al maiale, celebrato il 17 di gennaio, il folklorista Giovanni Ginobili racconta appunto che “in qualche parte dell’ascolano” ma “anche nel maceratese e nel fermano la sera della vigilia della festa del Protettore degli animali, da comitive di canterini, per le case di campagna” si cantava “La canzona de Sand’Andoniu Abbate”, così “ricevendone in compenso uova o anche insaccati di maiale268”. Nel riportare una manifestazione tradizionale legata alla ricorrenza di Sant’Antonio di Civitanova Alta, “lo vattajò”, ossia un battaglione di cavallerizzi, ancora Ginobili racconta che “già la mattina tutti i contadini si riversavano nel centro, per assistere alle cerimonie religiose nella quattrocentesca chiesa di Sant’Agostino per l’occasione addobbata a festa, e recando filse di salsiccie che, dopo le sacre funzioni, si consumavano allegramente in osterie269”. C’era poi il Carnevale, da sempre festa del “grasso”, apice della golosità comandata, con la liceità del grasso di maiale dallo strutto per le fritture dei dolci al lardo che trionfava ovunque in cucina. Recita una strofetta riportata da Ginobili sulla contrapposizione anche alimentare dei due periodi (264) Simile una versione riportata da G. PIETRUCCI, Cultura Popolare Marchigiana, Jesi 1985, p. 294. Dire, agire e produrre a Isola di Fano, consulenza storica di E. PIERUCCI, a cura della SCUOLA PRIMARIA ISOLA DI FANO, in Il centro storico: simbiosi tra uomo e ambiente, Fossombrone 2007, p. 65. Testo integrale riportato in F. ASTOLFI - M. BUCCHI – E. CANCELLIERI – E. PIERUCCI – D. ROSATI, Feste, riti, divertimenti, superstizioni, in Isola Di Fano: Feste e folclore, a cura di ASSOCIAZIONE CULTURALE ISOLA DI FANO, pp. 30-31. (266) Ibidem. (267) Ibidem. (268) G. GINOBILI, Mestecanza: varie sul folklore marchigiano, Macerata 1961, p. 19. (269) Ivi, p. 148. (265) “O SALUMI BENE AMATI” • 77 da sempre in lotta nella letteratura popolare, ossia il grasso Carnevale e la magra Quaresima: “Carnuà bellu, se magna lu lardellu. Quaresima vecchiaccia Sé magna la fojaccia270” L’accezione anche simbolica del lardo per il Carnevale è esemplificata dal rito del “lardello” carnevalesco (altrove chiamato anche “cicolo”), ossia un’altra questua dove gruppi di bambini o donne girano per case e famiglie con un forchettone su cui infilzare pezzetti di lardo elemosinati in dono, in modo che poi tutta questa riserva di grasso consentisse una golosa frittura carnascialesca di castagnole o frappe. Così descrive quest’usanza il folklorista maceratese Ginobili in un suo libro del 1961: “Visita analoga soleva fare alle case dei contadini, nei giorni del carnevale, di preferenza il giovedì grasso, da sola, una donna ornata di lauro il crine e il guarnello, la quale con uno spiedo nella sinistra e il cembalo nella destra, sulle aie, subito circondata da fanciulli festanti, agitando il cembalo e cantando canzoni a ballo, eseguiva leggere movenze e piroette, fino a che la vergara, prontamente accorsa, non avesse infilato nello spiedo un lardello, dal quale la modesta usanza prendeva il nome. Conseguito lo scopo, la cercatrice, piantando i pochi uditori, migrava verso altre case e…altri lardelli271”. Dal rigore invernale al solleone bruciante delle prime settimane estive vanno ricordate anche le rituali merende servite ai braccianti durante le grandi “opre” estive del mietere e del “battere”: tra tutti i pasti i salumi erano autentici protagonisti, sia negli spuntini intermedi sia nell’apertura del grande pranzo di metà giornata, dove gli affettati aprivano questa sontuosa sequenza di portate. Spesso era anzi questa la prima occasione speciale per assaggiare i frutti della “salata” suina, confezionata circa un semestre prima nel pieno dell’inverno. Uno dei “Candi de lo mete’” riportati da Giovanni Ginobili presenta un passaggio significativo: “Arrìzzete, Marì, che jimo [andiamo] a mete’; mittimo la sargiccia tra lo pane. Jimo de sotto, jimo jò ll’ara [aia] Tu co’ la forca, io co’ la pala. Lajò (laggiù) te lo dirrò ma du’ parole272”. Ancora Ginobili, tra le “Ironie e dispetti d’amore” riporta questa strofa di soli settenari che “mette in evidenza l’incapacità di una giovane di saper preparare sia pure il più semplice e comune dei pasti marchigiani, la polenta”: “L’Hi fatta la pulendo: n’era tosta, mango lenda. Ce l’hi misti li ciccitti (ciccioli), n’era cotti e manfo nericci (mezzo cotti). Con un bugnu de farina (270) (271) (272) G. GINOBILI, Mestecanza: varie sul folklore marchigiano, cit., p. 91. G. CROCIONI, La gente marchigiana nelle sue tradizioni, Milano 1951, p. 87. G. GINOBILI, Mestecanza: varie sul folklore marchigiano, cit., p. 75. 78 • “O SALUMI BENE AMATI” ce n’hi fatta na catina273”. _Il maiale nella poesia vernacolare marchigiana_ Il dottor Luigi Centenni di Monterubbiano, definito “professore illustre a Milano, cultore in giovanissima età della storia e delle costumanze del suo paese”, dedica una sua composizione alle “pappate”, intese come sontuosi banchetti che come da prassi conviviale ormai radicata nei secoli, si aprivano con un antipasto di salata suina: “Du fette de prisutto o de salame, non se fa un pranzo senza maccarù, lo lesso lo magna chi cià fame, spetta lu frittu che non è cordù. Un pollastrello in ammodo al tegame, lo pesce quanno c’è vale un Perù; se po’ è un pranzetto che ‘nte sa de rame te gusta cento e mille vote più. Crudo e po’ cotto dev’esse lu vi, l’arrosto non po’ stà senza ‘nsalata, pe li jotti ce cò lu cuntinti. Infine na vuttija ‘mmuttiijata, frutti, crema, caffè, e lu vicchiù: ècchete bella e fatta la pappata274”. Un poeta dialettale di Cupramontana, Luigi Caporossi Colognesi (1859 – 1938): “non riusciva a dimenticare la squisita porchetta confezionata da Giovanni Manganelli, detto “Gioà del Giro”, venduta su una tavola in piazza nei primi anni del Nocevento e quella gustata presso la Villa della Torre dei marchesi Ghisleri275”. Questa la composizione in versi: “Ma sai que t’ho da dì Francescantò? A porchetta se è fatta proprio bè Come a facìa Giovanni del Girò È na cosa che mejo non ce n’è. Lu in mezzo a a piazza se mittìa naò (perché tutti l’avesse da vedé) avanti a Romalli, col parnanzò e giù pepe e finocchiu murtobè (273) G. GINOBILI, Folklore e musa tradizionale delle Marche, Macerata [s.d]., p. 77. La trascrizione qui riportata è stata effettuata da un ritaglio di giornale attribuito da una nota manoscritta al Giornale d’Italia, settembre 1905, ed incollato su un volume miscellaneo sulle tradizioni marchigiane (conservato alla Biblioteca Comunale “Luciano Benincasa” di Ancona con segnatura 29 – G - 10), che reca sulla rilegatura il riferimento all’opera principale in esso contenuta, ossia “Le Marche” di Crocioni (G. CROCIONI, Le Marche: Letteratura, arte e storia, Città di Castello 1914). (275) R. CECCARELLI, cit., p. 153. (274) “O SALUMI BENE AMATI” Me ricordo naò de sa porchetta Giù a Torre der marchese Ghisilieri: fu fatta na magnata maledetta. E me ricordo come fosse jeri Che non ce n’avanzò manco na fetta E sen briacò perfino anche i bicchieri.276” Un altro poeta dialettale, Silvano Rossini di Jesi, nella sua “Parla porco” immagina un soliloquio del maiale: “Quanno un monello maleducato va a casa sporco p’ave’ giogado ‘l padre subbio co’ ‘no schiaffo’ je dice sempre: - sai ‘n porcaccio’! e sci per caso che ‘n fedonaccio se caccia i didi su pe’ ‘l nasaccio, C’è chi je ‘llenta ‘no scuppolò e je ripede: - porco puzzo’! Pure ‘na madre Che parla fino Sci sente ‘l fijo Ch’è ‘n signorino A dì ‘na frase ‘po’ ditta male je dice allora; - sei un gran maiale! E’ ‘n’ingiustizia Propeio schifosa Che a me m’offende Più de nicosa! Che parago’ (276) 15. L. CAPOROSSI BOLOGNESI, Lapazi, Jesi 1936, p. Co ‘ sto confronto Ma sc’io sto zitto Passo da tonto! Miga ‘ste cose Sgappa mai fori Quanno ‘nte pranzo Tanti rignori Magna i lichetti ‘l po’ con prosciutto o i cervelletti fritti al distrutto, le castagnole insuccherade e le salsicce co’ le padane o i vincisgrassi o i feghetelli le costarelle ‘l pa’ coi grasselli? A me me pare Che je dà tono Quelli che dicembre che ‘l porco è bono! Que cià i negozzi La porcaria ‘Ndo’ che c’è scritto: “Salumeria”? Que farìa l’omo Sensa de me? E lu ‘me ‘mmazza Sensa un perché! Per quanto io sia A tutti caro Me fa l’amigo Solo ‘l porcaro. ‘Nvece c’è tanti che ha fatto danno campa ‘na mucchia e io dopo un anno ho da morì sempre scannado come ‘n birbante matricolado Perché so’ grasso • 79 80 • “O SALUMI BENE AMATI” Non magno più L’omo me scanna Me ‘ttacca su. Quanti ce n’è D’ommini zozzi Che s’è ‘ ricchidi Facenno i strozzi, ladri o mercanti affamatori sporchi de drendo io ‘nvece fori: io so’ poretto quelli è signori. Io ‘nte ‘sto monno Ciò sempre perso Proprio al contrario Del senso inverso; ma l’ingiustizzie ‘n ce sarìa più sci fusse i ladri ‘ttaccadi su!277” _I salumi tra quotidianità alimentari e tradizioni contadine a metà del ‘900_ Tornando ad un ambito più prettamente rurale, all’interno di un’indagine condotta negli anni ’50 sulle abitudini alimentari del contadini delle Marche Nord Occidentali (commissionata dall’Istituto Nazionale della Nutrizione del CNR) è stato elaborato uno schema sui singoli pasti nelle varie stagioni, sulla base delle informazioni raccolte sul campo. Stando ad una valutazione media sui cibi consumati nei vari pasti queste famiglie di campagna (tutte generalmente produttrici di salami, coppe, lonze, salsicce, lardo sotto sale e prosciutto durante la “pista” annuale) consumavano il prosciutto soprattutto di domenica sera in autunno, mentre il salame contraddistingueva le colazioni domenicali in inverno e quelle del martedì in estate278. Le memorie orali raccolte da studi svolti durante il Novecento raccontano spesso dell’importanza strategica della macellazione del maiale, e del conseguente trattamento della pacca (metà della carcassa suina) o anche del porco intero per le famiglie più agiate. Nel 1951 l’Ente Provinciale per il Turismo di Ancona pubblica un opuscolo dal titolo “Gloria e vanti della cucina e del vino anconetani”, e nella copertina si legge “Testi di Milton”. Non si può dire con certezza (le ipotesi possibili di identificazione restano nella mente di chi scrive) chi si (277) S. ROSSINI, Arie del Montirozzo, Jesi 1954, pp. 103-108. Lo studio in generale ed il prospetto con la tabelle dei vari pasti nella settimana nell’arco delle stagioni è stato elaborato da F. BONASERA, Le abitudini alimentari dei contadini delle Marche Nord Occidentali (1950), <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, pp. 78-79. (278) “O SALUMI BENE AMATI” • 81 cela dietro quello che sembra davvero uno pseudonimo, ma di certo il colto compilatore delinea una cultura gastronomica con passione evocativa ed un’erudizione che intreccia la cultura materiale del cibo con aspetti eminentemente intellettuali. Così scrive nelle articolate righe dedicate alle leccornie suine tradizionali della provincia anconetana: “L’allevamento del maiale, quello nostrano, nero, succoso è una delle tradizioni del contadini dell’anconetano. E tutto è saporito in questa bestia, di cui Brillat-Savarin, diceva: è un peccato che non abbua quattro più quattro gambe. Come non ricordare i salami di Fabriano, che hanno fato conoscere nel mondo il nome di questa mirabile città, già nota per le sue opere d’arte. E le “soppressate”, ed i magri prosciutti delle terre vicine a Cupra, nervosi, saporiti, e le salsiccie che ogni massaia prepara e condisce con uno stile proprio ed inconfondibile, ed accompagna con pepe e finocchio. Per esempio, come non essere riconoscenti a quella saporita bestia che ci dà o “ciarimboli”, budella essiccate accuratamente con erbe aromatiche e poi arrostite sulla graticola, lo strumento da cucina più adoperato sino a qualche tempo fa nella provincia di Ancona. Né si potrebbe dimenticare la “porchetta”, che è un cibo tipicamente marchigiano, quei giovani rosei maialini che vengono arrostiti interi, ad una grande pertica, su un bel fuoco allegro, con il rito degli antichi, che celebravano il pasto come una cerimonia religiosa, dopo aver riempito il piccolo ventre di erbe aromatiche, quante ne hanno le colline e le montagne da cui vigilano ancora le tradizioni delle antiche Sibille. La porchetta è un elemento indispensabile delle feste pae- Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” sane , e non vi manca mai, ed a vederla sul (Ancona, 2004). caratteristico banco, con l’aurea crosta croccante, non si può fare a meno di andare, con il ricordo, alle antiche feste della nostra gente. Ed il pensiero va, senza rendersene conto, ai banchetti omerici. No, la cucina marchigiana, è veramente una delle più tipiche e portentose d’Italia279”. Nel 1953 Giovanni Crocioni, illustre studioso marchigianista, pubblica un suo importantissimo studio sulle tradizioni folkloriche marchigiane, e naturalmente si sofferma sulla centralità di alcune produzioni suine: “Cibo ricercato e popolare, ma non esclusivo delle Marche, la porchetta, cioè un maiale non troppo grande, disossato poi cotto intero, al forno e allo spiedo (che talvolta è un palo) con, dentro, foglie aromatiche e droghe. Preferito in occasione di feste, di scampagnate e fiere. E’ menzionato in vari statuti: a Fermo, in certe ricorrenze veniva distribuito in pubblico. (279) MILTON, Gloria e vanti della cucina e del vino anconetani, Ancona 1951, pp. 11-12 . 82 • • 83 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Come a Bologna si soleva celebrare la festa della Porchetta, così credo si facesse anche in qualche luogo delle Marche280”. L’autore illustra poi altre diverse produzioni di salumeria come tradizionali delle Marche, che verranno riportate più avanti. quale dovizia condiva!), mia nonna diceva “ora sì che riesce! Ne basta un pochino per conferire un sapore superiore, una raschiatina sola con il coltello, riscaldato un momento sul fornello!”282 La Rondini riporta poi ricette antiche come “Il guanciale con la salvia283”, “i fegatelli, lo strutto, i ciccioli284”, gli zampetti285, le costate286, le budella affumicate chiamate “ciambudej287”, o anche il sangue “alla macellaia” con le cipolle o “alla fornaia”288, legato alla memoria forsempronense del forno “di Caprara” di Piercecchi e di un’ osteria locale. Non mancano i ricordi del sangue preparato anche in quel dolce tradizionale chiamato “miacc289” (o “migliaccio”), di cui l’autrice sostiene di riportare una ricetta originaria del Settecento, avuta dalla signora Palma Basili di Canavaccio. Si leggono ricordi anche delle salsicce con l’uva290, oppure cucinate arrosto con il puré291, del canonico cotechino con le lenticchie292, fino a piatti meno borghesi e più rustici come l’antichissima “bajona293”, ossia testa di maiale più cotenne e zampetti messi a lessare e poi spezzettati, conditi con sale, pepe e maggiorana (“persichina”) e serviti sopra fette di pane. Si parla poi naturalmente anche di porchetta294, di salcicce particolari come gli “strozzafegato295” e del “salame nostrano296”, riconducibile per tipologia di confezione al classico “lardellato” (come si vedrà nello specifico capitolo). _Memorie di casa e di campagna della Fossombrone novecentesca: Tradizioni rurali e di cucina nel volume “S’l’arola” di Adele Rondini_ Tra i tanti aneddoti la studiosa, autrice nel 1993 di questo compendio di memorie locali punteggiato di riferimenti dotti e descrizioni intensamente poetiche, ne riporta uno relativo a molti decenni indietro, indicativo di alcune furberie sulla macellazione del maiale del suo paese. “Si presenta, un giorno, da Palma quello del Dazio, un tale che, con fare sospetto, a mezze parole, lascia capire che sarebbe il caso di fare una sorpresa a Montalto, per cogliere in flagrante un tale che ha macellato un bel maiale senza pagare il dazio ed essere in regola con la legge. Ordinato il mezzo di trasporto, Palma parte e si dirige verso Montalto. La gente si affaccia già alle finestre del paesino che, come per incanto, sembra svegliarsi al potente rombare del motore di Gigino. In un baleno tutti sono al corrente che si cerca il Tale. Finalmente Palma lo trova e fa irruzione. Ispeziona il pianterreno, fa un giro per le camere. Una sola, con le imposte socchiuse, è in penombra: “Ci sono nonno e nonna, tutti e due infermi…Non andiamo a disturbarli si sono appena assopiti”. Nel magazzino? Solamente due pacche a penzoloni, e attaccato al muro, tra i santini e le madonne, vede bene in mostra anche la bolletta staccata al Dazio per macellare il suino. Che Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume “Come uno di casa: figura! Vincenzo da già per andarsene. Ma, sulla Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). porta, all’autista esce detto: “Ho visto tanti maiali, ma questo è il primo che mi capita di vedere con una coda per pacca!”.Un lampo di illuminazione e subito dietro front…la chiave dell’enigma apre tutte le porte…ed anche quella delle camere dei malati. Il daziere scopre così che ci sono altre due pacche nascoste demtro il letto. “Poverini, stanno proprio male!?281”. L’autrice dedica un intero capitolo del suo testo al maiale, intitolando uno dei paragrafi introduttivi con un eloquente “Tutto buono!”. Si parla così del lardo, da mettere sotto sale con la proporzione di 100 grammi per ogni chilo per due settimane, per poi lasciarlo asciugare all’aria in luogo asciutto: “Quando vecchio, non era più né bianco né roseo, ma giallo e rancido (e con _Un altro grande protagonista della salumeria marchigiana: Il ciauscolo_ L’etimologia del curioso nome di questo particolare salume è stata ampiamente discussa con molte ipotesi, ma la più accreditata, ed al tempo stesso credibile, contempla l’origine dal latino “cibusculum”, ossia diminutivo o vezzeggiativo di “cibus” (cibo), e quindi piccolo cibo, nell’accezione di merenda o spuntino con questo piccolo alimento portabile con sé in ogni momento, per tutte le occasioni di ristoro o fame improvvisa lontano da casa e dai pasti principali, secondo la tradizione antica e continua dei “mangiari da strada”. Del resto una delle sue caratteristiche è quella della particolare consistenza, talmente morbida da garantire un’ottima spalmabilità, e quindi un consumo ideale con il pane o le focacce (come ad esempio le “cresce” della tradizione umbro-marchigiana). I gourmet più raffinati, colpiti da questa morbidezza di sapore e di pasta, hanno scomodato tutti i confronti e le possibili analogie con la simile, ma ben più (282) (283) (284) (285) (286) (287) (288) (289) (290) (291) (292) (293) (294) (280) (281) G. CROCIONI, La gente marchigiana nelle sue tradizioni, Milano 1951, p. 109. A. RONDINI, S’l’arola, Roma 1993, p. 150. (295) (296) Ibidem. Ivi, p. 151. Ibidem. Ivi, p. 153. Ivi, p. 154. Ivi, p. 154. Ivi, pp. 152-153. Ivi, p. 155. Ivi, p. 155. Ibidem. Ivi, p. 157. Ivi, p. 156. Ivi, p. 158. Ivi, p. 156. Ivi, p. 157. 84 • • 85 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” aristocratica, tradizione francese dei patès. La memoria della remota origine latina del nome, “cibusculum”, si rintraccia poi evidentemente nelle varianti della denominazione di questo insaccato, che si incrociano nelle varie declinazioni dialettali attraverso il territorio: se molti ormai lo chiamano appunto “ciauscolo” esistono ancora diverse persone che lo denominano “ciabuscolo”, e qualcuno addirittura “ciabusco”. Il ciauscolo si prepara con una selezione di carne di maiale di prima scelta, come ritagli di spalla, prosciutto, capocollo, costate disossate e pancetta, per un insieme di 60% di carne magra, a cui si aggiunge la percentuale restante di grasso, che conferisce l’inconfondibile gusto avvolgente e quella caratteristica pastosità: il tutto viene aromatizzato con sale, pepe, scorza d’arancio tritato, finocchio a piacere, aglio sminuzzato e qualche goccia di vino cotto, e poi macinato per ripetute volte e con trafile sempre più piccole, in modo da ottenere alla fine un composto assolutamente Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). omogeneo dalla consistenza appunto tenerissima, se non cremosa e perfettamente spalmabile; questo amalgama va lasciato riposare e per qualche ora, e poi insaccato come di consueto. Lo studioso di storia e tradizioni locali Alberto Fiorani ha fatto un’indagine molto curiosa ed intrigante sui cognomi italiani come elemento rivelatore sull’importanza ed il radicamento nel territorio italiano del maiale e delle sue culture e connotazioni agro-alimentari: ebbene tra le tantissime famiglie “Coppa” (ben 1551) i quasi 1500 cognomi legati a “Grasselli” o “Grascelli” o simili, gli 865 “Salami” ed affini, i 411 “Prosciutto” e dintorni, vanno ricordate degnamente le trentatrè unità familiari che hanno il cognome “Ciabuschi”: la metà circa di queste sono sparse per l’Italia (Roma, Terni, Livorno, Milano, Verona), ma non a caso sedici di esse vivono ancora nel territorio tra la Vallesina ed il fabrianese, ad indicare come sia proprio questa, in corrispondenza con il prodotto di norcineria corrispondente, la zona originaria del patronimico, a conferma del carattere totalmente autoctono del ciauscolo (o ciabuscolo, o ciabusco). Ma come di dovere il radicamento storico in un territorio va comprovato da fonti e documenti scritti, ed andando indietro nei secoli non è difficile rinvenire attraverso una ricerca capillare antiche citazioni del ciauscolo. Già alla fine del XVII secolo, un documento datato al 1696 (conservato all’Archivio di Stato di Macerata) riferisce i prezzi, a Belforte sul Chienti, di molti prodotti di derivazione suina, tra cui appunto il ciauscolo, oltre a salame, prosciutto, lardo, strutto, lonza. Tra le documentazioni significative vanno ricordate le carte d’archivio con i registri delle cibarie offerte (più o meno spontaneamente) agli eserciti stranieri in transito: ad esempio all’Archivio di Stato di Macerata tra i molti volumi della serie “Spese per il passaggio di truppe estere” in relazi- one al periodo 1707-1802 si nota la presenza del ciauscolo tra le vettovaglie fornite all’esercito austriaco. Ad Ancona gli archivi gentilizi riportano molti conti annuali di pagamenti ai norcini ed inventari conclusivi della “pista” domestica. Ad esempio nel 1729 nell’inventario di casa Troili tra la “carne salata di fresco” si contano anche i ciauscoli, oltre a salami, prosciutti, lardi, golette, panzette, lonze). O ancora nell’inventario di dispensa di palazzo Trionfi nel 1744 risultano ben 250 ciauscoli (oltre a 5 prosciutti, 21 lardi, 18 ventresche, 19 coppe di casa, 69 salami e 16 mortadelle di Bologna). A Camerino nel 1737 il “bilancio della bottega di Giuseppe di Camillo e Francesco Bartolucci”, datato 29 novembre, riporta tra l’elenco complessivo di cibarie diverse provviste suine, ossia “Prosciutti, barbaglie, lardo, ciabuscoli, strutto, salami e mortadella297”. Nell’archivio privato di Casa Bonarelli a Sappanico, piccolo borgo sulle alte colline attorno ad Ancona, sono conservate tra le carte manoscritte diverse ricevute di prestazione d’opera da parte di diversi “artieri”, datate 1801 ed eseguite su commissione del conte Pietro Bonarelli della Colonna. Tra tutte queste note di spesa per fabbri, “sartori” e “stagnai” c’è anche il foglio firmato da Giovanni Gili, qualificato come “mazzarino” e “pistarolo”; pertanto in questo inventario del “Lauoro Fatto da me Giovanni Gili al Sig.e Conte Pietro Bonarelli dela Colonna di Carne porcina” si legge come dalle cinque “pache salate” si siano ricavate quarantuno libbre di “Ciauscoli”, oltre a salami, cotechini, salsicce, coppe, strutto. Naturalmente un’altra fonte documentaria molto importante per ricostruire la presenza storica ed il radicamento in territorio dei salumi, come di tutti gli altri generi commestibili, sono i prezzari, i calmieri e di tutte le liste dei prodotti alimentari in vendite. In particolare può essere citato Foto di “Pista” del maiale, archivio privato di Riccardo Ceccarelli, dal volume un manoscritto ottocentesco “Come uno di casa: Il maiale nelle Marche” (Ancona, 2004). dell’erudito Francesco Procaccini, intitolato “Miscellanea Veritas”, che fotografa la realtà quotidiana di Montenovo, l’odierna Ostra Vetere, nel periodo compreso tra il 1815 ed il 1840: per l’anno 1824 nell’elenco dei prezzi “mercuriali” di novembre figurano i “Cciabuscoli” (sic, con la doppia “c” iniziale), al prezzo di 6,5 baiocchi alla libbra (circa un terzo di chilo); gli stessi insaccati, ma con la denominazione simile ed equivalente di “ciabuschi”, figurano tra le cibarie smerciate nell’anno successivo, 1825, ad un prezzo leggermente inferiore, sei baiocchi per libbra; sempre presenti, ma con il nome ancora (297) SANTARELLI MARCO, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 208; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino, registro 7762, Giuseppe Castelli notaio di Camerino, 1737. 86 • • 87 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” diverso di “ciabuscoli” vengono chiamati nell’anno 1827 e nel 1829. Come si è già visto, una tipologia celebre di letteratura popolare comico-realistica, omogeneamente e capillarmente diffusa in diversi contesti territoriali, è “il testamento del porco”, componimento grottesco spesso in versi, dove si immagina il maiale che detta le sue ultime volontà prima della sua orrenda fine; da sempre questi poemetti costituiscono una testimonianza preziosa per ricostruire non solo la cultura materiale e lo spirito delle antiche società rurali e della loro quotidianità, ma anche la variegata preziosità in dispensa delle provviste suine, quando non addirittura il dettaglio specifico dell’arte norcina. Non è pertanto un caso che si legga così in un anonimo “Testamento del porco” stampato nelle Marche nella seconda metà dell’Ottocento: “Co’ le budella grosse / se veramente m’ami, / insacca ben le lonze / ciaùscoli e salami”. Così appunto recita una quartina di questo poemetto buffonesco sulla destinazione di una delle tante parti del proprio corpo che il maiale virtualmente lascia in eredità, specificando esattamente come alcuni tratti del suo intestino servano per insaccare i salami, compresi i tradizionali e peculiari “ciauscoli” marchigiani. Ma naturalmente anche i ricettari di cucina costituiscono preziosi repertori su cui attingere informazioni sulla preparazione di un salume particolare come il ciauscolo. Ad esempio non usa questo termine, così univoco e caratteristico, ma certamente si riferisce a questo insaccato peculiare Vincenzo Agnoletti, celebre maestro di alta cucina ed arte conviviale (nonché liquorista ed esperto di raffinata pasticceria): questo famoso ed importante autore di testi di gastronomia nel suo “Manuale del cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno” (stampato a Pesaro nel 1832) riporta la ricetta dei “Salami alla marchegiana”. Sebbene appunto non si faccia alcun riferimenFototeca della Regione Marche, Foto tratta dal volume di to al termine locale codificato (ciausRaimondo Orsetti, La Civiltá contadina nelle Marche del `900. colo o ciabuscolo) la prescrizione che apre il testo, “mescolate sei libbre di carne magra di maiale con tre libbre di lardo fresco”, rivela il carattere inconfondibile di questo salame tradizionale delle Marche, ossia l’amalgama della polpa scelta con il grasso non stagionato, quindi ancora facilmente lavorabile, senza invece l’impiego più comune del lardo stagionato ed indurito, da incorporare al salume “a grossi dadi” interi, come si legge non a caso in un’altra ricetta redatta dallo stesso Agnoletti, la “mortatella di Fabriano”, scritta esattamente con la “t” (ebbene sì, del tutto corrispondente a quello che è oggi invece chiamato e conosciuto comunemente come “salame lardellato di Fabriano”). Per il condimento di questi “salami alla marchigiana” identificabili con il ciauscolo l’Agnoletti prescrive l’impiego di sale, pepe, spezie fine e “due spicchi d’agli pesti”. Circa un secolo dopo un altro importante ricettario costituisce una preziosa documentazione d’antologia per questo salume tipico marchigiano, anche perché finalmente si adotta la denomi- nazione canonica del lessico comune di queste terre, grazie anche alla circostanza che l’autore del libro in questione è nato nelle Marche, ed alla tradizione locale fa anche orgogliosamente riferimento nel titolo di una delle sue opere, divulgando alcune ricette storiche della regione. Il grande chef Cesare Tirabasso, originario di Montappone (comune del maceratese), nel suo testo di alta gastronomia “La guida in cucina: 503 Ricette Marchigiane e Nazionali”, stampato a Macerata nel 1927, nell’undicesimo capitolo dedicato alle preparazioni di carne suina dedica uno dei paragrafi ai “ciabuscoli di maiale”: nella ricetta si suggerisce di impiegare “2 spicchi d’aglio per ogni chilo di carne”, che “deve essere un po’ più magra di quella delle salsicce”, raccomandando che “i ciabuscoli debbono essere non tanto fini e lunghi 20 centimetri”, e ricordando che “vanno mangiati crudi dopo un paio di mesi che sono stati confezionati”. E’ questo un suggerimento di dispensa ancora vivo e perpetuabile, per questo piccolo cibo, cibusculum, autentico scrigno in miniatura degli aromi, dei gusti, delle risorse e dei saperi di una regione e della sua identità storica. Lo stesso Tirabasso in seguito, in quello che sarà l’ultimo testo della sua carriera di chef-scrittore, ossia “Le gioie del focolare” (stampato a Roma nel 1959) riscriverà così il paragrafo dedicato ai “Ciabuscoli o ciasculi [sic] alla marchigiana”: “Si prende della carne grassa e magra di maiale: un po’ meno grassa di quella che si usa per fare le salciccie. Si fa a pezzetti e si macina con la macchinetta trita carne due volte, onde averla fina assai. Macinata, si mette in una concola e si condisce con 3 % di sale fino, cioè 30 grammi per ogni chilo, 0,20 % di pepe macinato, cioè due grammi per ogni chilo di carne, odore di noce moscata, odore di cannella in polvere e l’uno per cento di aglio, cioè 10 grammi di aglio pestato per ogni chilo di carne, qualche buccia di arancia e di limone grattugiati e un po’ di marsala o vino cotto… Si mischia ben bene e s’insacca nelle budelle (un po’ più grosse che quelle per le salsiccie). Si lega a bastoncelli: lunghi 20 centimetri circa, dal peso di 250 gr. ciascuno. Fatti, si appendono in cucina all’aria libera per un mese circa. Quindi si conservano in luogo asciutto e fresco298”. Nel 1985 la piccola e preziosa pubblicazione di Angelo Antonio Bittarelli “Pieve Torina: il crepuscolo del suino” rivendica con orgoglio (forse eccessivo anche se giustificato) che “il ciaùscolo o ciabbuscolo è una specialità pievetorinese”, ma che “anche a Camerino, Visso e Matelica e paesi vicini lo producono simile”, e riguardo a questo aggettivo si osserva giustamente che “ogni ciauscolaro aveva ed ha un segreto suo gelosamente nascosto”; in proposito viene riportata la ricetta di Costantino Chitarrini di Fiume di Pieve Torina299: “Si scelgono le parti più “saporite” del maiale “ruspante”, allevato senza mangimi: polpa di spalla, di prosciutto, panzetta, più grasso che magro per mantenere la morbidezza. La carne viene tritata tre volte con stampi sempre più fini cosicché la grana risulti sottile. Si condisce con sale, pepe ed aglio pestato (si può aggiungere un po’ di vino o qualche aroma naturale) e si insacca in budella di maiale o di vaccina. La stagionatura va fatta in in locale arioso dove da giorni arde un po’ di fuoco (però non troppo altrimenti il ciauscolo diventa giallo e si guasta). L’operazione si chiama sfumatura”300. (298) (299) (300) C. TIRABASSO, Le gioie del focolare, cit., p. 239. A. A. BITTARELLI, Pieve Torina: il crepuscolo del suino, Camerino 1985, p. 21. Ivi, p. 23. 88 • • 89 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” L’autore riporta poi i particolari di un’altra ricetta “Si batteva l’aglio su lu mortà, si aggiungeva un bicchiere di vino bianco, tutto si filtrava con panno bianco sopra le carni macinate più volte con grosse mannaie (i bambini avevano mannaie – giocattolo). La carne, che doveva essere pastosa, veniva insaccata con le mani a mezzo di pitriola301”. su fettine di pane abbrustolito. Un boccone prelibato del maiale appena ucciso era costituito dalla parte centrale dell’intestino, nota in dialetto come “marzucchetta”. Questa va tagliata a tranci di circa un palmo che debbono essere passati tra due dita per eliminare il contenuto, senza bisogno di lavarli. Vanno poi richiusi e conditi con aglio rosmarino, sale e pepe. Cotti in graticola sono squisiti. Quando si macellavano i maiali in casa era tradizione preparare la crescia con i grasselli (o ciccioli o sgrisciuli). Infatti dalla fusione dello strutto si ricavava una buona quantità di grasselli. Si lavorava un chilo di pasta di pane aggiungendo lievito di birra, strutto, sale e pepe e infine si univano 300 grammi di ciccioli. Quindi si confezionavano varie pizze o cresce che si lasciavano lievitare al caldo. Infine andavano cotte al forno per 45’ a 180°. Questa pizza o crescia con gli sgrisciuli era ottima da mangiare insieme al fegato di maiale in graticola. Si lava sotto acqua corrente mezzo chilo di fegato e si fa scolare. Quindi si taglia il fegato in fette non tanto sottili che si condiscono con sale, pepe e semi di finocchio selvatico. Infine vanno cotte in graticola per pochi minuti rivoltandole una sola volta. Oppure il fegato può essere tagliato a pezzetti che vanno avvolti nella rete con una foglia di alloro. Possono essere cotti in graticola ma si ottiene una Fototeca della Regione Marche, Foto tratta dal volume di Raimondo Orsetti, migliore cottura allo spiedo. La Civiltá contadina nelle Marche del `900. In graticola invece sono ottime le salsicce e soprattutto le costarelle di maiale condite soltanto col sale e un pizzico di pepe.Un piatto particolare è costituito dalle costarelle con i fagioli. In un tegame si fanno appassire cipolla, carota e sedano tritati e quindi si aggiungono le costarelle di maiale che si fanno rosolare condendo con sale e pepe. Unire mezzo chilo di pomodori e tre etti di fagioli borlotti già lessati. Mandare avanti la cottura fin quando il sugo non sia abbastanza ristretto. Sempre in graticola sono gustosissime le bistecche di maiale senza altra aggiunta che quella di un po’ di sale. Ma le bistecche di suino si possono fare anche in tegame. Una volta salate e pepate le bistecche vanno condite con un trito di aglio, semi di finocchio e prezzemolo mettendole a cuocere senza aggiunta di grasso. Far rosolare la carne da entrambe le parti e quindi aggiungere un bicchiere di vino rosso e ultimare la cottura a tegame coperto. Altri invece fanno rosolare le bistecche nel burro aggiungendo poi del vino bianco; quindi si unisce un trito di aglio, salvia e rosmarino, e si porta avanti la cottura versando del brodo. Dopo venti minuti si dispongono le bistecche nel piatto di portata e si condiscono con il sugo di cottura al quale si saranno aggiunte un’acciuga tritata e un goccio di aceto. In occasione della macellazione del maiale c’era sempre una gran disponibilità di cotiche che in cucina venivano utilizzate in tantissimi modi. Non solo per fare i classici fagioli con le cotiche ma anche per arricchire il condimento della polenta. Le cotiche vanno lessate in acqua salata _Il maiale nella cucina tradizionale marchigiana_ (contributo di Ugo Bellesi) Il tutto ha inizio quando il maiale è ancora agonizzante ed il sangue, che sgorga copioso dalla gola recisa, viene raccolto per essere lessato immediatamente. Quando la macellazione avveniva in campagna era la vergara che si preoccupava di prelevare il sangue lessarlo e tagliarlo in piccoli pezzi e sottili fette mettendolo a cuocere in un soffritto abbondante di cipolla, grasso e magro di maiale, e diversi altri aromi (foglie di alloro e rosmarino), secondo le usanze del luogo. Oltre al sale e al pepe qualcuno aggiungeva peperoncino e persino bucce d’arancio. Non guasta un bicchiere di vino bianco. In alcune località si aggiunge al sangue un’identica quantità di latte e si fa amalgamare ponendo poi il tutto a cuocere a bagnomaria. Ottenuta una crema abbastanza densa si dispone sui piatti e si condisce con soffritto di grasso e magro e cipolla. Il sangue di maiale si può fare anche in frittata. Si fa in una padella un soffritto di guanciale di maiale e quindi si versa il sangue lessato e fatto a tocchetti aggiungendo subito dopo quattro uova sbattute. Portare a cottura con fuoco sopra e sotto. E’ sempre la vergara che torna sul luogo in cui avviene la mattazione del maiale quando, aperti l’addome e il torace dell’animale, chiede al norcino di consegnarle la carne fresca, quella meno pregiata, che si trova in prossimità del collo, della gola e della testa. Una parte di questa carne andrà preparata in umido per condire la pasta asciutta destinata a saziare quanti sono stati impegnati tutto il pomeriggio nella lavorazione delle carni per preparare gli insaccati. Un’altra parte, quella più consistente di questa carne, sarà destinata a confezionare la gran padellata di spezzatino cucinata con molti odori su un treppiede posto sul focolare della cucina. Questo piatto viene chiamato in dialetto “padellaccia”. La cottura della carne avviene in una padella di ferro con rosmarino, aglio, sale e pepe. A metà cottura si versa un po’ di vino. E’ prevista anche l’aggiunta di sangue lesso. Prima di servire la carne viene scolata del grasso che poi servirà per friggere la “crescia onta”. Questa crescia si preparava in occasione della macellazione del maiale. Si confeziona con farina di mais (mezzo chilo) e farina di grano (una manciata) impastate con acqua tiepida salata. Si da la forma rotonda della pizza e quindi si pone a cuocere sul focolare con la brace sopra e sotto. Va poi tagliata a spicchi e fritta con il grasso della “padellaccia”. Ottimi sono poi i crostini con la milza di maiale. Si fa imbiondire uno spicchio d’aglio nell’olio (per poi eliminarlo) aggiungendo quindi due fette di prosciutto tritato e mezzo etto di carne macinata di vitellone. Far rosolare e poi unire la milza tritata di maiale, la salvia, il succo di mezzo limone e un cucchiaio di farina. Salare, pepare e portare a cottura. Infine spalmare questa salsa (301) Ibidem. 90 • • 91 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” con uno spicchio d’aglio e una foglia di alloro. Quindi si tagliano a dadini e si soffriggono nel grasso e magro del maiale. Dopo l’aggiunta di una macinatura di pepe sono pronte per condire la polenta. Ma più spesso si preferiva versarle nella polenta al termine della cottura, poco prima di rovesciarla in tavola. Ma la polenta era ottima anche condita con un sugo di salsicce fresche cotte in un soffritto di grasso e magro, sale, pepe e un cucchiaio di conserva. Aver fatto la “pista” (come si dice nel maceratese) o “li ‘mmasciate” (come si dice nell’ascolano) o “la salata” significa avere in casa non solo le cotiche ma anche il lardo. E proprio il lardo era prezioso per la preparazione della base di numerosi piatti. Infatti tritando il lardo sul battilardo si aveva il classico “battuto” che, unito alla cipolla, ad uno spicchio d’aglio, sale, pepe e maggiorana, con aggiunta finale di conserva, costituiva appunto la base di qualsiasi minestra o minestrone. Se poi si aggiungevano una carotina, un pezzetto di sedano e del pomodoro si aveva il classico “sugo finto” per le paste asciutte. Tornando per un attimo a parlare di cotiche non va dimenticato che mezzo chilo di cotiche lessate insieme ad uno o due zampetti di maiale servono ottimamente per preparare una squisita pietanza in porchetta con abbondante finocchio selvatico. Se si hanno delle fettine di carne fresca di maiale queste sono ottime per preparare degli involtini. Su ogni fetta si adagia una fettina di prosciutto e quindi si arrotola fisFototeca della Regione Marche, sando il tutto con uno stecchino. Gli involtini si fanno Foto tratta dal volume diRaimondo Orsetti, rosolare nell’olio aggiustando di sale e pepe e quindi unLa Civiltá contadina nelle Marche del `900. endo un bicchiere di vino bianco. Una volta evaporato il vino versare tre etti di pomodori e far addensare. Ancora più semplice la preparazione del lombo di maiale. Il lombo, una volta farcito con chiodi di garofano e legato, va fatto rosolare nel burro aggiustando di sale e pepe e portando avanti la cottura per 45 minuti bagnando di tanto in tanto con il latte. Il lombo va servito a fette condito con il fondo di cottura filtrato. Parlando di maiale non si può fare a meno di citare i ciarimboli. Si tratta delle budella più grosse del maiale che, una volta pulite e lavate, vengono sbollentate e poi lasciate essiccare condite con semi di finocchio, aglio, rosmarino, peperoncino ed altre erbe aromatiche. Riescono meglio se leggermente affumicate sotto la cappa del camino per almeno tre giorni. Sono pronte già dopo una settimana e fino a venti giorni si conservano bene. Se si vuole mangiarle bisogna arrostirle ai ferri perché perdano tutto il loro grasso. Un discorso a parte meritano i dolci fatti con il sangue di maiale. Infatti quando i grassi erano molto scarsi si utilizzava proprio il sangue di maiale per apportare quella percentuale di grasso necessaria per confezionare i dolci in casa senza dover utilizzare lo strutto (destinato alle fritture) né il prezioso olio di oliva. Il più classico di questi dolci è il migliaccio che si preparava proprio durante la mattazione dei suini. Questi gli ingredienti: un litro di sangue di maiale liquido, un litro di latte freddo ma già bollito, mezzo chilo di zucchero, un etto di cioccolato amaro, un bicchierino di rum e uno di alchermes, quattro uova, la grattatura di una buccia di limone, polvere di cannella e una bustina di vaniglia. Amalgamare tutti gli ingredienti e versarli in un tegame imburrato da mettere sul fuoco ma evitando che il composto bolla. Quando è bel riscaldato porre il tegame nel forno e ultimare la cottura ma senza che prenda il bollore. C’è però anche un’altra versione del migliaccio un po’ più ricca di ingredienti. Oltre al sangue liquido di maiale occorrono tre etti di pane grattugiato, un pugno di farina di mais e un pugno di farina bianca, un etto di mele a fette, un etto di noci, un etto di uva sultanina, quattro etti di zucchero, mezzo etto di strutto, polvere di cannella, una buccia di limone grattugiata e brodo di ossa di maiale. Porre lo strutto in un tegame e quindi aggiungere il sangue di maiale e subito dopo tutti gli altri ingredienti facendo cuocere a fuoco basso. Mescolare in continuazione evitando che il composto vada in ebollizione. Giunto a cottura si versa tutto in un piatto di servizio perché si freddi. Servire a fette. Per il migliaccetto invece serve soltanto mezzo litro di sangue di maiale liquido che viene stemperato con un litro di acqua. Gli altri ingredienti sono: tre etti di farina di mais, mezzo litro di sapa, due etti di miele e pane grattugiato. Si impastano tutti gli ingredienti e quindi si versa il composto in un tegame in cui si sia passato dello strutto. Si pone a cuocere su fuoco basso mescolando in continuazione. La cottura viene ultimata sul focolare con fuoco sopra e sotto il tegame. Secondo un’altra ricetta del migliaccetto si può sostituire l’acqua con un litro di latte freddo ma già bollito. Gli altri ingredienti sono identici. Si amalgama il tutto e si cuoce a bagnomaria. Nel frattempo si sarà preparata una sfoglia con acqua e farina. Con questa si riveste un recipiente da forno sul quale si dispone l’impasto che viene coperto con la sfoglia che fuoriesce dai bordi del tegame. La cottura viene ultimata sul focolare con fuoco sopra e sotto. Pur avendo sempre il sangue di maiale come ingrediente principale del tutto diverso è un altro tipo di dolce: il sanguinaccio. Occorrono questi ingredienti: un litro e mezzo di sangue di maiale liquido, quattro etti di pane grattugiato, un etto e mezzo di uva sultanina, mezzo litro di sapa, tre etti di miele, cannella in polvere, rum (un bicchierino), la buccia di un’arancia tagliata a dadini. Si amalgamano tutti gli ingredienti che poi vengono fatti riposare per una nottata. Il mattino successivo con questo impasto riempire i budelli più grossi del maiale, dopo averli ben puliti e lavati, avendoli tagliati per la lunghezza di un salame. Dopo aver chiuso entrambe le estremità far bollire i sanguinacci in acqua salata per trenta minuti e aspettare che il tutto si raffreddi. Quindi estrarli dall’acqua e metterli ad asciugare, appesi ad un bastone, nella stanza in cui si trova il focolare. Con la stessa esecuzione ma con ingredienti del tutto diversi si realizza invece il sanguinaccio rognoso. Oltre al litro e mezzo di sangue liquido di maiale occorrono un etto e mezzo di grasso di collare del maiale, quattro patate lessate, pane casereccio, un etto di uva sultanina, la buccia tritata di un arancia e un etto di zucchero. Una volta lessati e asciugati i sanguinacci rognosi vanno tagliati a fette e quindi serviti dopo averli arrostiti sulla brace o fritti nello strutto. “O SALUMI BENE AMATI” • 93 Cenni storici sul PROSCIUTTO: l’indiscusso re della salumeria _Il prosciutto in elenchi di portate di banchetti e liste di cibarie nel Quattrocento_ Le più diverse tipologie di documentazioni fanno emergere fin dai secoli più remoti numerose citazioni di “presciutti”, termine antico che perpetua l’etimologia latina (legata appunto alla preventiva asciugatura del coscio posteriore). Fin dal Quattrocento questo salume ricorre in cospicue quantità nelle descrizioni e nelle liste delle cibarie di sontuosi banchetti aristocratici allestiti per eventi memorabili (nozze, visite di rappresentanza, transiti per città di personalità illustri, passaggi di eserciti da approvvigionare etc.). Quando nel 1444 Bianca Maria Sforza fece visita a Camerino la cittadinanza volle naturalmente preparare un’accoglienza a tavola degna di tale prestigiosa ospite, e si affannò pertanto a procurarsi le più svariate vivande, tra cui dolci, pesci, capretti, polli ed anche appunto dei prosciutti302. Un’altra visita di un’eccelsa personalità in una celebre cittadina costituisce un’ulteriore documentazione in questo senso: a San Severino nel 1464 il governo cittadino organizzò l’accoglienza dovuta a papa Pio II in sosta nella cittadina nel corso del viaggio verso Ancona (dove poi morirà, mancando così al suo proposito di imbarcarsi per Ragusa e mettersi alla guida dell’esercito contro i turchi). Leggendo tra le tante voci di spesa delle derrate comprate per dare ospitalità e ristoro al pontefice ed al suo corteo si legge appunto l’acquisto al costo di tre bolognini di due libbre di prosciutto303. Il carattere pregiato di questo prodotto di norcineria, considerato adeguata delizia signorile, è sottolineato anche dalla sua presenza negli elenchi di doni cerimoniali in cibarie: ad esempio nel 1516 a Cupra Montana (all’epoca Comunità del Massaccio), in occasione della visita ufficiale di un alto prelato è documentato un pagamento “per uno prosiucto per lu presente de Monsignore304”. Non a caso quando nel 1573 a Macerata fervevano i preparativi per l’arrivo della Principessa di Firenze tra le cibarie acquistate per il banchetto d’accoglienza oltre a pesci, capretti, piccioni capponi, pollastri, “tartufoli”, formaggi, ricotte, spezie varie e frutta pregiata si registrano anche otto prosciutti305. Ovviamente si trattava di prosciutti di produzione locale, che alcuni documenti attestano, come ad esempio le concessioni per le botteghe di generi commestibili. Non a caso molti bandi ed editti sulle vendite di generi commestibili, con relative liste di prezzi dei prodotti, riportano spessissimo il costo e le modalità di vendita dei prosciutti, regolamentan(302) Cfr. A. M. NAPOLIONI, La cucina storica delle Marche: stato delle fonti e contributi della ricerca, in La carte in tavola: manoscritti e libri di cucina nelle Marche, a cura di A. M. NAPOLIONI, Macerata 1996, p. 18. (303) ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI SAN SEVERINO, Entrata ed esito dal 1462 al 1465, vol. 4, cc. 499-541v. (Spese straordinarie sostenute dal Comune di Sanseverino per ospitare e dare ristoro a papa Pio II e alla corte pontificia di passaggio per la città nel mese di luglio 1464); cfr. R. PACIARONI, Mangiare da papa a Sanseverino: Pio II e la sua corte ospiti della città nel 1464, San Severino Marche 2001, p. 22 e p. 40. (304) Archivio Storico Comunale di Cupramontana, Istrumenti e trasatti, I, c. 102 r. ; cfr. R. CECCARELLI, Come uno di casa: il suino nelle Marche, Ancona 2003, p. 106. (305) Archivio di Stato di Macerata, Priorale, Miscellanea, b. 1107/ C 2; cfr. A. M. NAPOLIONI, La cucina storica delle Marche: stato delle fonti e contributi della ricerca, in La carte in tavola..., cit., 1996, p. 19. 94 • • 95 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” done e calmierandone la vendita, a riprova di un consumo diffuso. Addirittura in alcune di queste carte di archivio si legge di bottegai che vendono i prosciutti da loro stessi confezionati, ad indicare una produzione propria artigianale e locale: nel 1583 ad Agugliano, antico castello di Ancona (oggi comune della sua provincia) stando ad un’antica carta il bottegaio mastro Pasqualino era tenuto a vendere fino a tutto il 1584 “olio, formaggio, sardelle, seppie, anguille, polipi, pesce, carne salata, castrata […] noci, fichi, mele secondo la stagione”, e soprattutto “i suoi prosciutti”, dove l’aggettivo possessivo rivela appunto che erano confezionati da lui stesso, e che certamente affettava di persona (tra gli obblighi specificati si legge come il venditore doveva ad esempio lui stesso tagliare in bottega il cacio e le anguille). Questo “pizzicagnolo” dell’epoca aveva poi l’obbligo di tenere la merce allo stesso prezzo corrente di Ancona306. Questa è una riprova del fatto che comunque il prosciutto benché pregiato era comunque tra i generi commestibili più diffusi e di produzione ordinaria, e quindi calmierati. Del resto un’ulteriore riprova del fatto che prosciutti e salumi non venissero considerati leccornie dispendiose è fornita dalla loro totale assenza tra le portate “a rischio” di sperpero censite dalle leggi suntuarie, che in genere limitano altri generi di prodotti. “Confettura bianca di Venezia”, altri generi costosi ed esclusivi, come pani di zucchero e spezie (chiodi di garofano, cannella e pepe), figura anche molta carne come vitelle da latte, castrati, capretti, tacchini (“polli d’India”), capponi, ed infine “salsicciotti bolognesi”, formaggi ed infine anche prosciutti (ben 20 per un totale di 84 libbre)308. Venendo al contrario ad un esempio di vitto assolutamente umile, dove il prosciutto figurava tra le portate ricorrenti nel vitto settimanale, si è già citato l’esempio del ricovero per orfane a Macerata, fondato da Vincenzo Berardi, nel 1626. Notoriamente le mense nobiliari non erano solo contraddistinte da una grande abbondanza di cibi di notevole varietà e pregio, ma avevano le cucine costantemente in fibrillazione per il nutrito numero di cuochi e servitori intenti a preparare ogni giorno elaborate pietanze di ricette alla moda, tratte dai testi di gastronomia a stampa diffusi in quasi tutti i palazzi e le corti, che si distinguevano oltre che per la prodigalità delle mense anche per gli apparati ornamentali nell’imbandire e per i rituali precisi nel servizio codificati dall’etichetta. Ad esempio quando nelle imbandigioni dei banchetti più sontuosi ed articolati compariva il prosciutto, era comunque servito con riguardo ai convitati di vertice, di specchiata ed assoluta nobiltà. Vi era una ritualità precisa nel proporlo, ad esempio affidandone la pratica di affettarlo e sporzionarlo all’arte cerimoniale del trinciante, servitore altamente qualificato che trasformava in maestria coreografica da giocoliere il mero gesto di tagliare cibi e carne (servizio comunque sempre delicato e solenne, perché originariamente era anche prassi di controllo e garanzia contro avvelenamenti e contraffazioni in genere delle pietanze). Si legge ad esempio nel “Libro del trinciante” di Vincenzo Cervio (pubblicato nel 1591 da Reale Fusoritto da Narni, ma poi ristampato per tutto il Seicento allegato al famosissimo ricettario di Bartolomeo Scappi) le istruzioni su “Come si trincia un prosciutto integro”: “Volendo adunque trinciare il prosciutto tu piglierai forcina grande; et il coltello grande e lo imbroccherai giusto nella forcina, acciò che quello non pensa da nissuna banda, e lo leverai in alto con gratia, ponendoti giusto con la persona, tenendo il prosciutto volto con il piede di sopra, e con il taglio del coltello volto verso di te tu li leverai la codica con la grassa d’intorno, e tutta la carne rancia, se ve ne sarà, girando sempre la forcina intorno, per accomodar il prosciutto al taglio del coltello, facendo che quello che tu trincerai sia netto e polito da ogni bruttura. Ma nota che sono molto diversi i gusti degli huomini, perché alcuni li piace il prosciutto tagliato in fette grandi, et altri in picciole, ad altri grasso, ad altri magro […]309”. _Il prosciutto nel trattato di botanica e dietetica di un medico marchigiano nel ‘500_ Sulla fortuna e la diffusione del prosciutto nella cultura alimentare marchigiana non va dimenticata la dotta testimonianza di Costanzo Felici da Piobbico, insigne medico (laureato a Padova) ed appassionato studioso di botanica,compilatore nel 1572 circa di un breve trattato, la “Lettera sulle insalate”, dove censisce tutti i vegetali commestibili. Saggiamente però nelle sue pagine compaiono anche molti riferimenti anche agli altri generi alimentari, descrivendo le associazioni e combinazioni più frequenti in cucina e sulla mensa, e pertanto riporta l’uso comune nelle tavole contadine di nobilitare proteicamente le più comuni preparazioni di verdure aggiungendovi sapide provviste suine. Ad esempio quando descrive le lenticchie osserva che “è molto familiare alle cucine in minestre così de magro como di grasso, che così volentieri si accompagna con ossa e persciutti307” (e non va dimenticata la tradizione contadina sopraggiunta fino quasi ad oggi, che secondo una logica di assoluto risparmio di ogni commestibile riciclava l’osso ormai scarnificato del prosciutto come insaporitore di zuppe di legumi, chiamato per questo l’ oss cunditor nel pesarese). L’autore nel descrivere poi genericamente le insalate, oggetto del suo studio, osserva il loro carattere di pietanza ricca, non solo vegetale e frugale, spesso golosamente assortita nelle mense più signorili con varia carne spezzettata, tra cui nuovamente i “prosciutti”. _Banchetti ducali e mense spartane nel Seicento_ A Casteldurante (l’attuale Urbania) giunsero nel 1621 i novelli sposi Federico Ubaldo della Rovere e Claudia de’ Medici, ed il loro arrivo è sottolineato anche dalla “Lista del donativo mangiativo fatto dalla Comunità di Casteldurante”, dove oltre a preparazioni raffinate, come _Ricette e presentazioni sontuose con il prosciutto in un ricettario manoscritto maceratese del ‘600_ Certo solo l’aristocrazia poteva concedersi il lusso di un trinciante che affettasse appunto il prosciutto secondo il gusto di ogni commensale, che poteva assaporare così la sua porzione tagliata di fresco nella consistenza e nella parte più di suo gradimento. Ma la nobiltà aveva anche individuato molti modi diversi per valorizzare il prosciutto cucinandolo e comunque impiegandolo come ingrediente in molte e svariate ricette. E’ estremamente interessante sfogliare in (306) Archivio Storico Comunale di Agugliano; Cfr. M. MASTROSANTI, Storia dei castelli anconitani attraverso i documenti negli attuali comuni di; Agugliano – Ancona – Camerano – Camerata Picena – Falconara Marittima – Monte San Vito – Numana – Offagna –Polverigi –Sirolo, s. l, s.a., p. 480. (307) C. FELICI, Del’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del’homo, cit., p. 126. (308) C. LEONARDI, Il cibo nelle feste popolari dell’Alta Valle del Metauro tra Ottocento e Novecento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 57, nota 18. (309) V. CERVIO, Il trinciante, Roma 1593, p. 58. 96 • • 97 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” proposito il corpus di manoscritti tardo - seicenteschi contenenti ricette e suggerimenti per l’arte del banchetto, appartenuto alla famiglia maceratese dei Buonaccorsi. Innanzitutto è da notare tra i provvedimenti scritti per la dispensa (contenuti nelle carte intitolate “Vitto”) la raccomandazione al cuoco di “far cocere prosciutti nel vino310” (pratica che come si vedrà ricorrerà nelle Marche anche nella tradizione contadina fino a tempi recentissimi) . Tra le ricette più elaborate un foglio illustra le preparazioni cucinarie del “Prosciutto alla biscara” (con profumi di erbe aromatiche e spezie, presentato in crosta decorata con coroncina di pasta e fronde di alloro) ed anche del “Pasticcio di prosciutto alla turchesca”311. Una carta spiega la “ricetta, o sia istruzione per far l’oglia alla spagnola”312: la pietanza, chiamata anche “oglia” o “olla”, tuttora presente nella cucina tradizionale spagnola, sembra emblematica della cucina barocca, nel suo sfarzoso carico di ingredienti ricchi amalgamati in accordi talvolta stridenti. La variante contenuta nel ricettario Buonaccorsi prevedeva l’utilizzo di un opulento ed eterogeneo carico di carne (vaccina, castrato, cappone, pernici, prosciutto, piedi di porco, salsiccione) fatto cuocere a lungo con un saporoso assortimento di verdure, cavoli, cipolle, aglio e rape, e con aromi e spezie (zafferano, pepe, chiodi di garofano e noce moscata). Un’altra ricetta di “oglia”, detta “putrida”313 (come già osservato, aggettivo non certo invitante per un lettore contemporaneo) si preparava con cappone, vaccina, guanciale, prosciutto e salsiccia, aromi di cannella, chiodi di garofano, noce moscata e zafferano, e con le erbe delle campagne circostanti, ceci, cardi e sedani. Una ricetta per il cappone contemplava di cuocerlo al forno assieme a prosciutto, prugne, visciole, pinoli, passarina (uva passa), spezie e cannella314. Il ricettario della famiglia dei Buonaccorsi è un’autentica collazione di preparazioni di cucina raccolte un po’ ovunque, come succede nei quadernetti manoscritti di tutte le famiglia odierne, dove vengono copiate istruzioni prese da altri parenti ed amici. Nel caso di una casa cardinalizia però le provenienze di questi suggerimenti di cucina sono per forza di cose molto blasonati, come le carte con i piatti di Mastro Diomede Coco di Nostra Santità (all’epoca Clemente X): tra queste ricette della corte pontificia il “Pasticcio alzato alla francese” si confeziona con piccatiglio di starne o beccacce lardate ed arrostite, e l’aggiunta di “medolla di vaccina, petto di cappone, bocconi di animelle, prosciutto grattato, petto di tordi arrosto, tartufoli, pistacchi, speziarie315 ”. Altra provenienza illustre sono gli appunti con ricette di minestre date da un non identificato dispensiere di Bologna, tra cui quelle di cavoli, rape e cipolle impreziosite con un “brodo con fette di presutto, pezzi di formaggio, finocchio pepe e garofano con formaggio sopra”; si preparano poi dei minestrini con bocconi di animelle, torsi di lattuga, funghi, bocconi di prosciutto, brodetto e cannella316. Piatti di prosciutto al naturale vengono an- che serviti nei banchetti, come quelli imbanditi al 30 maggio 1676 per un cardinale in visita317. I menù del giorno successivo prevedevano “il pranzo di nove persone a tavola servito in piatti reali di libbre otto per il Cardinal Marescotti li 2 gennaio 1676”, strutturato secondo l’impianto classico del banchetto all’italiana: nella prima parte di rifreddi, si direbbe oggi da aperitivo (“ova filate, prosciutto, burro), poi antipasto (un piatto di “tomaselle318”, tre capponi lessi innaffiati nella zuppa di pan di Spagna e pasticcini di piccioni), e poi la parte centrale, con fagiani arrostiti e impennacchiati, la ricetta spagnoleggiante già vista dell’ “oglia putrida”, e l’arrosto di lombo di vitello, mentre il servizio di credenza dolce di chiusura prevedeva una crostata di pere319. Il prosciutto figura anche nei “rifreddi” d’apertura che introducono la cena per il Cardinal Marescotti il 2 gennaio 1676320. Il coscio posteriore di suino è talvolta veramente montato come una portata sontuosa ed ornata con estro: “Due presciutti con spuma di zuccaro e festoni di zuccaro attorno e vino per li prosciutti321”. Una carta riporta ben tre ricette di pasticci di prosciutto. La prima è così composta: “Mettarete a dissalare nel acqua un presciutto di Bajona o Magonza o veramente un presciutto ordinario, e quando il presciutto sarà bastevolmente disalato lo caverete dall’aqua, metterete bene al di sotto e levarete quando si farà di giallo e rancicho fin alla carne viva, tagliarete anche la punta dell’osso manico; di poi levarete la cotica, e, se il lardo o grasso sarà più spesso della larghezza di un dito, se ne leverà il soprappiù e ciò il pasticcio. Quando il prosciutto sarà così aparechiato, lo farete cocere a mezo nel aqua, con alcune foglie di lauoro e altre herbe fine; e quando sarà mezo cotto o incircha lo caverete sopra del brodo e lo mettarete sopra una graticola, acciò che si asciughi; si pol anche dissossare il presciutto quando è mezzo cotto, massime quando si ha da fare un pasticcio drizzato. Quando il presciutto sarà asciutto, voi formarete una crosta di pasta bigia o veramente di tritello bianco senza butirro. Potrete fare quel pasticcio drizzato con quel prosciutto, per il che bisongierà formare la crosta in fondo di grandezza bastevole, che sarà un mezo palmo alta, o incirca, e grossa la larghezza d’un buon dito. Dipoi si empirà il di dentro del pasticcio con una stesa di fette grandi di lardo, simili a quelle con le quali s’avviluppa il petto di capponi per arostire. Dipoi si metterà sopra di quelle fette di lardo del petrosello grossamente tagliato; dipoi spolverizzate il presciutto con due o tre pizicotti di spezieria dolce, due pizicotti di pepe bianco ammacato e due altri pizicotti di canella infranta; di poi colorerai il presciutto sopra la stesa delle fette di lardo e si pianterà in detto presciutto 12 garofoli incirca e con altrettanti pezetti di canella; vi si metterano ancora due scalonge amacate con un tantino di petrosello e di timo, meza libra di strutto, meza libra di midolla di vaccina et una meza libra di buon butiro (310) (317) Riguardo a questo ricettario cfr. la trascrizione curata da U. BELLESI – T. LUCCHETTI – A. M. NAPOLIONI, Piatti reali e trionfi di zucchero: carte di casa Bonaccorsi nella Macerata del ‘600, Roma 2009). L’originale manoscritto è conservato alla Biblioteca Statale di Macerata (da ora B.S.Mc)., Manoscritti Buonaccorsi (da ora M.Bn.), Vitto, b. 3/16. (311) B. S. Mc., M. Bn., b. 4/11, Modo di fare un pasticcio alla biscara. (312) B. S. Mc, M. Bn., Ricetta o sia istruzione per far l’olia alla spagnola, b. 4/22. (313) B.S.Mc, M.Bn., Pranzo di nove persone a tavola servito in piatti reali di libbre otto per il cardinal Marescotti li 2 gennaio 1676, b. 4/5; La “olla porrida” è un piatto tuttora esistente nella cucina spagnola. Lo Scappi la chiama “Oglia Podrida”, nel ricettario Buonaccorsi diventa “Oglia Putrida”. (314) B.S.Mc., M.Bn., Cotture e condimenti diversi del cappone, b. 4/26. (315) B.S.Mc., M.Bn., Spoglio di mastro Diomede coco di Nostra Santità, datomi per mandare a monsignor a Bologna adì 17 gennaio 1674, b. 4/18. (316) B.S.Mc., M.Bn., [Servizi caldi], b. 4/34. B.S.Mc., M.Bn., Alloggio del Signor Cardinal Sigismondo li 30 maggio 1676 nel tornar di Lombardia, b. 4/4. Nome di alcuni salumi, d’origine rinascimentale, di carne suina magra e grassa. (319) B.N.Mc., M.B., Cena di nove persone servite in piatti reali di libbre 8 per il Cardinal Marescotti li 2 gennaio 1676, b. 3/25. Lo stesso giorno in onore del medesimo ospite fu imbandita anche una “Cena di nove persone servite in piatti reali di libbre 8 per il Cardinal Marescotti il 2 gennaio 1676”. Lo schema era il medesimo con quattro rifreddi (tra i quali insalata, tartufi, prosciutto, pere sciroppate e piccioni in addobbo) all’inizio, poi una minestra di pancottino ad aprire il pranzo vero e proprio che, dopo le quaglie, i tordi, un cappone lesso e le pagnotte a far da antipasto proponeva nei servizi centrali un lussuoso arrosto di starne, i capponi fagianati ed il polpettone alla genovese. Come dolce una rustica “torta di rosci d’ovo e butiro”. (B.N.Mc., M.B., “Il pranzo di nove persone a tavola servito in piatti reali di libbre otto per il Cardinal Marescotti li 2 gennaio 1676”, b. 4/5; Napolioni (1996/b, pag. 58). (320) B. S. Mc., M.Bn., Cena di nove persone servite in piatti reali di libbre 8 per il Cardinal Marescotti li 2 gennaio 1676, b. 3/25. (321) B. S. Mc., Bn., b. 4/4, Alloggio del sig.Cardinal Sigismondo la seconda volta. (318) 98 • • 99 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” fresco, che sia appianito in modo che venga a coprire tutto il di sopra del prosciutto, e sopra del butiro si metterà anche un buon pizzicotto di pepe bono bianco con altrettanta canella infranta; di poi si metteranno sul butiro alcune fette di lardo con due foglie di lauro. Quando quel pasticcio sarà così condito bisognerà coprirlo con una crosta di pasta spessa un dito e poi la sbucarete nel mezo e vi applicherete un capitello o coroncina di pasta fatta a foggia di imbottitura quando che il pasticcio fose fenito; dipoi si metterà quel pasticcio sopra di un foglio di carta per metterlo poi al forno. Per far cocere detto pasticcio volesse caldo come si avese da cocere il pane grosso e vederlo spesso acciò fuse asciutto, rimettice dentro del buon brodo dove non sia sale nel brodo; continuando fintanto che la carne si infredicisca nel pasticcio a forza di cocere. Avanti che il pasticcio sia finito di cocere si pole a guernirlo con delle animelle ben condite con de funghi o altre cose”. Nella medesima carta una seconda ricetta di “pasticcio di prosciutto recita: “Metterete a mollo nel aqua un presciutto secondo la grossezza e secondo che sarà seccho. Se un presciutto è molto grosso e ben seccho, o afumicato si come quelli di montagna, bisongerà lasciarlo a mollo 24 ore nel aqua almeno, e dipoi vederete se il presciutto sarà bastevolmente disalato. Per questo effetto lo caverete fora dal aqua e farete una spacatura, o taglio fondo in mezo alla carne, per cavarne un pezetto che voi mettarete in bocca per vedere se il presciutto sia bastevolmente disalato. Voi l’acomodarete secondo sarà necessario per metterlo in pasta. Primieriamente bisongierà levare la soprafice del presciutto sino alla carne viva per la parte di sotto, acciò non vi resti il secco et il troppo salato; dipoi levarete la cotica di sopra e tagliarete anche la punta dell’osso. Quando il vostro presciutto sarà in tal guisa apparechiato stenderete sopra della tavola della pasta, quanto ne occorrerà e farla spessa la largeza di due dito incirca, e sul mezzo di quella crosta vi farete un’incrostatura di fette di lardo. Bisongia che quel lardario sia grande quanto il presciutto e metterete, sopra quelle fette di lardo, una manciata di petrosello tagliato grossamente, e poi spolverizate il presciutto con spetiaria dolce; dipoi lo metterete sopra l’incrostatura di lardo, detto il lardario, e sopra petrosello, e poi trapunterete il di sopra del presciutto con alcuni garofali e con pezzetti di canella; dipoi metterete di nuovo di sopra del nostro presciutto una stessa di petrosello con una stesa di fette di lardo con cinque o sei foglie di lauro sopra del lardo. Dipoi meza libra di butiro fresco stesa et appianata in modo che copra tutte le fette di lardo che sono sopra il presciutto. Se il presciutto sarà grande, incirca tre ore di cucitura; se è mezano incirca due ore. Quando il pasticcio sarà stato mezora nel forno bisognia farci doi o tre buchi al coperchio per far svampare il pasticcio. Un giorno doppo che il pasticcio sarà cotto bisognia atturare li buchi di detto pasticcio che sono alla coperta, che così dura per molti giorni. La terza ricetta di questa carta descrive invece un “Pasticcio di presciutto alla turchescha”: “Bisongia aparechiare un presciutto come al capitolo precedente e, quando sarà mezzo cotto nel aqua e disossato, bisongerà lardarlo dalla parte magra con de lardoni spetiati con spetia dolce, e che quei lardoni siano grossi quanto un canello di penna. Dipoi si spolverizerà la carne con un poco di spetieria dolce et un poco di pepe bianco ammacato; dipoi formarete una crosta di pasticcio da tondo come al capitolo precedente. Essendo aggiustata la crosta, la guarnirete per di dentro con delle fette di lardo, con qualche poco di petrosello e timo; dipoi vi se metterà la carne, sopra della quale ci si trapunterà cinque o sei garofoli con dodici pezzetti di canella e doi pizicotti di canella spolverizzata; aggiungetevi un tantino de petrosello scalongie ammacata, due once di pignoli e due once di passerina, quattro once di pistachi pesti, una costina di scorza di limone marinato tagliato a fette sottili, sei once di zucaro spolverizzato, meza libra di butiro fresco, meza libra di strutto e meza libra di medola di vaccina et una gran fetta di lardo per di sopra, una foglia o due di lavoro con un tantino di timo; coprirai quel pasticcio facendovi un buco et una corona sopra del coperchio, e fatte cocere quel pasticcio come al capitolo antecedente, guardate di quando in quando la scorza e riempitolo nel solito modo.“Quando il pasticcio sarà mezo cotto, vi si pol infondare una salsa dolce composta con un bichiere di vino bianco, quattro once di zucaro et un poco di canella spolverizata con un poco d’aceto se vi piace. Notate che un pasticcio di tal sorta si può riscaldare in più volte; se vi mancasse del brodo ve ne potrete rimettere dentro con del suco di carne322”. _Mirabolanti creazioni con prosciutto nei trattati degli scalchi seicenteschi di origine marchigiana_ Come si è già visto gli scalchi erano gastronomi di corte che nel Seicento assurgono a veri e propri maestri di cerimonia dei banchetti, trasformando la mensa imbandita in un continuo funambolico spettacolo di arti mirabolanti e splendori ingegnosi e stupefacenti. Una prodigiosa presentazione di una portata con prosciutto intero ornato ad arte si deve alla creatività di un illustre marchigiano seicentesco, Vittorio Lancellotti nativo di Camerino, celebre scalco operante nelle corti romane, il quale conferma una certa considerazione monumentale tributata al prosciutto nell’arte conviviale dell’epoca. Infatti tra le liste dei suoi maestosi e scenografici banchetti si legge della pietanza - capolavoro che apriva un magniloquente pranzo servito al principe cardinale di Savoia presso la Villa Aldobrandini di Frascati. Si trattava di una portata che veicolava maestria culinaria con prodezze plastiche ed ornamentali, degne di un autentico esemplare di arte applicata: “un presciutto agghiacciato di zuccaro, posato sopra due Leoni, tramezzati da due Cagnoli, fatti di pasta di marzapane, in mezo del quale era una corona di zuccaro, con le quattr’arme delli quattro convitati, ficcate nel presciutto fatte di marzapane, attaccate tutte insieme, tocche d’oro, et argento323”. Le Marche sono comunque terre natali di scalchi celebri, come ad esempio Antonio Latini originario di Collamato vicino Fabriano, autore di uno splendido trattato di arte conviviale “Lo scalco alla moderna”, pubblicato a Napoli nel 1692, da cui si può come tributo citare la ricetta di un sontuoso pasticcio, che naturalmente contempla tra gli ingredienti il principe dei salumi. Eccone la ricetta: “Piglierai Farina, Ova, Strutto e Zuccaro; formato che havrai la Cassa del Pasticcio, vi porrai dentro gli seguenti Ingredienti; Si farà il primo Solaro di Vitella piccata, prima rifatta, ò soffritta, Pezzetti di Piccioni, Ossa mastre, Animelle, Fegatelli di Polli, Fette di Zizza, prima bollita, Salciccie spaccate, per mezzo, Tartufali, Pignoli, Soppressata, Fonghi di Genova, prima soffritti, Pezzetti di Presciutto, Cannolicchi, Fette di Cedronata, Fette di Provola fresca, Rossi d’ova dure, Brasciolette di Vitella battute; ogni cosa ben soffritta; Coperto, che havrai il Pasticcio, lo metterai à cuocere nel Forno, e cotto, che sarà, ci farai il suo Brodetto, con Rossi d’ova, (322) (323) B. S. Mc., Bn., b. 4/11, Modo di fare un pasticcio alla biscara. V. LANCELLOTTI, Lo scalco prattico, Roma 1627. 100 • “O SALUMI BENE AMATI” sugo di Limone, ò altro, à beneplacito, che sarà un Pasticcio di molto gusto324”. _L’ultimo decennio del Seicento_ Come si è già avuto modo di sottolineare al di là di queste sontuose elaborazioni della cucina e dell’arte d’imbandire presso la suprema aristocrazia, il prosciutto restava comunque un alimento diffuso: ad esempio nel 1696 un documento (conservato all’Archivio di Stato di Macerata) riferisce i prezzi, a Belforte sul Chienti di molti prodotti di derivazione suina, come prosciutto, lardo, strutto, salame, lonza, ciauscolo325. Come già osservato tre anni dopo nel 1699 i salumi figurano nella “Nota delli Pasti fatti dalli parenti nella morte del S. Card. Ludovico”, dove risultano trascritte le liste di due pranzi serviti nella famiglia nobile jesina dei Vespucci durante questa circostanza luttuosa a parenti giunti da lontano a portare il loro cordoglio. Il “Pranzo fatto il p.° Giorno dal S. Gentiluccio Rocchi” prevedeva appunto in apertura un antipasto di salame e Prosciutto, e la medesima portata iniziale figura anche nel rendiconto del “Pranzo fatto dal S. Attilio Guglielmi il 2° giorno. Si tratta come già osservato di due pasti non particolarmente ricercati (ad esempio privi del dolce conclusivo) ma sicuramente decisamente abbondanti e ricchi per il cospicuo numero di piatti di carne; soprattutto può incuriosire l’apertura, affidata ad antipasti di affettati, con appunto il prosciutto, degni antenati di una tradizione ora codificata come italiana, e tuttora viva nei banchetti delle campagne marchigiane. _Il primo ‘700, tra passaggi di truppe, liste di prezzi, inventari di norcineria_ Una documentazione ricca è costituita poi dalle liste di approvvigionamenti devoluti per disposizioni pubbliche o private alle truppe di eserciti di passaggio: in questi resoconti di generi commestibili spesso il prosciutto ha un ruolo ricorrente. Come già accennato nel 1707 arrivarono a Senigallia le truppe austriache di Carlo III d’Austria, impegnate nella Guerra di Successione Spagnola: lo stato pontificio non partecipava direttamente al conflitto ma consentiva che gli eserciti passassero attraverso i suoi domini nel Centro Italia per raggiungere il Regno di Napoli sotto il dominio iberico di Filippo V. Nei diari manoscritti tenuti da Giovanni Maria Mastai Ferretti si riferisce di molti arrivi di questi soldati, decisamente onerosi per la cittadinanza ed in particolare per gli abitanti più eminenti che dovevano provvedere ad alloggiarli, sfamarli e rifornirli di provviste per il proseguimento della loro avanzata verso Sud. La comunità di Senigallia fece pertanto al generale conte Daum, primo comandante dell’esercito, il dono di quantitativi massicci di “paste diverse”, formaggi, zucchero, fragole, ciliegie, astici, paguri, limoni, finocchi, mele, vitella, castrati, capponi, pollastri, piccioni, moscatello, vernaccia e vino in genere ed anche “presciutti” (ben 12)326 . Agli altri tre generali subalterni (Vauban, Veijzel e Paté) i prosciutti donati erano cinque a testa, oltre a due canestrelle (324) A. LATINI, Lo Scalco alla moderna, Napoli 1692, rist. anast. 1997, pp. 357-358. M. G. PANCALDI, Fonti documentarie per la storia dell’alimentazione dell’Archivio di Stato di Macerata, in La carte in tavola...cit., p. 156. (326) A. SEGALE – A FIORANI (a cura di), La salumeria nella Marca Anconetana, Ancona 2004, Cfr. S. ANSELMI, Soldati corsari regine nella Senigallia del Settecento 1707 –1759, Senigallia 1986, pp. 11 e segg. (325) “O SALUMI BENE AMATI” • 101 per ciascuno delle solite pregiate “paste diverse”, agli stessi vini, a trenta formaggi e 12 pani di zucchero per ognuno, alle stesse qualità di vino, a finocchi, piselli, limoni, ai vari capponi, pollastre, piccioni (al posto dei quali al generale Paté, tra l’altro ospite a casa Mastai Ferretti, vennero regalate invece diverse quaglie)327. Nel corso del Settecento a Macerata, come documentano ben settantotto volumi raggruppati sotto il titolo “spese per il passaggio delle truppe estere”328, agli eserciti austriaci la cittadinanza dovette offrire un tripudio di carne, ossia manzo, vitello, castrato, agnello, capretto, capponi galline, ma anche prosciutto, salame, lardo, strutto, lonza, ciauscolo329. Ad Ancona alcuni già citati archivi gentilizi ricordano molti conti annuali di pagamenti ai norcini ed inventari conclusivi della pista domestica. Ad esempio nel 1729 nell’inventario di casa Troili tra la “carne salata di fresco si contano otto prosciutti di libbre 70” (oltre a 6 lardi, golette, panzette, lonze, salami e ciauscoli)330. O ancora nell’inventario di dispensa di palazzo Trionfi nel 1744 risultano 5 prosciutti (oltre a 21 lardi, 18 ventresche, 19 coppe di casa, 69 salami, 250 ciauscoli, e 16 mortadelle di Bologna)331. Come già riportato alcuni documenti permettono di ricostruire i prezzi di alcune provviste suine nel 1732 a Ripatransone, tra cui la porchetta (4 bajocchi per libbra), i più economici “lombetti” che costavano come il fegato (2 baj), mentre il più pregiato di tutti, oltre allo strutto, alla salsiccia e alla mortadella di Bologna era appunto il prosciutto che arrivava a costarne 19332. A Camerino nel 1737 il “bilancio della bottega du Giuseppe du Camillo e Francesco Bartolucci”, datato 29 novembre, riporta tra l’elenco complessivo di cibarie diverse provviste suine, ossia “Prosciutti, barbaglie, lardo, ciabuscoli, strutto, salami e mortadella333”. Non solo i signori si cimentavano nella produzione di salumi: nel 1738 a Camerano i raccolti del contadino Matteo Tartaglino comprendevano grano, fave, fagioli, lino, granturco, mosto, fichi secchi, annoverando però oltre a granaglie, legumi e frutta anche dei prosciutti, sicuramente prodotti da lui stesso in casa nella “salata” annuale334. Nell’antica società rurale il piacere di assaporare il prosciutto era comunque universale, e questo salume figurava orgogliosamente anche nei pasti serviti a gente di riguardo. Ad esempio ad Agugliano nel 1772, i priori offrirono un pranzo a monsignor Lante, all’avvocato Bonavia (327) Cfr. S. ANSELMI, Soldati corsari regine nella Senigallia del Settecento 1707 –1759, Senigallia 1986, pp. 11 e segg. M. G. PANCALDI, Fonti documentarie per la storia dell’alimentazione dell’Archivio di Stato di Macerata, in La carte in tavola...cit., p. 155. (329) Ibidem. (330) Archivio Nembrini Gonzaga, (Fondo Troili). Testamento ed inventario de beni del Conte Gio. Battista Troili. A rogito del notaio Angelo Bonvini in data 23 gennaio 1729, Ms; cfr. F. M. Giochi – A. Mordenti, Civiltà anconitana: Vita quotidiana ad Ancona fra XVI e XVII secolo. Palazzo, feste, modi di vestire, di arredare e di mangiare di una città adriatica, Ancona 2005, p. 373. (331) Archivio di Stato di Ancona, notaio Giovanni Giuseppe Ricci – Eredità Trionfi, n. 2651, c. 67; cfr. F. M. Giochi – A. Mordenti, Civiltà anconitana...cit., p. 412, nota 54. (332) C. GRIGIONI, Il costo della vita in una città del Piceno nella prima metà del Settecento, <Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti>, Anno VIII, N.S., 1908, vol. III, fasc. VI. La’autore fa riferimento allo spoglio di un volume di spese della Congregazione dell’Oratorio di Ripatransone, dal titolo 1732. Libro dell’Esito cartolato di pagine quarantaquattroche principia il 17 gennaro 1732 e termina li 15 gennaio 1756. (333) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 206; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino, registro 7762, Giuseppe Castelli notaio di Camerino, 1737. (334) Archivio parrocchiale di Camerano, decime; Cfr. M. MASTROSANTI, cit., p. 370. (328) 102 • “O SALUMI BENE AMATI” d’Ancona, ed al notaio Domenico Piermarini: si servirono un agnello del peso di libbre 26, un paio di capponi, un’assortimento di spezie (garofoni, cannella, pepe), insalata, formaggio, “pane di pasta molle”, fava, piselli, un barile di vino, tre paia di piccioni, lardo, prosciutto e (parte) di vitella di mongana di libbre 18 e mezza335. Nel 1777 ad Ancona una “Tariffa de’ Prezzi della Carne Porcina Fresca”, bandita all’11 di ottobre, fissava i vari prezzi dei salumi e della carne fresca di maiale: oltre alla salsiccia (“fina, buona, ricipiente, e ben speziata”), alla lonza, alle coste, alla coratella, alle cotiche senz’osso, alle ventresca, allo strutto ed al lardo, vi si riportava il prezzo della “carne spolpata nel Presciutto”336. _Il prosciutto nel ricettario tardo-settecentesco “Il cuoco maceratese” di Antonio Nebbia_ La presenza così significativa del prosciutto come ingrediente rivela un innesto di mode culinarie francesi (dove questo salume dominava nelle preparazioni di base di cucina) nelle ricette tradizionali, creando anche nuove tipicità: si codifica così inevitabilmente una contiguità tra le cucine di queste terre e le loro dispense, naturalmente rifornite principalmente di risorse localmente prodotte. Questo vale in particolare per il “Cuoco maceratese” di Antonio Nebbia (edito in prima edizione nel 1779, e poi ampliato di molte pagine nel 1784), ricettario del tardo maceratese a cui gli storici della cultura gastronomica riconoscono il merito di aver ricostruito un’identità territoriale rispetto all’egemonia dominante delle mode francesi del periodo. Tenendo comunque presente le consuetudini d’oltralpe il Nebbia adopera appunto il prosciutto in molte preparazioni come ingrediente principale ma anche di supporto: tra le diverse ricette proposte si possono ricordate i “Crostini di prosciutto”, una salsa profumata di salvia, alcune zuppe (“zuppa detta alla Rennabianca”) e la già citata ed importantissima “Salsa per il princigras”, ormai comunemente vista come l’archetipo dei Vincisgrassi337 (com’è noto sontuoso piatto di pasta al forno, ed al tempo stesso emblema dell’orgoglio marchigiano storico - cucinario). Tra le pagine del Nebbia è poi testimoniata una particolare ed intrigante ulteriore raffinatezza che rendeva più godibile e sofisticato il prosciutto per l’aristocrazia più esclusiva, ossia un’estrosa elaborazione del cuoco, testimoniata addirittura dall’esistenza di stampi in piombo a forma di prosciutto, documentati in alcuni inventari di cucina e credenza di famiglie nobili anconetane: servivano infatti per confezionare sformati o mousses con il coscio suino salato e stagionato338; c’era poi qualcuno, come lo stesso cuoco maceratese Antonio Nebbia, che si divertiva a riempire questi stampi con dolce crema ghiacciata, preparando così finti prosciutti di gelato, conferendo con alcune bacche l’inconfondibile colore del salume tra il rossastro ed il rosato, e con le screziature bianche di grasso339 realizzate con crema bianca. (335) Archivio Storico Comunale di Agugliano, Libro delle Bollette sulle spese comunali dal 1771 al 1790; Cfr. M. MASTROSANTI, cit., p. 254 . (336) Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, Bandi e notificazioni, n. 6.432. (337) A. NEBBIA, cit., pp. 15, 34, 85, 90. (338) F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 310. (339) A. NEBBIA, cit., p. 250. “O SALUMI BENE AMATI” • 103 _Documentazioni iconografiche nei dipinti di natura morta_ Dall’arte effimera delle portate ornamentali viene naturale considerare come un’altra documentazione interessante e preziosa sul prosciutto possa essere quella iconografica: nel repertorio artistico regionale settecentesco si notano infatti alcuni dipinti di nature morte che testimoniano le cibarie e le stoviglie della mensa in quell’epoca. Maestro nel genere dei quadri con tavole imbandite è certamente l’ormai noto pittore fanese Carlo Magini (1720-1806), autore ad esempio di una “Natura morta con costoCarlo Magini, Natura morta con costelette d’agnello su tagliere, lette d’agnello sul tagliere, piatto di salsicpiatto di salcicce, cavolo e prosciutto appeso. Olio su tela. ce, cavolo e prosciutto appeso”, conservato Forli, Pinacoteca Civica. alla Pinacoteca Civica di Forlì. Altra opera pittorica interessante, che attesta visivamente ai posteri un classico prosciutto marchigiano è la “Natura morta con uva e bottiglia di vino in un tino, salumi, pane, uova, coltello, formaggio e panno bianco” di un anonimo marchigiano della seconda metà del Settecento, custodita al Museo Piersanti di Matelica340. _Il prosciutto nei registri di dispensa e nei consumi di casa_ Sembra pertanto che il prosciutto sia stato una risorsa alimentare importante e soprattutto un ingrediente molto ricorrente per la preparazione di elaborati piatti nelle cucine allineate alla moda gastronomica dell’epoca. Questo consumo signorile è attestato dal “Libro delle spese di cibaria per casa di sua eccellenza cavaliere Guglielmi, castellano di Ancona”: in questo registro di spese sopravvissuto al tempo si annotano pertanto gli acquisti alimentari Anonimo Pittore Marchigiano. Natura morta con uva e bottiglia, di vino in un tino, salumi,pane, uova, coltello, dell’eminente famiglia dei Guglielmi dal 1790 al formaggio e pane bianco. Olio su tela. 1792, ed il prosciutto ricorre frequentemente tra le Matelica, Museo Piersanti voci di spesa. Oltre a citazioni generiche e semplici d’acquisto (ad esempio al 21 di gennaio 1790, con uova, braciole di vitella, minestra e agnello, o al 24 dello stesso mese con uova, erbe, latte, fegatini, burro) ve ne sono altre che documentano l’impiego vero e proprio, come alla nota del 3 di febbraio 1790, dove si legge la voce “presciutto per tondini e cucina”, ossia per l’impiego come ingrediente di ricette da cuocere o anche da (340) L’anima e le cose: La natura morta nell’Italia pontificia nel XVII e XVIII secolo, a cura di R. BATTISTINI – B. CLERI – C. GIARDINI – E. NEGRO – N. ROIO, Modena 2001, p. 170 e p. 180. 104 • “O SALUMI BENE AMATI” consumare semplicemente in antipasto, appunto affettato nei “tondini”, nome che anticamente indicava i piattini per i servizi freddi di inizio e fine pasto341. Sul consumo aristocratico dei salumi si ha una descrizione relativa alla classica douceur de vivre settecentesca di un signorotto anconetano, il conte Liverotto Ferretti: esiste infatti l’ameno racconto di una sua villeggiatura scritto da un compiacente poeta della sua corte, Antonio Mondaini, che in una sua composizione in versi ci ha tramandato molti sapidi dettagli di questa scampagnata, quando si ha davvero l’impressione che i familiari e la comitiva del conte, lontani dai lacciuoli formali dell’ingessata convivialità cittadina, prediligessero mangiare cibi di carattere marcatamente più rustico e deciso, sicuramente diversi dalle lussuose ed elaborate pietanze convenzionali di una certa nobiltà, (per loro abituali nell’ordinario soggiorno cittadino). In questo racconto sul soggiorno campagnolo dei signori Ferretti il carattere compiaciutamente frugale dei pasti è ulteriormente accentuato in occasione di una gita ad Osimo in biroccio, quando ad un certo punto mangiano di gusto le provviste portate dalla cucina della villa: “Già è l’un’ora alla francese / Che ne invita al desinare / L’appetito al sommo fervido / Era stanco di aspettare / Perciò senza complimenti / Se ne preser cura i denti. / V’era roba in abbondanza / Del prosciutto e del salame, / Una zuppa assai approposito / Per guarirsi dalla fame, / Lesso, un umido assai grato, / E un arrosto prelibato342”. Ciò non toglie che in ritrovi conviviali ed occasioni festose popolari e di piazza343 il prosciutto campeggiava anche come sontuosa golosità per gli umili, a riprova di un apprezzamento davvero socialmente trasversale. In quello stesso 1797 Ancona viveva il fermento dell’arrivo delle truppe francesi, accolte in città tra sgomento di alcuni ed entusiasmo di altri; le feste per il popolo vennero però strategicamente imbandite, e come ricostruisce lo storico anconetano Palermo Giangiacomi “Vennero distribuite paste e acquavite in gran copia fra l’esultanza generale: nel pomeriggio sorsero, uno di fronte all’altro, due grandi palchi: uno per la Municipalità e stato maggiore francese; l’altro per la musica. Una tavola lunga quanto la piazza imbandita con pasticci, arrosto, prosciutto, formaggio, vino, frutta. Negli angoli della piazza alcuni facchini distribuivano ottimo vino a sazietà da quattro grandi tini; da altri punti il pane. Era questa la cosiddetta cuccagna344”. Nel delirio di invasioni di quegli anni si registra poi come, ad esempio negli anni 1799 –1800 a Montappone, fossero fatti avere rifornimenti alle truppe impiegate nell’assedio di Ancona, che ricevettero in dotazioni pane, vino, carne di maiale, castrato, prosciutto e semola345. “O SALUMI BENE AMATI” • 105 _Confezionamento del prosciutto in un testi e resoconti di agronomia d’inizio ‘800_ Agli inizi del secolo successivo un documento di una bottega di generi alimentari comprova lo smercio diffuso del prosciutto. Nel 1802 a Cupramontana l’ “Assegna di Pietro Campana de generi vendibili nella sua Bottega”, datata al 27 gennaio, riporta tra le provviste smerciate oltre a vino ed olio, baccalà, “stokfisso secco” e “stokfisso mollo”, “salacche” [aringhe], , “sardella grossa”, anche lardo e “presciutto346”. Sei anni dopo nel trattato di agronomia “Il Dottore della Villa” dell’abate di Monsano Angelantonio Rastelli, stampato a Jesi nel 1808, nel capitolo dedicato alla carne suina si spiegano i tempi di salagione, e si specifica come i prosciutti vadano tolti dal sale dopo venti giorni “rivoltandoli spesso, e calzando il sale nel luogo della nocella, che è facile a putrefarsi”, impiegando per rimuovere i grani depositati “con una scopetta intinta nell’aceto, dove sia stato attuffato qualche spicchio d’aglio”; per poi farli stare “due giorni all’aria di tramontana senza sole”, e quindi metterli “a prosciugare sotto il camino esposti al fumo per alquanti giorni senza che sentano il caldo del fuoco, e nel levarli dipoi sfumati untateli con olio, e aceto, e poi metteteli sotto la cenere per conservarli, e nell’estate teneteli in luogo fresco347”. Nel 1812 a Camerino l’inventario dei beni del defunto Francesco Sabbiati Bonelli e del fratello Pietro descrive ciò che è stato rinvenuto nel “Dispensino ad uso di magazzino”: “Cotiche e zampetti, Cose diverse di majali, Lonze de’ majali, Presutti […] unitamente a diverse spallette di majale”, Lardo, e Barbaglio, Distrutto”348. Come già riportato, gli “Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia” compilati da Filippo Re nel 1811 attestano del resto come la suinicoltura fosse una risorsa determinante nel Dipartimento del Metauro: riguardo ai “porci” si legge infatti “Se ne provvede abbondantemente tutta la popolazione; e siccome il numero di questi animali è assai grande, si può dire che questo è il ramo di commercio più esteso che facciasi nel dipartimento; quasi tutt’i majali che si vedono lavorati in salumi nello stato Veneto, Ferrarese ed in Roma, vengono tutti da questo dipartimento, quantunque il modo con cui si nutrono non sia il più felice349”; l’autore prosegue poi ad elencare i salumi, e pur ammettendo la loro mancanza di “fama assoluta” riconosce la peculiarità della porchetta, ammette che “i prosciutti sarebbero eccellenti se li sapessero tagliare come si pratica a San Daniele nel Friuli, e soprattutto afferma che “si fabbricano però delle mortadelle che non la cedono in bontà a quelle di Bologna, e le salsicce a quelle di Mantova350”. (341) Biblioteca Planettiana di Jesi, Archivio Guglielmi, Libro delle spese di cibaria per casa di sua eccellenza cavaliere Guglielmi, castellano di Ancona, carte non numerate. (342) Il poemetto di A. MONDAINI, Villeggiatura all’Angelo nell’autunno del 1797, è stato trascritto e pubblicato integralmente da F. M. GIOCHI (La vita in villa di un patrizio Anconitano del XVIII secolo: Liverotto Ferretti e la villeggiatura dell’Angelo nell’autunno del 1797, Recanati, 1994, p. 41). (343) Si ricordano le cronache delle feste di piazza e giochi pubblici, come l’albero della Cuccagna, legati a festività annuali (cfr. ad esempio O. MARCOALDI, Le usanze e i pregiudizi, i giuochi de’ fanciulli, degli adolescenti e adulti, i vocaboli più genuini del vernacolo, i canti e i proverbi del popolo Fabrianese, Fabriano 1877, p. 33.) o i banchetti offerti al popolo, in occasione di eventi politici memorabili (P. GIANGIACOMI, Storia di Ancona dalla sua fondazione ai giorni nostri, Ancona, 1923, p. 121). (344) P. GIANGIACOMI, Storia di Ancona dalla sua fondazione ai giorni nostri, Ancona 1923, p. 121. (345) M. G. PANCALDI, cit., p. 18. (346) R. CECCARELLI, Come uno di casa, cit., p. 110; cfr. ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CUPRAMONTANA, Lettere diverse 1792-1802 . (347) A. RASTELLI, Il dottore della villa…, cit. p. 125. (348) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 144; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino. (349) F. RE, Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia compilati dal cav. Filippo Re, prof. d’agraria nella R, Univ, di Bologna, contenenti fatti, osservazioni e memorie sopra tutte le parti dell’economia campestre, Milano 1811, tomo IX, p. 161. (350) Ivi, p. 162. 106 • “O SALUMI BENE AMATI” _Documenti ottocenteschi sulle modalità di confezionamento del prosciutto_ Diversi inventari di case e cantine con il computo dei prodotti della macellazione di maiali rivelano una significativa produzione domestica e non di provviste salate suine, capillarmente diffusa in famiglie di ogni livello sociale, poiché pressoché ovunque si allevavano maiali destinati a rifornire la dispensa di salumi. La macellazione annuale (chiamata “salata” o “pista”, termini che rivelano l’impiego di ingredienti, utensili e tecniche di lavorazione) dotava chiunque di prosciutti, che nelle famiglie aristocratiche erano destinati esclusivamente all’autoconsumo, mentre invece presso i contadini i cosci salati e stagionati erano il più delle volte una risorsa da vendere nei mercati cittadini, per ricavarne così un po’ di denaro sonante per le spese irrinunciabili. Riguardo alle pratiche di confezionamento del prosciutto, nel 1855, ai primi di gennaio (per la precisione all’8, appena concluse le feste natalizie), il conte Duranti di San Lorenzo in Campo (provincia di Pesaro) scrive alcune istruzioni per la salata già precedentemente citate. Nello specifico si trascrive la parte iniziale e conclusiva di queste carte: “Metodo per lavorare la carne salata ed il modo di salare i Prosciutti, Capomazzi e lombetti” Per ogni libre Cento di Carne di prosciutto, capomazzi e lonzetti libre quattro ed oncie sette di sale bene asciutto, e ben pesto, mescolandovi bene insieme cinque oncie di nitro pure bene pesto, avvertendo che si vi debba dare un poco di sale ai prosciutti, a seconda del bisogno particolarmente della nocella, devono stare sotto il sale i prosciutti circa quaranta giorni […] tolti che saranno i prosciutti dal sale si devono lavare con acqua tiepida, meglio è fare bollire l’acqua con del buon fieno, e lavati che siano con acqua di fieno si devono lavare con vino pure caldo, poi metti a scolare in luogo asciutto, si mettano sotto il camino, per otto o dieci giorni, poi messi in luogo fresco si conservano per vari anni.351” Lo scrittore e studioso Oreste Marcoaldi riporta a sua volta anche la sua descrizione del prosciutto confezionato alla maniera della sua gente “tenuto all’aria ben salato in ogni sua più nascosta parte (acciocché le mosche non ci facciano le uova, causa del suo marcire), appeso per 20 dì poi un mese sotto il camino, al caldo, e 3 mesi in alto in cucina, al fumo352”. _Indicazioni di norcineria e cucina sul prosciutto da carte monastiche ottocentesche_ Sempre a metà dell’Ottocento risale un altro suggerimento per la confezione del prosciutto, rinvenuto però in ambito monastico, ossia presso la congregazione dei Padri Filippini di Ascoli Piceno: in una nota si legge infatti che “Nei prosciutti, prima di salarli si mettano a sopresso sotto grosse pietre, dopo che sono asciutti, cioè dopo un paio di giorni si salano bene e quando sono stati un tempo conveniente sotto sale, prima di metterli al fumo, si mettono nuovamente a soppresso, poi dopo che si vedono bene asciutti si mettano al fumo, e questo sia molto, perché più fumo hanno, e più vengono migliori basta che non brucino353”. (351) Il documento manoscritto è stato riprodotto in copia fotografica nel volume di F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro ed Urbino, Marzocca 2001. (352) O. MARCOALDI, cit., p. 33. (353) A. BUCCIARELLI, A tavola con i P. P. Filippini, Ascoli 1991, p. 77. “O SALUMI BENE AMATI” • 107 Un’altra importante testimonianza conventuale viene dal monastero delle clarisse di Santa Maria Maddalena di Serra de’ Conti, di cui si conservano le note di dispensa ottocentesche, che riportano quanto ogni taglio o residuo della bestia dovesse essere conservato sotto sale: “gli ossami otto giorni, le panzette, golette e orecchie dodici, i lardi grossi venti ed i più piccoli diciotto”; si annotavano naturalmente anche i tempi di salatura per i vari insaccati (per i “presciutti” quaranta giorni, le spalle trenta, ed infine “i Capocolli e Lonze ci deve stare dieci, o dodici giorni secondo che sarà asciutti”)354. Prezioso poi il repertorio delle ricette manoscritte dei monasteri. Tra le note manoscritte delle consorelle, per tradizione eccellenti cuoche, non mancano poi anche ricette di cucina come quella “Per fare i crostini di prosciutto, ovvero a modo di salsa”: “Si fa tutti pezzettini di Prosciutto magro, si mette a cuocere con un poco di astrutto, e brancioline di salvia, quando è cotto vi si pone anche zucchero, e cannella, e quando diventa un unguentino si può adoperare per il lesso355”. Del resto la ricetta dei crostini al prosciutto Edouard Manet, Il prosciutto. 1875-78. Glasgow, attraversa la letteratura gastronomica marchiGlasgow Museums, The Burrel Collection. giana: alla fine del Settecento Antonio Nebbia la propone ugualmente in una sfumatura dolce con l’impiego dello zucchero (poi corretto in agro con l’aggiunta di “un poco di aceto356”), mentre invece nel 1891 “Il Cuoco Perfetto Marchigiano” consiglia di prepararli con dadi piccolissimi di prosciutto soffritti con salvia, ed anche “grattatura di limone e odore di cannella”, e “piacendo, vi si possono mettere ancora un poco di pignoli e uva passa357”. Nel monastero di Serra de’ Conti si può notare dal regolamento di dispensa come le clarisse economizzassero il consumo del prosciutto durante l’anno: secondo il regolamento di dispensa era servito a pranzo per l’ultima domenica di carnevale (con minestra, lesso di pollo, guazzetto, ed un quarto d’agnello arrosto), al pranzo di Ferragosto (con un quarto di pollo lesso ed un quarto arrosto), e la sera dell’ultima domenica prima dell’Avvento (con minestra ed insalata). Il carattere nobile ed al tempo stesso plebeo, costoso ma anche alla portata di tutti, pregiato ma al tempo stesso umile del prosciutto lo rendevano sostanziosa refezione in molti istituti religiosi, come si è già visto. A Mercatello sul Metauro un “Rendiconto giornaliero” riporta le spese, dal 4 dicembre 1882 al 27 febbraio 1883, e dal 17 maggio fino al 21 luglio 1883, per il vitto dei dieci alunni del seminario vescovile: tra le voci di spesa si leggono polli, gallinacci, piccioni, carne da macello, vaccina, castrato, capretto, bistecche di maiale ed anche appunto prosciutto, oltre ad aringhe, sardelle, (354) (355) (356) (357) Archivio Storico Monastero di Santa Maria Maddalena, , b. 7, Ricettario, Registro cartaceo con regolamento di dispensa. Ivi, carta non numerata. A. NEBBIA, cit., p. 90. Il cuoco perfetto marchigiano, a cura di E. FACCIOLI, Ancona, 1982, p. 23. 108 • “O SALUMI BENE AMATI” merluzzo, vongole (“caperozze”), patate, fagioli, uova e formaggio358. L’importanza e la diffusione del prosciutto alla fine dell’Ottocento è certamente accreditata ad esempio anche dagli appalti per la fornitura di commestibili negli Istituti della Congregazione di Carità ad Urbino (ospedale di Santa Maria della Misericordia, conservatori femminili, orfanotrofio maschile e brefotrofio); le tariffe della carne hanno una voce apposita sulle produzioni suine, includendovi lardo, strutto, prosciutto, mortadella e salami359. _Il prosciutto in alcuni ricettari a stampa di inizio Ottocento_ Se per i contadini il prosciutto era genericamente solo un cibo da affettare, per i signori come si è visto era anche un saporito ingrediente per elaborate ricette di cucina. Nel 1819 viene pubblicato in Ancona il “Fa per tutti”, una di quelle tradizionali pubblicazioni di inizio anno, strutturata come calendario didascalico, almanacco ed agenda da lettura spicciola, con curiosità, motti e proverbi, un valido supporto o aiuto domestico con suggerimenti e precetti di carattere pratico, comprese alcune brevi ricette di cucina per ogni mese. Ed appunto nel mese di dicembre viene illustrata la “Zuppa di cavoli”, cucinati in casseruola con “lardo, fette di carne magra, e fette di prosciutto sotto e sopra”. Si tratta di un’ennesima riprova della presenza costante del prosciutto in dispensa, del suo più semplice consumo da solo o invece come ingrediente per ricette elaborate nella cucina della borghesia e della piccola nobiltà di provincia360. Da “La cucinera all’uso moderno”, ricettario a stampa già citato dei primi decenni dell’Ottocento (pubblicato per la prima volta in ancona nel 1831) si riporta qui la trascrizione della ricetta del “Prosciutto al broche”: “Un prosciutto tanto dissalato che fresco, lo potrete far cuocere arrosto, e servirlo come il prosciutto alla bresa. Alcuni prima di cuocerlo, lo fanno prolessare in una bresa, ed alcuni ancora lo fanno prima stare in infusione con vino, droghe ed erbe odorose. Il prosciutto tanto dissalato, che fresco, e cotto allo spiedo, lo potrete apprestare appannato, o glassato, e servirlo con sotto quella salsa, o ragù che vorrete. Gl’Inglesi usano ancora dopo dissalato in prosciutto di farlo stare in infusione con latte, sale, coriandoli, fette di cipolla, e butirro; indi lo fanno cuocere arrosto, aspergendolo con l’istesso latte, e poi lo servono con sotto una salsa d’erba361”. Molto intrigante e curiosa è poi in proposito la ricetta di una conserva dolce che imita le “fette di prosciutto”: “Fate cuocere del zucchero a penna, mischiatelo in tre vasi differenti, nell’uno mettetevi del succo di limone, nell’altro delle rose doppie, e nell’altro della cocciniglia spolverizzata, ovvero del succo di granato, o dell’uva spina spolverizzata; stendete un suolo della conserva bianca sopra della carta, due suoli della rossa, seguitando così fintanto che il zucchero venga grosso quanto un prosciutto, dipoi tagliatelo a fette di prosciutto362”. (358) Archivio Arcipretale di Mercatello sul Metauro, Fondo Seminario - Rendiconti; Cfr. C. LEONARDI, La mensa nel seminario di Urbania tra Settecento e Novecento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 31. (359) Archivio Irab Urbino, Verbali d’asta pubblica ad unico incanto, b. 41; Cfr. S. PRETELLI, Il vitto negli istituti di carità di Urbino alla fine dell’Ottocento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 31. (360) La citazione de Il Fa per tutti è tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 86. (361) La cuciniera all’uso moderno, cit. pp. 59-60. (362) Ivi, p. 137. “O SALUMI BENE AMATI” • 109 _Ricettari manoscritti ottocenteschi di cucina di famiglie nobili o agiate marchigiane_ Sempre alla metà del secolo risale un ricettario borghese manoscritto già citato, appartenuto alla famiglia Feligiotti di Urbania, e probabilmente redatto da Mariano Feligiotti, morto ottantenne nel 1870, che ha compilato in bella copia centoundici preparazioni di cucina diverse363. Anche qui tra le ricette presenti il prosciutto ha un ruolo significativo, secondo la tradizione francesizzante che contemplava spesso questo ingrediente speciale e prezioso per intensificare e nobilitare il sapore di alcune pietanze di cucina: tritato e bollito con funghi brugnoli, tartufi, capperi, erbette, alici ed agro di limone costituisce una sontuosa e pregiata “salsa sopra il lesso di vaccina364”; altre fette di prosciutto ugualmente tritate con “granelli o fegatini” di pollastri, scorza di limone, cipolla e rossi d’uova sode compongono un amalgama per crostini, con aromi contrastanti e calibrati su gusti arcaici di pepe, aceto, zucchero e cannella365; altro “presciutto battuto” (l’alternarsi nel manoscritto delle due dizioni “prosciutto” e “presciutto” dimostra come entrambe fossero contemporaneamente in uso nell’arco di pochi decenni) mischiato a carne, pinoli, erbette, chiodi di garofano, pepe e scorza di arancia costituisce il ripieno per le zucchine, cotte poi in brodo di carne, sugo di pomodoro e capperi; del “prosciutto battuto” con carne, pinoli, erbette, pepe, chiodi di garofano, odore di arancia, e messo a cuocere con brodo, sugo di pomodori e capperi, e legato con tuorli sbattuti costituisce il “Ripieno di zucchette366”. Ancora, in un quadernetto manoscritto ottocentesco di “una famiglia del patriziato anconetano367” sono stati trascritti vari suggerimenti per le pratiche domestiche tra cui numerose ricette di cucina. Tra queste va segnalata la “Dose per un Pasticcio, per quattro Persone”, che illustra la preparazione di un pasticcio di maccheroni, pietanza sontuosa emblematica della nobile tradizione culinaria italiana, in quanto portata - feticcio della convivialità più remota, fin dai banchetti medioevali e rinascimentali, quando l’ingresso in tavola di questa elaboratissima pietanza rappresentava un momento di giocosa sorpresa nell’indovinare e riconoscere gli ingredienti del ricco ripieno sotto la crosta di pasta, ornata ad arte e modellata nelle sembianze più stupefacenti. La farcitura dei pasticci infatti era quasi un veicolo cerimoniale di ostentazione per la ricchezza della casa, che dentro l’involucro serviva cibi esemplificativi della suprema abbondanza e ghiottoneria mescolati tra loro, come la pasta e la carne, combinate in queste portate che nel tempo hanno codificato il timballo di maccheroni, autentica gloria della gastronomia nazionale. Ebbene il pasticcio del ricettario manoscritto anconetano è proprio ripieno di “Macaroni”, conditi oltre che con “Cagio Parmigiano” con “un picione, selleri [sedani], cardo, presuto, salame” che assieme costituiscono appunto la “sostanza”, ossia il condimento per i maccheroni; la pasta esterna, secondo una tradizione sopravvissuta ancora ai primi del Novecento, era dolce come una frolla, preparata in questa ricetta anconetana con “zuccaro”, farina, “distrutto”, “quattro o cinque (363) L’attribuzione specifica della paternità del ricettario è formulata da C. LEONARDI (La cucina borghese del Montefeltro nel XIX secolo: il ricettario della famiglia Feligiotti di Urbania, in Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 149). (364) Ivi, p. 159. (365) Ibidem. (366) Ivi, p. 163. (367) Così scrive, senza specificare l’identità della famiglia, il curatore della pubblicazione V. PIRANI, Ricette e segreti: in uso delle famiglie anconitane nei secoli XVIII e XIX, Ancona 1992, p. 5. 110 • • 111 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Ova ed una sol Chiara”, pepe, cannella e spezie368. E’ un segno non trascurabile che nel ripieno goloso di questo pasticcio di maccheroni non mancassero proprio i salumi più apprezzati, come prosciutto e salame. Un altro ricettario manoscritto, redatto a metà Ottocento dal conte pesarese Pietro Pietrucci (conservato alla Biblioteca Oliveriana di Pesaro), tra le tante preparazioni raffinata di cucina francese ed in particolare provenzale (memoria dell’esilio per motivi politici del compilatore) presenta anche spunti rustico e locali: tra gli esempi di questo sincretismo tra esclusivi modelli gastronomici d’oltralpe e suggestioni delle campagne circostanti possono essere appunto le ricette come “Modi di cuocere i prosciutti salati e preparati come più addietro”, o anche i “crostini di prosciutto salato” ed il “Modo di acconciare i prosciutti”369. mente pregiate, come alcuni salumi raffinati, ed in particolare i prosciutti. Questo “spartitraffico” gerarchico tra tutti i prodotti, alimentari e non, ottenuti dal porco ammazzato, come si è visto lo si trova perfettamente codificato in quel genere di componimento letterario comico - realistico che con infinite varianti locali è conosciuto come “Il testamento del porco”. Come si è visto nella versione di un autore anonimo marchigiano ottocentesco, integralmente trascritta nelle pagine scorse, una quartina sentenzia così: “Le lonze e le spalette / le possono mangiar tutti, / ma sol per i signori / io lasso i miei pregiutti371”; si evince così appunto una scala di pregio tra i salumi, che segnala come appunto i prosciutti fossero la preparazione più esclusiva ed apprezzata dai gourmands più raffinati e dai palati signorili. I salumi erano inevitabilmente una provvista golosa, ambita con concupiscenza: una testimonianza preziosa in proposito è la tradizione giocosa nelle feste popolari dell’Albero della Cuccagna. Oreste Marcoaldi, studioso e letterato fabrianese, nel suo saggio del 1877, “Le usanze e i pregiudizi, i giuochi de’ fanciulli, degli adolescenti e adulti, i vocaboli più genuini del vernacolo, i canti e i proverbi del popolo Fabrianese”, riporta appunto questa festa popolare di piazza radicata da tempo immemore, quando “rizzavasi or nella Piazza Alta or nella Piazza Bassa una ben liscia antenna o albero di nave di dieci metri di altezza (piedi trenta), nella cui cima era fisso un cerchio di legno dal quale pendevano prosciutti, lonze, soppressati, salami, fiaschi di vino, pollo, pani, un vestiario e 25 o 30 lire; oggetti mangiabili e danari dati dal Municipio, che a pro della plebe bandiva il divertimento”. _Il prosciutto in ricettario a stampa del 1861_ Sempre a proposito di ricettari nel 1861, come già visto, viene pubblicato a Loreto un libro intitolato “Il Cuoco delle Marche”. L’autore, anonimo, dichiara il suo intento nella presentazione del volume dedicata al “Caro lettore”, dove asserisce l’esigenza di un vitto “adatto al nostro clima ed al nostro gusto […] poiché manca un metodo di cucina proprio per ciò che producono le terre delle nostre Marche370”: e così tra le pagine emergono le istruzioni per le nostre minestre anche della tradizione più umile, come i passatelli o i tagliolini di pangrattato, la zuppa di cardi o gobbi (che si insegna anche a friggere), la galantina, le costolette d’agnello fritte, il brodetto chiamato “alla marinara”, i cialdoni al vino che ricordano gli eterni biscotti contadini di mosto della vendemmia. Tuttavia le ricette non rinunciano alla civetteria signorile di insaporire i piatti con il prosciutto: ad esempio nella ricetta di “Guarnizione di spinaci” le foglie verdi vengono insaporite in casseruola appunto con prosciutto e cipolla, oltre a brodo, pangrattato ed scorza e succo di limone. Addirittura il prosciutto sposa anche il pesce, in una ricetta intitolata non a caso “Fritto di pesce sfoglia di grasso” (per indicare proprio che non va preparato nei giorni di digiuno, di vigilia o quaresimali, ossia convenzionalmente chiamati “di magro”): le sogliole vengono lessate con fette del salume e spicchi di limone, per poi essere legate con parmigiano ed uova in un composto da cui ricavare frittelle impanate; del resto esiste anche una ricetta dell’antica tradizione anconetana a celebrare le nozze tra la dinastia del mare e questo re della terra, avvolgendo in fette di prosciutto le triglie marinate in olio, aglio, limone ed erbe, poi infornate con un trito di prezzemolo e pangrattato. _Il prosciutto nella letteratura e negli studi sul folklore_ La “pista” del maiale era in effetti momento rituale nel ciclo agrario annuale, che interessava tutti i ceti nell’antica società rurale: se appunto per i contadini la macellazione del maiale rappresentava la provvista della carne più ordinaria per i giorni comuni (solo nelle feste si sacrificavano pollame o capi ovini e caprini, godendo così di episodica ed appetitosa carne fresca da cucinare), per i signori “la pista” era il momento in cui si testava la produzione di leccornie suine particolar- _Una testimonianza da un inglese nelle Marche a fine Ottocento_ Se il Marcoaldi, da buon fabrianese, descrive la gente umile della sua città e delle sue campagne con l’affetto della memoria e la compartecipazione campanilistica di un concittadino, decisamente diversa, più analitica e critica, può essere la descrizione del mondo contadino da parte di un’aristocratica inglese vittoriana venuta alla fine dell’Ottocento (tra il 1873 ed il 1885) a dimorare con il marito italiano in una sperduta comunità rurale del piceno, San Venanzo vicino Fermo. Margaret Collier, nel suo diario del suo soggiorno marchigiano osserva la vita dei contadini con l’occhio asciutto dell’antropologo quasi entomologo, che spia e riporta i tratti della quotidianità di questa povera gente con lo sguardo prevenuto di chi viene dal Nord Europa e quindi dalla civiltà illuminata. Molte sono le sue descrizioni sulle abitudini alimentari dell’umile gente di campagna, non solo poveri contadini ma anche famiglie abbienti, presso una delle quali fu invitata ad un “pranzo che sembrava non dover aver mai termine, servito secondo regole a me sconosciute. Gli sformati venivano prima della carne, i fichi erano serviti col prosciutto, piatti dolci e piatti piccanti erano generalmente mescolati in maniera inestricabile372”. Ed in effetti il raziocinio anche culinario, ostentatamente moderno, della gentildonna britannica non poteva concepire una pietanza come prosciutto e fichi (gemello del più conosciuto abbinamento con il melone), che accostava al salume quei frutti dolcissimi che fin dall’antica Grecia erano frequentissima colazione zuccherina, e quindi nutriente, per moltissimi contadini. (368) (371) (369) (372) Ivi, p. 59. Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Ms, P. PIETRUCCI, Ricettario, pp. 57 e segg. (370) La citazione de Il cuoco delle Marche è tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 95. Tratto da L. PACIFICI, Il ciauscolo: un salume antico dal gusto moderno, Pollenza 2003, p. 50. M. COLLIER, La nostra casa sull’Adriatico: diario di una scrittrice inglese in Italia (1873 – 1885), a cura di J. LUSSU, Ancona 1997, p. 40. Questo libro di memorie è stato pubblicato per la prima volta a Londra, nel 1886, con il medesimo titolo Our home by the Adriatic. 112 • • 113 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Tra tutti i ricavati della “salata” nelle dispense contadine il prosciutto era il prodotto in assoluto più tenuto da conto e centellinato: un momento ritualmente solenne dell’anno in cui veniva preso ed abbondantemente affettato, anche perché ormai stagionato a dovere, era all’inizio dell’estate quando le famiglie collaboravano tra loro per le “opre” (i grandi lavori estivi del raccolto), soprattutto per la mietitura. Si preparavano durante le intense giornate di lavoro molti abbondati pasti, spuntini e merende per tutti i lavoranti. Raccogliendo le memorie in un area del Piceno che comprende Grottammare, Cupramarittima e Ripatransone sembra che il prosciutto ricorresse nelle laute cene serali373. bianca” o la “salsa acetosa”, o “alla Nivernoese”, o ancora quella “di animelle”, “di cipolla”, la “salcraut”, “di patate”, “di tuorli d’uovo”, o naturalmente quella “di prosciutto”, ed anche ad una dalla denominazione abbastanza improbabile, ossia “alla sultana379”. Come già visto del resto la ricetta dei crostini al prosciutto attraversa la letteratura gastronomica marchigiana: alla fine del Settecento Antonio Nebbia la propone ugualmente in una sfumatura dolce con l’impiego dello zucchero (poi corretto in agro con l’aggiunta di “un poco di aceto380”), mentre qui nel “Cuoco Perfetto Marchigiano” si consiglia di prepararli con dadi piccolissimi di prosciutto soffritti con salvia, ed anche “grattatura di limone e odore di cannella”, e “piacendo, vi si possono mettere ancora un poco di pignoli e uva passa381”. Anche nel capitolo sesto, dedicato agli “umidi” il prosciutto ha il suo ruolo significativo: nel consueto battuto vengono fatti cuocere i piccioni per comporvi poi delle polpette, mentre per preparare una ricetta denominata “marine” “si contorna una pentola con fette di prosciutto e di cipolla382”, ed il medesimo procedimento (con l’aggiunta di sale, pepe e “garofani intieri383”) si esegue per il “salmì in pigna” mentre si raccomandano “fette di prosciutto grasso e magro384” per una preparazione chiamata “Artuà385”; ancora il battuto di prosciutto va a comporre il “composto di carne per la riempitura386”. Nel settimo capitolo (“dei timballi”) il soffritto di “un battuto di prosciutto con cipolla” struttura il “Timballo di patate”, mentre con l’aggiunta anche di prezzemolo va a costituire il “Timballo di zucca”, come anche la ricetta della “Parmigiana comune” (di ortaggi come sedano, gobbi, finocchi e carciofi)387. Degna di particolare attenzione è poi la complessa preparazione del “Gattò di lasagne alla Misgrasse”, per certi versi riconducibile al modello nobile dei “vinciscgrassi”, e caratterizzato da un particolare espediente ornamentale, ossia predisporre sullo sfondo dello stampo poi da rovesciare “una grande stella di fette di prosciutto388”; viene guarnita tutta con fette sottili di fette di prosciutto” anche la laboriosa ricetta del “Timballo di polenta alla Singarà”. Nel capitolo nono, dedicato agli arrosti, il consueto prosciutto grasso e magro tagliato a quadretti viene infilzato nello spiedo affiancato a foglioline di salvia, per comporre così l’ “Arrosto di animelle” (come anche negli “uccelli di vitella arrosto”), ed ugualmente il prosciutto impreziosisce spiedini nelle istruzioni per l’ “Arrosto di formaggio389 ”. Un lombo di maiale, pestato con altra carne ed il consueto prosciutto costituisce la farcitura ricca di un “Arrosto ripieno”, ossia una tacchina da cuocere poi in pentola con olive verdi, castagne arrostite, ed anche prosciutto in parte tritato ed in parte “tagliato a piccoli dadi”390. Il capitolo quattordicesimo dedicato alle “erbe e frittate” prevede che come sempre il prosciutto _Un anonimo ricettario a stampa marchigiano del 1891_ L’Ottocento marchigiano si chiude con la pubblicazione di un ricettario anonimo, “Il cuoco perfetto marchigiano” (stampato a Loreto nel 1891) che si allinea con gli altri antichi manuali e testi di cucina già visti nell’onorare la presenza del prosciutto come indiscusso protagonista di molte raffinate ricette gradite all’aristocrazia di Provincia, ma ormai anche alla piccola borghesia. Tra le pietanze illustrate che citano questo salume esplicitamente nella denominazione della ricetta vanno ricordate il “Culì di prosciutto”, i già citati “Crostini di prosciutto”, il “Fritto di semolino al prosciutto”, la “Salsa di prosciutto”, le “Bragiuolette al prosciutto”, e l’“Arrosto di bragiuolette al prosciutto”374. Ma più in generale tra tutte le ricette, secondo una tradizione nordeuropea ed in particolare legata agli stilemi dell’alta e dominante cucina francese, il prosciutto ha un ruolo dominante in molte preparazioni, impiegato come ingrediente caratterizzante ma anche insaporitore di lusso. E’ ad esempio protagonista in molte delle preparazioni di base per brodi che aprono questo manuale: un pezzo di prosciutto è messo a bollire assieme ad altri tagli ed agli aromi canonici per confezionare il “suage”, il “consomé”, più pezzi in numero non precisato servono per il “tablette” (“brodo da servirsene per viaggio, e per fare una zuppa sul momento”) mentre ne basta una fetta per il cosiddetto “biondo di mongana375”. Va poi segnalata la ricetta del “culì di prosciutto”, ed un pezzo del medesimo coscio stagionato è impiegato anche per il “culì bianco alla Cittadina”376. Un “battuto di prosciutto” impreziosisce di sapore anche una “minestra detta alla tedesca”, mentre “un pezzetto di grasso di prosciutto” battuto va ad aggiungersi alla “Minestra detta di carne”, e similmente un “battuto di prosciutto” viene soffritto come base per un’analoga “minestra di carne” ed anche per una “minestra di patate”377. Questo trito di prosciutto rendeva poi ancora più golose alcune sfiziose frittelle come il “Fritto di riso”, il “Fritto di semolino al prosciutto”, o il “Fritto rogotato”, o ancora il “Fritto composto di erbe” o “Fritto composto di carne” e il “Fritto di patate”, ed alcuni particolarmente elaborati come il “Fritto detto cassettine ripiene378. Molte varianti del repertorio di salse sono lo stesso composte con una dadolata (“la salsa all’italiana rossa”) o un battuto di prosciutto spesso profumato di prezzemolo o d’aglio, come la “salsa (373) A. DE SIGNORIBUS, Aspetti dell’alimentazione Picena tra Ottocento e Novecento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 198384, p. 31. (374) Il cuoco perfetto marchigiano, a cura di E. FACCIOLI, Ancona 1982. (375) Ivi, pp. 8-10. (376) Ivi, pp. 11-12. (377) Ivi, pp. 19-20. (378) Ivi, pp. 25-32. (379) (380) (381) (382) (383) (384) (385) (386) (387) (388) (389) (390) Ivi, pp. 36-42. A. NEBBIA, cit., p. 90. Il cuoco perfetto marchigiano, cit., p. 23. Ivi, pp. 44-45. Ivi, p. 46. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ivi, pp. 54-58. Ivi, p. 59. Ivi, p. 66 – 67. Ivi, p. 67. 114 • • 115 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” rappresenti un esaltatore della sapidità nelle varie ricette: ne basta una fetta, da impiegare durante la cottura per poi levarla, per i “fagioletti verdi in fricassé391 ”, o magari lasciarle come nel caso degli “sparagi in piccoli piselli” (ossia “si taglia la parte più tenera in piccoli dadini a guisa di piccoli piselli392”), o anche la “Frittata alla Duchessa” che può essere riempita anche con prosciutto393. Nel quindicesimo capitolo dedicato ai “piatti diversi” si impiega una fetta di prosciutto per cuocere la “Fricassé di pollastri alla delfina394”, mentre fette di lardo servono per “involtare” le cosce dei “Pollastri all’inglese395”. Ancora “tre belle fette di prosciutto”(e si specifica “da far dissalare un po’396”) si mettono “poscia a sudare in una casseruola unta di butirro finché saranno cotte”, e infine si adagiano sopra i piccioni e fette di pane “fritte nel butirro” al momento di servire397. In altre ricette di piccioni, “al sangue398 ” e “all’italiana399”, si impiega invece un pezzo di prosciutto durante la cottura. Fettine di prosciutto avvolgono i “fegatini grassi al parmigiano400”. Nella ricetta delle “Quaglie alla Martine” una fetta di prosciutto viene impiegata per il fondo di cottura401. Il “Lombo di manzo alla Delfina” va cotto su una braciera dove “si mette nel fondo una fetta di lardo e di prosciutto”, da coprire poi “con altre fette di lardo e prosciutto402”. Le “cotolette di castrato alla Delfina” invece “si lardano per traverso con lardelli di lardo e prosciutto rifilati al paro della carne403”. ciale, in modo da far restare scoperto quello che ha la forma di una noce. Mettete vicino all’osso 5 gr. di salnitro ed un grosso pugno di sale macinato al momento. Mettete il prosciutto sopra una tavola di legno, ricopritelo bene con sale grosso, lasciandolo sotto sale per un lungo periodo, da 35 a 40 giorni; però, se il prosciutto è piccolo, lo terrete sotto sale qualche giorno di meno. Dovete rimuovere e aggiungere un po’ di sale di giorno in giorno. Quando è passato il suddetto periodo di tempo, lo leverete dal sale e lo appenderete all’aria aperta per qualche settimana. Fatelo affumicare mettendolo sotto alla cappa del camino404”. A margine di questo capitolo l’autore ha aggiunto un’ “osservazione” pratica importante, tuttora valida nella confezione dei prosciutti: “Dovete prestare attenzione di far uscire bene il sangue dalla vena prima di metterlo sotto sale; ciò si ottiene col comprimere fortemente con dito pollice. Il prosciutto conservato nella maniera sopra indicata, potete tenerlo per moltissimo tempo”405 Cinque anni dopo lo stesso Tirabasso in un altro suo testo a vocazione più dichiaratamente nazionale e meno regionalistica, “Il cuoco classico: manuale pratico moderno illustrato adatto per Alberghi, Convitti, ed in modo speciale per le Famiglie”, va ancora oltre nel descrivere le pratiche di confezionamento del prosciutto, aggiungendo una chiosa che invece rivendica tutto l’orgoglio marchigiano: “Fatelo affumicare poi, come si costuma nelle Marche, cioè mettendolo su per il camino per una settimana, facendo fuoco con la paglia una volta al giorno406”. In questo manuale di alta cucina, estremamente ricercata ed elegante, modello per i banchetti più sontuosi ed esclusivi, come appunto quelli serviti nel 1922, a Recanati e Macerata, “a Sua Altezza Reale Umberto di Savoia”, l’autore codifica diverse preparazioni di base con denominazioni convenzionali, alcune dedicate a personaggi illustri italiani (da Mussolini, a generali della Prima Guerra Mondiale come Armando Diaz e Thaon De Revel, alla coppia regnante Vittorio Emanuele III ed “Elena di Montenegro”, a personaggi del Risorgimento come Cavour e Mazzini, ed anche esploratori come Umberto Nobile o poeti come Dante), altre invece a vaghi riferimenti di luoghi, città e nazioni. Proprio tra queste ultime nella “Distinta di alcuni nomi maggiormente in uso” si segnala appunto la base “all’inglese, con prosciutto e pomodoro407”. Nell’illustrazione di ricette vere e proprie si segnala come ad esempio del prosciutto “pestato fino”, mischiato con foglie di carciofo, carne arrosto avanzata, formaggio grattugiato, sale, ed uova potesse costituire la farcitura per dei carciofi ripieni408. L’importanza e la diffusione del prosciutto nelle Marche è poi attestata dalla sua presenza in ben due piatti tradizionali, uno celeberrimo della stessa regione del Tirabasso, l’altro decisamente più nordico: nell’ “umido” dello “Stracotto alla casalinga409” la carne magra di vitello viene impilottata con lardo ma anche con “pezzettini di prosciutto grasso e magro”; l’autore impiega anche del prosciutto tagliato a pezzetti nel soffritto di base del suo personale “Risotto alla milanese410”. Ma in genere il prosciutto tritato compare come pregiato ingrediente insaporitore in molte altre ricette di carne del cuoco di Montappone: dalle “bracioline alla _I ricettari di Cesare Tirabasso tra anni ’20, ’30 e ‘50: “La guida in cucina”, “Il cuoco classico” e “Le gioie del focolare”_ Nel 1927 il già citato cuoco Cesare Tirabasso, originario di Montappone (nel maceratese) dà alle stampe a Macerata un elegante ricettario, “La Guida in Cucina: 503 Ricette Marchigiane e Nazionali”, dove cerca di far convivere il gusto elegante ed aristocratico di modelli di cucina francesizzanti (ormai dominanti), con la tradizione apparentemente umile e dimessa delle ricette tipiche marchigiane, sia rurali che marinare. In questo intento di conciliare l’ “alto” della convivialità più eccelsa con il “basso” delle pratiche di dispensa basilari ed universali dedica un capitolo sul maiale illustrando schiettamente “la salata”. Uno dei paragrafi a riguardo capitolo si intitola “Modo di conservare il prosciutto”, eccone la trascrizione completa: “Distaccate il prosciutto, arrotondandolo come è di costume, levategli il piccolo ossetto superfi(391) (392) (393) (394) (395) (396) (397) (398) (399) (400) (401) (402) (403) Ivi, p. 92. Ivi, p. 95. Ivi, p. 96. Ivi, p. 97. Ibidem. Ivi, p. 98. Ivi, p. 99. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 100. Ivi, p. 101. Ivi, p. 101. Ivi, p. 102. (404) Ivi, pp. 150-151. Ivi, p. 151. (406) Cfr. C. TIRABASSO, Il cuoco classico: manuale pratico moderno illustrato adatto per Alberghi, Convitti, ed in modo speciale per le Famiglie, a cura di E. H. ERCOLI, Macerata 2008, p. 217. (407) La citazione da Il cuoco classico è qui tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 178. (408) Ivi, p. 185. (409) Ivi, p. 188. (410) Ivi, p. 194. (405) 116 • • 117 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” selvaggina411”, all’ “Arrosto di vitellino da latte412”, ed ancora alla “Lingua di manzo brasata413”, al “Piccione novello all’aurora414” ed al “Piccione ripieno415”, ed infine alla “Lepre arrosto416”. Tornando invece al primo testo, la già citata “Guida in cucina”, il prosciutto crudo assieme a quello cotto costituisce anche assieme a magro di maiale e di vitello, a petto di pollo, tartufo e formaggio grattugiato la farcitura sontuosa per il “Pollo ripieno al forno417”. Spesso il prosciutto identifica anche nella stessa denominazione le ricette, come nelle “bracioline panate al prosciutto418”, il “Burro di prosciutto419”, le “Cotolette al prosciutto420”, i “Crostini di prosciutto421”, gli “Spinaci al prosciutto422”. Nell’ultima opera lasciateci dal Tirabasso, “Le gioie del focolare” (stampato a Roma nel 1959) si leggono poi le istruzioni per le due diverse modalità di salatura per prosciutti e spallette. Così nella procedura a secco: “Si strofinano i prosciutti e le spallette con sale fino (commisto ad un terzo di salnitro, molto pepe macinato, noce moscata grattugiata, cannella in polvere ed anche un po’ di pepe cajenne). Dopo averli strofinati con il commisto salino, si collocano sopra una tavola di legno (concava un po’ pendente in avanti) ricoperta di uno strato di salamoia e traversine di legno, poi si ricoprono generosamente con la salamoia tutti i pezzi da salare. Si lasciano sotto salamoia 3 o 4 settimane (s’intende logicamente per i prosciutti, mentre spallette e capocolli si tolgono una o due settimane prima); rimovendo e rinfrescando la salamoia ogni due o tre giorni. I prosciutti e le spallette vanno messi con la cotica di sotto e devono star sempre ricoperti con la salamoia. Trascorso il periodo di tempo di salagione, si tolgono dalla salamoia e si appendono all’aria libera per qualche giorno. Poi si cospargono di paprika dolce oppure di cenere stacciata, e si mettono (per 15 giorni circa) sotto la cappa del camino, su cui si farà fuoco (a 4 metri di distanza) per qualche ora al giorno, con delle frasche di ginepro o di faggio, o di olivo. Quindi si conservano appesi in un luogo fresco423” Invece per la salatura a soluzione satura, “prosciutti, spallette, capocolli ecc., si mettono in una capace secchia (preferibile che sia di legno) con dei pesi sopra, per evitare che galleggino nella salamoia, in modo che i pezzi da salare vi stiano ben sommersi. Si tengono nella salamoia da 3 o 4 o 5 settimane, secondo al dimensione del pezzo da salare. Trascorso il periodo sufficiente di salagione, si tolgono i pezzi dalla salamoia e si appendono all’aria libera per qualche giorno, poi si ricoprono generosamente di paprica dolce o di cenere stacciata, si mettono per 20 giorni circa sotto la cappa del camino per farli affumicare, bruciando (per qualche ora al giorno) delle frasche di ginepro o di faggio, o di olivo. Poi si conservano appesi in un luogo fresco424”. Con pezzetti di prosciutto viene lardellata anche la “Lepre arrosto425” ed il “Coniglio in umido426”, mentre fette di prosciutto vengono copiosamente impiegate per cucinare portate di cacciagione, come le “Palombe con lenticchia427”, o alla “Beccaccia allo spiedo con crostini428”. Il prosciutto tagliato a dadini, assieme a 400 gr. di carne di maiale fresco, va poi a comporre quel mosaico di sapori e prelibatezze selezionate che struttura un’autentica architettura cucinaria identitaria dell’arte e della cultura gastronomica marchigiana, ossia la “galantina429”. (411) (412) (413) (414) (415) (416) (417) (418) (419) (420) (421) (422) (423) Ivi, p. 203. Ivi, p. 206. Ivi, p. 207. Ivi, p. 208. Ivi, p. 209. Ivi, p. 210. Ivi, p. 165. Ed anche per il “Piccione ripieno (ivi, p. 169). Ivi, p. 123. Ivi, p. 26. Ivi, p. 123. Ivi, p. 28. Ivi, p. 108. C. TIRABASSO, Le gioie del focolare, cit., pp. 235-236. _Ricettari manoscritti del primo Novecento_ E’ interessante prendere poi in considerazione la preziosa documentazione dei ricettari manoscritti borghesi: questi quadernetti ricchi di appunti di cucina raccolgono originali preparazioni assemblate in curiose antologie, dove ogni piatto illustrato è stato attinto dal repertorio di amici, vicini, cuochi di ristoranti disponibili e gourmets più o meno importanti che gravitavano nell’orbita della casa. Questi vademecum cucinari di famiglia rivelano poi oltre ad una certa fantasia ed alla ricerca di soluzioni originali (anche esterofile ed alle moda) la granitica volontà di restare ancorati alle proprie tradizioni, non solo della memoria familiare, ma anche di quella collettiva della propria città e terra, con le sue tipicità e consuetudini, anche e soprattutto gastronomiche e conviviali. Un bellissimo esempio in questo senso è costituito da un ricettario casalingo manoscritto della famiglia Franchi di Ascoli Piceno, dei primi decenni del Novecento: nella “Ricetta dosata dal cav. Silvestri Nazzareno per le olive all’ascolana” si legge come le inconfondibili olive tenere verdi vadano farcite con un ripieno di magro di vitello, maiale e pollo, parmigiano grattugiato, funghi, limone, mosto cotto ed anche “prosciutto nostrano”, il tutto cucinato nel canonico soffritto di cipolla, sedano, carota. Ecco che in questa pagina di casa la ricetta tipica marchigiana forse più celebre al mondo ribadisce con fermezza in questa versione la sua identità locale, dichiarando necessario l’impiego di prosciutto dichiaratamente di produzione locale, di cui si impiega saggiamente sia il magro che il grasso (nel soffritto si usa “lardo di prosciutto macinato”)430. Del resto la presenza del prosciutto nel ripieno succulento di carni ed aromi delle olive all’ascolana è contemplata anche nella variante raccolta dalla signora Enrichetta Antonini, vedova Tombini, cuoca per 62 anni e proprietaria di un noto ristorante ascolano: assieme al prosciutto si macinano carni di maiale e vitello rosolate con carota, sedano cipolla, prezzemolo e “buon vino bianco (mai dolce)”, e poi parmigiano, qualche tartufo, un po’ di brodo, pomodori, ragù, noce moscata, scorza di limone, uova431. Si può a questo punto sottolineare come due antichi ricettari di ambito marchigiano siano in grado di attestare come addirittura due ricette universalmente conosciute come vessilli iden(424) Ivi, p. 236. Ivi, p. 170. (426) Ivi, p. 172. (427) Ivi, p. 174. (428) Ivi, p. 175. (429) Ivi, p. 159. (430) La citazione del ricettario ascolano della famiglia Franchi i è tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, a cura di R. NOVELLI, Ancona 1987, p. 231. (431) Ricetta riportata ne Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, cit., p. 86. (425) 118 • • 119 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” titari della cultura gastronomica regionale facessero impiego del prosciutto tra i loro ingredienti. Oltre al già incontrato testo settecentesco di Antonio Nebbia che impiega il prosciutto per il “princisgras432” (archetipo dei celebri ed ancora attuali “Vincisgrassi”), ora due secoli dopo si raccomanda esplicitamente come debba essere “nostrano” questo medesimo salume da aggiungere alla farcia per una sontuosa ricetta caratteristica se non emblematica del capoluogo Piceno, l’oliva fritta ripiena, universalmente conosciuta come ascolana433. E così ben due orgogli distintivi dell’arte marchigiana di cucina e mensa si fregiano della presenza del prosciutto, certamente quello di produzione locale. Del resto nei ripieni più sontuosi si mettevano ingredienti pregiati, e il prosciutto lo era certamente. Altri ricettari importanti, fonti di preziose informazioni, sono da tempo immemore quelli conservati nei monasteri, da sempre oltre che luoghi di preghiera e meditazione anche luoghi di ricerca e sperimentazione di tutti i saperi, compresi quello agronomici e di ottimizzazione delle risorse tra dispensa e cucina, per imbandire al meglio i pasti nel refettorio, non solo per frati e suore ma anche per i numerosi ospiti accolti ed ospitati. Non stupisce pertanto che nel tempo i luoghi claustrali siano diventati raffinate e celebrate officine del gusto, dove si codificavano squisite ricette, spesso filtrate anche all’esterno e perpetuate all’interno, o attraverso appunti manoscritti di cucina o grazie al mutuarsi di gesti e nozioni tra le generazioni di confratelli e consorelle che si avvicendavano in cucina. Quando la studiosa Sebastiana Papa nel 1978 ha pubblicato il suo libro “La cucina dei monasteri” giunse anche presso le clarisse di Belforte in Chienti, dove la cuciniera suor Maria Francesca raccontò alcuni suoi piatti, preparati da decenni perché disse “sono quarant’anni giusti che prego e cucino e non faccio altro”: tra le sue specialità, che son quindi databili circa dagli anni Quaranta del Novecento, si ricorda appunto un coniglio in porchetta arricchito con prosciutto tagliato a dadini434. camino della cucina di casa). Passata anche la fase dell’asciugatura (variabile a seconda del peso del coscio e delle condizioni climatiche) nel maceratese era consuetudine bagnarlo con acqua e vino variamente aromatizzati, per poi ricoprirlo con pepe nero. Era infine messo a stagionare per circa un anno in locali appositi o anche, nelle famiglie più modeste e nei casolari più umili, agganciato alle travi del camino. I più accorti bruciavano ginepro o altre essenze aromatiche per conferire un’affumicatura profumata (nel maceratese si usavano legni di castagno e faggio), pratica che inoltre tiene a bada la flora microbica patogena (ma anche mosche ed altri parassiti), consentendo una lunga stagionatura che poteva durare anche quattro anni nelle famiglie di campagna più agiate (e non oppresse da limitatezze alimentari o finanziarie tali da costringere a mangiare o vendere il prosciutto il prima possibile). Prima di iniziare ad affettare un prosciutto stagionato a lungo lo si teneva ad ammorbidire in ammollo nel vino rosso. Chi aveva abbondanza di prosciutti oltre a venderli poteva scambiarli con altre merci, in particolare con l’olio, specialmente dove questa risorsa scarseggiava, come nei monti Sibillini, dove transitava per i paesini montani l’ “oliaru”, che con il carretto trainato dal mulo vendeva o barattava con prosciutti il succo della spremitura delle olive dentro otri di montone436. Graziella Picchi, sociologa del mondo rurale, riporta dalle sue indagini sul campo l’episodio di un prosciutto stagionato per ben sette anni, e finalmente affettato tra amici per festeggiare il ritorno di un emigrante dall’America nel 1950437. La stessa studiosa racconta un altro illuminante episodio da lei raccolto, riferibile alla Seconda Guerra Mondiale, con protagonista un poverissimo montanaro della valle di Ussita, sopra il santuario di Macereto. Quando la figlia di quest’uomo si sposò (al ritorno del fidanzato dalla guerra con licenza) il pranzo di nozze fu come di consueto lauto, con pasta casalinga, pollame, cacciagione, la torta portata in dono dai parenti: ma il pezzo forte del banchetto fu il regalo di nozze del povero montanaro, ossia “un piccolo prosciutto, un prosciutto ridotto a niente, servito e mangiato a scaglie, senza pane, accompagnato da piccoli sorsi di vino asprigno”. Il povero padre della sposa aveva infatti all’inizio del fidanzamento preso il suo prosciutto migliore, lo aveva lungamente tenuto a bagno nel vino, e poi spremuto e stirato con il matterello ed infine messo a seccare sotto il camino. Così ricorda il testimone di quel risicato ma fiero e dignitoso banchetto di nozze: “E’ vero che avevo fame, è vero che c’era la guerra e che ormai non c’era più niente che ti potesse soddisfare, ma ti garantisco che quel prosciutto nero, quelle scaglie di prosciutto in bocca erano una cosa divina. Il resto sul tavolo sparì, e non solo per me. Quel prosciutto fu una festa per tutti, fu veramente la festa438”. _La tradizione contadina e le memorie di guerra_ Le memorie e testimonianze raccolte sulla macellazione annuale del maiale secondo la tradizione rurale (ancora viva lungo i decenni del Novecento, ma carica di un’esperienza perpetuata nei secoli senza sostanziali differenze) riportano appunto la cura che si riserva al prosciutto durante la “salata”. Secondo tecnica codificata nel tempo il coscio posteriore, accuratamente ripulito da grasso e carnicci, si premeva con le mani per far uscire ogni eventuale e possibile residuo di sangue dalla vena femorale (per facilitare questa operazione si metteva per una nottata sotto peso o in una morsa), poi veniva ricoperto di sale grosso (in genere una miscela di sale marino, pepe ed aglio), messo sotto peso su un piano inclinato in luogo fresco e ventilato per circa un mese, seguendo scrupolosamente l’accortezza di pressarlo ogni sette – otto giorni, per favorire la fuoriuscita di ogni liquido. Veniva poi lavato con vino bianco, attorno all’osso femorale e dove la carne non era coperta da cotenna, anche eventualmente aromatizzato ancora con pepe al punto giusto435. Poi si metteva ad asciugare in stanze ventilate e calde (o anche semplicemente presso il _Gli anni ’50 del Novecento_ Tornando ad un ambito più prettamente rurale, all’interno dell’indagine condotta negli anni ’50 sulle abitudini alimentari del contadini delle Marche Nord Occidentali (commissionata dall’Istituto Nazionale della Nutrizione del CNR) è stato elaborato uno schema sui singoli pasti nelle varie stagioni, sulla base delle informazioni raccolte sul campo. Stando ad una valutazione media sui cibi consumati nei vari pasti queste famiglie di campagna (tutte generalmente produt- (432) A. NEBBIA, cit., pp. 15, 34, 85, 90 La citazione del ricettario ascolano della famiglia Franchi i è tratta da Le marche in tavola: la tradizione gastronomica regionale, cit., p. 231. (434) S. PAPA, La cucina dei monasteri, Firenze 1978, p. 92. (435) R. CECCARELLI, Come uno di casa..., cit., p. 127. (433) (436) G. PICCHI, Risorse e cibo nella terra delle armonie, Macerata 2003, p. 169. G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, Ancona 2002, pp. 179 - 180. (438) G. PICCHI, C’era una volta un sapore, in Antologia della cucina popolare, a cura di P. ANGELINI - A. C. BALILLA BELTRAME - N. LIPPARONI - G. PICCHI - A. TRECCIOLA – prefazione di C. BARBERIS, Fabriano 1993, p. XXXVIII. (437) 120 • “O SALUMI BENE AMATI” trici di salami, coppe, lonze, salsicce, lardo sotto sale e prosciutto durante la “pista” annuale) consumavano il prosciutto soprattutto di domenica sera in autunno, mentre il salame contraddistingueva le colazioni domenicali in inverno e quelle del martedì in estate439. Nel 1951 l’Ente Provinciale per il Turismo di Ancona dà alle stampe il già incontrato opuscolo “Glorie e vanti della cucina e del vino anconetano”. Il dotto ed appassionato redattore dei testi, che si firma Milton, si sofferma anche sui “magri prosciutti delle terre vicine a Cupra, nervosi, saporiti”440. Nel 1953 lo studioso marchigianista Giovanni Crocioni pubblica un importante saggio di foklore e di tradizioni popolari marchigiane, dedicando un capitolo al patrimonio storico gastronomico; in quest’opera, già precedentemente riportata per l’articolato riferimento alla porchetta, vi è anche tratteggiato un repertorio della salumeria più significativa: “Corrono rinomati nella regione vari salumi: i ciaùscoli o ciabùscoli, specie di salsiccie da mangiare crude, i prosciutti affumicati; i soppressati, salumi di media grandezza, d’impasto morbido e fine; la salsiccia matta di Fano, salsiccia affumicata441”. Le memorie orali raccolte da studi svolti durante il Novecento raccontano spesso dell’importanza strategica della macellazione del maiale, e del conseguente trattamento della pacca (metà della carcassa suina) o anche del porco intero per le famiglie più agiate. Oltre ai rilevamenti di carattere scientifico, antropologico e sociologico, tra le fonti di carattere e derivazione orale sono ugualmente importanti quelle tipologie di testimonianze vive rilasciate come descrizioni “d’autore” da parte di scrittori memorialisti, che seppur con un diverso filtro emotivo e liricheggiante riescono comunque a consegnare documentazioni utili: è il caso ad esempio del libro fotografico, nostalgico ma al tempo stesso realisticamente rievocativo “Ricordi marchigiani: Racconti, immagini, ricette”, di Gianfilippo Centanni, Mario Giacomelli, Rolando Ramoscelli; nel dedicare un capitolo intero alla “Pista” si racconta che “capocolli e prosciutto, accuratamente predisposti, per una settimana avrebbero riposato nella salatura. Quindi, rivestiti quelli di budelli o di carta oleata, e stretti da una maglia di spago, ricoperto l’altro di carta da pacchi (ma si adoperava pure qualche sacco vuoto, di quelli del cemento, logicamente ripuliti) sarebbero stati appesi sotto il camino per l’adeguata affumicatura442”. Tutti comunque, sia i contadini più umili che quelli più agiati, o addirittura i padroni ed i signori, nella settimana della “pista” consumavano con accortezza ciò che l’occasione metteva golosamente a disposizione, ossia cucinando tutti gli scarti residui, dalle costarelle, alle frattaglie, ai fegatelli e zampetti e poi preparando i vari insaccati. Tra i salumi confezionati, se la coppa di testa, le lonze, i salami e le salsicce accomunavano tutti era il prosciutto che costituiva invece una differenziante sociale, perché i contadini più dimessi tendevano a vendere il loro, mentre quelli più agiati ed i signori mettevano i loro in dispensa per assaggiarli a stagione compiuta443. (439) Lo studio in generale ed il prospetto con la tabelle dei vari pasti nella settimana nell’arco delle stagioni è stato elaborato da F. BONASERA, Le abitudini alimentari dei contadini delle Marche Nord Occidentali (1950), <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, pp. 78-79. (440) MILTON, Gloria e vanti della cucina e del vino anconetani, Ancona 1951, pp. 11-12. (441) Ivi, p. 110. Così l’autore sul ciauscolo in una nota: “Ciabùscolo, dalla stessa radice di ciambotto, rospo, al quale molto per la forma assomiglia”. (442) G. CENTANNI, M. GIACOMELLI, R. RAMOSCELLI, Ricordi marchigiani: Racconti, immagini, ricette, Rimini 1993, p. 30. (443) M. CAROFÒLI, L’alimentazione delle famiglie abbienti marchigiane negli anni 20: l’area Miseno - Metaurense, <Pro- “O SALUMI BENE AMATI” • 121 _Il prosciutto marchigiano dagli studi sulle tradizioni rurali e sulla letteratura gastronomica delle Marche dal secondo Novecento ad oggi_ Leonardo Bruni, studioso delle antiche tradizioni alimentari rurali della regione, nel suo testo “Ricette raccontate: Marche” nel compilare l’elenco dei salumi tipici riporta alla voce “prosciutto” la considerazione che nella regione “i migliori prosciutti son quelli di montagna, dove il maiale ha carni migliori sia perché in parte allevato allo stato brado, sia perché si alimenta in prevalenza con ghiande, erbe e frutta selvatiche inoltre il clima freddo ed ascritto, migliora l’invecchiamento444”. Riccardo Ceccarelli, storico ed ex-direttore della biblioteca di Cupramontana, nel già citato testo “Come uno di casa: il suino nelle Marche”, classifica i salumi tradizionali e più celebri della regione e descrive “il prosciutto delle Marche”, riportando come un produttore lo abbia anche connotato come “antica salata”, e enucleandone le caratteristiche (“nervo delle zampe tale da essere appeso, sporgente di almeno quattro dita dall’osso femorale, una punta di salato e il profumo di aglio e pepe, libero dalla cotica445”). Ferruccio Luciani, autore della pubblicazione “I prodotti tradizionali della Regione Marche”, curata dall’Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca della Regione Marche, tra tutte le specialità marchigiane di salumeria dedica un capitolo a “La parte nobile del maiale” in cui menziona appunto il Prosciutto delle Marche, “che attraverso la ripetizione di metodiche collaudate da secoli e tramandate di generazione in generazione è sicuramente uno dei prodotti di punta della norcineria marchigiana446. Nel recente “Marchigiando: dizionario storico della cucina marchigiana”, piccola enciclopedia in dieci volumi sulla storia delle risorse agro-alimentari, della cucina e della convialità nelle Marche, gli autori Ugo Bellesi e Tommaso Lucchetti dedicano naturalmente una voce specifica al “prosciutto marchigiano”447. La grande varietà dei salumi e la loro prelibatezza non debbono farci dimenticare che la civiltà contadina ci ha tramandato una ricca tradizione di piatti preparati con carne suina fresca, che ha un alto valore proteico, è squisita al palato e capace di suscitare emozioni gustative del tutto particolari. Infatti, come già avevano scoperto gli antichi, ogni taglio della carne di maiale ha un suo sapore specifico con caratteristiche organolettiche diverse e quindi si può dire che per ciascuno di essi c’è una ricetta particolare, pressappoco identica in ogni parte del territorio, che ne esalta le migliori qualità per creare sempre un piatto eccellente. Purtroppo alcune tradizioni tramandate per via orale sono andate perdute mentre altre sono giunte fino ai nostri giorni grazie ad alcune preziose opere come l’”Antologia della cucina popolare” edita dalla Comunità montana dell’Esino, “La cucina marchigiana” di Nicla Mazzara Morresi, o come le pubblicazioni di Gianfilippo Centanni e Rolando Ramoscelli, e lo stesso “Marchigiando” pubblicato nel 2007 da poste e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 75. (444) L. BRUNI, Ricette raccontate: Marche, Rimini 1999, pp. 80-81. (445) R. CECCARELLI, Come uno di casa..., cit., p. 146. (446) F. LUCIANI, I prodotti tradizionali della Regione Marche, Ancona 2006, p. 24. (447) U. BELLESI – T. LUCCHETTI, Marchigiando: Dizionario della cucina marchigiana, Bologna 2007, vol. 8, pp. 15-16. 122 • “O SALUMI BENE AMATI” “Il Resto del Carlino”. _Citazioni del prosciutto marchigiano nei repertori di tipicità e nella letteratura gastronomica nazionale dal tardo Novecento a oggi_ Una descrizione specifica del prosciutto regionale è presente nell’elencazione del salumi caratteristici marchigiani presente nel ricettario dedicato a questa regione nella collana sulle tradizioni gastronomiche regionali italiane, curata dal celebre gourmet bolognese Alessandro Molinari Pradelli, “La cucina delle Marche: un’antica tradizione gastronomica fatta di ingredienti semplici e genuini, per apprezzare i sapori sani della cucina di un tempo448. Nel 1984 nel testo “Scienza del maiale: tecniche di allevamento, trasformazione e utilizzazione” il prosciutto marchigiano è elencato tra le eccellenze nazionali nel capitolo dedicato a questa specifica produzione di salumeria449. Nel 1989 lo studioso e gastronomo Riccardo Di Corato nel suo libro “Il prosciutto è servito” dopo la rassegna storica su questo prodotto basilare della tradizione salumiera propone un catalogo descrittivo delle principali tipicità mondiali, dedicando un paragrafo al “Prosciutto delle Marche”: “In questa regione adriatica italiana la tradizione del prosciutto è tuttora molto viva nelle sue produzioni artigianali. Più nessuno però si preoccupa se, per caso, in estate, una lucciola entra in casa: un tempo, secondo antiche credenze, avrebbe mandato a male i prosciutti in maturazione450”. Il Touring Club Italiano nella collana “L’Italia” (delle cosiddette “guide rosse”) segnala nel capitolo “I microclimi gastronomici” del volume dedicato alle Marche la produzione di “ottimi salumi”, menzionando anche i prosciutti, in particolare dell’ascolano451. Nell’edizione 2003 della guida “Il golosario di Paolo Massobrio” il compilatore affida alla pagina d’apertura di ogni singola trattazione regionale una presentazione “d’autore”, con un’intervista a tema ad un personaggio celebre: le Marche vengono così inquadrate da Roberto Mancini, che in riferimento alla sua Jesi, “zona di terra”, ricorda i salumi ed in particolare il suo preferito a ossia “il prosciutto crudo nostrano, più salato rispetto a quello di Parma, i miei sanno ancora trovare i contadini giusti dove poterlo acquistare452”. Sempre nel 2003 Giovanni Ballarini, docente di Veterinaria all’Università di Parma (ma anche studioso di cultura dell’alimentazione ed accademico della Cucina Italiana) pubblica il testo “Piccola storia della grande salumeria italiana” dove stila un elenco dei salumi tradizionali di ogni regione, tra cui naturalmente le Marche, compilando questa lista con un inventario incrociato di quanto censito nel decreto legislativo 173 del 1998. Dall’Atlante dei Salumi curato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, dalle edizioni 1931, 1969, 1984 della “Guida (448) A. MOLINARI PRADELLI, La cucina delle Marche: un’antica tradizione gastronomica fatta di ingredienti semplici e genuini, per apprezzare i sapori sani della cucina di un tempo, Roma 2001, p.28. (449) O. MANETTI – V. TOSONOTTI, Scienza del maiale: tecniche di allevamento, trasformazione e utilizzazione, Milano 1984, p. 113. (450) R. DI CORATO, Il prosciutto è servito, Rimini 1989, pp. 52-53. (451) TOURING CLUB ITALIANO, Marche, Milano 2001, p. 136. (452) Il golosario di Paolo Massobrio 2003; guida alle mille e più cose buone d’Italia con le ricette dei “Piatti dell’Amicizia” di ogni regione d’Italia, Alessandria 2002, p. 153. “O SALUMI BENE AMATI” • 123 all’Italia gastronomica” del Touring Club Italiano; tra i prodotti citati non manca naturalmente il “Prosciutto delle Marche453”. Nella sua recente “garzantina” (dizionario enciclopedico in un volume) del 2005, il celebre “gastronauta” Gabriele Paolini nella scheda dedicata alla voce generica “Prosciutto”, nella localizzazione di produzione scrive “Tutta l’Italia in particolare Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche, Lazio, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria454”; si identifica così il prosciutto marchigiano tra le eccellenze produttive italiane. _Il nuovo millennio e la nuova comunicazione: la diffusione del prosciutto marchigiano come prodotto valorizzato e commercializzato su Internet_ Ormai il prosciutto cosiddetto delle Marche o marchigiano è pertanto entrato non solo nel repertorio delle tipicità più apprezzate ma anche nello stesso lessico e nella comune terminologia per tutti gli operatori e cultori della cultura gastronomica regionale. Da questo punto di vista ormai un’indagine anche solo rapida e superficiale su Internet attraverso i motori di ricerca più comuni rivela come questo salume da quasi un decennio ricorra in citazioni assai eterogenee ma tutte molto significative. Stando appunto al “web”, formidabile specchio della realtà attuale, molti siti di commercializzazione delle tipicità gastronomiche ne parlano comunemente, non solo da parte di produttori locali ma anche per conto di agenzie di vendita on line non marchigiane, ma che conoscono e riconoscono la peculiarità di questa produzione, elemento di continuità di una sapiente tradizione ormai plurisecolare. Il sito di un’importante casa editrice, fondata Luigi Veronelli, uno dei più illustri cantori italiani del vino e delle gioie della mensa nel territorio nazionale, riporta tra le “informazioni promozionali” di un ristorante vicino a Gradara con“menù a base di carni scelte e selezionate”, “la pasta fatta in casa come il pane”, e gli antipasti che comprendono appunto “tra gli affettati misti, un prosciutto marchigiano e il lombo cotennato, involtini di verza al tartufo, frittatine e crostini vari, con formaggi tipici tipo la Casciotta d’urbino o il formaggio di fossa”455. Del resto su Internet è anche consultabile il significativo disciplinare della ristorazione tradizionale marchigiana, che presenta elenchi per tipologie di ricette ed alimenti che possono garantire quel carattere di peculiarità locale: ed appunto tra gli antipasti vengono citati e segnalati il “prosciutto marchigiano”, la “lonza o capocollo”, il “lonzino” (chiamato anche “Lonzino della contadina” oppure “lonzino o capolombo”), il “salame lardellato” (ed anche il “salame tipo Fabriano”). Non mancano pertanto tra le sterminate pagine dedicate alle più svariate offerte di esercizi diversi esempi di proposte di ristorazione che si richiamano a questo disciplinare: si più citare in proposito, a puro ed assolutamente non esaustivo titolo esemplificativo, la segnalazione di un menù in data 8 dicembre 2006 per un agriturismo di Senigallia, che ha proposto tra gli antipasti appunto il “Prosciutto Marchigiano” e il “Salame Lardellato”, oltre ad una “Zuppetta di Cicer(453) (454) (455) G. BALLARINI, Piccola storia della grande salumeria italiana, Milano 2003, p. 156. D. PAOLINI, L’universale: prodotti tipici d’Italia, Milano 2005, p. 232 . www.veronelli.it. 124 • • 125 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” chia”456. Non mancano anche le segnalazioni fuori regione: in proposito è stata qui rintracciata la nota di alcuni gastronauti che riportano di aver ad esempio assaporato del “prosciutto marchigiano” in un’osteria in provincia di Teramo457. E’ questa una delle tante possibili citazioni in grado di attestare le sensibilità e le ricerche di quel movimento turistico a vocazione enogastronomica, ormai universalmente riconosciuto e quindi blandito dalle amministrazioni e dagli operatori, che sanno ormai di dover promuovere le tipicità storiche alimentari con lo stesso metodo e la medesima intensità riservata a tutte le altre tipologie di beni culturali. Del resto il fatto che la produzione agroalimentare tradizionale, codificabile come eredità storica e gastronomica tipica ed identificativa della cultura di un territorio, appartenga ormai al patrimonio da promuovere con sensibilità e cognizione di causa assieme a tutti gli altri tesori monumentali del passato, e una consapevolezza che ricorre in molti articoli sul web. Si può citare in proposito un articolo dove si relaziona di un incontro pubblico nel quale il sindaco di Falerone Massimo Bertucci nel sottolineare anche sul piano normativo la necessità delle “attività di valorizzazione e fruizione indispensabili per lo sviluppo del territorio”, ha riferito delle esperienze messe a punto dalla sua amministrazioni comunale, citando “la valorizzazione del Parco archeologico di Falerio Picenus, l’anfiteatro e il Teatro romano, dotato di circa 1600 posti con una stagione ormai consolidata e di prestigio nel periodo Luglio-Agosto”, e quindi la “Rassegna musicale di Autori Marchigiani” con il Festival musicale del Piceno di fine Agosto”, “il Presepe vivente nella Zona archeologica”, e soprattutto “attenti al processo di democratizzazione della cultura, che ha superato la distinzione tra cultura alta e cultura bassa”, la promozione di vini D.O.C. e di “prodotti tipici come il Falerno Picenus con le olive del Piantone di Falerone, il dolce natalizio Lu serpe”, ed anche appunto “il prosciutto marchigiano458”. In proposito va assolutamente citata un’altra iniziativa promossa anche da Internet, ossia “Enogastronomia tipica e piccoli Musei nella provincia di Ancona” , tenutasi nei giorni 17, 18, 19 Novembre 2006 in occasione delle Giornate dei prodotti D.O.P. e I.G.P., con la collaborazione di “alcune aziende agrituristiche” per “un weekend all’insegna della cultura rurale”. Come ha segnalato ad esempio il sito ”agriturist.it” si è trattato di una “degustazione di menù a base di prodotti tipici e tradizionali, accompagnati da vini D.O.C.”, quindi “Casciotta d’Urbino (DOP), Oliva Tenera Ascolana del Piceno (DOP), Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale (IGP)”, oltre ad altri “prodotti in attesa di riconoscimento” tra cui appunto “la Coppa di Testa, il Salame Lardellato, la Goletta, il Prosciutto delle Marche”, e la visita abbinata ad aziende vitivinicole e “ad alcuni piccoli musei come il Museo di Storia della Mezzadria (Senigallia), Museo delle arti monastiche “Le stanze del tempo sospeso” (Serra de’ Conti), Museo del Biroccio (Filottrano), Museo Utensila (Morro d’Alba)459”. Del prosciutto marchigiano e di altre tipicità della salumeria storica regionale si parla ormai anche nel riportare tutte le iniziative ed i progetti a carattere normativo condotti dalle associazioni di categoria. E’ il caso ad esempio di una lettera che le Organizzazioni dei produttori zootecnici Marchigiani hanno scritto nel 2004 all’allora ministro delle risorse agricole Gianni Alemanno in come riportato tra gli altri dal notiziario on line sull’attualità marchigiana “GoMarche.it”: “La valorizzazione di tali produzioni, secondo i Produttori Marchigiani, passa prioritariamente attraverso il riconoscimento di Denominazioni di Origine Protetta (DOP) per i prodotti di eccellenza che tradizionalmente il territorio marchigiano esprime ed in particolare per il settore suino, quali il Salame Fabriano, Il Salame Lardellato, Il Ciauscolo e il Prosciutto Marchigiano. Prodotti questi oggi di “nicchia” ma apprezzati da anni da un vasto numero di estimatori in tutta Europa460”. (456) (457) (458) (459) ://xoomer.alice.it/ternyeagle/img/styles/papavero.htm. Dal sito www.buonipasto.it. Articolo di Maurizio Temperini (gruppo MEIC Fermo-Porto San Giorgio), dal sito www.informazione.it. www.agriturist.it. (460) net. www.gomarche.it, 4 dicembre 2004, Marche gli allevatori scelgono l’OGM free; riportato anche dal sito www.greenplanet. “O SALUMI BENE AMATI” • 127 Cenni storici sul SALAME: storia di un orgoglio marchigiano Il salame è forse l’insaccato per antonomasia, quello che reca in sé la radice stessa della categoria alimentare “salumi”, ossia il sale che preserva e mantiene nel tempo la gustosa e grassa carne del maiale, da sempre emblema di succulenta sapidità. L’indagine storica dimostra come anche la cultura gastronomica e conviviale delle Marche abbia sempre riconosciuto un ruolo significativo a questa produzione di norcineria, e pertanto diverse tipologie di fonti e documentazioni ne attestano la presenza radicata attraverso i secoli, in particolare del salame cosiddetto lardellato, con il rosso del “magro” trapunto (o sarebbe meglio dire “commesso a mosaico”) con tanti quadratini di grasso tagliati ad arte. _Il salame in banchetti e mense umili e signorili nelle Marche del Seicento_ Si è già avuto occasione di citare l’arrivo in Ancona nel 1613 della Granduchessa di Toscana, con cerimoniale di accoglienza che naturalmente contemplava l’obbligo protocollare di imbandire un grande banchetto in onore, di questa illustre ospite e del suo numeroso seguito. Monsignor Domenico Marini, Commissario Apostolico delegato al viaggio della Granduchessa di Toscana nello Stato Pontificio, scrisse al Governatore di Ancona alcune istruzioni per il banchetto del corteo di rango inferiore che accompagnava la nobildonna, raccomandando come si è visto che “le dette Genti trovino pane, vino, casito [formaggio], presiutto, salami, e che in cucina separata si cuochino doi gran caldari, uno di carne vaccina e vitella grossa di libre 300 circa e l’altro di minestra, cioè e riso e macarini [maccheroncini lunghi tipo capellini] o taglierini o altra cosa simile, la qual cosa si distribuisce in piatti grandi nel detto tinello, dove anco, per qualche persona più di conto, ci potrà essere un poco di arosto di vitello sino a 50 libre […]”461. Il salame assieme al prosciutto veniva imbandito ad una mensa di secondo livello come cibo di immediato conforto, già affettato ed apparecchiato sulle tavole per le duecento persone al seguito. Nelle dimore aristocratiche le consuetudini conviviali del resto si contraddistinguevano anche per apparati ornamentali e rituali precisi nel servizio, ben codificati dall’etichetta. Ad esempio quando nelle imbandigioni dei banchetti più sontuosi ed articolati compariva il salame, esso andava servito con certo riguardo nei confronti dei convitati più eminenti, di specchiata ed assoluta nobiltà. Vi era una ritualità precisa nel proporlo, affidandone la pratica minuziosa di affettarlo e sporzionarlo all’arte cerimoniale del trinciante, servitore altamente qualificato che trasformava in maestria coreografica da giocoliere il mero gesto di tagliare cibi e carne (servizio comunque sempre delicato e solenne, anche perché originariamente era una forma di controllo per proteggere da avvelenamenti e contraffazioni in genere delle pietanze). Si legge ad esempio nel “Libro del trinciante” di Vincenzo Cervio (pubblicato nel 1591 da Reale Fusoritto da Narni, ma poi ristampato per tutto il Seicento, allegato al famosissimo ricettario di Bartolomeo Scappi) le is(461) Biblioteca Comunale di Ancona, C. ALBERTINI, Storia di Ancona, MS, c. ; cfr. T. LUCCHETTI, L’arte conviviale nelle Marche centrale del Seicento: cultura e società nelle pratiche della cucina e del banchetto, <Le Marche: Folkore-Religiosità>, V, 2002. 128 • • 129 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” truzioni su “Come si trincia un salame”: “Delli salami ve ne sono di più sorti, quali si fanno di carne di porco et altra carne investiti nelle budelle di bove, o di porco; et alcuni chiamano Mortadelle, cioè con l’empiture di golle, ò di altra carne integra; e questa sorta di salami sogliono essere molli, e pieni di sugo, e per la sua grassezza non si potrebbero tenere sopra la forcina, perché nel trinciarli si romperebbono e cascherebbono dalla forcina. Adunque questa sorti di salami si deve lassar stare nel piatto ponendo li branchi della forcina sopra essi per tenerli più fermi; e con il coltello ne taglierai le fette sottili, facendole cadere nelli tondi che tu haurai sopra la mano. L’altra sorta di salami si chiamano salsiccioni bolognesi, grossi, e pieni di carne battuta, duri di sorte, che a gran fatica si possono imbroccare nella forcina; Volendo adunque trinciare uno di questi, tu piglierai la forcina grande et il coltello mezzano, et il salsiccione da l’uno de capi; e se sarà troppo grosso tu lo taglierai nel mezo à traverso. Dipoi tu imbroccherai una delle due parti, e quella leverai in alto, levandone prima quella scorza di sopra, tanto che tu scopri tutto il buono del salame, dipo con il taglio del coltello verso di te, ne taglierai fette sottili, facendole cadere nel mezzo del tondo che tu haurai sotto la mano, e di quello ne farai tante parti, quante à te piacerà girando sempre la forcina intorno per accommodare il salame al taglio del coltello; et il simile farai de ogni altra sorte di salami462”. E’ interessante in proposito notare anche cosa scrive in proposito lo scalco e maestro d’arte conviviale Antonio Frugoli, tra l’altro gran cerimoniere di banchetti in un’occasione anche a Fermo; nelle pagine del suo trattato “Pratica e scalcaria” dedicate al lavoro del trinciante alle prese con il taglio di un salame (per lui preferibilmente di montagna) si legge che dopo aver cotto l’insaccato “in vino e partito [diviso] per metà e servito con verdura sotto”, esso andrà trinciato impiegando “Forcina e Coltello conforme la grandezza del salame”, e poi “Imbroccato dalla parte della scorza”, tagliandone poi “una o due fette sottili per tondo con il taglio del coltello verso di sé”463. Certo solo l’aristocrazia poteva concedersi il lusso di un trinciante che affettasse appunto il salame con maestria funambolica, tenendolo in aria con destrezza e levigando via ad arte la pellicola dell’insaccatura per poi fendere la polpa ricavandone tante fettine per ogni piccolo piatto (tondino) di ciascun commensale. Per sottolineare ancora una volta una certa trasversalità sociale nel consumo dei salumi, a riprova della loro diffusione e di un lungo radicamento nella cultura alimentare marchigiana attraverso i secoli, si può riscontrare la presenza congiunta di prosciutto e salame in una documentazione di natura assolutamente opposta ad un banchetto di dame e signori, ossia il vitto offerto nel refettorio di un orfanotrofio. Si tratta del già citato istituto per orfane anticamente presente a Macerata, fondato da Vincenzo Berardi, figura nota di benefattore nella storia della città464. Nella “Regola” di questo orfano- trofio si riesce a conoscere la struttura complessiva dell’approvvigionamento e della cucina, oltre al valore simbolico ed educativo riconosciuto al cibo come strumento per educare e formare le bambine (e renderle purtroppo anche tristemente e cinicamente consapevoli della loro condizione). Il vitto era fisso, articolato in un rigido schema settimanale che fissava determinati cibi e pietanze per ogni giorno della settimana: ad esempio la domenica si servivano tagliolini e carne lessa a pranzo ed a cena prosciutto, mentre il salame compariva a tavola il giovedì sera, e la voce generica “salumi” era prescritta per i pranzi di mercoledì e sabato e per la cena di Venerdì (anche se in quel caso era molto probabile che si trattasse di conserve ittiche sotto sale, stoccafisso, sardelle, aringhe ecc.). Gli insaccati suini ed in particolare il salame ed il prosciutto figurano pertanto nel regime alimentare di questo orfanotrofio, ribadendo il carattere anche umile o comunque ordinario di questa tipologia di cibi. Erano anche stabilite le dosi pro capite degli alimenti e nello specifico il salame a disposizione era di una libbra [gr.333] per 12 bocche465”. Cibo rustico ma comunque certamente ghiotto e succulento, presente ed apprezzato sia nelle mense aristocratiche che in quelle più povere, il salame restava comunque un alimento diffuso e la sua presenza negli antichi elenchi delle cibarie in commercio di diversi centri abitati lo dimostra. Nel 1653 a Corinaldo tra i sette registrini relativi alla gabella della carne, tassa riscossa dall’esattore G. B. Bartoli, il “Libro della carne fatto da Cesare Tirelli per i salami” è una documentazione preziosa per ribadire l’importanza di questa tipologia di insaccati466 .Qualche decennio dopo, alla fine del XVII secolo, un giù citato documento datato al 1696 (conservato all’Archivio di Stato di Macerata) riferisce i prezzi, a Belforte sul Chienti di molti prodotti di derivazione suina, tra cui appunto salame, prosciutto, lardo, strutto, lonza, ciauscolo467. Tre anni dopo nel 1699 i salumi figurano ancora nelle liste di due pranzi, in particolare di pasti serviti ad alcuni ospiti nella casa della nobile famiglia jesina dei Vespucci durante una circostanza luttuosa; le carte di famiglia registrano infatti le pietanze offerte a parenti venuti in casa da lontano a portare il loro cordoglio: (462) V. CERVIO, cit, p. 58. A. FRUGOLI, Pratica e scalcaria, Roma 1638, Libro VIII, pp. 36-37. (464) Regola / delle Orfanelle Berarde / descritta per ordine / dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor / Cardinal d’Ascoli Vescovo / di Macerata / dal Reverendo Padre Don Doroteo Panicario / Barnabita / Penitenziero nella Cattedrale / di Macerata / In Macerata MDCXXXVI / Appresso Agostino Ansovini. / Con licenza de’ Signori Superiori. Una regola dell’orfanotrofio fu scritta già nel 1626 dal sanseverinate Ganimede Panfilo, ma evidentemente furono ritenute inadatte (L. PACI, La “Regola delle Orfanelle Berarde” del 1636, <Studi maceratese>, 29, 1993, p. 312). Sulla vita di Vincenzo Berardi, la storia della sua famiglia, il suo ruolo di esponente della “Riforma cattolica”, e le attività caritative da lui promosse nella Macerata si veda la stessa fonte (pp. 306-311). (463) “Nota delli Pasti fatti dalli parenti nella morte del S. Card. Ludovico, 1699”: “Pranzo fatto il p.° Giorno dal S. Gentiluccio Rocchi” Un antipasto di salame e Prosciutto Quattro Pollastri alessi in suo stufato Un Polpettone Quattro Pollastri suffocati Piccioni arrosto n.° 6 Frutti Pane e vino468” Ed ancora un altro pasto simile: “Pranzo fatto dal S. Attilio Guglielmi il 2° giorno Un antipasto di salami e prosciutto (465) Ibidem. ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI CORINALDO, Gabella della carne, b. 1, 1653; C. GIACOBINI, L’archivio del Comune di Corinaldo: Antico Regime e Aggregati, coordinamento scientifico M.MEI, Milano 1998, p. 372. (467) M. G. PANCALDI, cit., p. 156. (468) Biblioteca Comunale di Jesi, Archivio Colocci Vespucci, Memorie e affari, domestici, n. 4. (466) 130 • “O SALUMI BENE AMATI” Quattro pollastri e minestra d’ovi Un Piatto d’Indivia ripiena Quatro Pollastri sul tagame Piccioni arrosto n.° 6 Frutti, vino e pane469” Si tratta di due pranzi non particolarmente ricercati (ad esempio privi del dolce conclusivo) ma sicuramente decisamente abbondanti e ricchi per il cospicuo numero di piatti di carne. Soprattutto può incuriosire l’inizio, affidato ad un piatto d’antipasto con affettati, con appunto il salame ed il prosciutto, oggi comunemente definito “all’italiana”. _Citazioni del salame tra prezziari, ricette, note di casa e banchetti nel Settecento_ Durante il Settecento a Macerata in occasione dei passaggi degli eserciti austriaci la cittadinanza dovette offrire un tripudio di carne, ossia manzo, vitello, castrato, agnello, capretto, capponi, galline, ma anche prosciutto, salame, lardo, strutto, lonza, ciauscolo, così come documentato nei volumi (ben settantotto) raggruppati sotto il titolo “spese per il passaggio delle truppe estere”470. Del resto il salame continuava a figurare tra i generi commestibili più comuni nei tariffari, prezzari o calmieri, assieme alle altre voci sulla carne suina (salsiccia fine, carne senz’osso, carne con osso, prosciutto, porchetta, quest’ultima molto smerciata come cibo da strada durante le fiere ed i giorni di mercato), come ad esempio è documentato negli anni dal 1733 al 1770 a Cupramontana, dove tra Carlo Magini. Tavola apparecchiata, (Fano, 1720 - 1806), Bergamo, Collezione Sangalli. l’altro si era stabilito che nessuno potesse aprire “bottega di carne fresca porcina”, poiché l’esclusiva a riguardo era stata riservata al gestore del pubblico macello dalla Sagra Consulta471. Ad Ancona gli archivi gentilizi riportano molti conti annuali di pagamenti ai norcini ed inventari conclusivi della “pista” domestica. Ad esempio nel 1729 nell’inventario di casa Troili tra la “carne salata di fresco” si contano 50 salami, stimati al prezzo di due baiocchi e mezzo (oltre a oltre a prosciutti, lardi, golette, panzette, lonze e ciauscoli)472 . O ancora nell’inventario di dispensa di palazzo Trionfi nel 1744 risultano 69 salami (oltre a 5 prosciutti, 21 lardi, 18 ventresche, 19 coppe di casa, 69 salami, 250 ciauscoli, e 16 mortadelle di Bologna)473. (469) Ibidem. M. G. PANCALDI, cit., p. 155. (471) R. CECCARELLI, La cucina tradizionale di Cupra Montana, Cupra Montana 1994, p. 9. (472) Archivio Nembrini Gonzaga, (Fondo Troili). Testamento ed inventario de beni del Conte Gio. Battista Troili. A rogito del notaio Angelo Bonvini in data 23 gennaio 1729, Ms; cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 373. (473) Archivio di Staro di Ancona, Archivio Storico Comunale, notaio Giovanni Giuseppe Ricci – Eredità Trionfi, n. 2651, c. 67; cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 412, nota 54. (470) “O SALUMI BENE AMATI” • 131 Una medesima tipologia di documentazione è una carta manoscritta di un archivio gentilizio privato che registra la “Nota della salata del 1771”: Domenico Fedeli, che firma come “salvato” questo inventario il 19 gennaio del 1771, annota come dal computo iniziale delle nove pacche di suino si siano ricavati oltre “ad una mortadella”, diverso strutto, svariate “salgiccie” e “ciauscoli” ben 15 coppie di “salalami” (sic)474. Nel 1745 ad Urbania i padri Caracciolini per la festa di Santa Croce imbandirono un sontuoso banchetto con 4 capponi, una libbra e nove once di salame, 20 libbre di carne vaccina, otto paia di piccioni, 120 uova, due capretti e due agnelli; si trattava davvero di un convito degno di nobili475. E tornando appunto ai palazzi signorili dell’aristocrazia è doveroso un riferimento all’importante testo di cucina pubblicato nelle Marche in più edizioni dal 1779 al 1786 (e poi ristampato più volte nel corso dell’Ottocento). Infatti Antonio Nebbia, autore del celebre ricettario “Il Cuoco Maceratese”, dedica alcune pagine a come imbandire la tavola proponendo un modello di servizio per un banchetto: nella prima portata, sulla mensa apparecchiata, campeggia in mezzo il centrotavola o “desser”, fiancheggiato ai lati da due saliere, ed attorniato da alcune pietanze sistemate dai camerieri e credenzieri con gusto e criterio simmetrico, mettendo ad esempio contrapposte a fronteggiarsi due terrine con zuppe di colori diversi (rossa e bianca) e due “tondini” (piccoli piatti) con appunto alcuni affettati, in uno “Lonza cotta al fieno e prosciutto” nell’altro salame e cotechini476. _Il salame: citazioni iconografiche nei dipinti di nature morte_ Dall’arte effimera degli apparati conviviali, con portate ornamentali e stoviglie preziose ed adornate, viene naturale considerare come un’altra documentazione interessante e preziosa sul salame possa essere quella iconografica: nel repertorio artistico regionale settecentesco si notano infatti alcuni dipinti di nature morte che testimoniano vividamente le cibarie e le stoviglie della mensa in quell’epoca. Maestro nel genere dei quadri con tavole imbandite è certamente l’ormai noto pittore fanese Carlo Magini (1720-1806), autore ad esempio di una “Tavola apparecchiata” (tela conservata alla Collezione Sangalli di Bergamo), dove sull’estrema sinistra davanti ad una pentola in coccio grezzo incoperchiata (simile alle terrecotte da fuoco che ancora si producono a Fratte Rosa, sempre nel pesarese lungo la Valle del CeMonogrammista “I Z”. Natura mora con cestodi pane, salame e uva. Olio su tela. Fano, Pinacoteca Civica. sano) si vede un piatto in ceramica bianca con fette di salumi disposte ad arte, tra cui lunghe listarelle di prosciutto, fette di lonza e tre fette di salame lardellato. Al Museo Civico di Fano è invece (474) (475) (476) Archivio privato collezione Michele Monti ad Osimo miscellanea di carte varie. Cfr. C. LEONARDI, La mensa nel seminario di Urbania tra Settecento e Novecento, cit., p. 27. A. NEBBIA, cit., p. 139. 132 • • 133 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” sorprendente la “Natura morta con cesto di pane, salame ed uva” (attribuita al Monogrammista “I Z” e datata agli inizi del Settecento) dove l’insaccato, con accanto due fette già tagliate, è raffigurato su un piatto di peltro in sezione, cosicché tra la polpa rossa di magro si vedono nitidamente in dettaglio i lardelli e gli acini di pepe interi477. aristocratica verso un cibo da sempre schiettamente popolare come il salame. In quello stesso anno (1797) della beata villeggiatura di Liverotto Ferretti e della sua famiglia questi erano i prezzi nella città di Ancona (al mese di giugno) delle ghiottonerie di derivazione suina da loro assaporate in vacanza: il lardo e la panzetta costavano otto baiocchi per libbra, lo strutto ed il prosciutto venivano 9 baiocchi per la stessa quantità, ed infine il salame era pagato più di tutti, ben 12 quattrini, per il valore della manifattura ma anche a riprova forse di un pregio ed un apprezzamento sempre maggiore di quest’ultimo insaccato nelle tradizionali e sopraffine varianti lardellate, che evidentemente già all’epoca erano un vanto della terra marchigiana481. Erano quelli anche anni agitati per le terre marchigiane invase: nel febbraio 1799 a Massaccio (Cupra Montana) per rifornire le truppe di stanza ad Ancona e Jesi ed altre colonne mobili di altri paesi di passaggio la comunità dovette offrire salami e “ciabuschi” (ciauscoli)482. _L’ultimo decennio del Settecento: calmieri, note di dispensa, ed un poemetto_ E’ così emersa l’importanza costante di questa produzione suina, da sempre ampiamente commercializzata, come attestano molti antichi tariffari e liste di prezzi, dove figura moltissime volte come il salume suino più costoso ed apprezzato. Ad esempio nel 1790 ad Ancona il salame costava alla libbra 45 quattrini, che aumentavano a 50 qualora lo si volesse comprare cotto (sempre alla libbra la “salsiccia fina” veniva 26 quattrini, quella di fegato 22, il ciauscolo 22 da crudo e 26 da cotto, la salsiccia di fegato 22, la lonza 20, 22 la carne spolpata nel prosciutto ed i lombetti, 18 i ciarimboli, 25 il lardo, mentre cotiche, testa e zampe si pagavano, sempre alla libbra, dodici quattrini da crudo e 16 da cotte478). Un esempio di suo consumo signorile è attestato dal “Libro delle spese di cibaria per casa di sua eccellenza cavaliere Guglielmi, castellano di Ancona”: in questo registro di acquisti alimentari, sopravvissuto al tempo, si annotano pertanto le compere in cibarie dell’eminente famiglia dei Guglielmi dal 1790 al 1792. I salumi ricorrono tra i loro acquisti: ad esempio al giorno 7 di maggio 1790 si registra, in un’unica voce, l’acquisto di “presciutto e sallame”479. Sul consumo aristocratico dei salumi si ha anche la già citata descrizione relativa alla classica douceur de vivre settecentesca di un signorotto anconetano, il conte Liverotto Ferretti: esiste infatti, come già visto l’ameno racconto di una sua villeggiatura scritto da un compiacente poeta della sua corte, Antonio Mondaini, il quale in un’apposita composizione in versi ci ha tramandato molti sapidi dettagli di questa scampagnata. Questo poemetto giocoso rende davvero l’impressione che i familiari e l’intera compagnia del conte, lontani dai lacciuoli formali dell’ingessata convivialità cittadina, prediligano mangiare cibi di carattere marcatamente più rustico e deciso, sicuramente diversi dalle lussuose ed elaborate pietanze convenzionali di una certa nobiltà (per loro abituali nell’ordinario soggiorno cittadino). In questo racconto sullo svago campagnolo dei signori Ferretti il carattere compiaciutamente frugale dei pasti è ulteriormente accentuato nei particolari descritti di una gita ad Osimo (compiuta in biroccio e non in carrozza): ad un certo punto i villeggianti mangiano di gusto le provviste portate dalla cucina della villa: “Già è l’un’ora alla francese / Che ne invita al desinare / L’appetito al sommo fervido / Era stanco di aspettare / Perciò senza complimenti / Se ne preser cura i denti. / V’era roba in abbondanza / Del prosciutto e del salame, / Una zuppa assai approposito / Per guarirsi dalla fame, / Lesso, un umido assai grato, / E un arrosto prelibato480”. E’ un ulteriore evidente prova della passione anche (477) L’anima e le cose..., cit., p. 160. (478) P. GIANGIACOMI, Storia di Ancona dalla sua fondazione ai giorni nostri, Ancona 1923, pp. 158 – 159. (479) Biblioteca Planettiana di Jesi, Archivio Guglielmi, Libro delle spese di cibaria per casa di sua eccellenza cavaliere Guglielmi, castellano di Ancona, carte non numerate. (480) Il poemetto di A. MONDAINI, Villeggiatura all’Angelo nell’autunno del 1797, è stato trascritto e pubblicato integralmente da F. M. GIOCHI (La vita in villa di un patrizio Anconitano del XVIII secolo: Liverotto Ferretti e la villeggiatura dell’Angelo nell’autunno del 1797, Recanati, 1994, p. 41). _Trattati e resconti agronomici di inizio Ottocento_ Agli inizi del secolo successivo nel trattato di agronomia “Il Dottore della Villa” dell’abate di Monsano Angelantonio Rastelli, stampato a Jesi nel 1808, nel capitolo dedicato alla carne suina si spiegano i tempi di salagione, e si specifica come “Colla carne del majale potrete formare salami, ciauscoli, salsicciotti pestandola bene, e salandola alla dose di tre oncie di sale per ogni dieci libre di carne pesta; il pepe poi a giudizio. Dopo fatti, e sfumati si tengono in luogo fresco specialmente la state, acciò si mantengano morbidi, e non rancidiscano483”. I già citati “Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia” compilati da Filippo Re nel 1811 attestano come del resto la suinicoltura fosse una risorsa determinante nel Dipartimento del Metauro: riguardo ai “porci” si legge infatti “Se ne provvede abbondantemente tutta la popolazione; e siccome il numero di questi animali è assai grande, si può dire che questo è il ramo di commercio più esteso che facciasi nel dipartimento; quasi tutt’i majali che si vedono lavorati in salumi nello stato Veneto, Ferrarese ed in Roma, vengono tutti da questo dipartimento, quantunque il modo con cui si nutrono non sia il più felice484”. L’autore prosegue poi ad elencare i salumi, e pur ammettendo la loro mancanza di “fama assoluta” riconosce la peculiarità della porchetta, ammette la constatazione che “i prosciutti sarebbero eccellenti se li sapessero tagliare come si pratica a San Daniele nel Friuli, e soprattutto afferma che “si fabbricano però delle mortadelle che non la cedono in bontà a quelle di Bologna, e le salsicce a quelle di Mantova485”. E riguardo a questa affermazione sulla mortadella va fatta una riflessione considerando cosa si intendesse effettivamente con questa denominazione: stando ad una tradizione antica si associava a questa preparazione il concetto del mortaio e quindi del pestare, tritare e macinare. Probabilmente più che della mortadella vera e propria l’autore intendeva un salume di altro genere: viene in soccorso a questo punto una tipologia di documentazione preziosa come un ricettario di cucina stampato nelle Marche circa due decenni dopo queste affermazioni di Re, come si vedrà più avanti. (481) P. GIANGIACOMI, cit., p. 165. Biblioteca Comunale di Cupra Montana, Archivio Storico Comunale di Cupra Montana, Contabilità dell’edile 1798 –1799, 11 ventoso anno VII, ; cfr. R. CECCARELLI, Come uno di casa..., cit., p. 110. (483) A. RASTELLI, Il dottore della villa…, cit. p. 125. (484) F. RE, Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia compilati dal cav. Filippo Re, prof. d’agraria nella R, Univ, di Bologna, contenenti fatti, osservazioni e memorie sopra tutte le parti dell’economia campestre, Milano 1811, tomo IX, p. 161. (485) Ivi, p. 162. (482) 134 • “O SALUMI BENE AMATI” _Ancona nell’Ottocento: prezzi ed un ricettario manoscritto_ Nel 1800 lo stesso Liverotto Ferretti, visto prima come gaudente villeggiante con scorpacciate di salame e prosciutto, viene nominato in Ancona presidente della Reggenza Comunale, e come tale firma i bandi e gli editti che regolamentano il commercio e fissano i prezzi dei principali generi commestibili, che vengono ritoccati “a ragguaglio e proporzione del ribasso della moneta plateale mista d’argento e rame e rispettivamente dall’altra di rame in conformità dell’editto imperiale486”: la carne porcina con osso, che aveva il prezzo di nove baiocchi per ogni libbra cala ad 8, le salsicce da 11 bajocchi passano a 8, il lardo e la sugna da 9 a sei come anche il ciauscolo e la panzetta, lo strutto da 13 si abbassa a 10, ed il salame resta il più costoso in assoluto da 16 a 12, mentre i ciarimboli restano i più economici scendendo da 5 a 3 come anche la testa e gli zampi, mentre le costarelle da 7 arrivano a 4 baiocchi, ed infine le cotiche si pagano 5 baiocchi anziché otto487. Al 1801 è datata la già citata ricevuta del lavoro svolto da tale Giovanni Gili, norcino (o “mazzarino” o “pistarino” secondo le più svariare sfumature dialettali marchigiane) presso casa Bonarelli a Sappanico, piccolo castello ora frazione di Ancona. Questo rendiconto, datato 25 febbraio 1801, è appunto qualificato come “Lavoro fatto da me Giovanni Gili al Sig.e Conte Pietro Bonarelli dela Colonna di Carne Porcina”; segue l’elenco delle produzioni, a partire da “cinque Pache salate” per arrivare appunto al 132 libbre di salami, oltre a cotechini (45 libbre), ciauscoli (41 libbre), salsicce (8 libbre), ed otto coppe. L’importanza dell’allevamento suino e del suo consumo di carne rimanevano decisamente significativi: ad Ancona nel 1812 entrarono 2272 maiali, mentre le vacche ed i tori erano 1578, i bovi ed i manzi 1006, i manzetti 955, i vitelli 335, e ben 9417 erano i montoni e gli agnelli dal peso superiore a 12 libbre; dai capi suini si ricavarono complessivamente 273 quintali di salami, prosciutti, salsicce, lardo e carni affumicate488. Nel 1849, durante la breve parentesi della Repubblica Romana il preside G. C. Mattioli emette il 29 maggio un decreto che protegge i cittadini dall’ “iniquità degli affamatori”, ossia i rivenditori, riportando a livelli normali i prezzi di “commestibili ed altri generi di prima necessità”, poiché “ingordamente aumentati” dai bottegai. Il salame viene pertanto fissato a 14 baiocchi per ogni libbra, due in più del prosciutto489. E’ interessante prendere poi in considerazione la preziosa documentazione dei ricettari manoscritti signorili: questi quadernetti di casa ricchi di appunti di cucina raccolgono originali preparazioni assemblate in curiose antologie, dove ogni piatto illustrato è probabilmente attinto dal repertorio di amici, vicini, cuochi celebri (e disponibili nel concedere i loro segreti) e gourmets più o meno importanti, di certo personalità conosciute e frequentate dalla famiglia. Questi vademecum culinari di famiglia rivelano poi oltre ad una certa fantasia ed alla ricerca di soluzioni originali (anche esterofile ed alle moda) la granitica volontà di restare ancorati alle proprie tradizioni, non solo della memoria familiare, ma anche di quella collettiva della propria città e “O SALUMI BENE AMATI” terra, ricercando e rispettando le sue tipicità e consuetudini gastronomiche e conviviali. Nel già citato quadernetto manoscritto ottocentesco di “una famiglia del patriziato anconetano490 ” sono stati trascritti vari suggerimenti per le pratiche domestiche tra cui numerose ricette di cucina. Si ricorda ancora pertanto la “Dose per un Pasticcio, per quattro Persone”, che illustra la preparazione di un pasticcio di maccheroni, pietanza sontuosa assolutamente emblematica della nobile tradizione culinaria italiana. Il ripieno di “Macaroni”, è condito oltre che con “Cagio Parmigiano” con “un picione, selleri [sedani], cardo, presuto, salame” che assieme costituiscono appunto la “sostanza”, ossia la farcitura con i maccheroni; la pasta esterna, secondo una tradizione sopravvissuta ancora ai primi del Novecento, era dolce come una frolla, confezionata in questa ricetta anconetana con “zuccaro”, farina, “distrutto”, “quattro o cinque Ova ed una sol Chiara”, pepe, cannella e spezie491. E’ decisamente non trascurabile osservare come nel ripieno goloso di questo pasticcio di maccheroni non mancassero proprio i due salumi più apprezzati. _Documenti ottocenteschi da monasteri marchigiani_ Sempre a metà dell’Ottocento risale un altro suggerimento per la confezione del salame lardellato, rinvenuto però in ambito monastico, ossia presso la congregazione dei Padri Filippini di Ascoli Piceno: in una nota riservata si legge infatti la raccomandazione “di far mettere nei nuovi salami rum, vino buono, cannella, pepe dolce intero, pepe forte pesto, sale, lardelli freschi, che siano pesti e stretti bene, e poco fuoco. Sangue no492”. Naturalmente in questa ricetta non risulta nominato il magro di suino che, in quanto ingrediente e materia prima base, viene pertanto considerato scontato e quindi omesso, in quanto presenza ovvia già in partenza. Tra i frati illustri che hanno dimorato in questo monastero si ricorda Fra Michele Torquati che istituì una cappellania con l’obbligo di festeggiare al 24 ottobre San Raffaele, facendo elargire per quella occasione a Marianna Fratini un donativo “vita natural durante”, di una cospicua dote di cibarie, compresi tre salami (ed anche 19 libbre di salsicce, una lonza, lardo nuovo, determinati quantitativi di vino, grano e olio in tempo di buon raccolto)493. Un’altra importante testimonianza monastica viene dal monastero delle clarisse di Santa Maria Maddalena di Serra de’ Conti, di cui si conservano le note di dispensa ottocentesche, che ad esempio riportano quanto ogni taglio o residuo della bestia dovesse essere conservato sotto sale: “gli ossami otto giorni, le panzette, golette e orecchie dodici, i lardi grossi venti ed i più piccoli diciotto”. Si annotavano naturalmente anche i tempi di salatura per i vari insaccati (per i “presciutti” quaranta giorni, le spalle trenta, ed infine “i Capocolli e Lonze ci deve stare dieci, o dodici giorni secondo che sarà asciutti”)494. Tra le tante ricette conservate risultano appunto anche annotazioni ed istruzioni su pratiche di norcineria e salumeria: in un quadernetto rilegato è scritta anche la ricetta per fare i salami, che però curiosamente è stato depennata successivamente da una consorella che, forse non soddisfatta del risultato, ha ritenuto non più servibile questa ricetta, cancellando così alcune parole e invalidando tutta questa prescrizione di poche (490) (486) (487) (488) (489) P. GIANGIACOMI, cit., pp. 211 – 212. Ivi, p. 173. La salumeria nella Marca Anconetana, cit., p. 149. Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, Serie Repubblica Romana, 29 maggio 1049. • 135 (491) (492) (493) (494) Così scrive, senza specificare l’identità della famiglia, il curatore della pubblicazione V. PIRANI, cit., p. 5. Ivi, p. 59. A. BUCCIARELLI, cit., p. 77. Ivi, p. 33. Archivio Storico Monastero di Santa Maria Maddalena, b. 7, Ricettario, Registro cartaceo con regolamento di dispensa. 136 • “O SALUMI BENE AMATI” righe con una barra orizzontale lungo tutto il testo. Ciò non impedisce però al curioso lettore odierno di decifrare ugualmente il testo, che conferma la ricetta di base del salame lardellato rinvenuto anche negli altri documenti antichi prima censiti. Si riesce infatti a leggere: “Per fare i salami ogni libbra di carne magra [parole cancellate] di grasso, e in ogni dieci libre di carne 4 once di sale, tra pepe pesto e fino due oncie, e mezza, e in ogni mezza libra di pepe sarà un oncia di pesto. In ogni libra di grasso ci si mette un’oncia di sale495”. In un altro monastero marchigiano di clarisse, quello di Pollenza intitolato a San Giuseppe, sono conservati diversi quaderni di cucina iniziati da suor Chiara Francesca, entrata in clausura da bambina, e morta ottantacinquenne alla vigilia della Prima guerra Mondiale; la raccolta di ricette si intitola spiritosamente “Libro di tutte le meraviglie che servono per soddisfare la gola di tutti i ghiottoni che si trovano nel Mondo”, e vi si legge anche una “Memoria per le dispensiere di tutto ciò che si passa in tavola nelle solennità dell’anno”, in cui si prescrive così per la colazione di Pasqua: “Si passa due pagnottine ciascuna. Dopo la colazione la Refettoriera apparecchia le tavole per il pranzo. La dispensiera avanti al posto di ciascuna monaca, mette la ciambella, l’uovo sodo, una fettina di pane e sopra vi appoggia 3 fettine di salametto per ciascuna, un pezzo di crescia. Questo tutto benedetto. In più se c’è qualche altra cosa venuta per carità si passa496”. _Un documento ottocentescho sulle modalità di confezione del salame lardellato_ Riguardo invece alle pratiche di confezionamento di questo salume, nel 1855, ai primi di gennaio (per la precisione all’8, appena concluse le feste natalizie, momento canonico della “pista” per i signori), il conte Duranti di San Lorenzo in campo scrive alcune istruzioni per la salata. Questa è la parte del documento dove descrive la confezione dei salami: “Per fare i salami si deve sciegliere la carne asciuttissima, e che non vi sia grasso o nervetti, preferibile è quella del prosciutto, quindi si deve pestare finissima, dandole a mezza pestatura il sale nella quantità e qualità delle salsiccie, sul finire della pestatura gli si dia il pepe pure nella quantità sudetta, benché con anche una piccola cosa di pepe pesto, per esempio per due once di pepe occorrente ve ne sia mezza pesta, occorre pure per ogni libbre 10 di carne due libre e mezzo di lardelli bene scielti dandoli una salata ed impepata a giudizio, e questi si devono impastare bene con la carne terminata che sia di pestare, una buona ora prima che sia pestata la carne gli si dia un bicchiere di buona vernaccia e negra per ogni libbre 15 di carne, chi poi gradisce l’odore dell’aglio, prenda a giudizio sette o otto spiche di aglio, le metta in una pulita pezzolina, gli si dia una ciaccata, quindi lo sprema con quella vernaccia, che gli dà un ottimo gusto, poi insaccarli [assieme a tutto il comporsto, n. d. r.) nel budello gentile, avvertendo di stringerli bene bene, e togliere via l’aria con conficcarli bene, poi metterli per qualche giorno in luogo asciutto, come in cucina, metterli per una notte o due sotto il camino con foco eguale ma lento, solo per fare bene asciugare il budello, poi tenerli per 40 o 50 giorni a molta aria, quindi riporli in dispensa, dandogli nell’estate un’untata, o due, con l’olio affinché non induriscano tanto.497” “O SALUMI BENE AMATI” _Il salame di Fabriano, eccellenza del lardellato_ Nel 1832 viene pubblicato a Pesaro in tre tomi il ricettario “Manuale del cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno” di Vincenzo Agnoletti, celeberrimo cuoco impegnato in molte corti italiane ed europee per vent’anni, per poi diventare per un decennio dal 1820 al 1830 credenziere e liquorista alla corte di Maria Luigia d’Asburgo, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla. Appunto in questa sua opera l’Agnoletti illustra anche varie specialità suine, nel loro impiego in raffinate ricette di cucina ma anche nelle loro procedure di preparazione. E’ il caso del salume che definisce, non a caso “Mortatella di Fabriano”, di cui si riporta la totale trascrizione: “Tritate grossamente sei libbre di carne di maiale, che unirete a due libbre di lardo fresco tagliato in grossi dadi, e condite con quattr’once e mezzo di sale, due once di pepe intero, ed un’oncia di spezie fine, riempite li grossi budelli, e legate le mortatelle con spago, quindi tenetele sotto un peso per due giorni, e poi fatele asciugare498”. Ebbene è decisamente sorprendente e degno di nota come questo ricettario di richiamo nazionale celebri già il salame lardellato caratteristico di Fabriano, qui chiamato dall’autore “mortatella” seguendo alla lettera l’origine etimologica di questa parola, legata al mortaio in cui si pestava la carne (e secondo alcuni anche al mirto, spesso impiegato come aromatizzante). Oreste Marcoaldi nel suo già citato testo del 1877 riporta la sua descrizione del salame confezionato alla maniera della sua gente “il vero salame di Fabriano composto sì, di carne suina, ma interamente magro tolto da essa, cioè ogni grasso e nervi, pesta sottilissamente, e aggiuntovi per ogni quantità da imbusecchiare e farla divenire un salame (di lunghezza due palmi) 120 lardelli di cui 24 a forma di dadi, e condita con sale e pepe nero”; l’autore specifica poi che “Varietà di questo salame è il bastardo, composto di carne di posciutto senza levarne il grasso e condizionato come il salame”. Da buon fabrianese orgoglioso delle eccellenze produttive della sua città il Marcoaldi così sentenzia solennemente nel dizionario del dialetto fabrianese incluso nel suo testo: “Il salame è una specialità fabrianese come di Bologna è la mortadella, di Modena il zampone”499. Che la fama del salame fabrianese ha la sua distinta certificazione: oltre all’entusiasmo campanilista del cavalier Oreste Marcoaldi si ricorda la preziosissima attestazione di merito già vista nel 1832 da parte del ricettario celeberrimo del cuoco e liquorista Vincenzo Agnoletti, dove si descrive questo insaccato tradizionale definendolo “mortadella di Fabriano”. Mancherebbe la benedizione di un personaggio illustre, ed appunto un testimonial d’eccellenza è documentato nel 1881: in quell’anno con una lettera del 22 aprile spedita da quel di Caprera Giuseppe Garibaldi scrive al suo commilitone fabrianese Benigno Bigonzetti per ringraziare del dono di alcuni salami marchigiani. In genere il Generalissimo è passato alla storia come refrattario ai banchetti ed in genere poco propenso ai piaceri della tavola, ma evidentemente i salami di Fabriano erano tali da scatenare un suo palese apprezzamento. Scrive infatti Garibaldi, tra l’altro su carta di Fabriano come ulteriore tributo: “Caro Bigonzetti grazie per i salumi tanto buoni. Un caro saluto alla famiglia500”. (495) (498) (496) (499) Il cuoco perfetto marchigiano, cit., p. 40. S. PAPA, cit., p. 151. (497) Il documento manoscritto è stato riprodotto in copia fotografia nel volume di F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro ed Urbino, cit. • 137 Ibidem. O. MARCOALDI, cit., p. 33. (500) Cfr. C. BARBERIS, Fette di salame, pagine di storia, Fabriano, p. 29; <Il pensiero cittadino>, anno XI, 7 – 8, Fabriano, luglio – agosto 1975. 138 • • 139 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Un ruolo determinante nella diffusione e nell’apprezzamento generale del salame di Fabriano va poi riconosciuto ad un importante personaggio fabrianese, Reginaldo Sentinelli (1854-1913), che da mastro salsamentario (“premiato per lavorazione salami con medaglia d’argento”) è riuscito grazie alla sua attività di esportatore di derrate alimentari ad imporre questo insaccato alla notorietà di mercati non solo italiani ma addirittura extra-europei501. maceratese) dà alle stampe a Macerata il già citato ricettario, “La Guida in Cucina: 503 Ricette Marchigiane e Nazionali”, in bilico tra modelli di cucina francesizzanti (ormai dominanti), e la tradizione delle ricette tipiche marchigiane, sia rurali che marinare. In questo intento di conciliare l’ “alto” della convivialità più eccelsa con il “basso” delle pratiche di dispensa basilari delle campagne viene dedicato un capitolo sul maiale, illustrando schiettamente “la salata” e scrivendo così in apertura. Non manca naturalmente un capitolo sulla preparazione del salame, eccone la trascrizione: “Per fare i salami ci vuole la carne scelta e molto magra, preferibile quella della spalla. Prendete un chilo di carne magra e scelta, conditela con sale fino in proporzionata quantità. Passate la carne con la macchina 4 volte in modo da formare una pasta molto fina, aggiungete alla carne 250 gr di lardo fresco tagliato in piccoli datarelli [sic, n.d.r.], e 100 gr. di pepe in grani, ossia pepe intero. Insaccate la carne nelle budella dello stesso maiale; però in quelle più grosse. Legateli ed appendeteli all’aria libera per un po’ di tempo, ingrassateli bene, incartateli e teneteli appesi in luogo fresco. I salami così preparati si conservano per molto tempo”505. E’ assolutamente importante notare come nel suo testo, per descrivere il salame il Tirabasso abbia illustrato le tecniche di fabbricazione del classico lardellato marchigiano. Questa la ricetta dei salami che riporterà invece il Tirabasso più di trent’anni dopo nella sua ultima opera, “Le gioie del focolare”: “Si prende della carne magra di maiale, si fa a pezzetti e si macina con la macchinetta trita carne due o tre volte, onde renderla fina assai; si mette in una concola e vi si uniscono dei dadini di lardo in ragione della carne macinata. Si aggiungono (per ogni chilo di carne) 25 gr. di sale fino, 4 gr. di pepe macinato di recente, 10 gr. di pepe intero, 2 gr. di noce moscata, 3 gr. di cannella in polvere, un decilitro di marsala Florio, un cucchiaio di latte in polvere e un grammo di chiodi di garofano ridotti in polvere. Poi, se si vuole che i salami risultino di un bel color rosso carneo, si aggiungono due grammi di salnitro. Si dimena l’impasto ben bene e si riempiono poi con esso delle grosse budella di maiale (preparate come è di uso) formando i salami; prestando attenzione a non far formare dei vuoti d’aria e che i salami siano ben compatti. Si legano alle due estremità e si appendono poi all’aria libera per due o tre giorni; poi si mettono, per una decina di giorni, nella cappa del camino, bruciandovi sotto (a circa 5 metri di distanza) delle frasche verdi di ginepro e di olivo, o di faggio, per qualche ora del giorno, onde averli, come suol dirsi affumicati. Si tolgono quindi dalla cappa del camino, si ungono con un po’ di grasso, si cospargono generosamente di cenere stacciata e si conservano appesi all’aria libera in un luogo fresco. Dopo un paio di mesi si possono servire506”. Nell’indagine condotta negli anni ’50 sulle abitudini alimentari del contadini delle Marche Nord Occidentali (commissionata dall’Istituto Nazionale della Nutrizione del CNR) è stato elaborato uno schema sui singoli pasti nelle varie stagioni, sulla base delle informazioni raccolte sul campo. Stando ad una valutazione media sui cibi consumati nei vari pasti queste famiglie di campagna (tutte generalmente produttrici di salami, coppe, lonze, salsicce, lardo sotto sale e prosciutto durante la “pista” annuale) consumavano il salame nella colazione mattutina della _Il salame nelle feste di piazza, ma anche nella quotidianità_ I salumi erano inevitabilmente una provvista golosa, ambita con concupiscenza: una testimonianza in questo senso è la tradizione giocosa nelle feste popolari dell’Albero della Cuccagna. Oreste Marcoaldi, studioso e letterato fabrianese, nel suo saggio del 1877 appena citato (“Le usanze e i pregiudizi, i giuochi de’ fanciulli, degli adolescenti e adulti, i vocaboli più genuini del vernacolo, i canti e i proverbi del popolo Fabrianese”), riporta appunto questa festa popolare di piazza radicata da tempo immemore, quando “rizzavasi or nella Piazza Alta or nella Piazza Bassa una ben liscia antenna o albero di nave di dieci metri di altezza (piedi trenta), nella cui cima era fisso un cerchio di legno dal quale pendevano prosciutti, lonze, soppressati, salami, fiaschi di vino, pollo, pani, un vestiario e 25 o 30 lire; oggetti mangiabili e danari dati dal Municipio, che a pro della plebe bandiva il divertimento”. Riguardo ai componimenti poetici popolari, che narravano le golosità e le festosità rurali, va ricordata la celebrazione macabra ed euforica al tempo stesso della macellazione, ed in proposito il già citato “Testamento del porco” di un autore anonimo marchigiano della seconda metà dell’800, dove nel procedere all’elencazione di leccornie varie suine non manca una quartina su “lonze, ciauscoli, salsicce, salami, coppe502”. In merito invece al consumo del salame nella realtà più ordinaria e mesta, addirittura in quella più difficile dei debilitati e dei malati va ricordata un’altra testimonianza interessante della fine dell’Ottocento, ossia gli appalti per la fornitura di commestibili negli Istituti della Congregazione di Carità ad Urbino (ospedale di Santa Maria della Misericordia, conservatori femminili, orfanotrofio maschile e brefotrofio); le tariffe della carne hanno una voce apposita sulle produzioni suine, che include salame, lardo, strutto, prosciutto, mortadella503. _La prima metà del Novecento: modalità di preparazione del salame secondo un celebre chef maceratese_ Nel 1923 questi erano i prezzi ad Ancona dei principali derivati della “salata” suina: la carne magra di maiale veniva 9 lire al chilogrammo come anche le salsicce, lo strutto ed il lardo costavano 7 lire, mentre il prosciutto con 25 lire superava di nuovo il salame che si pagava 22 lire504. Quattro anni dopo nel 1927 il raffinato cuoco Cesare Tirabasso, originario di Montappone (nel (501) Si rimanda in proposito ai siti “reginaldosentinelli.it” e “accademiasalame.it”. Ibidem: “Co’ le budella grosse / se veramente m’ami, / insacca ben le lonze / ciauscoli e salami / Dell’altra metti dentro / Della mia carne il resto, / e ne faràe salcicce / che mangiaràe più presto / Con zampe, orecchie e muso / con cotiche e con groppa, / le genti più dabbene / ci vuole far la coppa”. (503) Archivio Irab Urbino, Verbali d’asta pubblica ad unico incanto, b. 41; Cfr. S. PRETELLI, Il vitto negli istituti di carità di Urbino alla fine dell’Ottocento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 31. (504) P. GIANGIACOMI, cit., p. 199. (502) (505) (506) Ivi, p. 155. Ivi, p 237. 140 • “O SALUMI BENE AMATI” domenica in inverno e del martedì in estate507. Nel 1951 l’Ente Provinciale per il Turismo di Ancona stampa il già citato opuscolo “Gloria e vanti della cucina e del vino anconetani”, dove l’autore, che si firma Milton, non tralascia di elogiare una celebre leccornia della salumeria provinciale e regionale: “Come non ricordare i salami di Fabriano, che hanno fato conoscere nel mondo il nome di questa mirabile città, già nota per le sue opere d’arte508”. Le memorie orali raccolte da studi svolti durante il Novecento raccontano spesso dell’importanza strategica della macellazione del maiale, e del conseguente trattamento della pacca (metà della carcassa suina) o anche del porco intero per le famiglie più ricche. Tutti comunque, sia i contadini più umili che quelli più agiati, o addirittura i padroni ed i signori, nella settimana della “pista” consumavano con accortezza ciò che l’occasione metteva golosamente a disposizione, ossia cucinando tutti gli scarti residui, dalle costarelle, alle frattaglie, ai fegatelli e zampetti e poi preparando i vari insaccati e salumi; se il prosciutto era più frequente nelle famiglie più agiate, la coppa di testa, le lonze, i salami e le salsicce accomunavano tutti. Come già visto dalle carte ottocentesche di un monastero, il salame non mancava mai nella colazione di Pasqua, imbandito sulla tavola già a fette assieme alle uova sode, alle pizze o cresce lievitate al formaggio, alla frittata profumata con la mentuccia509. Piatti di affettati, con il trittico di salame, prosciutto ed affettati vari erano poi l’antipasto di apertura degli abbondanti ed episodici pranzi di nozze510. Come già visto ancora per tutto il Novecento gli affettati di salumi costituivano poi uno dei numerosi spuntini durante la giornata nei grandi lavori di mietitura e trebbiatura511. La tradizione rurale che permea nel profondo il senso antico ed il radicamento territoriale di tipicità gastronomiche e consuetudini culturali si riflette anche nel repertorio sconfinato di credenze e superstizioni contadine, descritte e cristallizzate così nella memoria anche dai primi e più antichi fokloristi e marchigianisti: all’inizio del Novecento Giovanni Ginobili scriveva della convinzione diffusa dell’influenza della luna nelle pratiche rurali, e dello scrupolo di compiere i principali lavori di campagna non con la luna nuova; non a caso poi, nel 1975 il celebre gastronomo Felice Cunsolo nella sua “Guida Gastronomica d’Italia”, compilata per l’Istituto Geografico De Agostini, scherza (ma non troppo) individuandovi la causa di certe felici produzioni tradizionali alimentari marchigiane e delle loro caratteristiche, tra cui “la saporosità di certi salumi di Fabriano512” (che viene infatti poi inventariato tra le tipicità dell’artigianato regionale e le ricette di cucina tradizionale, riferendo che “A Fabriano preparano anche un eccellente salame di carne della coscia tagliata in punta di coltello513”). _Memorie norcine sul salame lardellato raccolte nel secondo (507) Lo studio in generale ed il prospetto con la tabelle dei vari pasti nella settimana nell’arco delle stagioni è stato elaborato da F. BONASERA, Le abitudini alimentari dei contadini delle Marche Nord Occidentali (1950), <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, pp. 78-79. (508) MILTON, Gloria e vanti della cucina e del vino anconetani, Ancona 1951, pp. 11-12 (509) Antologia della cucina popolare, cit., p. 96. (510) Ivi, p. 107. (511) Ivi, p. 112. (512) F. CUNSOLO, Guida Gastronomica d’Italia, Novara 1975, p. 305. (513) Ivi, p. 312. “O SALUMI BENE AMATI” • 141 Novecento_ Adele Rondini, studiosa e poetessa di Fossombrone, è autrice nel 1993 dell’opera “S’l’arola”, suggestivo compendio di memorie locali su ricordi di cucina e mensa del suo territorio, punteggiato di riferimenti dotti e descrizioni liricamente intense. Nel lungo capitolo che dedica al maiale riporta tra le tante ricette a ritroso nel tempo la composizione da lei raccolta secondo tradizione forsempronense, attraverso memorie raccolte dai suoi vecchi e da norcini locali, per il “salame nostrano”: “Per fare il salame, si sa, non è un problema. Quando si macella il maiale, si piglia qua e là la carne magra, oltre a quella di lombo che è più rinomata: si trita, si ritrita, e si trita di nuovo per la terza volta dopo averla salata naturalmente come si conviene, e poi si versa tutto insieme, per l’imbuto, nel budello già pronto, lavato con il vino, carne tritata, 30 % circa di lardo tagliato a cubetti, pepe macinato (abbondante) e pepe a grani. E poi? Si mette sotto la cappa del camino a stagionarsi al fumo del focolare514”. Nel 1985 lo studioso Angelo Antonio Bittarelli pubblica un prezioso volumetto di tradizioni norcine di uno specifico contesto locale, “Pieve Torina: il crepuscolo del suino”. Tra le tante produzioni di salumeria e le ricette di caratteristiche dei giorni della “pista” naturalmente un capitoletto è dedicato al “salame lardellato”: “Si sceglieva la migliore carne magra, veniva macinata “fina”, si univa lardo tagliato a cubetti, preso dalla spuntatura di una pacca perché più tenero. Si aggiungevano acini di pepe, a baco, in poca quantità, poi quello macinato e sale. La dose era regolata ad assaggio515”. _Produzione odierna_ Stando ad un rilevamento recentissimo (giugno 2006) sui salumifici marchigiani tuttora in attività (facenti parte dell’Associazione della Salumeria tipica delle Marche), il salame lardellato continua ad essere tra le produzioni più significative, non solo in termine di fatturato ma anche per quanto riguarda la percezione da parte dei consumatori, che considerano questo insaccato tra i più caratteristici della tradizione marchigiana assieme al ciauscolo. In proposito va osservato come la quasi totalità di questi produttori hanno una particolare sensibilità nei confronti del radicamento storico della tradizione di salumeria nelle Marche. Molte di queste ditte esistono ormai da più di venticinque anni ( molte sono sorte tra i primi anni Sessanta e l’inizio dei Settanta), e soprattutto nelle tecniche di lavorazione sono eredi dirette ed indirette di una tradizione di norcineria antica, che affonda la sua conoscenza in una memoria perpetuata nei decenni, arrivando a ritroso fino a pratiche comuni alla fine dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento, e poi inevitabilmente riconducibili ai saperi di una ruralità marchigiana ormai plurisecolare se non millenaria. Questi produttori, nel tradurre in termini industriali il confezionamento di salumi e di insaccati storicamente tradizionali delle Marche si sono affidati, nel mettere a punto le tecniche di fabbricazione, alla conoscenza minuziosa delle tipicità locali, al confronto con personalità portatrici di una memoria viva ed anche ereditata, come vecchi macellai, anziani norcini (alcuni operanti fin dagli anni ’50) e porchettari di lungo corso ed infinita esperienza; nel caso di aziende (514) (515) A. RONDINI, cit., p. 150. A. A. BITTARELLI, Pieve Torina: il crepuscolo del suino, cit., p. 23. 142 • • 143 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” nate con conduzione familiare si riscontra poi un passaggio di saperi e pratiche di generazione in generazione, arrivando davvero in alcuni casi a ritroso fino agli inizi del ventesimo secolo. Tutti questi salumieri in scala industriale del Duemila si reputano pertanto eredi d’una continuità assoluta con la tradizione più antica, e tengono particolarmente che questo loro carattere di fedeli devoti della tipicità arrivi anche all’esterno agli acquirenti e non solo, vantando addirittura metodiche di lavorazione che, a prescindere dalle esigenze di un’intensa produzione in scala industriale, sono quasi sovrapponibili a quelle del passato. La tradizione storica del salame lardellato si adegua ai ritmi del consumo odierno, ma non perde così i suoi inconfondibili tratti distintivi codificati dalla storia. Secondo gli appassionati di tradizioni gastronomiche Gianfilippo Centanni (giornalista) e Rolando Ramoscelli (chef cantore per sua ammissione della “cucina dialettale) nella provincia di Pesaro la versione tradizionale del lardellato è chiamato “salame nel budello gentile516”; si prepara con carne di maiale magra con presenza di almeno un quarto di carne di spalla: va condita con sale, pepe macinato grosso e pepe in grani, prima di insaccare nel budello gentile si aggiungono dadini di lardo; dopo una settimana al caldo, possibilmente accanto ad un camino, si fa stagionare in luogo adatto per almeno quattro mesi circa517. Nel maceratese si impiega secondo arcana consuetudine carne magra suina di prima scelta e lardo di spuntatura tagliato come di prammatica a cubetti; secondo una tradizione già documentata nei secoli scorsi oltre al sale si impiega il pepe sia intero che macinato; una volta insaccato il composto nelle budella gli insaccati venivano punti con uno strumento consistente in un sughero con infissi dei lunghi aghi, poiché con questa pratica si evitava la formazione di bolle d’aria che avrebbero ossidato la carne facendola irrancidire518. Partendo da questa ricetta di base ogni paese e realtà anche minima fa sfoggio di una scienza tutta sua, esaltando procedure peculiari ed esclusive, come ad esempio nella fase di affumicatura, impiegando ad esempio essenze legnose da bruciare, in particolare il ginepro. La tradizione maceratese perpetua poi la memoria del salame di Colfano, chiamato anche della “Provvidentia”, perché confezionato secondo una leggenda popolare dai frati con le carne raccolti qua e là in beneficenza con la questua: aromi segreti ed un goccio di vino completavano la ricetta segreta dei confratelli per un salame così buono che chi aveva il privilegio di riceverlo in dono lo custodiva gelosamente in attesa di pranzi solenni o occasioni davvero particolari ed irripetibili519; si tratta comunque di un salame non lardellato, ma confezionato con parti magre (pezzi di spalla, prosciutto, filetto, pancetta, lombi, gola, polpa. La sociologa delle realtà rurali Graziella Picchi riporta un documento in cui si narra di una disputa tra Rodolfo II da Varano ed il suo procuratore Mattheo Cicchi di Santa Anatolia, riguardo alla maggior bontà del prosciutto stagionato o della lonza; un frate sopraggiunto dichiarò invece la sua totale predilezione per un salame che offrì ai due signori, i quali rimasero estasiati da quel salame monastico riconducibile all’odierna specialità tradizionale di Colfano520. Forte di tradizione è anche il salame ascolano, ugualmente composto di carne magra tritata a cui si aggiunge un quinto o un sesto di grasso duro macinato tagliato a pezzetti irregolari; allo stesso modo va insaporito con sale e pepe sia macinato che intero, con in più alcune spezie particolari. Si insacca come di consueto in budello naturale, ottenendo pezzature attorno ai 400 grammi; viene stagionato dai due ai tre mesi521. Come si è visto nell’anconetano l’antica pratica artigianale cercava l’eccellenza nella confezione dei salami lardellati (in particolare a Fabriano), impiegando carne magra della muscolatura striata, coscio e spalla soprattutto, mentre la produzione industriale tecnologizzata tende oggi ad utilizzare tutti i muscoli striati della carcassa (compresi quelli facciali). La carne magra (comunque di prima scelta) assieme ad un 15 % di grasso duro viene passata al tritacarne con la trafila di 12 mm, poi altre due volte con quella di tre cm; a quel punto all’impasto omogeneo e profumato ottenuto si aggiungono i lardelli di schiena tagliati a mano a forma di cubetto, particolare che evita l’ossidazione del grasso. Si condisce il composto con sale e pepe nero intero, lo si lascia a riposo per qualche ora, e poi si insacca nel budello gentile, legando con lo spago l’estremità. I salami ottenuti vanno asciutti in luogo ventilato, esponendoli al fumo del camino. La stagionatura dura circa tre o quattro mesi, nelle cantine o nei solai522. Come osserva Piergiorgio Angelini, gastronomo e sommelier di Fabriano, un tempo erano solo le famiglia benestanti a confezionarsi il salame lardellato vero e proprio, concedendosi il lusso di impiegare per questo scopo uno o più cosci sottraendoli così al loro destino più proficuo di prosciutti. Nelle case dove appunto si preparavano i veri salami lardellati la loro produzione era seguita con grande cura e perizia maniacale, addirittura trasferendo ossessivamente gli insaccati da una stanza all’altra, cercando sempre il giusto microclima per la maturazione in corso del pregiato salume. In genere invece i contadini anziché il salame lardellato confezionavano il soppressato di Fabriano, con spalla, braciole, altre parti provenienti dalla rifilatura dei prosciutti ed il 20 % di grasso, il tutto aromatizzato con sale, pepe macinato ed aglio, e poi insaccato nel budello naturale ed asciugato in prossimità di un camino per conferire un leggero sentore di affumicato. La motivazione di questa scelta nelle case più povere non solo era dovuta ad una maggiore economicità nel non impiegare così i preziosi prosciutti, ma anche alla paura che la non eccelsa capacità del norcino nell’insaccamento portasse ad un irrancidimento. (516) (517) (518) (519) (520) F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro e Urbino, cit., p. 39. Ibidem. Dizionarietto delle Tradizioni e del Mangiare, a cura di G. SEMMOLONI e L. SPERNANZONI, Macerata 2001, p. 88. G. PICCHI, Risorse e cibo nella terra delle armonie, cit., pp. 170 – 171. G. PICCHI, Il centro, in Atlante dei Prodotti tipici: i Salumi, introduzione di C. BARBERIS, Roma 2002, pp. 521 – 522. _Citazioni del salame lardellato dagli studi sulle tradizioni rurali marchigiane e sulla letteratura gastronomica marchigiana dal secondo Novecento ad oggi_ Come riporta il fondamentale “Dizionario della cucina marchigiana” di Ugo Bellesi fino a pochi decenni fa il salame di Fabriano si ricavava da maiali di circa un anno di età e del peso di circa 145 kg., tenuti a digiuno nelle ultime dodici ore ed alimentati con granone, crusca, avena patate, ghiande farina. La carne era di spalla e prosciutto (almeno per il 20 e 25 %) eliminando nervi e grasso. La polpa andava macinata e condita con sale, pepe in polvere ed anche in grani e vino rosso aromatizzato dall’aglio. Prima di insaccare nel budello gentile si aggiungevano i dadini di lardo di schiena (talvolta anche di prosciutto) tagliati alle dimensioni (mm 5 x 10) e grani (521) (522) R. DI CORATO, cit., p. 48. G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., pp. 178 - 179. 144 • • 145 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” di pepe. Per una settimana lo si faceva asciugare in ambiente riscaldato dal caminetto e quindi si procedeva alla stagionatura per quattro mesi; talvolta i cubetti di grasso andavano tenuti a bagno nel vino rosso523. Questa pratica è sopravvissuta nel tempo fino ad oggi senza mutamenti di rilievo. Il ricercatore delle tipicità alimentari e delle tradizioni enogastronomiche marchigiane Valerio Chiarini nel suo libro “Ambre e ciarimboli” nel capitolo dedicato al salame specifica come quello “preparato tradizionalmente dalla famiglia contadina” debba essere fatto con tagli di carne di prima scelta” da tritare e mescolare “a lardo macinato o tagliato a cubetti preso dalla massa adiposa della schiena524”; si enuncia così il carattere diffuso secondo la tradizione regionale anche nella confezione domestica del salame cosiddetto “lardellato”, termine che l’autore impiega poi nell’inquadrare l’eccellenza conclamata di questa produzione, quando afferma appunto che “produrre e confezionare il salame lardellato di Fabriano richiede nella scelta delle carni, tagli di primissima scelta presi dalla spalla e dalla coscia e in questo consiste il maggior pregio di questo insaccato525”. Leonardo Bruni, studioso delle antiche tradizioni alimentari rurali della regione, nel suo testo del 1999 “Ricette raccontate: Marche” nella compilazione dell’elenco dei salumi tipici riporta alla voce “salame” la descrizione “insaccato fatto con carne di maiale presa qua e là, macinata più o meno, associata a lardo tagliato a dadini per circa il 25%, condita con sale e pepe in grano o macinato526”. Riccardo Ceccarelli, storico e direttore della biblioteca di Cupramontana, nel suo testo “Come uno di casa: il suino nelle Marche”, nel classificare i salumi tradizionali e più celebri della regione descrive “il salame lardellato di Fabriano”, come prodotto di “tagli di primissima qualità presi dalla spalla e dalla coscia e in questo consiste il maggior pregio di questo insaccato”; e proprio per quello afferma come in origine fosse “un manufatto tipico delle famiglie più benestanti, solo esse infatti potevano sacrificare un coscio, o più cosci, da trasformare in salame lardellato527”. Nel recente volume (2004) “La salumeria nella Marca anconetana”, gli autori Alessandro Segale ed Alberto Fiorani dedicano due capitoli distinti ma contigui al “salame di Fabriano” ed al “Salame lardellato”: nel primo caso si specifica l’area di produzione “dei comuni nella zona del fabrianese, compresi nella Comunità Montana Alta Valle dell’Esino, mentre per il salame lardellato “tanto richiesto per profumo, fragranza, sapore e dolcezza per essere uno dei più pregiati e apprezzati, viene prodotto con risultati ugualmente soddisfacenti in tutti i comuni della Marca di Ancona localizzati in prevalenza nelle zone pedecollinari e mediocollinari, dove si realizzano le condizioni climatologiche di igrometria e ventilazione che, nonostante la contenuta percentuale di sale utilizzata nella preparazione, permettono di conservare le carni insaccate fino a completa stagionatura528”. Gli autori riportano inoltre il radicamento di questo insaccato nelle consuetudini tradizionali delle antiche società rurali anconetane: “questo salume nella tradizione contadina, era il primo ad essere consumato in occasione delle feste pasquali, dopo circa tre mesi di stagion- atura. Il giorno della Resurrezione, al mattino, lo si tagliava e lo si serviva insieme all’uovo sodo benedetto, e alla crescia al formaggio. Oppure veniva offerto al parroco che veniva a benedire la casa durante la quaresima. Un’altra credenza popolare lo voleva preparato dai frati questuanti con il prodotto della “cerca” durante la mattanza del maiale529”. In effetti una leggenda orale suggestiva, ma probabilmente frutto di ingenua immaginazione, sosteneva che i cubetti di grasso caratteristici del salame lardellato erano la raccolta di una questua di avanzi di lardo durante la pista, una sorta di elemosina di succulenti avanzi suini che ricorreva in molte tradizioni popolari come ad esempio il giro dei bambini (talvolta anche di gruppi di adulti) per le case durante il carnevale o nelle “pasquelle”, per richiedere casa per casa il dono divertito di cibarie, chiamato non a caso “lardello” quando si cercavano pezzetti di carne di porco più o meno adiposa, da mettere assieme infilzandoli in uno spiedo, per poi goderne assieme in una grande mangiata festosa. Gli autori de “La salumeria della Marca Anconetana” concludono il capitolo sul salame lardellato affermando come fosse “un prodotto suino che non mancava mai, tanto nelle tavole delle famiglie contadine, quanto sulla tavola dei ricchi, sia per il suo buon gusto e sapore, sia per la tradizione che incarnava530”. Nella pubblicazione di carattere storico – scientifico ma anche divulgativo “Viaggio nel cuore del Marche”, curata dal G.A.L. “Colli Esini – San Vicino”, nella trattazione sull’itinerario storico -tradizionale del patrimonio enogastronomico si legge: “In tutta la regione Marche la produzione di insaccati di maiale è di ottima qualità, ma nella zona dell’Alta Valle dell’Esino il ciauscolo e il salame lardellato rappresentano l’espressione di un’arte antica tramandata dai Longobardi531”; gli autori Andrea Anconetani e Gianfranco Mancini fanno poi seguire la descrizione delle caratteristiche fondamentali del salame lardellato. Che il salame lardellato come specialità fabrianese abbia ormai una memoria radicata nel tempo lo dimostrano i principali saggi sulle antiche tradizioni alimentari marchigiane ed i repertori a carattere storico sulla cultura gastronomica e l’arte conviviale regionale, come ad esempio il “Dizionario della cucina marchigiana” di Ugo Bellesi del 1993532 o il recente “Marchigiando: dizionario storico della cucina marchigiana” di Ugo Bellesi e Tommaso Lucchetti533, oltre naturalmente agli studi dedicati alla storia del territorio provinciale anconetano (si può citare ad esempio “Dal corbezzolo al salame: in volo sulla provincia apparecchiata” di Tommaso Lucchetti534). Ferruccio Luciani, autore della pubblicazione “I prodotti tradizionali della Regione Marche”, curata dall’Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca della Regione Marche, dedica un intero capitolo a questa specialità di salumeria fabrianese, dal titolo “Tra i salami sulle orme di Garibaldi”535. Non mancano riferimenti a questo insaccato tradizionale in studi e contributi scientifici sull’antica società rurale marchigiana, come ad esempio nel catalogo delle immagini della fototeca regionale dedicato a “La civiltà contadina nelle Marche del Novecento”, (523) (524) (525) (526) (527) (528) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 129. V. CHIARINI, Ambre e ciarimboli: viaggio saporito tra salumi e formaggi delle Marche, Ancona 2003, p. 33. Ivi, p. 34. L. BRUNI, Ricette raccontate: Marche, cit., p. 78. R. CECCARELLI, Come uno di casa..., cit., pp. 143-144. La salumeria nella Marca Anconetana, cit., pp. 203-204. (529) Ibidem. Ibidem (531) A. ANCONETANI – G. MANCINI, L’enogastronomia, in Guida al territorio viaggio nel cuore delle Marche, vol. I Guida al Territorio, Ostra Vetere 2006, p. 316. (532) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 120. (533) U. BELLESI – T. LUCCHETTI, Marchigiando: Dizionario della cucina marchigiana, cit., vol. 9. (534) T. LUCCHETTI, Dal corbezzolo al salame in volo sulla provincia apparecchiata: breve racconto di storia, tradizioni ed arti della tavola nel territorio anconetano, presentazione di U. BELLESI e O. ZANINI DE VITA, Ancona 2007, p. 59. (535) F. LUCIANI, I prodotti tradizionali della Regione Marche, Ancona 2006, pp. 26-27. (530) 146 • • 147 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” curato dallo studioso Raimondo Orsetti per il Centro Beni Culturali della Regione Marche; in un capitolo intitolato, non certo a caso, “La gastronomia – Il maiale” l’autore osserva: “L’uso di valorizzare al meglio anche le parti meno pregiate ha dato vita ai due salumi più tipici della regione, il ciauscolo o ciavuscolo e il salame lardellato”; nello specifico Orsetti illustra poi l’eccellenza a riguardo, il salame di Fabriano536. Il salame di Fabriano è censito anche da Graziella Picchi nell’Atlante dei salumi. In un lungo articolo monografico dedicato al salame nel 1989 il periodico “La salumeria italiana” descrive le principali e più celebri specialità italiane dedicando pertanto un paragrafo al “salame tipo Fabriano”, definito “noto da secoli544”. La guida “Umbria – Marche” della collana “Tradizioni e sapori d’Italia: Viaggio nel costume e nel gusto”, delle edizioni San Paolo segnala tra le specialità tradizionali dell’entroterra anconetano “il salame lardellato di Fabriano545”, che viene definito ad esempio “inconfondibile” nella guida dedicata alle Marche nella collana “Viaggio attraverso le regioni italiane” curata da 888.it546; Anche una guida di taglio più squisitamente storico – artistico, come “Emilia – Romagna/ Marche” della collana “Itinerari d’Italia” del Touring Club Italiano presenta nella descrizione dei luoghi storici e delle bellezze monumentali di Fabriano anche una nota sul suo celebre salame547. Sempre il Touring Club Italiano nella collana “L’Italia” delle cosiddette “guide rosse” segnala nel capitolo “I microclimi gastronomici” del volume dedicato alle Marche la produzione di “ottimi salumi” tra cui appunto quelli di Fabriano548. Il salame di Fabriano è citato anche tra i salumi celebri e tradizionali marchigiani nel libro di Paolo Morganti e Chiara Nardo “Il maiale: la storia, le tradizioni e le ricette”549. Viene definito “vanto della norcineria marchigiana” nel volume “Umbria e Marche: il verde prato del sapore”, della collana “La cucina regionale italiana”: gli autori dei testi Enrico Mèdail e Monica Palla scrivono “la fetta è omogenea e compatta, di colore rosso scuro, con lardelli bianchi” di cui si nota come rivelino, “quando trasudano la lacrima”, il momento ottimale del consumo550. Il prestigioso e raffinato “Dizionario di Gastronomia” di Antonio Piccinardi alla voce “Salame” censisce “le più note specialità italiane”, e riporta “il salame di Fabriano, con occhiature abbastanza grandi”, intendendo la lardellatura caratteristica ed inconfondibile551. Nella guida ragionata di Slow Food (per la collana “Itinerari Slow: Viaggi di piacere tra arte e vino, natura e gastronomia, in auto, in bicicletta, a piedi”) “Le colline del Verdicchio: il castrum, la pieve, i friscoli”, viene dedicato appunto al “salame lardellato” uno dei tanti riquadri monografici dedicati alle tipicità gastronomiche di questo spicchio di territorio dell’entroterra centrale marchigiano, lungo la vallata del fiume Esino e sul confine delle province di Ancona e Macerata. La descrizione si apre con un excursus storico sulle “origini del salame lardellato di Fabriano”, confermando appunto come idealmente la produzione fabrianese possa essere considerata una sorta di archetipo di questo insaccato diffuso in tutto il territorio552. _Citazioni del salame lardellato nei repertori di tipicità e nella letteratura gastronomica nazionale dal tardo Novecento a oggi_ Una descrizione specifica del salame cosiddetto di Fabriano è presente nell’elencazione dei salumi caratteristici marchigiani presente nel ricettario dedicato a questa regione nella collana sulle tradizioni gastronomiche regionali italiane curata dal celebre gourmet bolognese Alessandro Molinari Pradelli: “Insaccato tradizionale, che impiega solo carne tratta dalle cosce dei maiali; questa viene tritata “in punta di coltello”, poi impastata con lardelli tagliati a dadini e conciata con sale fino e pepe”537. Nella sua raccolta di reportages enogastronomici “Il mestiere del Gastronauta” il critico gastronomico Davide Paolini scrive perentoriamente “nelle Marche, quando si dice salame subito si pensa al Fabriano538”. Lo stesso Davide Paolini nella sua guida “Viaggio nei giacimenti golosi: prodotti ed itinerari” cita il “salame di Fabriano” tra i salumi di pregio” delle Marche539. In tempi molto più recenti sempre Paolini nell’altro suo celebre ed importantissimo testo, la “Garzantina universale sui Prodotti Tipici”, dedica appunto una voce autonoma al “salame lardellato” definito dall’autore “salame classico delle Marche, diffuso un po’ ovunque all’interno di questa regione540”; l’autore inventaria anche la produzione d’eccellenza di questo salume, ossia il “salame di Fabriano”, inquadrato come “vanto della norcineria marchigiano”, in grado di “conquistare giustamente gran fama nel corso del secolo”, evidenziando soprattutto come sia “tipico non solo di Fabriano ma anche di diversi comuni della Comunità montana Alta Valle dell’Esino, in provincia di Ancona541”. Nel 2005 una pubblicazione del Touring Club dedica questa voce al “salame di Fabriano”: “La carne della spalla e della coscia viene prima tagliata a mano, poi macinata grossolanamente, quindi si aggiungono cubetti di lardo tagliati anch’essi a mano. Il tutto è condito con sale, pepe in polvere e in grani, insaccato in budello gentile e legato542. Nel 2006 “L’enciclopedia della cucina italiana” dedica questa voce al “Salame di Fabriano”: “A grana fine con lardelli tagliati a mano e conciato con sale, pepe e aglio macerato nel vino bianco, ha consistenza dura ed è ricoperto di una lieve muffa marrone543 ”. (536) R. ORSETTI, La civiltà contadina nelle Marche del Novecento, Falconara 2002, p. 45. A. MOLINARI PRADELLI, La cucina delle Marche..., cit., p.29. (538) D. PAOLINI, Il mestiere del Gastronauta, Milano 2005, p. 119. (539) D. PAOLINI, Viaggio nei giacimenti golosi: prodotti ed itinerari, Milano 2000, p. 135. (540) L’universale: Prodotti tipici, a cura di D. PAOLINI, Milano 2005, p. 426. (541) Ivi, p. 418. (542) TOURING CLUB ITALIANO, Marche/Umbria: Adriatico, Trasimeno e Appennino: tra tartufi, Verdicchio e lenticchie, Milano 2005, pp. 35-36. (543) L’enciclopedia della cucina italiana, vol. 8 Uova, salumi e formaggi, Novara 2006, p. 316. (537) (544) C. CANTONI, Il salame oggi, <La salumeria italiana>, settembre 1989, p. 26. Umbria – Marche.Tradizioni e sapori d’Italia: Viaggio nel costume e nel gusto, Milano 2004, p. 136. (546) Marche: Viaggio attraverso le regioni italiane, Milano 2002, p. 64. (547) TOURING CLUB ITALIANO, Emilia – Romagna/ Marche, Roma 2005, p. 22. (548) TOURING CLUB ITALIANO, Marche, Milano 2001, p. 136. (549) P. MORGANTI - C. NARDO, Il maiale: la storia, le tradizioni e le ricette, Sona 2004, p. 70. (550) Umbria e Marche: il verde prato del sapore [testi di E. MÈDAIL e M. PALLA], Roma 2006, p. 25 (551) A. PICCINARDI, Dizionario di gastronomia: materie prime, tagli delle carni, metodi di cottura, strumenti culinari, tecniche di cucina, terminologia, Milano 1993, p. 406. (552) Le colline del Verdicchio: il Castrum, la pieve, i fruscoli, testi di A. ATTORRE con la collaborazione di V. CHIARINI e M. CASOLANETTI, altri contributi M. GASPARRINI, E. ROSSI, G. MANCINI, D. BATTISTONI, R. CECCACCI, G. MANCIA, Bra 1998, p. 103. (545) 148 • • 149 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Nel fascicolo “Tra Lazio e Marche, un panorama di buona gastronomia: La via Flaminia” per la collana “In viaggio tra i sapori d’Italia” curata dall’Istituto Geografico De Agostini in collaborazione tra Slow Food e Coop, una scheda è dedicata a “Il salame di Fabriano”, definito appunto “lardellato”553. In un’altra guida enogastronomica, l’edizione 2003 de “Il golosario di Paolo Massobrio” il compilatore tra le schede riservate alle “cose buone” delle Marche ne dedica una al salame lardellato, segnalando un produttore in particolare: in questa mezza pagina non a caso viene anche segnalata la chiusura di uno storico produttore fabrianese del celebrato salume locale, e l’autore oltre ad auspicare “giovani disposti a rinvendire la tradizione dei salami locali” afferma di aver trovato tuttavia un salame lardellato nel cuore dei Monti Sibillini, “di ortodossa tradizione marchigiana554” Sempre nel 2003 Giovanni Ballarini, docente di Veterinaria all’Università di Parma (ma anche studioso di cultura dell’alimentazione e presidente dell’Accademia della Cucina Italiana) pubblica il testo “Piccola storia della grande salumeria italiana” dove stila un elenco dei salumi tradizionali di ogni regione, tra cui naturalmente le Marche, compilando questa lista con un inventario incrociato di quanto censito nel decreto legislativo 173 del 1998, dall’ “Atlante dei Salumi” curato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, dalle edizioni 1931, 1969, 1984 della “Guida all’Italia gastronomica” del Touring Club Italiano; oltre alla dovuta citazione dell’eccellenza fabrianese nel breve testo introduttivo (“il famoso salame di Fabriano, un insaccato di carne magra di prosciutto e di spalla con lardelli duri, sale e pepe nero”) tra i prodotti citati non manca naturalmente il salame lardellato555. Per il salame di Fabriano Slow Food ha addirittura istituito uno specifico presidio; così si legge nel testo “L’Italia dei Presidi: Guida ai prodotti da salvare”: “Il presidio, nato per far conoscere questo grande prodotto, si è inoltre posto il problema della materia prima. I salami migliori, infatti, sono sempre stati prodotti con maiali pesanti (150-180 chili) allevati in zona, ma oggi è molto difficile reperirli556”. Sono testimonianze scritte recenti e recentissime che vanno a sommarsi alle infinite memorie di norcini e contadini, di cui una minima ma preziosissima parte è stata salvata nel tardo Novecento dall’oblio dal lavoro di storici della gastronomia, studiosi delle tradizioni alimentari e sociologi rurali. riali diverse. Ad esempio il sito “saporidelmontefeltro.it” lo descrive con la denominazione di “Salame del contadino o Lardellato557”. Il portale “gustitipicimaceratesi.it” riporta che nell’alto maceratese si ha molta cura nel scegliere le essenze legnose da bruciare per aromatizzare i salami, preferendo quelle resinose come il ginepro, attenzione non sempre riscontrabile in altre zone”, per poi riferire “ anche di un salame di Colfano o della “Providentia” che, secondo una leggenda popolare, era fatto da frati con le carni questuate durante la mattanza dei maiali; aggiungendo qualche aroma ed un goccio di vino bianco, frati ottenevano un salame molto buono da consumarsi in occasioni speciali”; nella voce “da gustare” è citata una consuetudine rituale, ossia la presenza “per la colazione della mattina di pasqua, antipasti, spuntini e merende, come piatto unico con verdure di stagione”. Addirittura il sito del comune di Macerata dedica una pagina alle antiche tradizioni gastronomiche, e riguardo alla salumeria si riferisce appunto de “Lo salato”, ossia “prosciutto crudo, lonza, salame lardellato, ciauscolo, coppa di testa e mazzafegato”, in genere “accompagnati da olive, carciofini, fave e pecorino558”.Anche i siti nazionali dedicano spazio a questo insaccato tradizionale, come ad esempio “gustoetradizioni.it”, che nella sezione delle Marche parla del “salame lardellato” come “prodotto tipico di tutte le Marche”559, come identicamente riportato anche dal sito “showfood.it”560. Il sito “greensite.it” riporta tutti i prodotti di salumeria suina marchigiana: “barbaglia, ciarimbolo-buzzico-ciambudeo, ciauscolociabuscolo-ciavuscolo, cicoli-ciccioli-sgrisciuli, coppa di testa-tortella, lonza-capocollo-scalmarita, lonzino-capolombo, mazzafegato-salsiccia matta, miaccio-miaggio-migliaccio, pancetta arrotolata, porchetta, prosciutto aromatizzato del Montefeltro, prosciutto delle Marche, salame di soppressato, o soppressato, salame lardellato-salamediFabriano, salsiccia, salsiccia di fegato, spalletta561”. Il sito www.guida-vino.it dedica invece una scheda all’eccellenza del “Salame lardellato di Fabriano”562, come anche il sito “cadnet.marche.it.” che nel ritrarre “Fabriano e il suo territorio” segnala i “prodotti tipici”, e “primo fra tutti il prelibato salame lardellato, detto per l’appunto tipo Fabriano563”. Il sito “fabrianoturismo.it” parla appunto di “salame di Fabriano o salame lardellato”, che una volta confezionato “viene appeso e lasciato riposare per circa un giorno e mezzo ad asciugare”, e “quindi viene spostato in una stanza con il focolare acceso a stufare per tre o quattro giorni in modo da perdere qualsiasi traccia di umidità residua; infine viene spostato in stanze asciutte e areate, per almeno due mesi564”. Riguardo a questa specialità fabrianese va citato il sito monografico “salamedifabriano.it”, dove si ricorda che “Per rilanciare e tutelare la produzione del Salame di Fabriano è stato costituito, su inziativa dell’Assessorato alle Attività Produttive del Comune di Fabriano, il Consorzio per la Produzione e la Tutela del Salame di Fabriano”565. _Il nuovo millennio e la nuova comunicazione: la diffusione del salame lardellato come prodotto valorizzato e commercializzato su Internet_ Anche per il salame lardellato una rapida scorsa ad internet è in grado di ribadire la diffusione e la notorietà di questo insaccato tradizionale della salumeria storica marchigiana, citato da tanti siti dedicati alla valorizzazione e divulgazione delle tradizioni gastronomiche di realtà territo- (557) (558) (559) (560) (553) Tra Lazio e Marche, un panorama di buona gastronomia: La via Flaminia, Novara 2001, p. 42. (554) Il golosario di Paolo Massobrio 2003; guida alle mille e più cose buone d’Italia con le ricette dei “Piatti dell’Amicizia” di ogni regione d’Italia, Alessandria 2002, p. 157. (555) G. BALLARINI, Piccola storia della grande salumeria italiana, cit., p. 156. (556) L’Italia dei Presidi: Guida ai prodotti da salvare, a cura di S. MILANO - R. PONZIO - P. SARDO, Bra 2002, p. 291. (561) (562) (563) (564) (565) www.saporidelmontefeltro.it. www.comune.macerata.it. www.gustoetradizioni.it. http://www.showfood.it/italia/regioni/marche/salumi/salame_lardellato.html. http://www.greensite.it/prodotti_1.htm. www.guida-vino.it. www.cadnet.marche.it. http://www.fabrianoturismo.it/docs/enogastronomia/salumieformaggi.asp. www.salamedifabriano.it. “O SALUMI BENE AMATI” • 151 Cenni storici sulla LONZA: il salume per grandi e piccole occasioni _Cenni storici_ L’apprezzamento verso la lonza e le altre succulente specialità suine andava ben oltre i capricci momentanei e le mode culinarie e conviviali dell’aristocrazia. Tutti, anche la nobiltà, apprezzavano questi cibi sostanziosi ed anche ghiotti, ma dall’origine schiettamente rustica. I salumi, trasversalmente acquistati e gustati erano diffusi nei commerci delle città e dei piccoli centri. Tra tutte le preparazioni di salumeria suina le lonze avevano forse un pregio particolare, rivelando nella tradizione marchigiana un apprezzamento davvero trasversale, risultando la leccornia più appetita per i contadini, costretti il più delle volte a vendere gli ancor più pregiati prosciutti, ma al tempo stesso gradita nelle mense signorili. La lonza nelle Marche è pertanto fortemente radicata nella tradizione di norcineria: Le fonti dimostrano una sua significativa commercializzazione, attestata dalle liste ufficiali di tariffe e costi dei principali generi commestibili sul mercato. E’ per questo che negli elenchi di cibarie dei vari mercati cittadini figura spesso questo salume, assieme alle altre preparazioni di norcineria e ad altri tagli di carne suina. Andando indietro nei secoli ad esempio nel 1696 un documento già citato (conservato all’Archivio di Stato di Macerata) riferisce i prezzi, a Belforte sul Chienti, di molti prodotti di derivazione suina, tra cui appunto salame, prosciutto, lardo, strutto, lonza, ciauscolo566. Tra i già citati archivi gentilizi che riportano conti annuali di pagamenti ai norcini, con relative rendicontazioni conclusive della “pista” domestica, va ancora qui ricordato l’inventario di casa Troili del 1729, dove tra la “carne salata di fresco” figurano appunto sei “allonge” (in quanto forse “allungate”, termine che, riferendosi alla pratica di arrotondare e plasmare i lombi di carne nella forma consueta affusolata a cilindro, potrebbe rivelare probabilmente l’origine del vocabolo evoluto poi in “lonza”)567. Del resto l’antica denominazione “longia” (più vicina al termine definitivo “lonza”) si ritrova in una delle più antiche citazioni di questa regione, ossia tra le carte manoscritte seicentesche di cucina e scalcheria (arte del servizio a tavola) della famiglia aristocratica maceratese dei “Buonaccorsi”568. Restando negli spazi delle dimore signorili dell’aristocrazia è doveroso ancora una volta il riferimento al primo e più importante testo di cucina pubblicato nelle Marche in più edizioni dal 1779 al 1786 (con successive ristampe ottocentesche), ossia “Il Cuoco Maceratese”, scritto da Antonio Nebbia: l’autore non vi descrive le pratiche di confezionamento o conservazione della lonza (erano chiaramente lavori da norcino o “mazzarino”, non certo da maestro di cucina), né tantomeno propone questo salume tra gli ingredienti per alcune ricette (probabilmente questo insaccato, più umile, era riservato a spuntini e merende informali, non a pranzi o cene di gala). (566) M. G. PANCALDI, cit., p. 155. Archivio Nembrini Gonzaga, (Fondo Troili). Testamento ed inventario de beni del Conte Gio. Battista Troili. A rogito del notaio Angelo Bonvini in data 23 gennaio 1729, Ms; cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 373. Come già riportato in precedenza nella lista figuravano anche cinquanta salami, otto prosciutti, sei lardi di 100 libbre, otto golette, quattro panzette, trenta ciauscoli. (568) B. S, Mc., M. Bn, b. 4/28 [Lista di banchetti]. (567) 152 • • 153 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Eppure due citazioni della lonza si trovano nel ricercato ricettario del Nebbia. La prima è quasi involontaria, puro pretesto didascalico per chiarire l’illustrazione di una ricetta: infatti l’autore, nel descrivere una preparazione di carne (“rognonata di vitella mongana, o campareccia, fatta arrosto, o castrato di montagna”) spiega come, dopo aver disossato e battuto un “fianco di vitella mongana”, insaporendolo con sale, rosmarino e spezie dolci e cospargendolo di fette di cipolle, questo pezzo di carne vada “ritorto come una lonza di majale, che resti la superficie al di fuori, e al di dentro resti la cipolla involtata con il fianco”. Si tratta di una riprova evidente di come la tecnica di preparazione della lonza ed il suo stesso aspetto conseguente (ed inconfondibile) fossero radicati fortemente nella tradizione e nell’immaginario alimentare dei marchigiani, e pertanto ben presenti nell’esperienza comune, al punto da essere presi come esempio e modello per descrivere una pratica di cucina ad essa riconducibile ed assimilabile569. Negli anni del Nebbia la lonza era pertanto universalmente conosciuta e quindi naturalmente gustata, anche nelle mense signorili ed eleganti, e questo apprezzamento viene appunto comprovato ed attestato dalla seconda citazione riscontrabile nel “Cuoco Maceratese”: vi si illustra infatti attraverso una raffigurazione ad hoc come imbandire un pranzo di gala, in questa apparecchiatura schematicamente simulata si suggerisce di predisporre nell’imbandigione di apertura il centrotavola o “desser” in mezzo alla mensa, fiancheggiato ai lati da due saliere, ed attorniato da alcune pietanze sistemate dai camerieri e credenzieri con gusto e criterio simmetrico, mettendo ad esempio contrapposte a fronteggiarsi due terrine con zuppe di colori diversi (rossa e bianca); ed appunto tra “tondini” (piccoli piatti) disposti ad arte ne figurano appunto due con differenti affettati, in uno “lonza cotta al fieno e prosciutto” nell’altro salame e cotechini570. Restando nel diciottesimo secolo, dall’arte effimera degli apparati conviviali, con portate ornamentali e stoviglie preziose ed adornate, viene naturale considerare come un’altra documentazione interessante e preziosa sulla lonza possa essere quella iconografica: nel repertorio artistico regionale settecentesco si notano infatti alcuni Carlo Magini. Natura morta con oliera, piatto con lonza e dipinti di nature morte che testimoniano vivimazzo di rape. Quadriera della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano. damente le cibarie e le stoviglie della mensa in quell’epoca. Maestro nel genere dei quadri con tavole imbandite è certamente l’ormai noto pittore fanese Carlo Magini (1720-1806), autore ad esempio di una “Tavola apparecchiata” (tela conservata alla Collezione Sangalli di Bergamo), dove sull’estremità sinistra davanti ad una pentola in coccio grezzo incoperchiata (simile alle terrecotte da fuoco che ancora si producono a Fratte Rosa, sempre nel pesarese, nella Valle del Cesano) si vede appunto un piatto in ceramica bianca con fette di salumi disposte ad arte, tra cui lunghe listarelle di prosciutto, fette di lonza e tre fette di salame lardellato. Sempre ad opera di Carlo Magini, nella raccolta della Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano, è conservata una splendida “Natura morta con oliera, piatto di lonza e mazzo di rape”, dove le fette tagliate e disposte ad arte su un piatto in ceramica bordato d’azzurro rivelano la sagoma tondeggiante irregolare del salume, e l’inconfondibile rosso rubino marmorizzato de spirali di lardo bianco rosato571. Nella medesima quadreria si nota anche una “Natura morta con pane, bottiglia di vino e piatto con affettato”, dove nelle fette di questo salume si può riconoscere una lonza con una più cospicua parte di grasso572. Nel 1777 ad Ancona, una “Tariffa de’ Prezzi della Carne Porcina Fresca”, bandita all’11 di ottobre, fissava i vari prezzi dei salumi e della carne fresca di maiale: la lonza costava 17 quattrini, meno dello strutto a 25, e del lardo e delle salsiccia “fina, buona, ricipiente, e ben speziata” a 24, mentre le “coste” erano in Carlo Magini. Natura morta con pane, bottiglia di vino e piatto assoluto le più economiche, venendo solo undici con affettato, Fano, Quadriera della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano. quattrini573. Sempre negli ultimi decenni del Settecento un consumo signorile e particolare della lonza è poi documentato dal “Libro delle spese di cibaria per casa di sua eccellenza cavaliere Guglielmi, castellano di Ancona”: in questo registro di compere domestiche di generi commestibili si possono infatti ricostruire al tempo stesso le predilezioni gastronomiche ordinarie e le consuetudini conviviali ricorrenti nell’eminente famiglia dei Guglielmi, nel biennio dal 1790 al 1792. Al giorno 3 agosto 1792 si registra, in un’unica voce, l’acquisto di “mellone, e lonza ”, rivelando così molto probabilmente la consuetudine di abbinare agli spicchi del frutto estivo le fette di questo salume, come oggi è consuetudine fare con il prosciutto574. Nel 1793 un inventario di un norcino di Camerino (stando alla firma tal Giuseppe Bernardini) annota il corredo da lavoro per “La battuta delli Sig.ri Cucchiaroni”, dove oltre allo spago ed alle spezie si trovano i “Trumoni”, ossia probabilmente le parti finali dell’intestino, “Per vistire le lonze575”. Pochi anni dopo, agli albori del secolo successivo il già citato trattato di agronomia “Il Dottore (569) (570) A. NEBBIA, cit., p. 95. Ivi, p. 139. (571) L’anima e le cose..., cit., p. 160. Ivi, p. 165. (573) Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, Bandi e notificazioni, n. 6.432. (574) Biblioteca Planettiana di Jesi, Archivio Guglielmi, Libro delle spese di cibaria per casa di sua eccellenza cavaliere Guglielmi, castellano di Ancona, carte non numerate. (575) M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 208; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino. (572) 154 • • 155 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” della Villa” dell’abate di Monsano Angelantonio Rastelli, stampato a Jesi nel 1808, nel capitolo dedicato alla carne suina riporta i tempi di salagione della carne porcina, e specifica pertanto come “le coste, gli ossami, e le lonze” vadano levate dal sale “a capo a tre o quattro giorni576”. Nel 1812 a Camerino l’inventario dei beni del defunto Francesco Sabbiati Bonelli e del fratello Pietro descrive ciò che è stato rinvenuto nel “Dispensino ad uso di magazzino”: “Cotiche e zampetti, Cose diverse di majali, Lonze de’ majali, Presutti […] unitamente a diverse spallette di majale”, Lardo, e Barbaglio, Distrutto”577. A metà Ottocento risale un suggerimento per la confezione della lonza, rinvenuto in ambito monastico, ossia presso la congregazione dei Padri Filippini di Ascoli Piceno: in una nota riservata si legge infatti l’avvertimento al Padre Minore di far mettere “nelle lonze arancio nelle budelle, prima di farle”, ed ancora “dopo cinque o sei giorni di sale che abbiano avuto le lonze, si fanno con lavarle bene col vino […] e poi ogni tanto ci si mette una tega di corteccia d’arancio dolce ed un garofano intiero e poco fumo578”. Ecco pertanto che tra i tanti aromi per la lonza, ormai codificati dalla tradizione marchigiana, vengono qui attestati, oltre al già frequentissimo vino, anche la scorza di arancia (e probabilmente anche il suo succo) e la citazione dei chiodi di garofani. Tra i frati illustri che hanno dimorato in questo monastero si ricorda Fra Michele Torquati che istituì una cappellania con l’obbligo di festeggiare al 24 ottobre San Raffaele, facendo elargire per quella occasione a tal Marianna Fratini un donativo “vita natural durante” di una cospicua dote di cibarie, tra cui una lonza, tre salami, diciannove libbre di salsicce, lardo nuovo, nonché determinati quantitativi di vino, ed anche grano e olio in tempo di buon raccolto579. Un’altra importante testimonianza monastica per la lonza viene ancora dal monastero delle clarisse di Santa Maria Maddalena di Serra de’ Conti, di cui si conservano le note di cucina e dispensa ottocentesche, tra cui alcune già citate prescrizioni per la “pista” suina, riportando quanto ogni taglio o residuo della bestia dovesse essere conservato sotto sale: “gli ossami otto giorni, le panzette, golette e orecchie dodici, i lardi grossi venti ed i più piccoli diciotto”. Si annotavano naturalmente anche i tempi di salatura per i vari insaccati (per i “presciutti” quaranta giorni, le spalle trenta, ed infine “i Capocolli e Lonze ci deve stare dieci, o dodici giorni secondo che sarà asciutti”)580. Tra le tante ricette conservate dalle clarisse risultano appunto anche annotazioni ed istruzioni su pratiche di norcineria e salumeria: in un quadernetto rilegato si legge anche questa breve ed interessante annotazione: “per i capocolli ogni dieci libre di carne sei oncie di sale, e poi di pepe che sia ben coperti, che le lonze deve stare una diecina di giorni sotto il sale. Per le lonze per ogni dieci libre [circa 350 grammi] di carne cinque oncie [circa 25 –30 grammi] di sale e di pepe ben coperte581”. Nel medesimo monastero è documentato anche il regolamento di dispensa, dove si può notare come diverse fette di lonza si accompagnassero ad arrosto di pollo e coratella fritta di castrato nel pranzo lauto che celebrava all’undici di agosto la festività di Santa Chiara di Assisi, titolare e fondatrice dell’ordine stesso di queste suore. Del resto si è già avuto modo di osservare come i ricavati più pregiati della “salata” nelle dispense contadine, come salami, lonze ed anche prosciutti, fossero centellinati per momenti ritualmente solenni nel corso dell’anno: si iniziava ad affettare la lonza o anche il salame a Pasqua, e poi abbondantemente se se consumava d’estate quando le famiglie collaboravano tra loro per le “opre” (i grandi lavori estivi del raccolto), soprattutto per la mietitura e la “battitura” (trebbiatura) del grano. Come ha riportato Antonio De Signoribus nella sua ricerca “Aspetti dell’alimentazione picena tra ‘800 e ‘900 il prosciutto e la lonza erano in effetti gli insaccati che generalmente arricchivano l’ultimo dei sette pasti che scandivano la giornata dei mietitori, ossia la cena conclusiva, imbandita in genere anche con pesce fritto, o patate con lo stoccafisso582. Alla fine dell’Ottocento, per la precisione nel 1891, ad Unità d’Italia ormai ampiamente sancita e consolidata, Pellegrino Artusi dà alle stampe la prima edizione (di infinite ristampe) del suo volume “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, che molti considerano il codice che ha divulgato e riunificato la gastronomia italiana nelle varie regioni. In questo compendio delle identità gastronomiche locali non vengono purtroppo mai menzionate le Marche, dove però curiosamente in quel medesimo 1891 (anno di artusiana memoria) viene pubblicato il ricettario anonimo “Il cuoco perfetto marchigiano”, stampato a Loreto e già ripetutamente qui citato. In questo testo di cucina, ricco di riferimenti a quelle che nel tempo diverranno codificate e considerate specialità tradizionali della regione, non si descrive la lonza nelle sue modalità di confezionamento vero e proprio (come del resto per nessun’altro salume), né la si propone come ingrediente per altri piatti. Esattamente però come si è visto per il testo tardo - settecentesco del Nebbia, la si cita come modello di riferimento in qualità di procedimento tecnico, attestando così la sua familiarità nelle cucine e dispense marchigiane. Infatti nella ricetta della “Coppa di Bologna” (si veda in seguito nel capitolo apposito) si raccomanda di versare il composto cucinato e aromatizzato in un “trombone da vaccina” (come si vedrà a breve spesso anche impiegato per le lonze stesse), per poi metterlo ad asciugare “legato e stretto a guisa di lonza583”. Le memorie contadine raccolte in tempi più recenti registrano un certo orgoglio familiare nel far assaggiare la propria “salata”, che era un emblema di abbondanza golosa da affettare copiosamente non solo nelle feste comandate, ma anche all’arrivo di parenti o ospiti, o anche in visite importanti e nei momenti solenni della vita privata, in particolare i fidanzamenti e le nozze. In proposito nella Biblioteca Comunale di Fermo è conservato un manoscritto di circa mille pagine redatte da Luigi Mannocchi, studioso del folklore e della musica popolare del Piceno: questa ricerca terminata nel 1910, descrive molti costumi tradizionali del fermano, tra cui il racconto degli accordi e della celebrazione di un matrimonio, con doviziosi riferimenti ai cibi serviti in queste circostanze festose. Ad esempio già durante il primissimo incontro del giovane a casa della fanciulla adocchiata, i genitori di lei si fecero comunque trovare, all’arrivo del corteggiatore e dei suoi accompagnatori, sull’aja di fronte alla casa; la madre ed il padre della ragazza continuando a far finta di nulla “foravano tutte e due le botticelle, affettavano la lonza e, con mille parole cortesi, li invitavano a sedere ed a mangiare”. Finalmente, dopo la lunga trafila del primo (576) A. RASTELLI, Il dottore della villa…, cit. p. 125. M. SANTARELLI, L’apparecchio del gusto: Contributi ad una archeologia della gastronomia moderna, vol. II, I documenti dell’Archivio di Stato di Camerino tra il XVIII e il XIX secolo, Macerata 2008, p. 144; l’autore fa riferimento ad un documento del fondo notarile della sezione dell’Archivio di Stato di Camerino. (578) A. BUCCIARELLI, cit., p. 77. (579) Ivi, p. 33. (580) Archivio Storico Monastero di Santa Maria Maddalena, b. 7, Ricettario, Registro cartaceo con regolamento di dispensa. (581) Il cuoco perfetto marchigiano, cit., p. 40. (577) (582) Cfr. A. DE SIGNORIBUS, Aspetti dell’alimentazione Picena tra Ottocento e Novecento, <Proposte e Ricerche>, 11-12, 1983-84, p. 31. (583) Il cuoco perfetto marchigiano, cit., p. 104. 156 • • 157 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” abboccamento, della reciproca conoscenza, e quindi degli accordi e del fidanzamento blindato si arriva al matrimonio, ed al lauto banchetto celebrativo ed al suo antipasto tradizionalmente ricorrente in tutti i grandi conviti nuziali: “ed ecco che un lungo ed interminabile evviva saluta i camerieri recanti ampi piatti di lonza e prosciutto, che diano motivo a votare le prime boccalette ed infondano così maggiore allegria alla festa584”. In effetti un po’ ovunque in tutta la regione era consuetudine onorata quella di servire abbondanti piatti di affettati, con il trittico di salame, prosciutto ed affettati vari, come antipasto di apertura dei sontuosamente abbondanti ed episodici pranzi di matrimonio585 . Anche nella tradizione maceratese i banchetti nuziali si aprivano con piatti assortiti di “ciauscolo, prosciutto, lonza, salsicce, anche di fegato”, come anche da “crostini di pane con maghetti di pollo tritati a somiglianza del paté de foie gras586”, segnale di incontro e quindi contaminazione con modelli cucinari e conviviali più nobili e raffinati, condizionati da tendenze gastronomiche dichiaratamente signorili. Ed a proposito di squisiti e raffinati modelli di arte cucinaria ispirati alla creatività più in voga, è interessante sfogliare ancora le pagine di un celebrato ed elegante chef nativo del maceratese, il già ampiamente citato Cesare Tirabasso, che con il suo primo libro “La Guida in cucina” cerca di far convivere e conciliare nei tardi anni ’20 le tradizioni gastronomiche delle campagne marchigiane con la ricercatezza elaborata della nuova cucina italiana riformata, propria delle mense aristocratiche e dei conviti più esclusivi. Nel suo desiderio far convivere il gusto raffinato ed aristocratico di modelli di cucina francesizzanti (ormai dominanti), con la tradizione apparentemente umile e dimessa delle ricette tipiche marchigiane, sia rurali che marinare l’abile cuciniere nativo di Montappone riesce a conciliare l’ “alto” della convivialità più eccelsa con il “basso” delle pratiche di dispensa basilari ed universali delle campagne. Come si è già visto dedica un capitolo al maiale, illustrando schiettamente “la salata”, non dimenticando anche un capitolo sulla preparazione della lonza, intitolato “Modo di conservare la lonza”; eccone la trascrizione integrale: “La lonza si fa con le braciole spolpate. Fatela stare tre giorni sotto sale. Levatela dal sale, spolverizzatela fortemente con pepe macinato al momento; involgetela poscia con la grossa budella dello stesso maiale, che avrete preparato prima; legatela bene con spago e fatela affumicare come si è detto per il prosciutto587” (ossia “fatelo affumicare mettendolo sotto alla cappa del camino588”). Anche le numerose fonti orali (raccolte mediante indagini sul campo, svolte nei decenni scorsi da storici delle tradizioni alimentari e da sociologi rurali), hanno descritto variamente le pratiche di produzione della lonza589. Ricorrono in queste testimonianze la scrupolosa e preliminare pratica di massaggiare la parte di lombo con sale e pepe. E’ ugualmente frequente registrare la mescita ripetuta di vino per immergervi le lonze in accurati e reiterati bagni: per questo impiego si spilla- vano sicuramente botti dei più comuni e casalinghi prodotti di vitigni autoctoni. Non mancavano neanche i profumi inconfondibili delle erbe aromatiche peculiari e distintive delle varie zone, da combinarsi con gli effluvi più ricercati di spezie d’origine orientale (pepe, ed anche chiodi di garofano), ma anche con le scorze di agrumi (molto familiari alla nostra cucina tradizionale), e molto spesso con l’aglio, incorporato anche a spicchi (i contadini marchigiani erano celebri anche fuori regione per preparare insalate con bulbi dall’aroma e dal sapore acre e forte590). Se, come si è visto, gli antichi ricettari a stampa destinati alle cucine aristocratiche o comunque signorili offrono rare ma significative citazioni della lonza, comprovandone comunque la diffusione, è invece più facile rintracciarla come ingrediente pregiato in alcune preparazioni tradizionali di cucina nelle campagne, raccolte oralmente dagli studiosi, per ricette destinate al tempo stesso per occasioni speciali come anche per i pasti semplici delle giornate comuni591. Tra gli impieghi come ingrediente particolare per pietanze sontuose da pranzo importante si può ricordare ad esempio la ricetta della tradizione matelicese, raccolta su memorie della prima metà del Novecento, del “Coniglio in porchetta”, farcito con un trito del cuore e del fegato della bestia, ripassato con finocchio selvatico assieme ad un macinato composto da una fetta di salame, una di pancetta ed una appunto di lonza592. Altra ricetta tradizionale da ricordare è il “riso curgo”, piatto antico e tipico delle campagne maceratesi in uso soprattutto quando era avanzato un po’ di riso e non era sufficiente per tutta la famiglia. Si mette sul fuoco una pentola d’acqua; quando bolle si versano due tazze di riso; a metà cottura si comincia ad aggiungere con una mano dei pugni di farina (per un totale pure di due tazze) mentre con l’altra mano si mescola; quando il tutto diventa abbastanza denso come una polentina si scodella sui piatti; il condimento è a base di “sugo finto”, un po’ d’olio, lonza a pezzettini, pomodori, pepe, e sopra pecorino grattugiato593. Nell’indagine già citata, condotta negli anni ’50 sulle abitudini alimentari del contadini delle Marche Nord Occidentali (commissionata dall’Istituto Nazionale della Nutrizione del CNR), è stato elaborato uno schema sui singoli pasti nelle varie stagioni, sulla base delle informazioni raccolte sul campo. Stando ad una valutazione media sui cibi consumati nei vari pasti queste famiglie di campagna (tutte generalmente produttrici di salami, coppe, lonze, salsicce, lardo sotto sale e prosciutto durante la “pista” annuale) consumavano genericamente salumi in molti pasti della giornata lungo le varie stagioni594. C’erano poi momenti dell’anno canonizzati da questo consumo: c’è ad esempio chi ricorda come la lonza fosse tra i cibi “principali per le merende del primo maggio, insieme a pecorino e fava fresca595”; in realtà questo spuntino oltre che per una ricorrenza laica (e relativamente recente), poteva contraddistinguere tutte le altre festività e scampagnate del mese di maggio596, ad esempio il tradizionale pellegrinaggio al santuario della Madonna delle Alberici (ancora vivo nel ricordo di tutti i suoi particolari e rituali (584) (590) La trascrizione integrale di questo passaggio, dal titolo Nozze di campagna è stata curata da B. MUZI ed A. EVANS nel loro ricco ed approfondito testo La cucina picena (Padova 1991, p. 37 e p. 43). (585) Ivi, p. 107. (586) G. SEMMOLONI – L. SPERNANZONI, Dizionarietto delle tradizioni e del mangiare, Macerata 2001, p. 58. (587) Ibidem. (588) Ibidem. (589) G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., p. 182; G. PICCHI, Risorse e cibo nella terra delle armonie, cit., p. 172; G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., p. 182. Citazione da E. FACCIOLI, Introduzione in Il Cuoco perfetto marchigiano, cit. U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 190. (592) Antologia della cucina popolare, cit., p. 113. (593) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 190. (594) Lo studio in generale ed il prospetto con la tabelle dei vari pasti nella settimana nell’arco delle stagioni è stato elaborato da F. BONASERA (Le abitudini alimentari dei contadini delle Marche Nord Occidentali (1950), cit., pp. 78-79). (595) La salumeria nella Marca Anconetana, cit., p. 196. (596) [A. ATTORRE – V. CHIARINI], Ricette di osterie e di porti marchigiani, Bra, 1994, p. 36. (591) 158 • • 159 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” consueti e caratteristici in molte persone anziane nell’anconetano), o le celebrazioni legate alla Pentecoste ed al “Corpus Domini”. Lonza e salame non mancavano mai nella classica colazione di Pasqua, imbanditi sulla tavola già a fette assieme alle uova sode, alle pizze o cresce lievitate al formaggio, alla frittata profumata con la mentuccia597, secondo un’insieme rituale di significati e simbologie celate dietro queste provviste; questa canonica merenda mattutina in molte zone è ancora radicata e tuttora viva, mentre in molte altre è stata recuperata con spirito di rievocazione culturale per la colazione della scampagnata tradizionale di Pasquetta, preparata da tempo immemore con l’uovo sodo, la crescia al formaggio ed appunto la lonza. Come già visto ancora per tutto il Novecento gli affettati di salumi costituivano poi uno dei numerosi spuntini durante la giornata nei grandi lavori di mietitura e trebbiatura sotto il rovente sole di giugno e luglio598. La lonza in effetti per la sua presenza di grasso si conservava più a lungo, e durava nelle dispense fino a dopo l’estate, rifornendo così oltre alle merende tardo-primaverili anche gli spuntini, ed anche gli abbondanti pasti, tra pranzi e cene, per le grandi “opere” estive, come la mietitura e trebbiatura tra giugno e luglio, o anche la scartocciatura del granturco in agosto. Si può ricordare la tradizione della mietitura a Staffolo (nel maceratese): tra tutte le sequenze di pasti giornalieri serviti nei campi quando si mieteva secondo consuetudine alle sei si offriva, prima di iniziare il lungo lavoro all’alba (o quasi), “u bocco’”, primissima colazione di caffè d’orzo con i maritozzi ed il ciambellone; più tardi, verso le otto, i contadini si erano meritati la “colaziò”, con frittata, lardo, cipolla (o addirittura coniglio in umido) alle otto; dopo altre due ore era la volta d’ “u pranzu” con minestra di quadrucci in brodo, pastasciutta ed arrosto; spesso si servivano pasti diversi, più sontuosi e serviti sulla tavola apparecchiata per padrone, fattori e addetti alle macchine e al contratrio pranzi più spartani e frugali (ma ugualmente gustosi ed apprezzati) su una tovaglia stesa a terra per i braccianti stipendiati (“l’opre”). Terminato il pranzo si riprendeva a lavorare, ma non mancava poi la pausa di ristoro nelle torride ore del primo pomeriggio, quando alle due veniva versato per tutti marsala e vermuth; a pomeriggio inoltrato, verso le diciotto, arrivava “a merennuccia”, con una dolce “zuppetta” dei dolci casarecci nel vino, ed ancora pane bagnato con olio, sale, pepe; la cena di fine giornata prevedeva insalata, pane ed, appunto, lonza599”. Tra tutti gli insaccati la lonza era certamente tra quelli più apprezzati e tenuti da conto: la sociologa delle tradizioni rurali Graziella Picchi (che asserisce come nelle Marche “lonza”, “capocollo” o “scalmarita” siano sinonimi) sostiene appunto che “nella scala dei valori economici della civiltà contadina, la lonza veniva subito dopo il prosciutto e come questo, in caso di necessità, poteva essere venduto, magari per completare un corredo di nozze e per far fronte a qualche emergenza di carattere economico600”. Nelle dispense era conservata come provvista di pregio da destinare alle circostanze importanti, quando la si inaugurava affettandola. Nelle campagne anconetane il verbo “slonzare” era appunto dedicato ad eventi significativi come ad esempio fidanzamenti ufficiali: un contadino di Montesicuro (frazione di Ancona) apostrofò il “moroso” di una sua figlia, non ancora ufficialmente dichiaratosi ma comunque un po’ troppo invadente e presente in famiglia per i suoi gusti, con la frase “Non se slonza finché non se commenza”, per dire che non avrebbe preteso di poter mangiare niente a casa loro finché non ci fosse stata una dichiarazione di impegno nuziale in piena regola; solo allora si sarebbe allora dato il via ai festeggiamenti conviviali, tirando fuori appunto la lonza601. Nel parlare comune di alcune zone dell’anconetano, del resto, il verbo “slonzare” poteva indicava l’affettare salumi ma per esteso distribuire genericamente cibo602. Se non vi erano occasioni degne per assaggiare la lonza (ma in genere la colazione di Pasqua era sempre un momento propizio) bastava invitare i vicini ed offrire il salume, per poter gioire o deludersi per l’esito della degustazione. Era comunque l’occasione per scambiarsi sinceramente apprezzamenti o valutazioni, che potevano tradursi anche in consigli ed osservazioni da mettersi in pratica per la prossima confezione della lonza, alla “pista” o “salata” dell’inverno successivo603. I saperi domestici contadini sulla preparazione dei salumi sono poi stati la base principale del repertorio di conoscenze e metodologie tecniche e produttive delle prime aziende di salumeria industriale, sorte diffusamente con un particolare impulso nei primi decenni del dopoguerra tra i primi anni Sessanta e l’inizio dei Settanta (ed appunto tra i loro documenti contabili nell’elenco dei prodotti, si notano appunto le “lonze fresche” e “stagionate”604). Queste ditte ereditano direttamente ed indirettamente una tradizione di norcineria antica, secondo una memoria perpetuata nei decenni, e quindi certamente assimilabile probabilmente a pratiche riconducibili alla fine dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento (e certamente, con buona probabilità, non così lontane dalla realtà rurale marchigiana caratteristica anche dei secoli ancora antecedenti). Questi produttori nel tradurre in termini industriali il confezionamento di salumi ed insaccati storicamente tradizionali delle Marche si sono affidati, nel mettere a punto le tecniche di confezionamento delle tipicità locali, alle memoria vive ed ereditate nel tempo: anziani macellai e norcini (alcuni operanti fin dagli anni ’50) e porchettari di lungo corso e di infinita esperienza sono stati autentici libri di testo per la formazione di nuovi produttori su scala industriale, tuttora operativi a pieno regime. E’ infatti importantissima, per raccogliere i segreti della salumeria tradizionale (marchigiana e non), l’osservazione diretta dell’opera di artigiani dall’esperienza ormai pluridecennale, meglio ancora di “mazzarini” custodi di sapienza ormai rara e da preservare gelosamente. In questo, oltre ai produttori più scrupolosi, è stata maestra la decana nel dopoguerra tra gli studiosi della storia e delle tradizioni gastronomiche e conviviali delle Marche l’appassionata studiosa, Nicla Mazzara Morresi. (597) (598) (599) (600) Antologia della cucina popolare, cit., p. 96. Ivi, p. 113; Il Verdicchio: un vino, una tradizione, un territorio, a cura di M. L. SOVERCHIA, Moie 2002, p. 23. Ivi, p. 23. G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., p. 182. (601) Testimonianza orale raccolta da chi scrive in una conversazione con l’avvocato Alberto Lucchetti e con il signor Vittorio Pierdicca di Montesicuro. (602) Nelle campagne anconetane il verbo “slonzare” era appunto dedicato ad eventi significativi come ad esempio fidanzamenti ufficiali: un contadino di Montesicuro (oggi frazione di Ancona, comune autonomo prima della fine della Seconda Guerra Mondiale) apostrofò il “moroso” di una sua figlia, non ancora ufficialmente dichiaratosi ma un po’ troppo invadente e presente in famiglia per i suoi gusti, con la frase “Non se slonza finché non se commenza”, per dire che non avrebbe preteso di poter mangiare niente a casa loro finché non ci fosse stata una dichiarazione di impegno nuziale in piena regola; solo allora si sarebbe allora dato il via ai festeggiamenti conviviali, tirando fuori appunto la lonza. (Testimonianza orale raccolta da chi scrive in una conversazione con l’avvocato Alberto Lucchetti e suo cugino Vittorio Pierdicca). (603) G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., p. 182. (604) Documenti tratti dal dattiloscritto Relazione storica sulla tipicità del ciauscolo, redatto dal Centro di Cultura Popolare di Ostra Vetere ed ivi conservato. 160 • “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” • 161 Alla fine degli anni ’70 Nicla Mazzara Morresi nel raccogliere le ricette e nel censire le tipicità ha perlustrato la regione in lungo ed in largo, entrando nelle cucine e nei laboratori artigiani, osservando direttamente la preparazione di alcune specialità, tra cui i salumi. Ha pertanto assistito fisicamente al lavoro di una generazione ancora antica di “mazzarini”, partecipando a tutte le fasi operative, dall’uccisione del maiale al trattamento delle pacche fino alla concia dei salumi durante la “pista”. Questa è la descrizione raccolta dall’autrice, nel suo testo del 1978 “La cucina marchigiana tra storia e folklore”, sulla preparazione della lonza: “I due lombi di maiale si tengono 48 ore coperti di sale grosso, perché possano perdere l’umidità e conservarsi bene. Si lavano poi con acqua calda, quindi con vino; si asciugano con un panno e si lasciano per un giorno all’aria. Si infilano poi nel cosiddetto “trombone”, che è un budello di toro, e al centro si inseriscono alcuni spicchi d’aglio schiacciati. Le lonze si battono poi col matterello, si ungono esternamente di olio e si cospargono con 33 gr. di sale e con pepe a volontà. Infine, dopo essere state legate forte con uno spago, si appendono in locale ben arieggiato, per un paio di mesi e, quando sono asciutte, possono essere consumate605”. Nel 1985 un interessantissimo studio sulle tradizioni di norcineria dell’entroterra montano maceratese, “Pievetorina: il crepuscolo del suino” di Angelo Antonio Bittarelli, tra le tante ricette caratteristiche della salata e le pratiche di preparazione dei salumi riserva anche una trattazione accurata alla lonza: “Le lombate del maiale si usavano per confezionare le lonze. Si tenevano per otto giorni al freddo e sotto sale poi ”si vestivano”. Prima si battevano con lu rasognòlu per dare loro forma rotonda. Venivano poi avvolte con il “velo” dell’assogna o con parte delle budella avanzate. Legate strette venivano appese in cucina per la sfumatura. Le prime a sfumarsi erano le “sargicce” e i fegatelli (8-10 giorni) perché avevano le budella più leggere e la sfumatura era più rapida. Poi salami e ciabuscoli (15 giorni). In seguito lardo, lonze, orecchie, zampetti (15 – 20 giorni)606”. Un altro illustre storico della gastronomia marchigiana, Ugo Bellesi (Delegato di Macerata dell’Accademia Italiana della Cucina) così scrive sempre sulla produzione di lonza, in tempi più recenti nel suo fondamentale “Dizionario della cucina marchigiana” (1993): “Dal lombo di maiale si ricava la lonza. Infatti il lombo va tenuto per quattro giorni sotto sale e quindi viene battuto perché si ammorbidisca. Quindi va lavato con vino tiepido, pepato ed insaccato nel budello costituito dalla parte finale dell’intestino. Infine lo si deve legare molto stretto con lo spago607”. Leonardo Bruni, studioso delle antiche tradizioni alimentari rurali della regione, nel suo testo “Ricette raccontate: Marche” nella compilazione dell’elenco dei salumi tipici riporta la voce “lonze” con la consueta descrizione della procedura di confezionamento608. Nel 2002 nel suo censimento sul campo dei prodotti tipici anconetani la sociologa delle tradizio- ni rurali Graziella Picchi inquadra la fabbricazione della lonza nella provincia del capoluogo di regione, riferendo che si prepara cospargendo di sale e pepe per quindici o venti giorni pezzi della parte superiore del lombo suino, e rigirandoli in continuazione; vengono poi lavati in vino ed aromatizzati con aglio ed erbe; vanno poi asciugati, ricoperti di pepe, ed insaccati nel budello naturale tenuto fino a questo momento sotto aceto o limone; stretti poi saldamente con stecche di canne si legano saldamente con lo spago, per essere messi ad asciugare al camino per circa un mese, e poi a stagionare in cantina per almeno un anno609. Sempre Graziella Picchi ha schedato la produzione di lonza nella provincia di Macerata, dove questo salume è tradizionalmente chiamata “capocollo”, e dove se ne segnala la produzione a Pieve Torina, Visso, Ussita, Montecavallo, San Ginesio, Ripa di San Ginesio, Camerino, Sarnano, Caldarola, Serrapetrona, Cessapolombo, Colmurano, Loro Piceno, Gualdo, Sant’Angelo in Pontano, Monte San Martino, Tolentino, Penna San Giovanni, Camporotondo di Fiastrone, Belfolrte del Chenti. La lombata di maiale, preliminarmente ripulita di carnicci e grasso superfluo, viene qui messa sotto sale per almeno otto giorni in luogo fresco, massaggiandola e rigirandola quotidianamente, e trascorso questo periodo viene lavata con vino aromatizzato e fatta quindi asciugare in luogo ventilato; appena asciutta la si riscopre di pepe e viene insaccata nel budello e legata stretta con stecche tenute salde con lo spago; le lonze ottenute sono quindi messe a maturare vicino al camino e poi stagionate in cantina per almeno un anno. La studiosa rivela come in particolare in questo territorio “per gli operatori del settore è ormai chiaro che l’innovazione del prodotto sta nel ripristinare tecniche tradizionali che esaltano soprattutto le caratteristiche nutrizionali dei salumi, come evidenziano le analisi chimico- fisiche e microbiologiche di routine610”. Riguardo al territorio pesarese ed urbinate Rolando Ramoscelli e Gianfilippo Centanni, nel loro panoramico volume “Viaggio enogastronomico nella Provincia di Pesaro ed Urbino”, stampato nel 2001, oltre a segnalare le produzioni di questo salume a Borgo Pace, Orciano, Coldimarca, e nel Montefeltro, riportano come tradizionalmente dopo la salatura la lonza venisse aromatizzata con pepe, aglio, spezie “secondo i gusti”, e poi o messa in budello o avvolta in carta oleata (in alcune zone anche steccata con canne”); nelle campagne delle Marche settentrionali la lonza veniva conservata in estate “in una bigoncia sotto cenere e grasso611”. Come si riporta anche nel recente volume “La salumeria nella Marca anconetana”, a cura di Alessandro Segale ed Alberto Fiorani, nella “tradizione salumiera artigianale “il pezzo per la lonza è sezionato dopo la frollatura, adeguatamente ripulito di carnicci e grasso superfluo, quindi rifilato con il coltello per fargli assumere un aspetto cilindrico”; gli stessi autori ricordano anche che “nelle pratiche tradizionali tramandate da una generazione all’altra, per dare forma tondeggiante alla lonza si usava batterla con un mattarello, e quindi rivestirla con un velo di assogna, per poi essere insaccata nel budello e legata strettamente con stecche di canna, tenute ben salde da fitte girali di spago. Completata la maturazione vicino al camino per qualche mese, passa poi in cantina a stagionare per qualche anno612”. (605) (609) _Citazioni della lonza dagli studi sulle tradizioni rurali marchigiane e sulla letteratura gastronomica marchigiana dal secondo Novecento ad oggi_ (606) (607) (608) N. MAZZARA MORRESI, La cucina marchigiana tra storia e folklore, cit., p. 183. A. A. BITTARELLI, Pieve Torina: il crepuscolo del suino, cit., pp. 24-25. U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 129. L. BRUNI, Ricette raccontate: Marche, cit., p. 80. (610) (611) (612) G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., p. 182. G. PICCHI, Risorse e cibo nella terra delle armonie, cit., p. 172. F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro e Urbino, cit., p. 39. La salumeria nella Marca Anconetana, cit., p. 196. 162 • “O SALUMI BENE AMATI” Riguardo alla centralità di questo salume nelle Marche si legge ad esempio alla voce “Pista” del “Dizionarietto delle tradizioni e del mangiare” curato dalla “Comunità dei Monti Azzurri”: “Le due pacche venivano smembrate perché ne potessero derivare le lonze, i prosciutti, il lardo, la pancetta613”. La lonza è riportata tra i salumi tradizionali del Montefeltro nella guida “Itinerari gastronomici nelle Terre di Urbino” (pubblicazione a cura dell’Assessorato al Turismo del Comune di Urbino)614. Il ricercatore delle tipicità alimentari e delle tradizioni enogastronomiche marchigiane Valerio Chiarini nel suo libro “Ambre e ciarimboli” dedica un capitolo a “Capocollo o capolonza, lonza o lonzino”, evidenziando così la capillare diffusione di questo insaccato in tutto il territorio regionale615. Sempre Valerio Chiarini è stato il compilatore per la sezione marchigiana del catalogo ragionato “Salumi d’Italia: guida alla scoperta e alla conoscenza”, pubblicato da Slow Food nel 2001: un’unica scheda è stata dedicata a lonza e lonzino, per cui si afferma che “si producono entrambi in tutta la regione” e si chiarisce per i consumatori al di fuori della regione che “per lonza si intende quell’insaccato che al Nord è chiamato coppa al Sud capocollo616” Ferruccio Luciani, autore della pubblicazione “I prodotti tradizionali della Regione Marche”, curata dall’Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca della Regione Marche, riporta appunto tra le “specialità marchigiane a base di carne di maiale” la lonza617. Nel recente “Marchigiando: dizionario della cucina marchigiana”, piccola enciclopedia in dieci volumi sulla storia delle risorse agro-alimentari, della cucina e della convivialità nelle Marche, gli autori Ugo Bellesi e Tommaso Lucchetti dedicano naturalmente una voce specifica alla lonza marchigiana, descrivendo i riferimenti storici e tradizionali alla sua produzione ed al suo consumo618. Andando a ricercare nella produzione ormai pluridecennale di manualistica su percorsi di viaggio per gourmands ed itinerari di tipicità enogastrononiche e cucine tradizionali, ci si può imbattere ad esempio in un testo dove si descrive una sagra di inizio estate ad Acquasanta Terme “durante il quale si possono assaggiare prosciutto affumicato, lonza, ciauscolo (una pasta di salame da spalmare sul pane) e, appunto, le famose olive ripiene619”. E’ questa quasi la consacrazione di un prodotto dalla significativa produzione regionale: la lonza rivive nella lavorazione dei salumieri moderni marchigiani con procedure e regole che, al di là degli inevitabili (ed anche auspicabili) aggiornamenti tecnologici, rispettano l’eredità ed il radicamento del passato, perpetuando il sapere ed il sapore ormai codificato dalla storia e dalla tradizione. (613) (614) (615) (616) (617) (618) (619) COMUNITÀ DEI MONTI AZZURRI, Dizionarietto delle tradizioni e del mangiare, Macerata 2001, p. 87. AL TURISMO DEL COMUNE DI URBINO, Itinerari gastronomici nelle Terre di Urbino, Urbania 1999, p. 15. V. CHIARINI, Ambre e ciarimboli..., cit., p. 37. Salumi d’Italia: guida alla scoperta e alla conoscenza, Bra 2001, p. 175. F. LUCIANI, I prodotti tradizionali della Regione Marche, Ancona 2006, pp. 26-27. U. BELLESI – T. LUCCHETTI, Marchigiando: Dizionario della cucina marchigiana, cit., vol. 5, pp. 17-18. Trattoria Italia: itinerari gastronomici [testi introduttivi di M. FLOREALE], Milano 1999, p. 28. “O SALUMI BENE AMATI” • 163 _Citazioni della lonza nei repertori di tipicità e nella letteratura gastronomica nazionale del Secondo e tardo Novecento_ Nel 1975 il celebre gastronomo Felice Cunsolo nella sua “Guida Gastronomica d’Italia”, compilata per l’Istituto Geografico De Agostini, nel riportare l’elenco delle tipicità di artigianato alimentare tipico e di cucina tradizionale delle Marche riporta appunto la “lonza” (“salume ricavato dal muscolo infraspinato del maiale, tenuto sotto sale, lavato con vino, avvolto in membrana bovina e suina, legato stretto con lo spago e appeso a stagionare all’aria620”). La lonza è descritta nell’elencazione del salumi caratteristici marchigiani nel ricettario dedicato a questa regione (per la collana sulle tradizioni gastronomiche regionali italiane) curata dal celebre gourmet bolognese Alessandro Molinari Pradelli, “La cucina delle Marche: un’antica tradizione gastronomica fatta di ingredienti semplici e genuini, per apprezzare i sapori sani della cucina di un tempo621”. Nella sua recente “garzantina” (dizionario enciclopedico) del 2005, il celebre “gastronauta” Gabriele Paolini così cataloga la “Lonza Marchigiana”: “In altre regioni la chiamano “capocollo” o “coppa”, ma nelle Marche è “Lonza”: Il taglio di carne suina utilizzato è simile (in questo caso si tratta della parte del lombo dalla quinta costola in su), ma il sapore risulta differente, perché le tecniche di lavorazione e il tipo di stagionatura conferiscono caratteristiche particolari al prodotto finale. La carne viene rifilata con il coltello unta d’olio e cosparsa di sale e pepe; riposa così per due giorni; viene poi messa a stagionare per un paio di mesi622”. Nel 2003 Giovanni Ballarini, docente di Veterinaria all’Università di Parma (ma anche studioso di cultura dell’alimentazione e Presidente dell’Accademia della Cucina Italiana) pubblica il testo “Piccola storia della grande salumeria italiana” dove stila un elenco dei salumi tradizionali di ogni regione, tra cui naturalmente le Marche, compilando questa lista con un inventario incrociato di quanto censito nel decreto legislativo 173 del 1998, dall’Atlante dei Salumi curato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, dalle edizioni 1931, 1969, 1984 della “Guida all’Italia gastronomica” del Touring Club Italiano; tra i prodotti citati non manca naturalmente la lonza623”. _Il nuovo millennio e la nuova comunicazione: la diffusione della lonza marchigiana come prodotto valorizzato e commercializzato su Internet_ Semplicemente una rapida videata su Internet consente, anche nel caso della lonza, di verificarne la diffusione ed il grado di conoscenza radicato nell’immaginario gastronomico dei marchigiani e dei gastronauti forestieri. Alcuni siti sottolineano giustamente la peculiarità della denominazione rispetto ad altre realtà regionali: della “lonza marchigiana” si riporta infatti che “in altre regioni la chiamano Coppa o Capocollo624”. Il sito “alimentipedia.it” nella voce dedicata alla cosiddetta “coppa” (termine più (620) (621) (622) (623) (624) F. CUNSOLO, Guida Gastronomica d’Italia, cit., p. 311. A. MOLINARI PRADELLI, La cucina delle Marche..., cit., p.28). D. PAOLINI, L’universale: prodotti tipici d’Italia, cit., p. 232 . G. BALLARINI, Piccola storia della grande salumeria italiana, cit., p. 156. Dalla pagine del sito http://www.showfood.it/italia/regioni/marche/salumi/lonza_marchigiana.html, ed anche http://www. 164 • • 165 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” adoperato comunemente nel Nord Italia) afferma appunto che “Nelle Marche è detta Lonza”, ed appunto tra le “varietà” annota la “Lonza marchigiana”625. Il sito “il manicaretto.it” dedica uno dei suoi approfondimenti appunto alla “lonza delle marche”, sottolineando come “l’area di produzione comprenda l’intero territorio della regione Marche”, e qui narrando: “la tradizione ci racconta che la lonza era presente tra le portate d’antipasto nei ricchi banchetti nuziali ovvero come merenda dei contadini nelle brevi pause dal lavoro”, per un consumo ottimale la si definisce “ottima come antipasto o snack gustata con vino rosso corposo626”. Nel sito “lacantinasocievole.com”, sotto il titolo evocativo “Il maiale dei nostri nonni”, si legge una riflessione lucida ma accorata, ossia “La vera storia della ricerca di un sapore perduto”: “Mia nonna, marchigiana verace di un tempo, era solita omaggiarci con lonze e ciauscoli, il cui profumo si è scolpito nella mia memoria, creando sia il rito che il mito di un prodotto destinato all’estinzione. I salumifici allora erano tutti artigianali. Mancavano di quell’ingrediente, la fretta, che ha deciso le sorti di un profumo sempre più introvabile. La stessa nonna, negli ultimi anni, si rifiutava di acquistare prodotti industriali rinunciando al rito della lonza marchigiana. Bisogna essere caparbi e non accontentarsi. Bisogna cercare con calma per trovare ancora quel profumo perduto. Bisogna ritrovare la semplicità e la pazienza per recuperare un prodotto a rischio d’estinzione”627. Il sito “sapore di Marche.it” dopo aver spiegato la procedura di confezionamento descrive efficacemente il prodotto (“Al taglio si apprezza la consistenza compatta ma non dura della carne e del grasso, ed il profumo del pepe. La fetta ci regala un bel colore rosso granato, su cui contrasta il bianco delle consistenti venature di lardo, che non sono un difetto, ma la caratteristica di questo salume”); poi dopo la raccomandazione di “conservare il prodotto in frigo da + 0 a +4 gradi”, nel riportare le prassi gastronomiche canoniche per la lonza annota che “tagliata al coltello in fette sottili fa bella mostra di sè negli antipasti misti, in merende e spuntini con gli amici, per i nostri bimbi al posto delle merendine, negli stuzzichini di una festa, come piatto freddo insieme a verdure di stagione, contornato da un fantasioso pinzimonio, o con il melone, ingrediente essenziale per le merende del 1° Maggio con pecorino e fave fresche”; dopo un suggerimento tecnico strategico (“un piccolo segreto: per togliere perfettamente la pelle che ricopre il capocollo, basta avvolgerlo per qualche ora in un panno umido e aspettare che l’involucro si ammorbidisca”), il compilatore si prodiga in impieghi cucinari, e propone di “prepararla tagliando alcune fette non troppo sottili a striscioline, mescolandole a un formaggio spalmabile e adagiando il tutto su foglie di insalata belga: un antipasto delicato e rapido da preparare, partendo da un insaccato dal sapore piuttosto vivace; inoltre “la lonza può diventare anche l’ingrediente principale di un appetitoso sugo per la pasta: basterà saltarla, sempre tagliata a striscioline, in poco olio insieme ad abbondante scalogno”. Ed inevitabilmente si accendono confronti e dispute critico-gastronomiche, come sempre è successo in tutti i circoli di gourmands, tra le varie produzioni regionali di insaccati confezionati con questo taglio suino pregiato. Scrive ad esempio il sito www.esperya.com: “E` la sfida toscana alla coppa piacentina e a quella di Parma, come pure alla lonza marchigiana e al capocollo calabrese. Ed è una sfida alla quale fare da arbitri è un vero piacere: a noi è capitato, qui ad Esperya, di organizzare una tenzone tra questi grandi salumi della tradizione. Eccoli schierati nei piatti, in attesa del via... ma le manine golose erano gia partite, una fetta qua, una là. Il vincitore? E` come scegliere tra un campione di tennis e un grande tenore628”. Inevitabilmente spunti di disquisizione sofista – golosi come questi non possono cadere nel vuoto in quel gran caffè letterario e ritrovo di conversazioni alte / basse e dotte / becere che ormai l’universo di Internet rappresenta. Così tra chatters e bloggers non mancano scambi di battute che tra il serioso ed il ridanciano si pongono come taccuini di viaggio per golosi, con appassionate dichiarazioni di predilezioni più o meno articolate. Ad esempio nel dibattito in corso sull’eloquente sito http://parmafans.forumcommunity.net si legge una dichiarazione un po’ sconsolata riguardo alla votazione per il proprio salume preferito, da parte di un cultore che si dichiara letteralmente un po’ “a digiuno” di esperienze cognitive a riguardo: “Ahimé, la lonza marchigiana, forse perchè non ho potuto assaggiare molti degli affettati in elenco”. Di fronte a questa dichiarazione di voto in realtà un po’ disarmante un altro astronauta annota: “beh...ottima comunque la lonza marchigiana...ho avuto modo di assaggiarla a San Benedetto. Mo ragas...ma se si parla di tradizioni in italia dov’è che c’è della roba balorda?629” gustoetradizioni.com/content/view/422/169/. (625) www.alimentipedia.it, pagine dedicata ai salumi. (626) Dal sito www.ilmanicaretto.it, approfondiemento dedicato all’enogastronomia marchigiana del 20 gennaio 2009, pagina www.ilmanicaretto.it/2009/01/20/guida-enogastronomica-lonza-marche. (627) Sito www.lacantinasocievole.com. (628) (629) Dal sito www.esperya.com. http://parmafans.forumcommunity.net. “O SALUMI BENE AMATI” • 167 Cenni storici sul LONZINO: il salume del magro nobile Non è così frequente la citazione del lonzino nella documentazione esistente e rinvenuta. Al di là della considerazione che forse questo tipo di preparazione non avesse particolari motivi di apprezzamento in epoche in cui il grasso di maiale era universalmente adoperato ed appetito in linea (anche con diverse concezioni dietetiche), era effettivamente molto più comune nelle pratiche norcine delle case contadine impiegare nell’insaccato tutta la carne non limitandosi al solo magro (non a caso una delle più antiche attestazioni di questo salume nell’accezione e terminologia moderna parla di “lonzino del padrone”, alludendo ad una particolare predilezione più adatta a mense signorili, ed al contrario più lontana se bon incompatibile con la sensibilità e le esigenze del vitto degli umili). Anche per questo è probabile che non ci fosse particolare distinzione, merceologicamentra, tra lonza e lonzino negli inventari delle salate come anche nei calmieri e prezzari. Sembrerebbe però, anche se solo a livello di ipotesi, che in alcune realtà ed in alcune documentazioni scritte conservate nel tempo questo insaccato confezionato con la sola parte magra del lombo possa essere invece denominato con il termine di “lombetto”, come si evince ad esempio da alcune liste di generi commestibili. Del resto nell’urbinate il termine “lombetto” contraddistingue ancora i lonzino. In proposito sono interessanti le ricerche di archivio su alcuni prezzi di salumeria e carni suine nella città di Ancona, dove nel 1790 la lonza costava alla libbra 20 quattrini, la “salsiccia fina” 26 quattrini ed invece quella di fegato 22, il ciauscolo 22 da crudo e 26 da cotto, i lombetti 22 (come anche “la carne spolpata dal prosciutto), i ciarimboli 18, il lardo 25, mentre cotiche, testa e zampe si pagavano, sempre alla libbra, dodici quattrini da crudo e 16 da cotte630. All’inizio del secolo invece, nel 1732 a Ripatransone, se la porchetta si pagava bajocchi 4 per libbra, il fegato veniva 2 come anche per l’appunto i lombetti (il prezzo dello strutto poteva variare da quattrini 18 a bajocchi 4 e mezzo, la salsiccia costava quattrini 17, il prosciutto 19, e la mortadella di Bologna veniva otto baiocchi alla libbra631). In questi prezzari dell’anconetano e dell’ascolano tra tutti i prodotti suini figura appunto anche il “lombetto”, termine che nel pesarese è spesso sinonimo di “lonzino”. Del resto questa parte pregiata della pacca del maiale poteva essere impiegata a fresco e cucinata in pietanze elaborata, ma anche trasformata in salume. In termine “lombetto” confuso con quello ben più familiare di “lonzetto” (altra denominazione alternativa del “lonzino”) ricorre in un documento manoscritto del 1855 in cui il conte Duranti di San Lorenzo in Campo illustra i procedimenti per la salata annuale del porco ammazzato. La nota si intitola appunto “Metodo per lavorare la carne salata, ed il modo di salare i prosciutti, capomazzi, e lombetti”. Questa la trascrizione dell’inizio: “Per ogni libre cento di carne di prosciutto, capomazzi, e lonzetti libre quattro ed once sette di sale bene asciutto, e ben pesto, mes(630) P. GIANGIACOMI, Storia di Ancona dalla sua fondazione ai giorni nostri, cit., pp. 158 - 159. C. GRIGIONI, Il costo della vita in una città del Piceno nella prima metà del Settecento, <Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti>, Anno VIII, N.S., 1908, vol. III, fasc. VI. La’autore fa riferimento allo spoglio di un volume di spese della Congregazione dell’Oratorio di Ripatransone, dal titolo 1732. Libro dell’Esito cartolato di pagine quarantaquattroche principia il 17 gennaro 1732 e termina li 15 gennaio 1756. (631) 168 • • 169 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” colandovi bene insieme cinque once di nitro pure bene pesto […]”. Si specificano poi i tempi di salatura, ossia che “devono stare sotto il sale i prosciutti circa quaranta giorni, i capomazzi circa in otto giorni, i lombetti due giorni”632. Come si è già avuto modo più volte di ribadire la “pista” del maiale ai primi freddi invernali, a al più tardi a gennaio, era una tappa fondamentale (ed anche assolutamente ritualizzata) nel ciclo annuale delle pratiche agrarie. Nelle antiche società rurali tutti, signori e contadini, ne erano coinvolti: per questi ultimi la macellazione del maiale rappresentava la provvista di carne per antonomasia, salata ed insaccata, da consumare nei pasti ordinari (solo nelle feste o occasioni memorabili si facevano fuori pollame o capi ovini per imbandire sontuose pietanze di carne). Per i benestanti invece era il momento in cui le loro già ricche dispense si riempivano di ghiottoneria da gourmet, da assaggiare con attenzione, in particolare i prosciutti, da sempre il taglio suino più pregiato, riservato ai notabili, e che la maggior parte dei contadini non tenevano per se stessi vendendolo piuttosto ad ottimo prezzo nei mercati. In merito a lonze e (lonzini) va ricordato cosa sancisce tra le righe il già citato poemetto comicorealistico sul “Testamento del Porco”: “Le lonze e le spalette / le possono mangiar tutti, / ma sol per i signori / io lasso i miei pregiutti633”. Si ribadisce così l’aristocrazia suina del coscio posteriore, mentre quello anteriore (le “spallette”) e le lonze, ricavate dal pur pregiato lombo, segnano il passo come salumi appena “minori” o comunque più alla portata di tutti. Anche qui probabilmente nella pratica di insaccar lonze si comprendono naturalmente anche i lonzini, e questa autentica leccornia particolare, confezionata con solo magro, viene non a caso chiamata dal già citato Oreste Marcoaldi, in un suo volume, il “Lonzino del Padrone”. Nei suoi studi ottocenteschi sul folklore fabrianese il medesimo Marcoaldi, nel suo saggio del 1877 “Le usanze e i pregiudizi, i giuochi de’ fanciulli, degli adolescenti e adulti, i vocaboli più genuini del vernacolo, i canti e i proverbi del popolo Fabrianese”, testimonia come le lonze (presumibilmente anche i lonzini) costituissero, assieme a tutti gli altri salumi una provvista golosa, ambita con concupiscenza: una testimonianza in questo senso è la tradizione giocosa nelle feste popolari dell’Albero della Cuccagna, gioco popolare di piazza, radicato da tempo immemore, quando “rizzavasi or nella Piazza Alta or nella Piazza Bassa una ben liscia antenna o albero di nave di dieci metri di altezza (piedi trenta), nella cui cima era fisso un cerchio di legno dal quale pendevano prosciutti, lonze, soppressati, salami, fiaschi di vino, pollo, pani, un vestiario e 25 o 30 lire; oggetti mangiabili e danari dati dal Municipio, che a pro della plebe bandiva il divertimento”. Va da sé che in questa cuccagna da ghermire arrampicandosi famelicamente sull’albero non si stava a sottilizzare se trattassero di lonze o lonzini, certamente secondo i parametri del gusto e dell’abbondanza dell’epoca più parte grassa c’era e più aumentava la soddisfazione nell’affettarlo. Riguardo all’importanza ed al radicamento nella tradizione del lonzino si riporta qui una riflessione a riguardo della studiosa di sociologia rurale pesarese Graziella Picchi: “Il lombetto, o filetto, è la parte più tenera delle carni di maiale. Nel passato remoto, ai tempi della Magna Grecia per intenderci, rivestiva una valenza rituale e simbolica oggi del tutto persa, ad eccezione delle regioni meridionali, Lucania soprattutto, dove il filetto di maiale salato, pepato e pressato come le altre soppressate, è considerato cibo di riguardo. Lo si offre agli ospiti importanti, che godono di un’alta considerazione. E’ l’unico salume che si serve su una tovaglia bianca e le fette tagliate si offrono sempre in un piatto e non tra fette di pane come si fa con le altre tipologie di salumi. Ad allestire la tavola è compito delle donne ma a tagliare il filetto salato è compito riservato ancora oggi agli uomini. Questa particolare modalità di uso e consumo del filetto salato è ricondotta dagli storici ai tempi lontani in cui nell’area citata si affermava la cultura della magna Grecia, dove il boccone più prelibato di un animale, il filetto, era riservato agli eroi che si erano distinti in battaglia. E questo valeva anche nel caso del filetto di maiale salato. Questo rituale, documentato in Basilicata ai tempi della redazione dell’Atlante dei salumi, non trova un riscontro in nessun altra regione, Marche comprese. In comune l’alta considerazione in cui era ed è tenuto questo manufatto, riscontrabile ancora oggi tra i più anziani, almeno tra quelli hanno conservato la memoria del senso della vita materiale legata ai consumi alimentari. Quando l’inverno era precoce, già ai primi di novembre quelli che vivevano nell’Appennino sacrificavano il maiale. Un paio di mesi dopo, in coincidenza con l’Epifania, il lombetto era già pronto per il consumo. Queste le modalità di lavorazione: Il filetto viene salato con sale grosso ma in quantità inferiori rispetto a quella usata per gli altri salumi; rimane sotto sale per non più di dieci ore, poi il sale rimasto si toglie e il filetto viene lavato con vino bollito insieme all’aglio e al rosmarino. Si asciuga accuratamente con uno strofinaccio di fibre naturali, canapa o cotone, si cosparge la superficie con un po’ di pepe macinato grossolanamente, ed infine si insacca nel budello del maiale, pulito in precedenza e tenuto a bagno nello stesso vino aromatizzato con cui è stato lavato il filetto. La buona regola esige una esposizione al fumo del camino per circa una settimana. Poi in cantina a stagionare nell’angolo più areato. Due mesi dopo è già pronto per il consumo. Di solito è consumato nel periodo pasquale, quando il maiale viene sacrificato alla fine di gennaio. Diversamente vale ciò che abbiamo riportato sopra. Caratteristica di questo salume è la sua morbidezza e la magrezza delle carni, il sapore dolce, una consistenza che non oppone nessuna resistenza alla masticazione. Nella Civiltà Contadina il suo consumo era rinviato fino all’ultimo momento, poco prima che scadesse il tempo limite oltre il quale le carni avrebbero perso la delicata consistenza, diventando dure, sfilacciate e troppo salate. La tradizione di norcineria dell’Italia vanta molte differenze dalle quali sono nate le mille specialità che conosciamo, ma un comune denominatore mette d’accordo molte realtà antropologicamente e geograficamente diverse: è opinione condivisa che l’uso esclusivo del sale e del pepe è riservato ad una materia prima di indiscussa qualità. Ed ecco allora la soppressata di filetto meridionale, i salumi sardi e siciliani fatti con il maiale nero, il lombetto marchigiano, da non confondere con il lonzino. “Quando la materia prima è buona bastano il sale e il pepe per avere dei buoni salumi” ripetono i norcini di ieri e di oggi, questi ultimi alle prese con una materia prima non sempre di origine nazionale e per di più uniforme per quanto riguarda la varietà delle razze impiegate: Landrace, Large Wite, Goland, preferite dalla quasi totalità degli operatori, con alcune eccezioni, che riguardano le operazioni di recupero di razze al limite dell’estinzione come la Cinta Senese, la Mora Romagnola, la Casertana, e i citati maialini neri (632) Il documento manoscritto è stato riprodotto in copia fotografia nel volume di F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro ed Urbino, cit. (633) Tratto da L. PACIFICI, Il ciauscolo: un salume antico dal gusto moderno, cit., p. 50. 170 • • 171 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” dei Nebrodi e della Sardegna. Per i fautori dell’autoctono il miglior pregio dei nostri maiali è quello di raggiungere il q.le di peso in un anno di tempo, mentre quelli che vengono dall’estero lo stesso peso lo raggiungono in quattro mesi; i nostrani non subiscono stress da viaggio, che mette a dura prova la consistenza delle carni, e il lombetto, per esempio, perde alcune caratteristiche sensoriali pregevoli, soprattutto nella sosta in frigorifero, dove le carni perdono compattezza; hanno la giusta percentuale di grasso che contiene il calo peso entro limiti economici accettabili. Inoltre l’alimentazione tradizionale a base di cereali prodotti in azienda, cui i maiali vengono sottoposti, garantisce carne soda che al taglio “scrocchia”, con un contenuto idrico ridotto, fondamentale per una buona trasformazione e stagionatura. Al taglio le carni nazionali sono di un rosa chiaro, che conserva più a lungo; le carni di importazione al taglio si scuriscono più rapidamente assumendo tonalità diverse. Ancora 40 anni fa nelle Marche circolavano i maiali neri e soprattutto la loro vita era molto diversa da quella di oggi. Dai piccoli allevamenti familiari si è passati ai megallevamenti industriali dove lo stress è talmente alto da provocare patologie non proprio banali. E’ scomparso il Cinturello, un bastandone con i geni di ben cinque razze di cui una sembra essere uscita definitivamente di scena: la Perugina. Il Cinturello viveva negli Appennini marchigiani e stando all’Enciclopedia zootecnica di inizio XX secolo, le sue carni erano considerate le migliori in assoluto di tutta l’Italia per la produzione di salumi eccellenti634”. vano genericamente salumi in molti pasti della giornata lungo le varie stagioni636. C’erano poi momenti dell’anno canonizzati da questo consumo: c’è ad esempio chi ricorda come la lonza fosse tra i cibi “principali per le merende del primo maggio, insieme a pecorino e fava fresca637”; stesso abbinamento per il lonzino, che come annota Graziella Picchi era pronto già a maggio e pertanto si consumava con le fave fresche e il pecorino”. In realtà questo spuntino oltre che per una ricorrenza laica (e relativamente recente), poteva contraddistinguere tutte le altre festività e scampagnate del mese di maggio638, ad esempio il tradizionale pellegrinaggio al santuario della Madonna delle Alberici (ancora vivo nel ricordo di tutte le sue consuetudini caratteristiche in molte persone anziane nell’anconetano), o le celebrazioni legate alla Pentecoste ed al “Corpus Domini”. Lonza e salame non mancavano mai nella colazione di Pasqua, imbanditi sulla tavola già a fette assieme alle uova sode, alle pizze o cresce lievitate al formaggio, alla frittata profumata con la mentuccia639. Come già visto ancora per tutto il Novecento gli affettati di salumi costituivano poi uno dei numerosi spuntini durante la giornata nei grandi lavori di mietitura e trebbiatura640. Le memorie orali raccolte da studi svolti durante il Novecento raccontano spesso dell’importanza strategica della macellazione del maiale, e del conseguente trattamento della pacca (metà della carcassa suina) o anche del porco intero per le famiglie più agiate. Tutti comunque, sia i contadini più umili che quelli più agiati, o addirittura i padroni ed i signori, nella settimana della “pista” consumavano con accortezza ciò che l’occasione metteva golosamente a disposizione, ossia cucinando tutti gli scarti residui, dalle costarelle, alle frattaglie, ai fegatelli e zampetti e poi preparando i vari insaccati e salumi; se il prosciutto era più frequente nelle famiglie più agiate, la coppa di testa, le lonze, i salami e le salsicce accomunavano tutti. Tuttavia tra tutti gli insaccati bisogna riconoscere che la lonza era certamente tra quelli più apprezzati e tenuti da conto: la sociologa delle tradizioni rurali Graziella Picchi (che asserisce come nelle Marche “lonza”, “capocollo” o “scalmarita” siano sinonimi) sostiene appunto che “nella scala dei valori economici della civiltà contadina, le lonze (e quindi anche i lonzini) venissero subito dopo il prosciutto e come questo, in caso di necessità poteva essere venduto, magari per completare un corredo di nozze e per far fronte a qualche emergenza di carattere economico641”. I saperi domestici contadini sulla preparazione dei salumi sono poi stati la base principale del repertorio di conoscenze e metodologie tecniche e produttive delle prime aziende di salumeria industriale, sorte diffusamente con un particolare impulso nei primi decenni del dopoguerra tra i primi anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Queste ditte ereditano direttamente ed indirettamente una tradizione di norcineria antica, secondo una memoria perpetuata nei decenni, e quindi certamente assimilabile probabilmente a pratiche riconducibili alla fine dell’Ottocento ed all’inizio del Novecento (e certamente, con buona probabilità, non così lontane dalla realtà rurale marchigiana propria dei secoli anche antecedenti). Questi produttori nel tradurre in termini industriali il _Consumi rituali e consueti del lonzino nella tradizione marchigiana: una tipicità dalle dispense familiari alla commercializzazione_ I ricavati più pregiati della “salata” nelle dispense contadine, come salami, lonze, lonzini ed anche prosciutti, erano centellinati per momenti ritualmente solenni nel corso dell’anno. Il lonzino o lombetto aveva una maturazione più rapida, e se l’invernata era stata particolarmente rigida e precoce, e quindi si erano ammazzati i maiali anche a novembre, questo salume magro pregiato si assaggiava come primizia suina anche per l’Epifania; invece si iniziava ad affettare la lonza o anche il salame a Pasqua, e poi abbondantemente se ne consumava d’estate quando le famiglie collaboravano tra loro per le “opre” (i grandi lavori estivi del raccolto), soprattutto per la mietitura. Come ha riportato Antonio De Signoribus nella sua già citata ricerca “Aspetti dell’alimentazione picena tra ‘800 e ‘900” il prosciutto e la lonza (ed eventualmente anche il lonzino) erano in effetti gli insaccati che generalmente arricchivano l’ultimo dei sette pasti che scandivano la giornata dei mietitori, ossia la cena conclusiva, imbandita in genere anche con pesce fritto, o patate con lo stoccafisso635. Similmente in un’altra indagine già presa in esame, condotta negli anni ’50 sulle abitudini alimentari del contadini delle Marche Nord Occidentali (commissionata dall’Istituto Nazionale della Nutrizione del CNR), è stato elaborato uno schema sui singoli pasti nelle varie stagioni, sulla base delle informazioni raccolte sul campo. Stando ad una valutazione media sui cibi consumati nei vari pasti queste famiglie di campagna (tutte generalmente produttrici di insaccati) mangia- (634) Scheda dattiloscritta tecnica sul lombetto redatta da Graziella Picchi appositamente per chi scrive, che ringrazia l’autrice per la sua consulenza e disponibilità. (635) Cfr. A. DE SIGNORIBUS, Aspetti dell’alimentazione Picena tra Ottocento e Novecento, cit., p. 31. (636) Lo studio in generale ed il prospetto con la tabelle dei vari pasti nella settimana nell’arco delle stagioni è stato elaborato da F. BONASERA, Le abitudini alimentari dei contadini delle Marche Nord Occidentali (1950), cit., pp. 78-79). (637) La salumeria nella Marca Anconetana, cit, p. 196. (638) [A. ATTORRE – V. CHIARINI], Ricette di osterie e di porti marchigiani, cit., p. 36. (639) Antologia della cucina popolare, cit., p. 96. (640) Ivi, p. 112. (641) G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., p. 182. 172 • • 173 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” confezionamento di salumi ed insaccati storicamente tradizionali delle Marche si sono affidati, nel mettere a punto le tecniche di confezionamento delle tipicità locali, al confronto con personalità portatrici di una memoria viva ed a sua volta fatta propria ed ereditata: anziani macellai e norcini (alcuni operanti fin dagli anni ’50) e porchettari di lungo corso ed infinita esperienza sono stati i libri di testo per i nuovi produttori su scala industriale tuttora operativi. E’ infatti importantissima, per raccogliere i segreti della salumeria tradizionale (marchigiana e non), l’osservazione diretta dell’opera di artigiani dall’esperienza ormai pluridecennale, meglio ancora di “mazzarini” custodi di sapienza preziosa e da tesaurizzare. lo spago. E’ quindi posto a maturazione per tre - quattro giorni in locali dotati di camino per provvedere all’affumicatura e il periodo di stagionatura dura poi sei – sette mesi in un locale ventilato, fresco e asciutto. Comunque è un prodotto che si conserva bene nell’arco dell’anno645”. Riguardo agli elementi distintivi del lonzino ed ai suoi fattori caratterizzanti così scrivono gli autori: “Il lonzino, al taglio, presenta una fetta con lardo a mezzaluna intorno alla parte magra, che è compatta e senza venature. E’ meno morbido della lonza, ha carne color rosa, una maggiore sapidità e al gusto assomiglia più a una carne secca che a un insaccato646”. Ferruccio Luciani, autore della pubblicazione “I prodotti tradizionali della Regione Marche”, curata dall’Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca della Regione Marche, riporta appunto tra le “specialità marchigiane a base di carne di maiale” il lonzino “altrimenti detto capolombo”, specificando che “la differenza tra lonza e lonzino è data non dalle loro dimensioni come si potrebbe pensare erroneamente, bensì dalle carni utilizzate (muscoli cervicali superiori nella prima, muscoli della lombata nel secondo). Nella lonza, inoltre, la parte grassa e quella magra sono alternate e conferiscono alla fetta un aspetto variegato, mentre nel lonzino le due frazioni sono ben separate647. Nel recente “Marchigiando: dizionario storico della cucina marchigiana”, piccola enciclopedia in undici volumi sulla storia delle risorse agro-alimentari, della cucina e della convivialità nelle Marche, gli autori Ugo Bellesi e Tommaso Lucchetti danno il giusto risalto a questa produzione tradizionale della salumeria regionale648. Questa pubblicazione è stata condotta non solo con un confronto sui documenti scritti e sulle fonti storiche convenzionali ma anche da confronti e raccolte di dati da interviste ed indagini orali, in particolare i ristoratori, da sempre custodi non solo di memorie culinarie e consuetudini conviviali tradizionali, ma anche formidabili recettori della evoluzione dei gusti e dei consumi, e quindi intercettatori dei consumi reali e del codificarsi della “tipicità” in fieri. Ebbene qualunque sondaggio ed intervista presso gli esercenti può dimostrare come il lonzino sia tra i salumi più proposti dai ristoratori della regione e non solo, per il classico assortimento di affettati da antipasto, ma anche per preparazioni più sperimentali nella cucina di ricerca e rielaborazione del territorio. Un esempio illuminante di come il lonzino sia considerato tra gli elementi caratterizzanti della cucina marchigiana proposta da ristoranti, trattorie, agriturismi e locali vari è costituito dalla sua presenza nel “Disciplinare per la Ristorazione Tipica Marchigiana: Piceno – Maceratese” tra l’elenco dei possibili “Antipasti di Carne e Verdura”, da servire per rientrare nei parametri di appartenenza alla tradizione locale649. Ha ormai più di vent’anni il certosino e capillare lavoro sul territorio nazionale per censire tutti i salumi, catalogazione sistematica di queste preparazioni tradizionali antichissime, pubblicata come “Atlante” monografico dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, diretta da Corrado Barberis e ripubblicata continuamente con ulteriori aggiornamenti di ricerca ed approfondimenti per ogni singola scheda. A questa monumentale indagine ha collaborato fin dall’inizio la sociologa delle tradizioni rurali marchigiana Graziella Picchi, tuttora residente ed operante nelle _Citazioni del lonzino dagli studi sulle tradizioni rurali marchigiane e sulla letteratura gastronomica marchigiana dal secondo Novecento ad oggi_ Un illustre storico della gastronomia marchigiana, Ugo Bellesi (Delegato di Macerata dell’Accademia Italiana della Cucina) così scrive sempre sulla produzione di lonza, in tempi più recenti nel suo “Dizionario della cucina marchigiana” (1993): “Il lonzino è costituito dal filetto di maiale. Dopo la salatura il lonzino viene infilato nel budello e legato con uno spago come la lonza. Infine va messo a stagionare”642. Riguardo al territorio pesarese ed urbinate Rolando Ramoscelli e Gianfilippo Centanni, nel loro panoramico volume “Viaggio enogastronomico nella Provincia di Pesaro ed Urbino”, stampato nel 2001, riferiscono innanzitutto come il lonzino in questa area sia chiamato anche “lombetto”, poiché non a caso si realizza “con i lombi (le parti più pregiate del suino, quelle grasse sono quasi assenti) ed è molto più ricercato del capocollo; si stagiona al naturale in grotte o cantine. Nella zona di Sant’Angelo in Vado si chiama “scalmarita”, dal longobardi “scalmus”643”. Il ricercatore delle tipicità alimentari e delle tradizioni enogastronomiche marchigiane Valerio Chiarini nel suo libro “Ambre e ciarimboli” dedica un capitolo a “Capocollo o capolonza, lonza o lonzino”, evidenziando così la capillare diffusione di questo insaccato in tutto il territorio regionale644. Sempre Valerio Chiarini è stato il compilatore per la sezione marchigiana del catalogo ragionato “Salumi d’Italia: guida alla scoperta e alla conoscenza”, pubblicato da Slow Food nel 2001: un’ unica scheda è stata dedicata a lonza e lonzino, per cui si afferma che “si producono entrambi in tutta la regione”. Come si riporta anche nel recente volume (2004) “La salumeria nella Marca anconetana”, a cura di Alessandro Segale ed Alberto Fiorani, il lonzino veniva chiamato anche “lonzello”, qualificando questo pezzo come la parte di carne suina “compresa tra la sesta-settima costola del carré e il lombo e la coda, disossato dalle vertebre lombari, lungo 40-50 cm e del peso di 1,5 – 2,5 kg”. La salatura si effettua con sale grosso marino “strofinato e lasciato a fasciare il pezzo per tre – cinque giorni insieme ad aglio rosso per aromatizzarne la carne; ripulito dal sale, il lonzino è trattato con vino bianco secco per lavare la carne già rifilata, asciugato con un telo e ricoperto con pepe nero macinato, viene poi inserito nel budello gentile, ricucito e legato strettamente con (645) La salumeria nella Marca Anconetana, cit., p. 197. Ibidem. (647) F. LUCIANI, cit., p. 28. (648) U. BELLESI – T. LUCCHETTI, Marchigiando: Dizionario della cucina marchigiana, cit., vol. 5, p. 19. (649) Cfr. Ristorante Tipico: Disciplinare per la Ristorazione Tipica marchigiana: Piceno-Maceratese, a cura dell’Associazione Interregionale delle Camere di Commercio e Istituto Quasar. (646) (642) (643) (644) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit., p. 129. F. CENTANNI – R. RAMOSCELLI, Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro e Urbino, cit., p. 39. V. CHIARINI, Ambre e ciarimboli..., cit., p. 37. 174 • • 175 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Marche, per la precisione nei pressi di Cagli in provincia di Pesaro. Tra le produzioni caratteristiche marchigiane ha segnalato il “lonzino con cotenna”, tipico di Monte Vidon Combatte, in provincia di Ascoli Piceno: questa preparazione prevede che la mezzena di maiale venga trattata appunto integra di cotenna, conciandola e poi messa sotto sale con l’aggiunta di pepe, vino rosso ed aglio, massaggiandola a lungo perché prenda questi sapori ed al tempo stesso lasci fuoriuscire i liquidi, e poi spazzolata del sale non assorbito e quindi messa a maturare, affumicare al camino, ed infine a stagionare in cantina650. Graziella Picchi, compilatrice appunto delle schede sulle tipicità di salumeria marchigiane, riferisce poi in proposito che “in passato lasciare molto grasso vicino alle parti magre era la norma. Poi con la paura del colesterolo i grassi animali sparirono dalla tavola degli italiani. Oggi che la scienza microbiologica ci ha svelato il meccanismo della fermentazione acido - lattica, che trasforma i grassi saturi del maiale in grassi polinsaturi e monoinsaturi benefici della salute, il consumatore riscopre il gusto del grasso ben stagionato; in questo prodotto grasso e magro si nobilitano a vicenda con evidenti vantaggi gustativi 651”. Nel 2003 Giovanni Ballarini, docente di Veterinaria all’Università di Parma (ma anche studioso di cultura dell’alimentazione e Presidente dell’Accademia della Cucina Italiana) pubblica il testo “Piccola storia della grande salumeria italiana” dove stila un elenco dei salumi tradizionali di ogni regione, tra cui naturalmente le Marche, compilando questa lista con un inventario incrociato di quanto censito nel decreto legislativo 173 del 1998, dall’Atlante dei Salumi curato dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, dalle edizioni 1931, 1969, 1984 della “Guida all’Italia gastronomica” del Touring Club Italiano; tra i prodotti citati non manca naturalmente il “lonzino652”. In un’altra guida enogastronomica, l’edizione 2006 de “Il golosario di Paolo Massobrio” il compilatore tra le schede sulle “cose buone” delle Marche ne dedica una a questo salume, sostenendo di essere appunto stato “conquistato dal lonzino, un lombo di maiale stagionato quattro mesi, insaporito con sale, pepe e poco aglio653”. di questo particolare salume. Prima della diffusione delle infondate fobie, il lardo, infatti, era considerato la parte più importante dell’alimentazione familiare. Il lonzino si trova in prossimità del dorso ed è separato dalla cotenna da uno strato di lardo erto circa 3-4 cm. Il lardo del dorso è sicuramente il più pregiato e per questo che il lonzino con la sua cotenna si presta in modo sublime ad essere conservato, ed è proprio la simbiosi del lardo con la parte magra che lo rende un salume dal gusto unico, dolce e saporito al tempo stesso. La prima fase di produzione è quella della salatura che avviene con una concia contenente, nelle adeguate e segrete proporzioni, vino, sale, pepe, aglio ed erbe aromatiche. Importantissima, per la preparazione di questa specialità, è la seconda fase, quella dell’affumicatura. Avviene lentamente, con legna leggera e aromatizzata al rosmarino. La terza fase è rappresentata dalla paziente attesa durante la quale la stagionatura naturale in ambiente non condizionato permettono all’aria e al tempo di far acquistare al lonzino il giusto aroma e sapore654”. La presenza su Internet è oggi in grado di certificare la familiarità di un prodotto nella realtà della produzione, del commercio, del radicamento nel consumo e nella sensibilità collettiva; una documentazione preziosa per tutti i turisti alla ricerca dei cosiddetti giacimenti enogastronomici sono i siti di promozione dei territori, da quelli gestiti da associazioni come le Pro-Loco ai portali dei comuni e delle amministrazioni locali, comprese istituzioni di valorizzazione come i Gruppi di Azione Locale, i Sistemi Turistici Locali, gli uffici di informazione turistica. Si legge ad esempio in uno di questi siti il radicamento del lonzino non solo come si è visto nel Piceno, ma anche nella parte più settentrionale della Regione, ossia il Montefeltro: “Prodotto tipico tradizionale, fatto con i lombi freschi ( parti molto pregiate del maiale: quelle grasse sono quasi assenti), è un salume molto ricercato. Colore roseo tendente al rosso. Aroma fragrante e netto, con sensazione di deciso impatto. Gusto tipico marchigiano, con notevole sapidità e grande persistenza in bocca. Viene consumato molto spesso assieme ad uova sode e torta brusca nella colazione del giorno di Pasqua. Tagliato a fette abbastanza sottili puo’ essere messo in un barattolo sott’olio con delle bacche di ginepro, e viene consumato come antipasto o come ricche colazioni soprattutto nelle lunghe giornate della mietitura655”. Vanno poi naturalmente ricordati tutti i siti dei produttori che costituiscono un’autentica vetrina digitale di immaginari negozi che si affacciano dagli schermi dei PC: in queste videate a carattere assolutamente pubblicitario è facile incontrare il lonzino come vanto produttivo di aziende e agenzie di vendita di tipicità alimentari on line. Esistono poi i numerosi siti concepiti come un repertorio on line costantemente aggiornato di tutte le tipicità gastronomiche, con descrizioni dettagliate che tastano il polso di un effettivo desiderio di consumo e di ricerca per l’acquisto direttamente nel contesto locale. Ecco la scheda del prodotto, ad esempio, nel sito “Gustus Italiano”: “Il lonzino è un salume estremamente gustoso e saporito, trova la sua diversità nell’essere realizzato con tagli di carne assolutamente magra. Di maggior facilità nella conservazione, trova sempre più estimatori in qualsiasi tavola grazie anche all’aroma di finocchio selvatico che viene utilizzato per la stagionatura. E’ derivato dal lombo di suini pesanti adulti, provenienti da allevamenti di razze bianche incrociate e selezionate del _Il nuovo millennio e la nuova comunicazione: la diffusione del lonzino come prodotto valorizzato e commercializzato su Internet_ Cercando su Internet, ormai fonte universale di ricerca, confronto e comunicazione, anche e soprattutto per gli estimatori delle tipicità alimentari autentiche e delle antiche tradizioni di cucina, (i cosiddetti “gastronauti”), si trova il sito di un produttore dove la descrizione delle tecniche di produzione si associa alla poesia della memoria, ed all’intento di recuperare pratiche territoriali talvolta pericolosamente in dissolvenza: “A Monte Vidon Combatte, piccolo e affascinante borghetto medioevale, abbiamo ritrovato quel profumo, quella passione, quella semplicità, che la mia nonna aveva smesso di cercare. Una piccola azienda a conduzione familiare da tre generazioni. Maiali locali allevati a terra, alla maniera antica, senza pastoni chimici energizzanti capace di stimolare un rapido accrescimento. Non solo tradizione, ma anche ricerca e innovazione ci hanno rapito in questa piccola realtà produttiva. Ecco allora il Filettino con Cotenna, un prodotto che ha saputo recuperare la forma originale (650) (651) (652) (653) G. PICCHI, Il Centro, in Atlante dei prodotti tipici: I Salumi, cit., p. 513. Ibidem. G. BALLARINI, Piccola storia della grande salumeria italiana, cit., p. 156. Il golosario di Paolo Massobrio 2003..., cit., p. 157. (654) (655) Dal sito www.lacantinasocievole.com. Dal sito www.saporidelmontefeltro.com/prodotti-tipici.htm. 176 • “O SALUMI BENE AMATI” territorio nazionale. Sale pepe ed aromi naturali, saccarosio e vino656”. E’ questa la codificazione più recente ed ufficiale di un prodotto squisitamente regionale: il lonzino rivive nella lavorazione industriale dei moderni salumieri marchigiani con procedure e regole che, al di là degli aggiornamenti tecnologici rispettano l’eredità dell’antica norcineria ed il radicamento del passato, facendo sopravvivere una cultura ed un sapore lungamente maturato ed accuratamente stagionato dalla storia e dalla tradizione. (656) Dal sito internet http://www.gustusitaliano.com. “O SALUMI BENE AMATI” • 179 Cenni storici sulla COPPA DI TESTA: un salume tra norcineria e cucina La ricostruzione delle testimonianze e delle documentazioni più antiche sulla “coppa” nelle Marche pongono fin da subito un problema di denominazione ed addirittura identificazione del prodotto. Infatti tutti gli studiosi di storia della gastronomia e delle tradizioni agro-alimentari rurali hanno sempre sottolineato l’equivoco di fondo sul termine “coppa”, da ricondurre essenzialmente nella codificazione di due prodotti di salumeria diversi, correlati a due macroaree geografiche italiane ben distinte e talvolta contrapposte657 Nel lessico di salumeria il termine “coppa” è una variabile impazzita che secondo dialetti e gerghi locali differenti indica di volta in volta un insaccato diverso. Il dilemma identificativo può essere sciolto tracciando una geografia tecnico-terminologica specifica di questo salume: per sommi capi nella zona padana, tra Lombardia ed Emilia, la coppa è una preparazione di carni suine scelte, assimilabile a quella che secondo la tradizione marchigiana è chiamata “lonza”; al contrario in una vasta area centrale che dalla Romagna e dalle Marche giunge al Molise (attraverso anche Umbria e Lazio), per “coppa” si intende genericamente “coppa di testa”, ossia un salume insaccato da definire al contrario povero in termini di tagli impiegati, perché appunto ottenuto con alcune parti di scarto della carcassa, aggiunte alla spolpatura del cranio dei suini; va però anche osservato come questa preparazione venga però poi nobilitata ed impreziosita in termini di gusto e nella confezione complessiva, impiegando infatti additivi costosi ed aromi pregiati, come frutta secca, spezie ricercate, bucce di agrumi, addirittura liquori ed essenze particolari658 (persino l’anice, caratteristico nella specifica produzione laziale, ad esempio). Risalendo al diciassettesimo secolo una testimonianza indicativa di quanto la nostra “coppa” marchigiana fosse percepita come diversa, rispetto all’insaccato omonimo delle regioni settentrionali, si può trovare ad esempio tra le carte seicentesche del dispensiere della famiglia Buonaccorsi di Macerata: il maestro di casa preposto ai continui approvvigionamenti di cibarie per la dispensa, acquisendo anche prodotti particolari e pregiati registra l’acquisto di “coppe di Modena”659. Al di là del pregio indiscusso e conclamato per questa tipicità va ricordato come il cardinal Bonaccorsi avesse anche un’importante residenza a Bologna, ricoprendo l’importantissima carica di legato pontificio nella città felsinea, e pertanto aveva per contiguità territoriale una certa dimestichezza con le leccornie di salumeria emiliana, come si è già avuto modo di osservare, dalla scontata mortadella bolognese, ai prosciutti di Parma ed appunto alle coppe modenesi. Chissà però se il compilatore di questa nota di spesa nello specificare la città di provenienza intendeva anche differenziare il salume da acquistare rispetto alla “coppa” comunemente intesa nel suo contesto locale o familiare, ossia quell’ insaccato “rustico” preparato con la testa di maiale. E’ difficile sostenere con certezza se già all’epoca il termine coppa fosse diffuso con l’accezione odierna nel lessico comune e nell’esperienza rurale collettiva, così universalmente condivisa tra (657) Grande Enciclopedia Illustrata della Cucina, a cura di M. GUARNASCHELLI GOTTI, Milano 1990, p. 295; L’Universale: Prodotti tipici d’Italia, a cura di D. PAOLINI, cit., p. 134. (658) Grande Enciclopedia Illustrata della Cucina, a cura di M. GUARNASCHELLI GOTTI, Milano 1990, p. 295; L’Universale: Prodotti tipici d’Italia, cit., p. 134; A. PICCINARDI, Dizionario di gastronomia: materie prime, tagli delle carni, metodi di cottura, strumenti culinari, tecniche di cucina, terminologia, Milano 1993, p. 178. (659) B. S. Mc., M. Bn., b. 3/16, Vitto. 180 • • 181 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” contadini e signori in una realtà provinciale come quella maceratese e marchigiana in genere, assolutamente dominata da un’aristocrazia fondiaria. Nello stesso corpus manoscritto degli anni del cardinal Bonaccorso Bonaccorsi, in un’altra carta viene illustrata una ricetta con il “rufalotto”, ossia maiale selvatico, impiegandone per la precisione la testa lessata, con modalità assolutamente assimilabili alle caratteristiche generali delle ricette oggi sopravvissute e codificate dalla tradizione per la cosiddetta “coppa di testa” . Si leggono infatti ben due preparazioni per la testa di ruffalotto: nella prima viene proposta integra, secondo una consuetudine frequente nell’estetica di mensa tra Cinquecento e Seicento, spesso compiaciuta verso il grottesco se non il macabro, secondo i canoni del manierismo prima e del barocco poi, ossia cucinata in vino negli effluvi contrastanti di spezie esotiche e di erbe aromatiche più familiarmente campagnole, ed infine servita ornata di fiori e guarnita di erbette profumate ed agrumi. Così si legge nella carta seicentesca: “Testa di rufaloto lessa intiera ben polita, cotta in vino con pepe, cannella e garofali intieri, macis; servita con fiori attorno o altre verdure odorose, con foie odorifere in bocca, o vero un limone o melangolo660”. Carlo Magini. Natura morta con costole d'agnello su tagliere, Questi stessi aromi ed ingredienti però piatto di salcicce, cavolo e prosciutto appeso. ritornano nella seconda preparazione Forlì, Pinacoteca Civica. con questa testa di ruffalotto, riportata appena sotto la prima, ed in questo caso cucinata disossata in una modalità che suggerisce davvero la ricetta tradizionale della coppa di testa perpetuata fino ad oggi. Così infatti recitano questi appunti di cucina seicenteschi: “Testa detta, cotta come sopra, poi disossata, tagliata in fette o pezzetti, spolverizzata di cannella in polvere, zuccaro et garofolo, e poco pepe; posta, più cotta che sia possibile, involta in tovagliolo et messa dentro un mortaro in forma di una palla; et che stia così insuppressa tutta una notte perché sia ben gelata, servita tagliata in fette che parerà una pietra mischia661”. Il procedimento è davvero notevolmente simile a quello oggi continuato secondo pratica mutuata nel tempo: la spolpatura cotta, aromatizzata e edulcorata, viene avvolta in un panno e messa sotto pressione a raffreddare, e si conferma un compiacimento anche estetico che tornerà nel tempo, ossia l’effetto dei pezzetti congiunti di carne ed aromi, differenti per forma e colore, che fa scorgere la somiglianza con un mosaico di pietre dure assemblate assieme a commesso (la “pietra mischia”). Nei secoli seguenti una certa diffusione della pratica di confezionare la coppa di testa è documentata da alcuni archivi privati di famiglie signorili marchigiane, dove è possibile rinvenire tra la contabilità domestica i resoconti della “pista” annuale, redatti dai norcini a lavoro ultimato dopo la macellazione dei suini e la lavorazione e conciatura delle loro carni. In questi elenchi con la rendicontazione dei salumi ricavati dalle “pista” annuali nelle varie casate non è infrequente rinvenire appunto anche la coppa. Ad esempio ad Ancona nel 1744 nell’inventario di dispensa di palazzo Trionfi risultano 69 salami, 5 prosciutti, 21 lardi, 18 ventresche, 19 coppe di casa, 250 ciauscoli, e 16 mortadelle di Bologna662 (da notare appunto la specificazione “di casa”, molto probabilmente proprio per distinguere la preparazione dalle coppe così simili alle lonze prodotte nelle città del Nord, ed importate appositamente per le dispense delle famiglie più agiate ed esclusive). Decenni dopo nel 1801 è stata compilata la ricevuta del lavoro svolto da tale Giovanni Gili, norcino (o “mazzarino” o “pistarino” secondo le diverse declinazioni dialettali marchigiane) presso casa Bonarelli a Sappanico, piccolo castello ora frazione di Ancona; questo rendiconto, in data 25 febbraio 1801, è appunto qualificato come “Lavoro fatto da me Giovanni Gili al Sig.e Conte Pietro Bonarelli dela Colonna di Carne Porcina”, e vi segue l’elenco delle produzioni, a partire da “cinque Pache salate” per arrivare appunto al 132 libbre di salami, oltre a cotechini (45 libbre), ciauscoli (41 libbre), salsicce (8 libbre), ed otto coppe. Una tipologia di documentazione parallela a questi due inventari familiari di salata, di metà Settecento ed inizio Ottocento, è naturalmente anche un celebre ricettario, il primo pubblicato a stampa nelle Marche, “Il cuoco maceratese” di Antonio Nebbia, edito per la prima volta nel 1779 e poi con una serie di riedizioni e ristampe proseguite anche nell’Ottocento. Del resto si deve osservare come la coppa di testa in effetti vada considerata anche come una preparazione di cucina, non solo perché prevede la cottura ma anche per il suo complesso carattere di ricetta persino laboriosa, che può essere addirittura ad esempio assimilata nella procedura alla “galantina”, classica pietanza di carne delle feste, annoverata a ragione tra i vanti della tradizione gastronomica marchigiana. Una significativa testimonianza tra la contiguità delle due preparazioni si ritrova non a caso tra le pagine appunto di questo testo-capostipite della letteratura marchigiana di cucina: infatti ne “Il Cuoco Maceratese” di Antonio Nebbia, vengono proposte una di seguito all’altra le due ricette delle “gelatine di grasso” e della “coppa alla mosaica”. La preparazione preliminare della gelatina (ingrediente caratteristico anche della galantina) prevede una lunga bollitura in marmitta di zampe di vitello, una lingua (non specificato se suina o bovina), cinque o sei zampe di vitello, due orecchie di maiale (quindi non proprio la testa intera, forse considerato dall’autore un impiego troppo rustico o plebeo), e successivamente è contemplata una procedura laboriosa di filtraggio per ottenere l’involucro di brodo solidificato, sotto cui “vi metterete la coppa, che qui vi descrivo”. Difatti nel paragrafo successivo l’autore illustra come prendere “tutta la carne, che tenete in caldo”, dandogli “una mezza tritata” ed arricchendola con quegli ingredienti che nel tempo e quindi nella nostra tradizione si codificheranno appunto come gli additivi ed aromatizzanti caratteristici della coppa, ossia “cannella, garofoli [chiodi di garofano], sale, formaggio parmigiano e mandole [scritto esattamente senza erre] trite con pignoli [pinoli], pistacchi, e candito trito, e tutte queste droghe e composizioni sian messe a giudizio”; il tutto viene poi avvolto stretto in un “canavaccio” e messo a pressare “dentro il fondo di un mortaro di pietra” con un “peso sopra” per ventiquattro ore, finché una volta sciolto vi si (660) (662) (661) Ibidem. B. S. Mc, Bn, b. 2/5. Archivio di Stato di Ancona, Archivio Storico Comunale, notaio Giovanni Giuseppe Ricci – Eredità Trionfi, n. 2651, c. 67; cfr. F. M. GIOCHI – A. MORDENTI, Civiltà anconitana..., cit., p. 412, nota 54. 182 • • 183 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” trova “la composizione tosta quanto un salame663”. La tecnica descritta è in pratica la spiegazione di come anche oggi si confeziona la coppa di testa. Gli ingredienti pregiati adoperati dal Nebbia, cuoco in servizio presso famiglie signorili, proseguono sulla scia della tradizione di tutta la cucina aristocratica cinquecentesca e seicentesca, e non a caso si può riscontrare come pistacchi, mandorle, pinoli, noce moscata, cannella ricorrano spesso come aromi e sapori di moda per le pietanze delle mense altolocate anche in ambito marchigiano, come si può ad esempio riscontrare nelle molte ricette annotate nei già citati manoscritti seicenteschi del maceratese cardinal Bonaccorsi664. Ne consegue pertanto che nella preparazione della coppa di testa, considerata da sempre come assolutamente rustica e popolare, i contadini abbiano tuttavia sempre guardato a modelli gastronomici “alti”, cercando di imitare anche nell’impiego di determinati ingredienti ed aromi (oltre che di tecniche raffinate e laboriose) alcune caratteristiche specifiche della cucina signorile, da loro conosciuta direttamente o indirettamente attraverso canali reciproci di scambio e comunicazione non così episodici. Progredendo nel secolo successivo un ricettario manoscritto ottocentesco dimostra come la ricetta, (codificatasi nel tempo come convenzionale) della “coppa di testa” marchigiana possa trovare riscontri ma al tempo stesso differenze sensibili anche nelle aree territoriali di confine con le regioni limitrofe: lo dimostra il quadernetto con segreti ed appunti di cucina appartenuto alla famiglia Albini di Saludecio, piccolo borgo al confine tra Marche e Romagna lungo la valle del Conca. In questo “Codice di Cuccina” [sic], si legge appunto la ricetta “Per fare i Salami di Testa di maiale”: “Due teste di maiale, una goletta, due lingue, una lonza, g. 660 di carne magra di bue, grascioli (lardelli) come nei salami. Si avverte che musi, orecchie, cotiche, teste disossate, goletta e lingua devono esser ben pulite dai peli e tritate grossolanamente. La carne di bue, invece, deve essere pestata finemente. Condire con pepe, sale, chiodi di garofano, cannella e noce moscata, tutti ben pestati. Impastare bene tutta la carne, unirvi i lardelli come nei salami, insaccare in budello ben preparato e legare ben stretto con lo spago. Bollire in acqua e vino avvolti in fieno fino ed odorifore (erbe aromatiche)665”. Come si vede questa antica variante, rinvenuta appena oltre il confine Nord della Regione, pur avendo tratti squisitamente marchigiani vanta comunque alcuni particolari differenzianti, ad esempio l’aggiunta di goletta e lingua, che rendono certamente più sontuosa e ricca la preparazione, ben degna della grassa terra di Romagna ed anche certamente di una famiglia signorile. Tornando invece ai ricettari prettamente marchigiani un secolo circa dopo la pubblicazione del testo di Antonio Nebbia anche un altro “storico” manuale di cucina marchigiano a stampa, inevitabilmente destinato a lettori nobili e borghesi, riporta un’interessante ricetta di coppa di testa. Infatti risulta ormai riconducibile a questa preparazione tradizionale la ricetta presente nel manuale di cucina del 1891 “Il cuoco perfetto marchigiano” (pubblicato a Loreto nel 1891), dove però curiosamente l’anonimo compilatore adotta il titolo “Coppa di Bologna”, forse per evocare a lettori mediamente colti e cosmopoliti la suggestione della “ghiotta” e “grassa” città, maestra da sempre celebrata nell’arte salumiera, in particolare anche di quella celeberrima mortadella, che in quanto cotta è certamente per certi versi assimilabile e riconducibile alla coppa marchigiana. Si legge pertanto, in questo ricettario stampato alle soglie del Novecento, di mettere in una casseruola piuttosto grande “mezza testa, la lingua ed i muscoli delle zampe di maiale”, e una volta fatto bollire il tutto lo si disossa per tagliarlo poi “a pezzetti grossi come una noce”, per condirli poi con “sale e pepe, noce moscata, cannella, uva passa e pignoli, e qualche pistacchio se si vuole”; il tutto viene poi messo in un “trombone da vaccina che, legato ben stretto a guisa di lonza, si mette al sereno ad asciugare”; l’autore conclude suggerendo che “anche dopo trascorso un sol giorno, la coppa può tagliarsi e mangiarsi”666. Pochi anni prima rispetto a questo anonimo ricettario a stampa del 1891 va ricordata un’altra preziosa documentazione sulla diffusione ed il radicamento nelle Marche della coppa di testa tra le tradizionali preparazioni suine. Il già citato Oreste Marcoaldi, studioso e letterato fabrianese, nel suo già saggio del 1877 (“Le usanze e i pregiudizi, i giuochi de’ fanciulli, degli adolescenti e adulti, i vocaboli più genuini del vernacolo, i canti e i proverbi del popolo Fabrianese”) così descrive questo insaccato: “La coppa […] è un misto di cotenna lessa tagliuzzata e di altre parti per lo più della testa del porco, condita con sale, pepe forte pestato, cannella, mandorle dolci, imbusecchiata e stretta con spago a guisa di mortadella667”. La diffusione marchigiana della coppa tra le preparazioni di norcineria più consuete, e quindi la sua familiarità nell’immaginario goloso più comune, è poi certificata dalla citazione di questo peculiare insaccato in una tipologia di fonte letteraria e documentaria già citata, anche perché da sempre curiosa e preziosa per gli storici: si tratta di quella serie di poemetti comico-realistici intitolati “Il Testamento del porco”. In questi componimenti letterari buffoneschi si immagina il maiale solennemente intento a dettare beffardamente le sue ultime volontà poco prima della sua condanna: il suino sistema così irrealisticamente le parti del suo ghiotto corpo a destinatari differenti, specificando i relativi caratteristici impieghi durante la “salata”. Si legge appunto nella versione ottocentesca già citata di questi brevi testi letterari di ambito marchigiano: “Con zampe, orecchie, muso, / con cotiche e con groppa / le genti più dabbene / ci suole far la coppa”668; i versi indicano con precisione e secondo tradizione i tagli del suino impiegati come ingredienti appunto caratteristici della coppa di testa marchigiana. Il muso era del resto una parte comunque apprezzata quando si realizzava a macellazione avvenuta la spartizione delle pacche di maiale. Ad esempio nelle carte ottocentesche con il regolamento di dispensa del monastero di Santa Maria Maddalena di Serra de Conti, risulta annotato come le clarisse fossero solite spartire i vari prodotti della “salata” ed in genere quanto ricavato dall’ “ammazzatura” dei maiali: gli ossi del muso costituivano il dono per “uomini che scarnificano, fattori, acquarola, a quelli che insaccano le lonze, fanno salami e ciauscoli669”. Va poi rilevato come nel recuperare e raccogliere tradizioni gastronomiche, con indagini sul campo attraverso raccolte di testimonianze e memorie orali, risultino spesso molte ricette rus(666) Il cuoco perfetto marchigiano, cit., p. 104. O. MARCOALDI, cit. (Cfr. G. PICCHI, C’era una volta un sapore…, in Antologia della cucina popolare, cit. (668) Il testamento del porco, in L. PACIFICI, Il ciauscolo: un salume antico dal gusto moderno, cit., p. 5. (669) ARCHIVIO DEL MONASTERO SANTA MARIA MADDALENA, Registro cartaceo con regolamento di dispensa; La cucina dei conventi e dei monasteri. Ricette golose tra sacro e profano. Il monastero di Santa Maria Maddalena di Serra de Conti, a cura di D. BORETTI e T. LUCCHETTI, Bari 2007, p. 27. (667) (663) (664) (665) A. NEBBIA, cit., pp. 90-91. Ibidem. A tavola nell’Ottocento: Il codice di cucina, a cura di L. BARTOLOTTI, Rimini 1993, p. 77. 184 • “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” • 185 tiche, ormai pressoché scomparse, da preparare con il muso: si può ricordare ad esempio il “risotto con la caciappa [mandibola di maiale e musetto]” che gli anziani cucinavano a Staffolo durante i giorni della “pista”670. Facendo riferimento ad un territorio regionale più a Nord il gastronomo Valentino Valentini, nel suo testo “Tutti a casa: le ricette della provincia pesarese”, riporta: “Nelle campagne di Pergola si usa cucinare, alla griglia, il “musetto” di maiale, cioè il “grugno”, che in altre località solitamente viene utilizzato per la preparazione della coppa di maiale. Per questo i pergolesi sono chiamati “mangiamusetti”671. Dalle memorie orali rinvenute da persone anziane risalenti agli inizi del Novecento si può tornare ad un’altra preziosa testimonianza scritta, di una tipologia effettivamente caratteristica del ventesimo secolo: si tratta infatti di una delle prime e più prestigiose guide delle tipicità gastronomiche italiane. Nella primissima redazione della guida gastronomica del Touring Club del 1931, testa a stampa di larga diffusione (su scala nazionale), si per primo certifica il tratto caratteristico squisitamente marchigiano della coppa di testa: “L’Ascolano ha ricchi allevamenti […] così pure sono pregiati i salumi e principalmente i prosciutti, salati ed affumicati, la coppa fatta di cotiche e di testa di maiale, assai aromatizzata con pepe, noce moscata, scorza d’arancio672”. Circa a metà del secolo scorso il celebre e già ampiamente citato chef marchigiano Cesare Tirabasso (nativo di Montappone), nel suo ultimo testo “Le gioie del focolare”, stampato a Roma nel 1959, nel delineare tutte le preparazioni possibili con le frattaglie di maiale dedica una descrizione estesa e particolareggiata alla “Coppa di testa alla norcina”, variante di certo riconducibile, sicuramente anche per memoria compiaciuta e diretta dell’autore, alla variante marchigiana. Questa è la trascrizione integrale: “Si prende la carne della testa (comprese anche le orecchie), nervetti e altre capature nervose; si taglia il tutto a grossi pezzi e si mette in una capace casseruola con tre parti di acqua e una di aceto, si sala al due e mezzo per cento, cioè 25 grammi di sale per ogni litro di liquido. Si aggiungono (insieme alle carni) degli aromi: semi di finocchio, buccie di arancie e di limone, foglie di lauro, un peperoncino piccante, ramettine di finocchio selvatico, semini di comino dei prati, coriandoli, un pezzo di cannella, ramettini di timo, alcuni chiodi di garofano e un cucchiaio di pepe in grani (il tutto legato in un pannolino bianco per evitare che si confondano con le carni). Si pone la casseruola sul fuoco, si schiuma bene e si fa cuocere il tutto 3 o 4 ore a fuoco lento, cioè fino a quando i nervetti non cedono facilmente alla pressione delle dita, tenendo conto che devono essere ben cotti. Si scola il tutto in un colatoio, si toglie il pannolino bianco, contenente gli aromi e, mentre il tutto è ancora bollente, si mette in un panno, si avvolge stretto, si lega con uno spago a forma di un grosso salame e si mette a freddare sotto ad un peso di 10 kg circa. Quando s’è freddata e pressata, si scioglie e si serve fredda tagliata a fette673”. _La coppa di testa nella letteratura gastronomica del Secondo e tardo Novecento_ (670) (674) (671) (672) (673) Il Verdicchio: un vino, una tradizione, un territorio, a cura di M. L. SOVERCHIA, cit., p. 25. V. VALENTINI, Tutti a tavola: le ricette della provincia pesarese, Fano 2004, p. 194. TOURING CLUB ITALIANO, Guida Gastronomica d’Italia, 1a edizione, Milano 1932, p. 292. C. TIRABASSO, Le gioie del focolare, cit, pp. 234-235. Il Touring Club come si è visto ha, fin dalla sua prima guida del 1931, celebrato la coppa di testa, e questo apprezzamento è proseguito nei decenni a conferma di una costante percezione nel tempo dell’importanza di questo insaccato nell’identità gastronomica regionale; così infatti scrive lo storico e gastronomo Massimo Alberini curatore della Guida del 1984: “Coppa: A differenza di quella piacentina, che è fatta con il pezzo unico del filetto del maiale, quella marchigiana è un insaccato al sapore di pepe, noce moscata e scorza di arancio, composto con cotenne e parti della testa dell’animale. Non si mangia crudo, ma bollito, ed è caratteristico della provincia di Ascoli Piceno674”. Nel 1995 il gastronomo (particolarmente esperto in norcineria) Riccardo Di Corato pubblica il suo prezioso ed interessante volume “Due fette di salame” in cui propone anche un dizionarietto conclusivo con moltissime voci dedicate alle differenti tipologie ed anche denominazioni dei vari prodotti di salumeria. Va innanzitutto citata la voce generica “coppa d’inverno” fondamentale per circoscrivere il campo ed evitare fraintendimenti: “Ha vari nomi a seconda delle regioni: coppone, soppressata, testa cotta, testa in cassetta. In linea generale, nasce dalla spolpatura della testa, alla quale si unisce la lingua e talvolta, a seconda degli usi, anche altre parti. Nei tipi pregiati il rapporto è di quattro lingue per testa e un po’ di carnette magre a pezzi interi. Dopo la lessatura, le varie componenti sono tagliate in grossi pezzi, salate, conciate con pepe nero e brodo di cottura per un quinto dell’insieme, mescolando a caldo. L’impasto può essere insaccato in budello bovino e equino, oppure versato in sacchetti di tela o, ancora, messo dentro stampi di metallo. In questi ultimi due casi, quando la coppa d’inverno si è ben raffreddata, la forma è tolta dall’involucro e lasciata libera oppure avvolta nell’omento. Va tagliata spessa per evitare che si sbricioli. Se lo sbriciolamento avesse comunque luogo, vuol dire che la coppa non è stata fatta a regola d’arte. Annovera pressoché tante edizioni quante sono le regioni italiane675”. Ed in effetti dopo questa affermazione sulla capillarità delle coppe di testa nel territorio italiano, l’autore dedica la voce immediatamente successiva alla “Coppa Marchigiana”, affermando: “si distingue per la presenza di cannella, noce moscata, mandorle, pinoli e scorza d’arancia tritata”676; evidenziando un’inevitabile contiguità territoriale il riferimento continua alla voce dedicata alla “Coppa Umbra”: “E’ pressoché simile a quella marchigiana. Tuttavia nel folignate, ove è altresì detta testa in cassetta, vuole anche la buccia del limone, mentre da Perugina fino a Città di Castello arancia e limone di solito sono esclusi677”. Il gastronomo bolognese Alessandro Molinari Pradelli, nel suo ricettario “La cucina delle Marche” riporta anche un elenco dei “Salumi” (“Salumi, maiale ed insaccati”) tipici della regione, riportando una voce descrittiva per ogni specialità dalla “barbaja” (guanciale) fino allo “zampone”: il lemma sulla “coppa” (definita con un sottotitolo “specialità ascolana”) recita: “In- (675) (676) (677) TOURING CLUB ITALIANO, Guida all’Italia Gastronomica, Milano 1984, p. 277. DI CORATO R., Due fette di salame..., cit., pp. 22-23. Ivi, p. 23. Ivi, pp. 23-24. 186 • • 187 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” saccato della testa e di tutte le ossa non ben scarnite (costicine e quant’altro), lessate insieme alle orecchie, a qualche cotenna, alla lingua di mucca e a pezzi di polpa magra; condita con cannella, olive, scorza di limone, sale e pepe di mulinello. Alcune versioni hanno l’aggiunta di mandorle e pinoli tritati. Va insaccata nel budello più largo, legata stretta, poi appesa in un locale fresco e secco. Già il giorno dopo è pronta per il consumo678”. Sempre riguardo ai viaggi enogastronomici non si può come sempre prescindere da una delle più antiche, prestigiose ed attendibili guide a tema italiane, ossia quella redatta dal Touring Club: nel 2001, il cofanetto in quattro tomi “Guida Rapida del Gusto, nel terzo volume dedicato a “Toscana - Marche – Umbria - Lazio - Abruzzo - Molise”, riporta tra i salumi caratteristici della regione marchigiana “la coppa (di testa), composta di cotiche, carne, ossa non scarnificate e orecchie di maiale679”. La guida enogastronomica del Touring Club “Marche – Umbria, Adriatico, Trasimeno e Appennino: tra tartufi, Verdicchio e lenticchie”, conferma il radicamento della coppa di testa come salume tradizionale e prodotto importante della fisionomia storico-alimentare della regione, dedicando una scheda a questo insaccato: “Preparato in tutta la regione, è un insaccato di puro suino confezionato con la carne del muso, le orecchie, le cotenne, la lingua, i muscoli rimasti attaccati alla schiena, grasso e scarti di carne recuperati da altre lavorazioni che vengono bollite per circa due ore. Il tutto è quindi disossato e macinato grossolanamente. Il composto a questo punto è speziato con sale, pepe in polvere, mandorle o pistacchi sgusciati, scorza di arancio grattugiato, olive verdi snocciolate, aglio schiacciato, cannella e noce moscata. Dopo una lavorazione che consente di ottenere un preparato abbastanza omogeneo si procede con l’insaccatura in vescica di suino o in budello di bovino su cui si fanno dei fori con un ago a punta grossa. La coppa viene fatta cuocere per circa due ore, quindi scolata e messa sotto un peso per 12-24 ore di modo che gli ingredienti dell’impasto si amalgamino bene. Va consumata fresca.680” Nel 2005 la collana “La grande cucina regionale”, a cura di Fabiano Guatteri ed edita dalla Rizzoli (in distribuzione con il Corriere della Sera) nel volume monografico dedicato alle “Marche” tra i prodotti tipici dedica appunto una pagina intera alla “Coppa di Ascoli Piceno”: “Prodotto tipico legato al comune di Ascoli Piceno, questa varietà di coppa è ottenuta dalla lavorazione di cotenne, cartilagini, orecchie, lingua e muso del maiale; le varie parti vengono dapprima fatte bollire per alcune ore insieme agli ossi del maiale, quindi macinate (dopo aver provveduto alla spolpatura degli ossi) e infine insaporite con pepe, cannella, noce moscata, aglio, noci tritate e pistacchi. Il composto viene quindi insaccato in budelli e fatto nuovamente bollire per consentire agli ingredienti di amalgamarsi al meglio ed eliminare il grasso in eccesso attraverso piccoli fori praticati sulla superficie; la Coppa di Ascoli Piceno è di fatto una soppressata; dopo la seconda cottura, infatti, viene sottoposta a pressatura, operazione necessaria per conferirle una consistenza compatta. Possiede sapore intenso, pieno, dotato di buona aromaticità681”. A fine scheda gli autori ne illustrano poi gli impieghi “In cucina”: “la Coppa di Ascoli Piceno si consuma in genere al naturale, accompagnata semplicemente da qualche fetta di pane, ma è consigliabile provarla anche tiepida, servita con puré di patate682”. (678) A. MOLINARI PRADELLI, La cucina delle Marche.., cit. TOURING CLUB ITALIA, Guida Rapida del Gusto, vol. 3 Toscana – Marche – Umbria – Lazio – Molise, p. 99 (680) TOURING CLUB ITALIANO, Marche-Umbria.Adriatico, Trasimeno e Appennino: tra tartufi, Verdicchio e lenticchie, Milano 2005, p. 34. (681) La grande cucina regionale: Marche, a cura di F. GUATTERI, testi D. BIONDA - F. GUATTERI - C. PRADELLA - P. SASSI, Milano 2005, p. 142. (679) _Citazioni dalla letteratura gastronomica marchigiana dal secondo Novecento ad oggi_ Nel 1978, Nicla Mazzara Morresi (autentica pioniera degli studi storici sull’antica cucina e sulle tradizioni rurali della regione) illustra la preparazione di questo insaccato tradizionale, confermandone le caratteristiche rilevate finora nei testi più antichi; così si legge nelle pagine del suo testo “La cucina marchigiana tra storia e folklore”, risultato di capillari ricerche di fonti scritte e memorie orali raccolte attraverso tutta la regione: “Si lessano le ossa di maiale non spolpate (testa, palette, posticci), le orecchie, le cotenne e qualche pezzo di carne magra. Quando la carne si stacca dall’osso si può togliere dal fuoco. Le ossa si spolpano e tutta la carne, unita a lingua lessata di vaccina si taglia a pezzi non molto fini, poi si mette a scaldare a bagnomaria in un pentolone, dove si condisce con noce moscata grattugiata, cannella in polvere, ulive verdi snocciolate, grattatura di limone e di arancia, sale e pepe. Spesso si usa aggiungere anche pinoli e mandorle tritate”; di particolare interesse è un’aggiunta prima mai riscontrata, ossia “un bicchierino di cognac ed uno di rhum (per ogni chilo di carne)”, segno di una certa considerazione per questa ricetta, che oltre ai vari ingredienti convenzionali di credenza (frutta secca, spezie, olive) sacrifica anche un po’ delle bottiglie di liquori e distillati generalmente riservati ad occasioni e preparazioni speciali; infine si “insacca e si preme nel budello di vaccina chiamato “trombone” (per la sua grossezza), e si lega con spago”, per appendere “non all’umido” per alcune ore, in modo da poterla assaggiare “anche il giorno dopo, ma “non oltre i trenta giorni dalla sua preparazione, altrimenti, anche se non si rovina, perde tutto l’aroma683”. Questa versione riportata da Nicla Mazzara Morresi nel suo prezioso repertorio sulla cucina storica e tradizionale delle Marche rappresenta davvero la summa delle tante varianti della coppa di testa disseminate lungo tutto il territorio regionale. Molte sono queste procedure diverse di zona in zona per piccoli particolari, preparazioni radicate nel tempo e quindi codificate, affidate nella loro sopravvivenza non tanto ad appunti scritti ma certamente in gran parte alla trasmissione orale ed all’apprendimento diretto sul campo di pratiche perpetuate da generazioni a generazioni di norcini e vergare. Del resto la ricostruzione di storicità della coppa di testa è anche dovuta molto al lavoro di indagine da parte di studiosi delle tradizioni popolari e contadine, di antropologi e sociologi rurali, che con le loro ricerche “sul campo” hanno raccolto importanti racconti e significative testimonianze orali, in grado di ricostruire e salvare dall’oblio l’enorme spettro di saperi e pratiche dell’antica cultura alimentare, tra dispensa, cucina e mensa. Ad esempio Francesco Bonasera, in uno studio degli anni ’50 per la redazione di una “Carta della distribuzione delle colture della provincia di Pesaro ed Urbino” per la Società Geografica Italiana (poi confluito in uno studio per l’Istituto Nazionale della Nutrizione del C.N.R.) ha raccolto le abitudini alimentari dei contadini nelle Marche Nord Occidentali tra il Montefeltro e la vallata marchigiana del Foglia: riguardo alla (682) (683) Ibidem. N. MAZZARA MORRESI, La cucina marchigiana tra storia e folklore, cit., p. 189. 188 • • 189 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” lavorazione della carne di maiale vengono in particolare citati “salami, coppe, lonze, salsicce, prosciutto e lardo sotto sale684”. Sempre nell’ambito della ricerche sulla civiltà rurale lo studioso Mario Carafòli testimonia, nella relazione ad un convegno sulla storia dell’alimentazione marchigiana nel 1982, come anche le famiglie benestanti, ossia “proprietarie di terreni agricoli condotti a mezzadria”, pur dall’ “alto” della loro agiatezza economica seguissero alla lettera per la loro mensa i suggerimenti “bassi” propri del calendario contadino per gestire in dispensa le riserve salate suine: “Si cominciava subito con le costarelle, col sanguinaccio (che si faceva anche dolce), poi con la “coppa di testa”, con i fegatelli cotti allo spiedo avvolti nella grassa rete (detta pannella) e tra foglie di alloro”, per arrivare infine a primavera inoltrata all’assaggio ultimo del prosciutto “a stagionatura compiuta685”. Nel 1985 Angelo Antonio Bittarelli nel suo già citato studio monografico “Pievetorina: il crepuscolo del suino” descrive la coppa nel capitolo dedicato alle “cucine e leccornie” del maiale: “Da circa quarant’anni è iniziata la preparazione della coppa in famiglia. La testa, parte delle ossa, cotiche e orecchie si facevano bollire per circa tre ore per dar modo alla carne di staccarsi dalle ossa. Si faceva il tutto a pezzetti, si aggiungevano bucce di arancia o di limone. Sale e pepe erano regolati ad assaggio. Così condita veniva insaccata calda in grosse budella di mucca o in sacchetti di tela. Veniva pressata per un giorno e appesa: era pronta per essere consumata686”. All’inizio degli anni ’90 Beatrice Muzi ed Allan Evans compiono un bellissimo e prezioso itinerario di ricerca sulle tradizioni di cucina del territorio piceno, raccogliendo memorie del vivo, come nel caso dei riti della “pista”, e quindi anche della preparazione della coppa di testa: “Dopo la spolpatura delle carni (la pista) le ossa vengono bollite in una grande caldaia in acqua salata insieme ad alcune cotenne, qualche cartilagine, la lingua ed il muso di maiale. Dopo tre o quattro ore di cottura, quando la carne di stacca facilmente dalle ossa, si toglie la caldaia dal fuoco, si cavano le ossa dall’acqua e si fanno raffreddare, poi si cominciano a spolparle dei residui di carne che vi sono attaccati […]. Si tritano le cartilagini e le altre parti a pezzi non troppo piccoli, poi il tutto va amalgamato e condito con il pepe, la saporita, la cannella, la noce moscata, l’aglio battuto, mandorle e noci tritate, pistacchi, la scorza grattugiata di qualche limone e la scorza tritata di qualche arancia senza la parte bianca. L’impasto va quindi insaccato in un budello grande di vaccina, legato bene alle due estremità, forettato qua e là con un ago per eliminarne le bolle d’aria, poi bollito di nuovo per un paio d’ore nella stessa acqua dove era cotto in precedenza. La coppa va infine lasciata raffreddare schiacciata fra due piani di legno o di pietra, perché possa appiattirsi un po’ e diventare compatta. Va mangiata a fettine e non va stagionata per più di quattro-cinque settimane, perché quando è fresca è più aromatica e stagionata687”. Ugo Bellesi, nel suo minuzioso “Dizionario della cucina marchigiana: Ricette, vini, personaggi…” dedica una voce alla “Coppa”, specificando tra gli ingredienti la “testa intera di un maiale (musetto, orecchie ecc.), la lingua di un vitellone, noce moscata e cannella, una ventina di olive verdi, sale e pepe”; la preparazione è così illustrata: “Si fa bollire la lingua di vitellone e la testa di maiale e si staccano tutte le parti recuperabili. Se ne fa uno spezzatino che va posto a bagnomaria per mantenerlo caldo e quindi, si aggiungono le olive snocciolate, la noce moscata, la cannella, sale e pepe. Una volta mescolata la carne perché risulti tutta ben condita la si rinserra ben pressata in un budello di vaccina. Va legata e quindi appesa ad asciugare; nelle note si osserva: “Alcuni macellai aggiungono al condimento anche mandorle e pinoli, oltre alle bucce grattugiate di arancio e di limone. La carne acquista maggior sapore bagnandola, prima di essere insaccata, con rum e cognac688”. Valerio Chiarini, studioso delle produzioni alimentari tradizionali del territorio marchigiano, ha naturalmente dedicato un paragrafo anche alla coppa di testa nel suo completo saggio, “Ambre e ciarimboli”, dedicato alla caseificazione ed alla norcineria di questa regione: “La coppa di testa viene fatta utilizzando la testa del maiale, le orecchie, la carne attaccata alle ossa residue di altre lavorazioni e le cotenne. Il tutto viene messo a bollire in un calderone per circa un’ora, schiumando ripetutamente. Appena cotti, i pezzi vengono sgocciolati dall’acqua di cottura, messi sul tavolo, spolpati, fatti a pezzetti, salati, conditi con pepe, pinoli o pistacchi o mandorle sgusciate o olive verdi snocciolate, scorza di arancio e noce moscata grattugiate, cannella, aglio e insaccati in un sacchetto di tela, o in un budello artificiale o naturale di bovino. Il salume così ottenuto viene chiuso con due legature e messo a bollire, ancora, per una ventina di minuti circa: questa bollitura serve a cuocere ulteriormente la carne e favorisce la fuoriuscita dalla tela o dal budello precedentemente punzecchiato dal grasso in eccesso serrando e compattando l’impasto. Una volta terminata la cottura la coppa viene pressata sotto un peso per una mezza giornata e poi consumata nei giorni successivi. Il prodotto è facilmente deteriorabile per cui è consigliabile un rapido consumo dello stesso689”. Di carattere meno tecnico ma più narrativo e suggestivo, carico di quel lirismo affettivo e nostalgico verso l’antica memoria rurale in via di dissolvenza, è il brano di Gian Filippo Centanni contenuto in uno splendido libro fotografico con scatti del celebre Mario Giacomelli; si tratta tuttavia, naturalmente, di un’ulteriore valida testimonianza sulle antiche preparazioni della coppa di testa: “Orecchie, muso, parti residue di grasso e magro, frammenti cartilaginosi, a bollire nel capiente caldaio pendente dalla catena del camino: per la coppa confezionata (appunto previa lessatura e susseguente aromatizzazione con droghe, pezzetti di scorze d’arancio, di mandorle spellate, di olive verdi), mescolando il tutto poi pressato in un sacchetto di panno o in un budello. A compattazione avvenuta, cioè in settimana, la coppa si affettava. Gustosissima690”. Lo stesso chef ideatore e cantore della “cucina dialettale marchigiana”, Rolando Ramoscelli di San Costanzo, ha scritto nel 2001 con il suo amico giornalista ed esperto gastronomo Gianfilippo Centanni un esauriente e minuzioso “Viaggio enogastronomico della provincia di Pesaro e Urbino”, dove tra le specialità di salumeria suina viene citata anche la coppa di testa, definita “prodotto dal sapore speziato ed aromatico”: “La sua preparazione prevede la bollitura delle parti meno nobili del maiale (la testa, l’orecchio, il muso, cotiche e alcuni pezzi di carne cartilaginosa) con l’aggiunta di vari aromi la cui miscela varia da zona a zona: pinoli, uva sultanina, buccia di (684) (685) 75. (686) (687) F. BONASERA, Le abitudini alimentari dei contadini delle Marche Nord Occidentali (1950), cit., p. 78. M. GAROFÒLI, L’alimentazione delle famiglie abbienti marchigiane negli anni Venti: l’area misero-metaurense, cit., p. A. A. BITTARELLI, Pieve Torina: il crepuscolo del suino, cit., p. 27. B. MUZI – A. EVANS, La cucina picena, cit., pp. 109-110. (688) (689) (690) U. BELLESI, Dizionario della cucina marchigiana..., cit. CHIARINI V., Ambre e ciarimboli..., cit., p. 26. G. CENTANNI – M. GIACOMELLI – R. RAMOSCELLI, Ricordi Marchigiani: Racconti, immagini, ricette, cit., p. 27. 190 • • 191 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” arancia o di limone, spezie varie. Il tutto, tagliato in piccoli pezzi, condito con pepe macinato e sale, si insacca in budello bovino e si consuma già dal giorno dopo del suo confezionamento. Si conserva per pochi giorni691”. Nel volume del 1998 “Le colline del Verdicchio: il castrum, la pieve i friscoli” (per la collana “Itinerari Slow”) gli autori Antonio Attorre, Valerio Chiarini e Marco Casolanetti sottolineano come la coppa di testa, presente “in tutta la regione come prodotto della macellazione casalinga del maiale”, dia una “precisa immagine della capacità delle popolazioni contadine di recuperare ai fini alimentari tutto quello che il maiale sa offrire nella sua grande versatilità”; questa la descrizione del procedimento: “La coppa di testa si ottiene utilizzando la testa del maiale, le orecchie, la polpa attaccata alle ossa residuali di altre lavorazioni e alla cotenna. Il tutto viene bollito in un calderone per un paio d’ore, schiumando ripetutamente. Appena cotti, i pezzi vengono sgocciolati, spolpati, spezzettati, conditi con sale e aromatizzati con pepe, pinoli o pistacchi, mandorle o olive verdi, scorza di arancio, noce moscata, cannella e aglio e sistemati in un sacchetto di tela o in un budello naturale di bovino. Il salume così ottenuto viene legato alle estremità e rimesso a bollire per un’oretta circa: questa ulteriore cottura favorisce l’uscita del grasso in eccesso e compatta l’impasto. Terminata la cottura la coppa viene pressata sotto un peso per una giornata e consumata nei giorni successivi692.” Leonardo Bruni, studioso delle tradizioni alimentari rurali, nel suo testo del 1999 “Ricette raccontate: Marche” riporta tra le specialità suine regionali anche la “coppa di testa”: “Insaccato che si prepara con i “ritagli” di carne e cartilagini della testa del maiale. Si versano nel “caldano”, pieno di acqua salata bollente, le ossa con la carne attorno, la lingua, il grugno, le orecchie, cartilagini e carne delle testa. Si fa bollire il tutto per 2/3 ore sin che la carne si stacca dall’osso. Si gettano le ossa, mentre la carne e le cartilagini si riducono in pezzi, si mescolano con miscele di spezie per lo più segrete: pepe nero, succo di limone o scorza d’arancio grattugiata; nell’Ascolano aggiungono olive verdi, pistacchi o mandorle ecc. Si “imbusecca” in un grande budello di vaccina, si punzecchia e si schiaccia sotto un peso, si appende in un luogo fresco. Si consuma subito, al massimo dopo 45 giorni dalla confezione”; dopo la descrizione l’autore conclude lasciandosi andare ad una chiosa spassionata e professionale: “Sublime con le cresce di vario tipo693”. Nel 1999 nel volumetto pubblicato dall’Assessorato Agricoltura della Regione Marche “Cibo come cultura e qualità della vita” un paragrafo osserva: “Della serie: “del maiale non si scarta niente”, altra specialità della norcineria artigianale marchigiana è la coppa. Viene fatta con cotiche, orecchie, carni di seconda e terza scelta spolpata dalle ossa bollite, il tutto aromatizzato con spezie varie, bucce d’arancio, pinoli, olive verdi, sale, pepe e cognac”694. Sempre per la regione Marche, in particolare a cura del Centro Beni Culturali, va ricordato il testo di Raimondo Orsetti “La civiltà contadina nelle Marche del Novecento, (con repertorio iconografico della Fototeca Storica Regionale): nel volume viene dedicato un paragrafo alla gastronomia con particolare attenzione alle pratiche di norcineria, non trascurando naturalmente la coppa di testa, limitandosi a segnalare le zone di eccellenza, che come si è visto erano ricono- sciute come tali fin dagli anni ’30 del Novecento nelle prime guide gastronomiche: “In alcune località della provincia di Ascoli Piceno si chiama coppa una specie di salame, preparato con cotenne, cartilagini, orecchie, lingua e muso del maiale695”. Riccardo Ceccarelli, nel suo studio del 2003 “Come uno di casa: il maiale nelle Marche”, scrive: “In regione sono presenti altre prelibatezze tratte dalla carne di suino come la lonza, la coppa di testa, le salsicce di carne, quelle di fegato, la pancetta arrotolata, la mazzafegato, ecc., tutte lavorate con quella attenzione e quella passione derivate dalla tradizione contadina che nel maiale ha visto sempre un animale prezioso e quasi indispensabile696”. Nell’importante contributo “La salumeria della Marca Anconetana”, nel censimento descrittivo dei prodotti tipici locali gli autori così inquadrano la coppa di testa: “Salume cotto e insaccato, ricavato dallo spolpo della testa del suino e della sua lingua, dalle cartilagini auricolari e altre parti secondarie del maiale”; dopo aver tracciato le fasi di preparazione, con dovizia di dettagli si rileva come questo insaccato venga preparato “in tutta la regione Marche durante la stagione fredda”, con consumo “immediato senza stagionatura, data la sua rapida deperibilità, come componente apprezzato di antipasti, robuste merende, o come unico con verdure di stagione”, riconoscendo come “grazie alla catena del freddo, questo gustoso salume di produzione artigianale ed anche industriale possa essere presente sulla nostra mensa per buona parte dell’anno”697. Più recentemente Graziella Picchi, sociologa rurale, ha condotto dei censimenti sulle tipicità alimentari tradizionali delle campagne, riportandone così tutte la peculiarità nelle tecniche produttive, che si sono differenziate capillarmente nel territorio come identità e memoria di generazioni anche lontane nel tempo, frutto di saperi e conoscenze antiche. Riguardo alla provincia di Ancona la studiosa nota come la materia prima della coppa sia composta da carne di testa, gola e cuore, mentre come ingredienti aggiuntivi ed aromatizzanti (“coadiuvanti tecnologici”) elenca sale, pepe, pistacchio, limone, alloro, bucce d’arancio; la preparazione è così sintetizzata: “le carni di testa vengono bollite ed aromatizzate con pistacchio, alloro e bucce d’arancio e limone, pepe e sale. Una volta raffreddate si insaccano nel budello di mucca e i pezzi messi sotto peso”; nella scheda non manca la voce “Descrizione”, dove si legge “forma cilindrica, ma anche quadrata; il peso è variabile; al taglio è possibile identificare i vari pezzi anatomici con cui è stata confezionata; il sapore è sapido e aromatico”. L’autrice chiosa poi nelle note finali: “Quest’insaccato cotto è un altro prodotto vanto della norcineria italiana. Ogni regione ha la sua versione: musetto in Romagna, mentre in Emilia e Toscana prende il nome di soppressata, nelle Marche è la coppa marchigiana che in alcune zone del Montefeltro, Urbania, viene anche detta tortella. In comune le stesse parti anatomiche: ossa cartilaginose, cotiche, parti della testa, cuore, orecchie. Variano invece i coadiuvanti tecnologici. C’è chi ci mette i chiodi di garofano e chi, come nel Montefeltro, preferisce il pistacchio. Chi aromatizza solo con bucce d’arancio e chi usa arancio e limone. Tante varianti per differenti qualità sensoriali698”. La medesima autrice nel testo dedicato invece al territorio maceratese, codifica questi ingredienti come caratteristici di questa area: “cotiche, carne di testa, cartilagini, carne proveniente (691) CENTANNI G. – RAMOSCELLI R., Viaggio enogastronomico nella provincia di Pesaro e Urbino, cit., p. 40. Le colline del Verdicchio: il castrum, la pieve i fruscoli, cit., p.95. (693) L. BRUNI, Ricette Raccontate: Marche, cit., p. 76. (694) Cibo come cultura e qualità della vita, a cura di L. MARINI – F. PETTINARI, P. PINCIAROLI – L. VALENTI, coordinamento E. RATTI – L. SPERNANZONI – L. VALENTI, Ancona 1999, p. 44. (692) (695) (696) (697) (698) R. ORSETTI, La civiltà contadina nelle Marche del Novecento, Ancona 2002, p. 46. R. CECCARELLI, Come uno di casa.., cit., p. 147. La salumeria tipica della Marca Anconetana, cit., pp. 191-192. G. PICCHI, Terra e cibo della Marca di Ancona, cit., pp. 178 – 179. 192 • • 193 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” da spolpatura completa e ritagli vari ai quali qualcuno aggiunge anche cuore e lingua”, mentre individua come condimenti: “Sale, pepe, noce moscata, cannella, bucce d’arancio e di limone, aglio schiacciato. Qualcuno aggiunge foglie di alloro, mandorle, noci tritate, pistacchi, olive verdi e pinoli. Secondo una ricetta particolare l’impasto si bagna con un bicchierino di cognac ed uno di rhum per ogni chilo di carne”699. Questa è la voce dedicata alla “Lavorazione”: “Le ossa di maiale, insieme ad alcune cotenne, qualche cartilagine, le orecchie, la lingua e il muso del maiale vengono fatti bollire in un grande caldaio con acqua salata per tre o quattro ore. Si tolgono dal fuoco quando la carne si stacca facilmente dalle ossa. A freddo si tritano i vari tipi di materia prima a pezzi non troppo piccoli che vengono amalgamati con il condimento. L’impasto va insaccato in un budello di vaccina chiamato “trombone”, legato alle due estremità e lasciato raffreddare schiacciato sotto un peso per ventiquattro ore per compattare la carne. Al posto del budello di vaccina o di cavallo si può usare un canovaccio di tela a trama rada per favorire l’espulsione del grasso sotto la pressione dei pesi. Secondo una particolare ricetta la coppa, una volta confezionata e prima di essere messa sotto peso, va cotta nuovamente per altre due ore700”. Riguardo alle modalità di consumo la studiosa riporta quelle più riscontrate: “Si può usare per antipasto ma anche per spuntini, merende (ottima con focaccia appena sfornata e vernaccia) o per condire in insalata con verdura”701. La ricetta della coppa di testa viene riportata anche nel volume curato dalla Coldiretti di Ancona (anche con la partecipazione di “Campagna Amica” e “Distretto Rurale di Qualità Colli Esini”), “Ceci, cicè, fagioli e pulé: saggezza rurale nel panorama gastronomico dell’entroterra della provincia di Ancona”, e redatto da Michela Fabiano (con supervisione ai testi di Ettore Uncini): per la segnalazione delle preparazione vera e propria si riporta come materia prima carnea l’impiego di carne di testa, gola e cuore, mentre come aromatizzanti si elencano sale, pepe, pistacchio, limone, bucce d’arancio e alloro702. L’agronomo e scrittore Ettore Franca, in un suo intrigante volumetto intitolato “Maiale, carnevale e non solo…” (edito nella collana “Carnascialia”, legata alle manifestazioni del carnevale storico fanese), dedica un capitolo molto dettagliato a tutte le operazioni della pista e le produzioni ad essa correlata; in questa sorta di narrazione la coppa di testa trova il suo momento: “In un altro pentolone, frattanto, stavano bollendo in poca acqua le ossa del cranio, le cartilagini, le orecchie, la lingua, qualche tenera cotica e vari brandelli non altrimenti utilizzati. Spolpata la carne delle ossa, questa sarebbe stata passata al tritacarne e, opportunamente speziata [“si usavano a seconda, delle abitudini e delle possibilità, sale, pepe, pinoli, pistacchi, mandorle, olive, noce moscata, aglio, cannella…”, così in nota dal testo originale, n.d.r.]; si insaccava calda nell’intestino crasso [“Talvolta si prendevano dai macellai, per la bisogna, tratti di intestino crasso di bovino”, così in nota dal testo originale, n.d.r.] per farne la coppa di testa, un voluminoso salume di colore grigiastro da affettare grossolanamente e mangiar col pane dopo qualche settimana o mese703”. Questa invece la trattazione della coppa di testa in un opuscolo dedicato ai prodotti tipici alimentari delle Marche, curata per l’assessorato regionale all’Agricoltura da Ferruccio Luciani: “Un altro esempio classico di come del maiale si utilizzi davvero tutto è rappresentato dalla coppa di testa, conosciuta anche come “tortella”. L’ingrediente base è costituito, come dice il nome, dalla testa del maiale che si fa bollire per almeno tre ore con la sola aggiunta di sale e di altre parti, ottenute dalla macellazione del suino: ossa, orecchie, codino, zampetti e altre parti, ottenute dalla macellazione del suino: ossa, orecchie, codino, zampetti e altre parti, siano esse sanguigne e rosse che cartilaginose. Dopo la cottura, le carni vengono disossate, sminuzzate e impastate rigorosamente a mano. L’impasto viene insaporito con pepe, olive verdi, bucce d’arancio, mistrà, mandorle, pistacchi e pinoli e aromi variabili a seconda del gusto del norcino (di frequente si utilizza l’alloro). Il composto viene quindi raccolto in un panno e pressato per 10 –12 ore. Il prodotto finito si presenta nella tradizionale forma a mattone anche se oggi è sempre più diffusa la forma cilindrica.704” Importante anche quanto riportato in una monografia gastronomica sul maiale curata dallo studioso delle tradizioni alimentari e rurali senigalliese Leonardo Bruni: “Insaccato ottenuto dallo spolpo della testa fatta bollire nel caldaro per circa tre ore, con cipolla, sedano, carota, e foglie di alloro, si aggiungono poi la carne, le orecchie, la lingua, il musetto, si riduce a piccoli pezzi e si conciano con brodo di cottura, pepe sale, grattatura di buccia d’arancio e miscele di spezie varie la cui composizione è segreta. Nell’ascolano si uniscono olive verdi, pistacchi e mandorle. Si imbusecca nella vescica del porco o nei grossi budelli di vaccina. Si punzecchia con un ago e poi si tiene pressata per alcuni giorni. Si mangia entro 45 giorni705”. Ugo Bellesi e Tommaso Lucchetti nel loro “Marchigiando: Dizionario della cucina marchigiana”, pubblicato in undici volumetti nel 2007, dedicano naturalmente una voce alla “coppa”: “Secondo la ricetta tradizionale del Piceno le ossa vengono bollite in un grande caldaio di acqua salata insieme a cotenne, orecchie, lingua e muso. Dopo parecchie ore di bollitura, quando la carne si stacca dalle ossa, si toglie dal fuoco e si recupera tutta la carne utile, che verrà poi tagliata in pezzi non troppo piccoli, e mescolata con pepe, cannella, noce moscata, aglio battuto, mandorle e noci tritate, le scorze di arance e limoni. Si insacca in un budello grande di vaccina che va legato e foracchiato qua e là per la sua lunghezza con un ago per eliminare le bolle d’aria, e poi va bollito per due ore nella stessa acqua della precedente cottura. Va poi lasciata raffreddare, schiacciata fra due piani di legno o pietra, per farla appiattire e diventare compatta. Va mangiata a fette dopo una stagionatura di non più di quattro o cinque settimane”706. Infine è di recente uscita, giugno 2007, un volumetto pubblicato dalla Camera di Commercio di Macerata all’interno di una specifica collana “Enogastronomia maceratese”, dedicata appunto alla memoria dei prodotti tipici alimentari della tradizione rurale nel territorio maceratese. Il libro, “La coppa di testa: un patrimonio popolare che viene dal passato”, è stato curato da Carla Mastrocola e Lorenza Natali, con contributi di Carlo Cambi, Tommaso Lucchetti, Sergio Zambelli, Lucia Bailetti. Oltre alle pagine di storia, che si riferiscono anche a tradizioni e territori esterni alle Marche, non mancano ricette e apporti preziosissimi dalla memoria diretta e (699) G. PICCHI, Risorse e cibo nella terra delle armonie, cit., pp. 170 – 171. Ibidem. (701) Ibidem. (702) Ceci, cicè, fagioli e pulé: saggezza rurale nel panorama gastronomico dell’entroterra della provincia di Ancona, testi di M. FABIANO, Ancona s.d., p. 11. (703) Maiale, Carnevale e non solo…, a cura di E. FRANCA, Fano 2003, p. 69. (700) (704) (705) (706) I prodotti tradizionali della Regione Marche, cit., p. 23. L. BRUNI, Il porco nelle Marche, Senigallia 2007, p. 48. U. BELLESI – T. LUCCHETTI, Marchigiando: Dizionario della cucina marchigiana, cit., v. 2, p. 36. 194 • • 195 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” dall’esperienza di norcini e ristoratori locali, oltre all’interessante panel degustativo del Centro Analisi Sensoriale di Matelica707. Uno studio pubblicato nel 2008 sull’antica cultura alimentare e conviviale nella Valle del Cesano, ricostruita anche attraverso la raccolta sul campo di memorie orali mediante interviste e questionari708, ha rilevato come la coppa di testa venisse chiamata in particolare nel territorio di Pergola “testacotta”, termine che comunque ricorre nel territorio nazionale, come si riporterà più avanti. circa 40 giorni”. Val la pena naturalmente menzionare quanto riportato a riguardo in uno dei tanti siti correlati alla molteplici attività di un’istituzione internazionale come Slow Food, notoriamente vocata alla salvaguardia delle tipicità alimentari: ”È un salame cotto preparato lessando e disossando la testa del maiale: il musetto, le orecchie, la carne attaccata alle ossa e le cotenne. Tritate grossolanamente le varie parti sono mescolate e conciate secondo svariate ricette: a seconda dei casi con sale, pepe, pistacchio, olive verdi, scorza d’arancio e limone grattugiata, cannella, aglio, noce moscata. L’impasto, accuratamente mescolato, viene insaccato e rimesso a bollire per un’altra mezz’ora. Quindi la coppa deve essere pressata per mezza giornata e a questo punto è pronta per il consumo.” O ancora il sito “www.superdossier.it”: “Rinomatissima anche la coppa marchigiana, ottenuta dalla carne della testa del maiale, resa più gustosa con mandorle e scorza d’arancia”. Vanno poi ricordati altri siti dedicati a pietanze e ricette storiche della cultura gastronomica nazionale, ma meno tecnici e formali e più descrittivi, perché rivolti al sempre crescente numero di viaggiatori e turisti particolarmente interessati ai saperi del mangiare tradizionale, come ad esempio i potenziali lettori di “www.cookaround.com”, dove alla voce “salumi” si legge così della coppa di testa: “E’ una via di mezzo fra il salame e la coppa, ma tradizionalmente viene chiamata “coppa” anche se ha ben poco a che fare con la parte che normalmente si usa per fare la coppa o il capocollo. E’ un prodotto tipico di regioni come le Marche, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia. Si utilizza le carni della testa (il muso, le orecchie, le cotenne, la lingua, ecc), si tagliano a dadi e si insaporisce con sale, pepe, cannella, aglio, noce moscata, ecc., a questo punto si cuoce l’impasto ottenuto, si insacca o si avvolge nella rete di maiale (dipende dalla tradizione regionale) e successivamente si pressa per circa 12 ore. A questo punto la coppa è già pronta per il consumo. La fetta tagliata risulta un insieme di colori dal bianco al rosa scuro. Il profumo è delicato. Il sapore è morbido, delicato e leggermente speziato”. Del resto i sempre più numerosi “gastronauti” amano confrontarsi e disquisire sulle loro scoperte attraverso il gusto e gli altri sensi, e non mancano siti particolarmente raffinati dove i cultori della gastronomia si lanciano in riflessioni dotte e parallelismi meditati, come ad esempio nel sito www.peperosso.it dove si parla di “camelonticità lessicale” degli insaccati: “Salume che viene dalla schiena del maiale: capocollo, lonza, coppa, “posto che vai, salume che trovi“.Ma come dicono i grandi allenatori, spesso, “la coppa è questione di testa”. Testa di suino lessata, nella fattispecie, e poi cotenne, ossa, orecchie, codino, parti meno nobili si dirà, ma del maiale è pur vero che non si butta nulla. Mettici infine una manciata di altri ingredienti che variano di regione in regione, dall’alloro all’oliva nera, dalla scorza d’arancio al mistrà, le mandorle, i pistacchi, la noce moscata, i pinoli. E’ così che si interpreta la coppa in Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, nelle Marche, specie nel maceratese, dove la coppa di testa è un baluardo della tipicità. Meglio ancora se addentata sul patio di un rifugio, sullo sfondo i Monti Sibillini rubescenti al tramonto”. _Il nuovo millennio e la nuova comunicazione: la diffusione della coppa di testa come prodotto valorizzato e commercializzato su Internet_ Dalla fine degli anni ’90, con un’autentica esplosione nel decennio successivo al 2000, Internet è diventato non solo uno strumento fondamentale di trasmissione di dati e circolazione di idee ed oggetti, ma anche un eloquente misuratore per valutare il senso e la forza della presenza e del radicamento di qualsiasi aspetto o tema nella società. Questi livelli di circolazione e familiarità possono essere verificati anche con le tipicità alimentari, presenti in molte differenti tipologie di siti. Innanzitutto vanno considerati i molti portali che sono concepiti come testi veri e propri di cultura gastronomica tradizionale, con la finalità dichiarata di essere repertori on line delle tipicità alimentari più antiche e celebri. Si può citare in proposito il sito con relativa pagina specifica “www.emmeti.it/Cucina/Marche/Storia/Marche”: “Un’altra specialità “povera”, tipica delle montagne dell’Ascolano è la «coppa», una specie di salame preparato con cotenne, cartilagini, orecchie, lingua e muso del maiale. Questi ingredienti vengono messi a bollire per tre o quattro ore insieme alle ossa dell’animale, dalle quali si distacca poi ogni pezzetto di carne utile. Tutte le parti vengono quindi triturate grossolanamente e condite con pepe, cannella, noce moscata, aglio, mandorle, noci tritate e pistacchi. Il composto viene insaccato nel budello chiamato “trombone” per la sua grossezza e legato con lo spago, bollito nuovamente nella stessa acqua, infine lasciato raffreddare sotto un peso perché si compatti. Dopo quattro o cinque settimane la «coppa» è pronta e viene servita a fettine sottili per lo più come antipasto”. Dello stesso genere la citazione nel portale “www.culturetipiche.it”, “alla voce “Marche” e “Cucina”: “La “coppa”, insaccato tipico, in particolare, delle montagne dell’Ascolano, viene anch’esso preparato con le parti più povere del maiale (la cartilagine, la cotenna, la lingua, il muso le orecchie e le ossa) che vengono fatte bollire per qualche ora, triturate ed insaporite con aglio, cannella, noce moscata , pepe nero e mischiate con un trito di mandorle, noci e pistacchi. Viene quindi insaccato in un grosso budello naturale ed ulteriormente bollito e messo sotto peso per (707) 2007. (708) La coppa di testa: un patrimonio popolare che viene dal passato, a cura di C. MASTROCOLA e L. NATALI, Macerata T. Lucchetti - O. Zanini de vita, L’aratro, l’arola, l’aia: storie e memorie di colture, cucine, tradizioni e feste tra Metauro e Cesano, Pergola 2008: cfr. i questionari rivolti alle classi elementari della scuola del comprensorio didattico di Pergola, a cura di T. LUCCHETTI e L. STRACCINI, materiale raccolto per la medesima vpubblicazione commissionata su progetto “Leader” dal G.A.L. “Flaminia- Cesano”. 196 • • 197 “O SALUMI BENE AMATI” “O SALUMI BENE AMATI” Nel sito www.cibo360.it si può leggere questa significativa cartolina antologica della salumeria tradizionale marchigiana: “Mi riferisco in particolare ai salami tipici, il più famoso dei quali è senz’altro quello di Fabriano; ai salami e alle salsicce di fegato, diffusi in tutta la regione; al ciauscolo, il salame da spalmare; alle coppe e ai lonzini stagionati; alle salsicce fresche e secche, da mangiare rigorosamente crude, abitudine alimentare tipica delle Marche. Per quanto riguarda i salumi cotti, da ricordare la coppa di testa (o torta di testa), che qui viene molto spesso aromatizzata con scorze di arancia e pistacchi, un abbinamento molto particolare che consiglio di provare”. Naturalmente vanno poi ricordate tutte le pagine dedicate alla cultura enogastronomica nei numerosi siti dedicati alla valorizzazione e promozione dell’identità regionale marchigiane: l’immancabilità della coppa di testa tra i prodotti tipici regionali è una conferma della sua importanza e della sua memoria ancora viva e fortemente percepita. Questa ad esempio la scheda specifica riportata nel sito “www.marchenet.it”: La coppa di testa: Taglio - Testa del maiale, guancia (ritagli), lingua, orecchie, musetto, cotenne, ritagli di carne; Aromi - Pepe, cannella, scorza di limone o arancia, pistacchi, noce moscata (vino a piacere); Procedimento - Cottura in acqua con sedano, carota cipolla, aglio rosso alloro, insaccato in budello naturale o sintetico, fare opera di pressatura e raffreddamento; Particolarità - Ricette simili si trovano al nord Italia, Germania e Francia.Servire fredda senza stagionatura”. Non mancano all’appello i siti di dichiarata promozione turistica della regione, come ad esempio “www.marcheturismo.it”, dove si legge alla voce “cucina e gastronomia”: “La coppa marchigiana è un salume di carne della testa del maiale mista a cotenne, cotta e poi aromatizzata con sale, pepe, cannella o noce moscata, mandorle, pinoli e scorza d’arancia, e infine fatta raffreddare sotto pressa”. Tra i siti delle amministrazioni comunali, o degli enti locali preposti alla valorizzazione turistica e culturale del territorio si ricorda quanto annotato alla voce “gastronomia” nel sito della città di Macerata (“www.comune.macerata.it”): “Coppa di testa - insaccato preparato con le parti povere del maiale, la cartilagine, la cotenna, la lingua, il muso, gli orecchi, bollite, triturate, e insaporite con aglio, cannella, noce moscata, pepe nero, mandorle, noci e pistacchi” Questa invece la scheda presente nel sito del “Gal Piceno” (“www.galpiceno.it”): “La coppa di testa marchigiana viene preparata con carne cotta della testa del maiale mista a cotenne, aromatizzata con sale, pepe, cannella o noce moscata, aglio mandorle, pinoli e scorza d’arancia, e infine fatta raffreddare sotto pressa. Da espediente per riutilizzare i prodotti di scarto dalla macellazione del suino, è divenuto un vero e proprio gourmet da sciogliere in bocca in fette sottilissime apprezzando la consistenza delle mandorle bianche nella morbidezza delle carni. E’ ottima tagliuzzata in listarelle a comporre un carpaccio da gustare con finocchio fresco e fettine d’arancia”. Così si legge invece nel sito “www.fabrianoturismo.it”: “Un altro alimento tradizionale della vallata è la coppa di testa, preparata in tutte le norcinerie, anche a livello domestico. Le cotenne, le cartilagini, la lingua, la muscolatura del muso del maiale vengono fatte bollire per diverse ore con le ossa e le parti carnose vengono tutte tritate in maniera grossolana e condite con spezie e frutta secca e quindi insaccate e pressate. Il collagene derivato dalla lunga bollitura ne determina, con il raffreddamento, la compattazione.” Una rapida consultazione su internet dimostra la diffusa commercializzazione della coppa di testa in siti specializzati nella vendita di tipicità alimentari on line, come ad esempio www. marcheintavola.it, o anche www.saporidellemarche.com. Questo insaccato è anche oggetto di iniziative specifiche dedicate alla storia delle tradizioni rurali, come ad esempio si ricorda l’appuntamento ormai canonico nelle Marche della “Festa del Nino”, rassegna sul recupero dell’antica cultura gastronomica, che nell’edizione 2007 alla tappa di gennaio di San’Andrea di Suasa propose tra gli allestimenti rievocativi il caldaro in piazza con la bollitura “espressa” delle carni per la coppa di testa, mentre tra i menù fissi un piatto “di rilettura” consisteva in una “insalata di coppa di testa con finocchi freschi ed arance”. E’ questo un segno univoco ma al tempo stesso trasversale dei molteplici piani in cui la coppa di testa da antico prodotto della tradizione alimentare rurale sopravvive ancora nell’esperienza collettiva, ossia come rievocazione del ricordo di una realtà ma al tempo stesso come momento di attualità in un consumo al tempo stesso ludico-conviviale ma anche di ricerca gastronomica, nel recupero saggio di un cibo povero che può però rivivere come ricercato strumento di rielaborazione dalla parte di celebrati chef alla moda. La memoria storica rivive così anche dietro una ricerca di sperimentazione del nuovo. La coppa di testa risulta pertanto tra le specialità suine tradizionali, con preparazioni radicate da secoli nel territorio secondo antiche memorie; va sottolineato però come ormai la commercializzazione sia la principale (se non ormai unica) garanzia della sopravvivenza nel consumo di questo insaccato, reperibile nelle macellerie e nelle rivendite di alimentari specializzate in tipicità. Ormai sono poche le cucine dove si mette a bollire la testa nei grandi caldai, e sparute sono anche le persone che custodiscono le ricette di miscele particolari di ingredienti, una volta sontuosi emblemi di aromi lontani, ora invece generi di facile reperibilità ovunque. Ma per quanto si sia affievolita la dimensione domestica della coppa di testa, ora prodotta in salumifici e laboratori artigiani, fortunatamente questo insaccato tradizionale, rispetto a tante altre ricette e prodotti, ormai scomparsi e relegati all’archeologia del sapore, sopravvive ancora nell’identità culturale del territorio. Disciplinari di produzione Incisione, Il macellaio, 1836. 200 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE PROSCIUTTO MARCHIGIANO Denominazione d’Origine Protetta DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • Il prodotto si attiene alle seguenti caratteristiche chimiche a) umidità : max. 65% ; c) indice di proteolisi : max. 30%; d) proteine : min 20% Art. 1 - Denominazione La denominazione di “Prosciutto Marchigiano” viene attribuito esclusivamente al prodotto stagionato crudo che corrisponde alle condizioni ed ai requisiti del presente disciplinare di produzione. Art. 2 - Zona di produzione La nascita, le operazioni di allevamento e macellazione dei suini nonché le operazioni di produzione, stagionatura e confezionamento del “Prosciutto Marchigiano” devono avvenire nella Regione Marche in quanto prodotto tipico e tradizionale del territorio. Art. 3 - Descrizione e caratteristiche del prodotto Il prosciutto crudo è un prodotto salato a lunga stagionatura formato dalle parti muscolari che presentano come base ossea il femore, la tibia, il perone, inoltre può essere mantenuto estruso il nervo dello zampo dopo l’asportazione dello zampetto stesso. Caratteristiche organolettiche Aspetto al taglio: la fetta si presenta compatta omogenea e di colore rosso rubino Odore: gradevole, di stagionato Sapore: delicato e leggermente speziato, la persistenza aromatica è buona e la salatura equilibrata Aspetto del grasso: sodo e bianco rosato Caratteristiche fisico – chimiche • Qualità della carne: sono escluse dalla produzione tutelata le cosce fresche provenienti da suini con miopatie conclamate (PSE, DFD, postumi evidenti di processi flogistici o traumatici, ecc..) certificate da un medico veterinario al macello. • Le cosce fresche non devono subire, tranne la refrigerazione, alcun trattamento di conservazione, ivi compresa la congelazione; per refrigerazione si intende che le cosce devono essere conservate, nelle fasi di deposito e trasporto, ad una temperatura interna tra - 1 C°. e + 4 C°. • Aspetto esterno: Forma a mandolino allungato • Peso delle cosce fresche: le cosce fresche rifilate, devono avere un peso non inferiore a 12.5 Kg. e non superiore a 17 Kg. • La distanza tra la testa del femore e la base del prosciutto deve essere almeno 10 cm. Il prosciutto deve essere libero dalla cotica fin ad un massimo di 5 cm. dall’articolazione del gambetto. • Dopo l’asportazione dello zampetto può essere mantenuto ed estruso il nervetto dello zampo, attraverso il quale sarà poi appeso il prosciutto. • 201 Art. 4 - Metodo di produzione Materie prime 1) Ai fini previsti dal presente disciplinare possono essere utilizzati: 2) Suini di razza Large White Italiana e Landrace Italiana così come migliorate dal Libro Genealogico Italiano o figli di verri delle stesse razze 3) Suini figli di verri di razza Duroc Italiana, così come migliorate dal Libro genealogico Italiano 4) Suini figli di verri ibridi, nati in Italia e che provengano da schemi di selezione o incrocio attuati con finalità compatibili con quelle del Libro Genealogico Italiano per la produzione del suino pesante 5) I suini devono avere almeno 9 mesi di età e un peso compreso tra 144 e 176 Kg. 6) Le carcasse ottenute dalla macellazione e destinate alla produzione di “Prosciutto Marchigiano” DOP devono essere classificate come pesanti nelle forme previste dal Regolamento (CEE) n. 3220/84, dalla decisione della Commissione 2001/468/CE del 8/6/2001 e dal Decreto Ministeriale 11/07/2002 e caratterizzate dalle classi centrali del sistema ufficiale di valutazione della carnosità. 7) Inoltre i suini deono essere allevati in aziende sottoposte a certificazione in base ad un disciplinare di produzione assoggettato al controllo di un ente terzo e/o rientranti anche nel marchio rispondente al disciplinare regionale “QM”. Non sono in ogni caso ammessi: 1) Suini portatori del gene responsabile della sensibilità allo stress (PSS). 2) Tipi genetici o animali ritenuti non conformi ai fini del presente disciplinare. 3) Animali in purezza della razza Landrace Belga, Hampshire, Pietrain, Duroc e Spotted Poland. 4) Verri e scrofe. Alimentazione dei suini L’alimentazione prevede l’utilizzo di mangimi che non contengano materie prime OGM e capaci di conferire odori sgradevoli alla carne e al grasso, che non modifichino il colore ed abbassino il punto di fusione del grasso che dovrà essere sodo e bianco. Per l’alimentazione dei suini da 30 fino a 80 kg di P.V. sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati (tabella 1), oltre a quelli considerati in tabella 2 ed impiegati in idonee concentrazioni. Le quantità degli alimenti sono indicati come concentrazione di sostanza secca , in particolare l’uso dei cereali come sostanza secca non deve essere inferiore al 45% di quella totale - Tabella 1 - 202 • • 203 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Mais, semola glutinata (1) Fino al 5% della ss della razione Carrube denocciolate Fino al 3% della ss della razione Aringhe (2) Fino al 1% della ss della razione Distillers (3) Fino al 3% della ss della razione Latticello Fino a max 6 l/capo/d Lipidi (4) Fino al 2% di ss della razione Lisati proteici Fino al 1% della ss della razione Silomais Fino al 10% della ss della razione Proteine animali ove ammesse dalla normativa comunitaria, fino al 2% della sostanza secca della razione. (1) Ovvero corn gluten feed (2) Farina (3) Per “Distillers” si intende il sottoprodotto ottenuto dal mais e sottoposto a fermentazione alcolica, costituito principalmente da trebbie solubili; esso può contenere analoghi sottoprodotti della distillazione dei cereali; l’impiego dei distillers (ovvero le borlande), praticato come supporto di additivi ammessi, è sempre consentito nel limite massimo del 2% sulla ss (4) Con punto di fusione superiore a 36°C ss = sostanza secca Latte, siero Fino a max 15 l/capo/d Latticello Fino max ss 250 g/capo/d Erba medica disidratata Fino al 2% della ss della razione Melasso Fino al 5% della ss della razione Soia farina d’estrazione Fino al 15% della ss della razione Girasole farina d’estrazione Fino al 8% della ss della razione Sesamo farina d’estrazione Fino al 3% della ss della razione Mais germe farina d’estrazione Fino al 5% della ss della razione Pisello (7) Fino al 5% della ss della razione Lievito di birra e/o morula Fino al 2% della ss della razione Lipidi (8) Fino al 2% della ss della razione (1) e/o pannocchie (2) ad es: riso bramato (3) Sottoprodotti della lavorazione del frumento (4) Surpressate ed insilate (5) Esauste (6) Buccette d’uva e di pomodori, impiegati quali veicoli di integratori (7) e/o altri semi di leguminose (8) punto di fusione superiore a 40°C ss = sostanza secca * = se indicati senza altra specificazione, i cereali sono somministrati come granella secca sfarinata L’uso congiunto di siero e latticello non deve essere superiore a 15 l/capo/d Il contenuto di azoto associato alle borlande deve essere inferiore al 2% L’uso congiunto di patata disidratata e manioca non deve superare il 15% di ss della razione Tutti i parametri indicati ammettono una tolleranza non superiore al 10% Per l’alimentazione dei suini oltre gli 80 kg di PV, sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati come sostanza secca con l’osservanza dei limiti specifici prescritti per il loro impegno, da operare in modo che la sostanza secca da cereali non risulti inferiore al 55% di quella totale - Tabella 2 Mais(*) Pastone di granella (1) Sorgo Orzo Frumento Triticale Avena Cereali minori (2) Cruscami ed altro (3) Patata disidratata Manioca Barbabietola e polpe umide (4) Lino, expeller Barbabietole e polpe secche (5) Marco mele, pere buccette (6) Fino al 50% della ss della razione Fino al 50% della ss della razione Fino al 40% della ss della razione Fino al 45% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 20% della ss della razione Fino al 15% della ss della razione Fino al 5% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 2% della ss della razione Fino al 4% della ss della razione Fino al 4% della ss della razione Art. 5 - Identificazione e Rintracciabilità dei Suini I suini presenti all’interno degli allevamenti che aderiscono al disciplinare per la produzione del Prosciutto Marchigiano DOP devono essere identificati da: • un tatuaggio auricolare riportante la codifica dell’allevamento di nascita mediante un codice assegnato dall’autorità sanitaria locale; • un tatuaggio ad inchiostro su entrambe le cosce, riportante il mese di nascita dell’animale (espresso attraverso una lettera). Inoltre l’identificazione e la rintracciabilità dei suini viene garantita da un sistema di registrazione che permetta di collegare tra loro i seguenti dati: - numero di capi; - marchio di identificazione; - mese di nascita. 204 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Al momento della cessione dei suini da parte dell’allevamento di nascita all’allevamento d’ingrasso, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità: Registro di carico e scarico dei suini; Dichiarazione di provenienza degli animali (mod. 4), riportante: numero suini; marchio auricolare; categoria dì appartenenza; attestazione sanitaria. Documento di Trasporto riportante: • quantità di suini trasportati, • codice allevamento, • lettera del mese di nascita, • tipo genetico predominante Al momento della cessione dei suini al macello, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità dei suini con gli allevamenti di nascita e di ingrasso: • Registro di carico e scarico dei suini; • Dichiarazione di provenienza degli animali (mod. 4), riportante: - numero suini; - marchio auricolare; - categoria di appartenenza; - attestazione sanitaria. - Documento di Trasporto (riportante quantità di suini trasportati, codice e lettera del mese di nascita, tipo genetico predominante). Art. 6 - Metodiche di elaborazione Prima dell’inizio della lavorazione, il produttore, verificata la corrispondenza delle cosce ai requisiti degli articoli precedenti, appone ad ogni coscia un sigillo metallico costituito da una piastrina circolare in acciaio inox, di diametro pari 14 mm, con foro centrale di diametro pari a 5 mm, sulla quale compare in rilievo la sigla P.M. e la data di inizio lavorazione espressa con il mese. Il sigillo e’ conformato in modo tale che, applicato con idonea sigillatrice, risulti inamovibile. Condizionamento Il prosciutto dopo la macellazione viene tenuto per 24 - 36 ore in locali condizionati a temperature di 0/-5°C, Rifilatura Il coscio viene rifilato accuratamente asportando in primis il piedino e poi, con un taglio ad arco deve essere lasciata una cornice carnosa che si estenda un minimo di 10 cm oltre la testa del femore, fino a che non si ottiene la classica forma a mandolino allungato, in questa fase si deve asportare la cotica arrivando al massimo fino a 5 cm. dall’articolazione del gambetto. Può essere mantenuto ed estruso il nervetto dello zampo, attraverso il quale sarà poi possibile appendere il prosciutto. DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 205 Massaggio Una volta ottenuta la forma e le caratteristiche volute, si effettua il massaggio che consiste nella spremitura dei grossi vasi per eliminare residue tracce di sangue. Prima salatura Il prosciutto viene sottoposto a salatura con sale marino e attorno alla testa del femore viene posto dell’aglio tritato. Successivamente viene fatto riposare in cella frigorifera (2-4° C) per 7 – 10 giorni, la quantità di sale usata varia da 6 a 7 kg per 100 kg di magro. Seconda salatura Una volta passato il tempo prestabilito per la prima salatura, si pulisce il coscio dal sale e poi lo si aggiunge nuovamente, il sale utilizzato per la seconda salatura è quello rimosso con la pulizia, non si aggiunge altro sale; questa fase si protrae fino ad arrivare al 21° giorno in cella frigorifera a 2 – 4 ° C. Riposo Il prosciutto viene ripulito a secco dal sale, appeso e posto in camera di riposo per 4 – 6 mesi a 4 - 6° C e con umidità 70 -85%. Toelettatura e sugnatura Una volta terminato il riposo, si effettua la toelettatura del prosciutto che, con il semplice utilizzo del coltello, consiste nell’eliminare tutte quelle imperfezioni e disformità che si sono presentate durante la fase di riposo. Quindi si effettua la sugnatura, ricoprendo la carne esposta all’aria con uno strato di sugna che è costituita da: grasso, farina di grano o di riso, aglio, pepe nero e finocchio selvatico o ginepro. Pre – stagionatura Dopo i trattamenti sopra elencati si passa alla fase di pre - stagionatura della durata di circa 6 mesi in ambiente a temperatura di 13 – 15° C e umidità del 70-80%. Stagionatura Passato tale periodo si sottopone ad un fase di stagionatura di 4 mesi circa in ambiente a temperatura di 9 – 10 ° C e umidità 70- 80% e in locali ove sia assicurato un sufficiente ricambio d’aria. Il prodotto alla fine della lavorazione deve avere un peso minimo di 8,50 Kg Il prosciutto non può essere venduto prima di 14 mesi dal momento della rifilatura. Art. 7 – Legame con il territorio Il prosciutto marchigiano è un prodotto stagionato che deriva da una cultura agroalimentare gastronomica conviviale radicata nelle Marche attraverso i secoli. L’allevamento del bestiame e le attività agricole sono una pratica che si è mantenuta nel tempo con peculiarità ancora legate alla tradizione. L’evolversi delle attività ha portato al consolidamento di produzioni industriali che tuttavia mantengono salde le caratteristiche della tradizione contadina, sia nei metodi di lavorazione, che 206 • • 207 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE nell’utilizzo di ingredienti tipici. Il finocchio selvatico, spezia usata nella tecnica della sugnatura, rende particolare e riconoscibile il sapore di questo salume, elemento che fortemente contribuisce a caratterizzare il Prosciutto Marchigiano DOP. Nelle Marche erano già anticamente presenti porti, in particolar modo quello dorico, per l’arrivo di spezie, inoltre la regione è stata zona di passaggio della via del sale, elementi che hanno permesso di consolidare l’arte della lavorazione e stagionatura di questo salume caratteristico. Alla caratterizzazione del prosciutto delicatamente speziato saporito e con buona persistenza aromatica interviene anche la tipologia del clima delle zone vocate alla stagionatura ubicate nella media collina marchigiana. Il clima di queste zone è mite e le leggere brezze marine, provenienti dalla vicina costa rendono più sapido il prosciutto marchigiano DOP. vato anche dalla letteratura culinaria storica regionale, in un’ampia rassegna che comprende i ricettari, sia a stampa che manoscritti, e tutte le note antiche di cucina, dove il prosciutto figurava anche come pregiato ingrediente in preparazioni varie. Del resto la cultura gastronomica storica e tipica delle Marche è pressoché contigua con la pratica del confezionamento dei prosciutti; infatti le molte ricette di norcini raccolte da studiosi della tradizione rurale marchigiana riportano nel trattamento dei cosci l’impiego di ingredienti assolutamente caratteristici: oltre che con il sale (produzione massiccia dell’area costiera), e con l’irrinunciabile pepe di provenienza orientale (memoria del prestigio commerciale marittimo di importanti porti mercantili del litorale), i prosciutti erano aromatizzati con il ginepro, con l’aglio (che secondo alcuni antichi letterati rendeva peculiari le insalate marchigiane), e soprattutto con l’inconfondibile finocchio selvatico che, caratterizza la cucina contadina marchigiana, nella cosiddetta cottura “in porchetta”, universalmente impiegata per ricette di carni, pesci, verdure. I prosciutti erano inoltre spesso bagnati e trattati con il vino per stemperare l’eccesso di sapidità, attingendo per questo dalle cantine dei vini cosiddetti “nostrali” (e non “forestieri” o “forense”) frutto degli ormai celebri vitigni autoctoni. L’apprezzamento generale del prosciutto nella convivialità è narrato da cronache e resoconti di liste di conviti e menù dove questo salume figurava tra le pietanze servite, ed in questo senso risultano preziose anche alcune pagine letterarie di memorialistica. Non mancano infine anche fonti visive nel repertorio pittorico, trovando il prosciutto in alcune citazioni iconografiche marchigiane in nature morte settecentesche. Art. 8 - Il Prosciutto Marchigiano nella storia La ricerca storica ha fatto emergere una serie di documentazioni assolutamente eterogenee tra loro, ma che confermano la presenza radicata del prosciutto nella cultura agro - alimentare, gastronomica e conviviale nelle Marche attraverso i secoli. Dalle svariati fonti storiche emergono così molte antiche citazioni di “presciutti”, termine antico che perpetua l’etimologia latina (legata appunto alla preventiva asciugatura del coscio posteriore), e poi della dizione moderna “prosciutti”, affermatasi a partire da tempi assai recenti (in alcuni ricettari ottocenteschi si alternano entrambe le voci). E’ così emersa l’importanza di questa produzione, da sempre abbondantemente commercializzata e ricorrente nelle mense signorili e popolari, in giorni ordinari (riscontrabile attraverso i dati raccolti dalla sociologia rurale) e nell’eccezionalità dei banchetti festivi e celebrativi (come dimostrano le cronache delle feste di piazza e giochi pubblici, come l’albero della cuccagna). I documenti manoscritti e non sulle pratiche di confezionamento del prosciutto (ed anche gli inventari di case e cantine con il computo dei prodotti della macellazione suina annua) rivelano questa significativa produzione domestica e non, capillarmente diffusa in famiglie di ogni livello sociale, poiché pressoché ovunque si allevavano maiali destinati a rifornire la dispensa di salumi, nutriti secondo tradizione oltre che con le risorse naturali di foraggio anche con gli avanzi di cibo casalingo. Il prosciutto di produzione locale marchigiana è pertanto da sempre realizzato con maiali allevati in situ. La macellazione annuale chiamata “pista” o “salata”, termini che rivelano l’impiego di ingredienti, utensili e tecniche di lavorazione, dotava chiunque di prosciutti: nelle famiglie aristocratiche erano destinati esclusivamente all’autoconsumo, mentre presso i contadini i prosciutti in esubero rispetto ai propri bisogni alimentari venivano venduti nei mercati cittadini (i più poveri talvolta rinunciavano del tutto ad una scorta propria per ricavare così un po’ di denaro). Del resto risulta che anche rivenditori di generi alimentari rifornissero la loro bottega con prosciutti preparati da loro stessi. Non a caso, riguardo alla commerciabilità del prosciutto, risultano diversi antichi calmieri, tariffari e liste di prezzi dove ricorre questo alimento. Diverse risultano anche le note di spesa di case private e di istituzioni che ne attestano l’impiego e l’acquisto, come anche carte che testimoniano come venisse comprato dai governi cittadini in occasione di solenni banchetti e pubbliche accoglienze a personaggi illustri, in quanto anche apprezzato dono cerimoniale per ospiti e prezioso approvvigionamento per gli eserciti. L’importanza di questo cibo nel contesto marchigiano è compro- Art. 9 – Prova dell’Origine Ogni fase del processo produttivo viene monitorata documentando per ognuna gli input e gli output. In questo modo, attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dalla struttura di controllo, degli allevatori, macellatori, sezionatori e dei confezionatori è garantita la tracciabilità del prodotto. Tutte le persone, fisiche o giuridiche, iscritte nei relativi elenchi, sono assoggettate al controllo da parte della struttura di controllo, secondo quanto disposto dal disciplinare di produzione e dal relativo piano di controllo. Art. 10 - Responsabilità del macellatore Il macellatore è responsabile della corrispondenza qualitativa e dell’origine dei tagli. Il certificato del macello che accompagna ciascuna partita di materia prima e ne attesta la provenienza e la tipologia deve essere conservato dal produttore. I relativi controlli vengono direttamente effettuati dall’Autorità di controllo. Art. 11 - Prescrizioni legislative e controlli Attrezzature e locali II materiali e le attrezzature devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997 n.155 in particolare si deve fare riferimento al Capitolo V e al Capitolo VIII dell’allegato del suddetto decreto pubblicato sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 13/06/1997 – Serie Generale I locali per la lavorazione devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n.155, 208 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE in particolare si deve fare riferimento ai Capitoli I e II dell’allegato al suddetto Decreto. Controlli I controlli sulla conformità del prodotto saranno garantiti da una struttura di controllo rispondente all’art. 10 e 11 del REG. CE 510/2006. Art. 12 - Etichettatura e Confezionamento Il “Prosciutto Marchigiano” è immesso al consumo non confezionato o confezionato sottovuoto o in atmosfera protettiva, intero, in tranci o affettato. La designazione della Denominazione di Origine Protetta “Prosciutto Marchigiano” deve essere apposta sull’etichetta in caratteri chiari ed indelebili, ben distinguibile da ogni altra scritta che compare sull’etichetta e deve essere immediatamente seguita dalla menzione “Denominazione Origine Protetta” e/o dalla sigla “DOP” che deve essere tradotta nella lingua del Paese in cui il prodotto viene commercializzato e/o dal simbolo grafico comunitario. E’ vietata l’aggiunta di qualsiasi qualificazione non espressamente prevista. E’ tuttavia ammesso l’utilizzo di indicazioni che facciano riferimento a nomi o ragioni sociali o marchi privati purché abbiano non significato laudativo o tali da trarre in inganno l’acquirente. La dicitura “Prosciutto Marchigiano” deve essere riportata in lingua italiana. Il logo della DOP “Prosciutto Marchigiano” rappresenta una figura composta da un ovale e tre elementi. Il rapporto fra la larghezza e l’altezza dell’ovale è pari a 100:63,52. DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 209 In alternativa all’utilizzo della suddetta etichetta, può essere apposto il marchio a fuoco detenuto dal Consorzio di tutela del Prosciutto Marchigiano; tale marchio è così costituito…………………………………………………. Il marchio è accompagnato dalla presenza di due cifre che rappresentano il numero di identificazione del produttore e, a seguire, da un carattere alfabetico maiuscolo indicante il mese di inizio della stagionatura. Ai fini della tracciabilità delle varie fasi di produzione, il contrassegno può essere completato dalla presenza di altre due cifre,disposte verticalmente a destra del suddetto codice alfa-numerico, volte ad individuare ulteriori operatori eventualmente coinvolti nella filiera produttiva. SALAME LARDELLATO Denominazione d’Origine Protetta Art. 1 - Denominazione La denominazione di “Salame Lardellato” viene attribuita esclusivamente al prodotto di salumeria insaccato e stagionato crudo che corrisponde alle condizioni ed ai requisiti del presente disciplinare di produzione. Art. 2 - Zona di produzione La nascita, le operazioni di allevamento e macellazione dei suini nonché le operazioni di produzione, stagionatura e confezionamento del salame lardellato devono avvenire nella Regione Marche. Art. 3 - Descrizione e caratteristiche del prodotto Il logo presenta una outline ovale verde (pantone 7482C). Nell’ovale sono inseriti tre elementi distinti: • la figura stilizzata del prosciutto Marchigiano posta in basso e trasbordante dall’ovale è in colore: rosso (pantone 487C) e bianco per il taglio, bianco per l’osso, rosso (pantone 1805C) per il corpo • a figura stilizzata della Regione Marche di sottofondo, trasbordante in basso dall’ovale, è in colore verde (pantone 580C) su fondo verde (pantone 580C); • la denominazione di prodotto ”Prosciutto Marchigiano DOP” su due righe acquate in alto, è in colore rosso (pantone 1805C) su fondo giallo (pantone 7488C). Il font utilizzato nella dicitura “Prosciutto Marchigiano DOP” è il ………………….. La produzione del salame lardellato avviene con impasto di tagli carnei maturi provenienti dalle regioni: spalla, prosciutto e relativi triti. La parte grassa proviene da lardello, pancetta e relativi rifili. Il salame lardellato ha una pezzatura variabile da 400 a 1200 grammi, forma cilindrica con circonferenza da 40 a 60 mm, lunghezza variabile da 300 a 700 mm è rivestito con budello naturale: gentile o filzetta; si presenta compatto, con resistenza dura e non elastica, di colore rossastro. Al taglio la fetta presenta una distribuzione regolare di lardelli, gusto saporito, profumo di spezie e carne stagionata. Caratteristiche organolettiche Aspetto esterno: forma cilindrica Consistenza del prodotto: il prodotto si presenta compatto e non elastico Aspetto al taglio: la fetta si presenta compatta ed omogenea con presenza regolare dei lardelli Colore: rosso rubino Odore: speziato e di carne stagionata Sapore: sapido ma non salato 210 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Analisi chimiche e microbiologiche Il prodotto stagionato deve presentare le seguenti caratteristiche: Grasso: massimo 30% di cui il 10 – 12% è dato dal grasso dei lardelli PH ≥ 5,3 Il salame presenta una carica microbica mesofila maggiore o uguale a 1*107 ufc / gr. Con prevalenza di lattobacillacee e coccacee, come indicato dal Decreto 21 Settembre 2005 “Disciplina della produzione e della vendita di taluni prodotti di salumeria” pubblicato in G.U. n. 231 del 21 Ottobre 2005. Art. 4 - Metodo di produzione Materie prime Ai fini previsti dal presente disciplinare possono essere utilizzati: 1) Suini di razza Large White Italiana e Landrace Italiana così come migliorate dal Libro Genealogico Italiano o figli di verri delle stesse razze. 2) Suini figli di verri di razza Duroc Italiana, così come migliorate dal Libro genealogico Italiano. 3) Suini figli di verri ibridi, nati in Italia e che provengano da schemi di selezione o incrocio attuati con finalità compatibili con quelle del Libro Genealogico Italiano per la produzione del suino pesante. 4) I suini devono avere almeno 9 mesi di età e un peso compreso tra 144 e 176 Kg. 5) Le carcasse ottenute dalla macellazione e destinate alla produzione di “Salame Lardellato” DOP devono essere classificate come pesanti nelle forme previste dal Regolamento (CEE) n. 3220/84, dalla decisione della Commissione 2001/468/CE del 8/6/2001 e dal Decreto Ministeriale 11/07/2002 e caratterizzate dalle classi centrali del sistema ufficiale di valutazione della carnosità. 6) Inoltre i suini devono essere allevati in aziende sottoposte a certificazione in base ad un disciplinare di produzione assoggettato al controllo di un ente terzo e/o rientranti nel marchio rispondente al disciplinare regionale “QM”. Non sono in ogni caso ammessi: 1) Suini portatori del gene responsabile della sensibilità allo stress (PSS). 2) Tipi genetici o animali ritenuti non conformi ai fini del presente disciplinare. 3) Animali in purezza della razza Landrace Belga, Hampshire, Pietrain, Duroc e Spotted Poland. 4) Verri e scrofe. Alimentazione dei suini L’alimentazione prevede l’utilizzo di mangimi preparati con materie prime non OGM e capaci di conferire odori sgradevoli alle carne e al grasso, di modificare il colore ed abbassare il punto di fusione del grasso che dovrà essere sodo e bianco. Per l’alimentazione dei suini da 30 fino a 80 kg di P.V. sono utilizzati gli alimenti di seguito elen- DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 211 cati (tabella 1), oltre a quelli considerati in tabella 2 ed impiegati in idonee concentrazioni. Le quantità degli alimenti sono indicati come concentrazione di sostanza secca , in particolare l’uso dei cereali come sostanza secca non deve essere inferiore al 45% di quella totale - Tabella 1 Mais, semola glutinata (1) Fino al 5% della ss della razione Carrube denocciolate Fino al 3% della ss della razione Aringhe (2) Fino al 1% della ss della razione Distillers (3) Fino al 3% della ss della razione Latticello Fino a max 6 l/capo/d Lipidi (4) Fino al 2% di ss della razione Lisati proteici Fino al 1% della ss della razione Silomais Fino al 10% della ss della razione Proteine animali ove ammesse dalla normativa comunitaria, fino al 2% della sostanza secca della razione. (1) Ovvero corn gluten feed (2) Farina (3) Per “Distillers” si intende il sottoprodotto ottenuto dal mais e sottoposto a fermentazione alcolica, costituito principalmente da trebbie solubili; esso può contenere analoghi sottoprodotti della distillazione dei cereali; l’impiego dei distillers (ovvero le borlande), praticato come supporto di additivi ammessi, è sempre consentito nel limite massimo del 2% sulla ss (4) Con punto di fusione superiore a 36°C ss = sostanza secca Per l’alimentazione dei suini oltre gli 80 kg di PV, sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati come sostanza secca con l’osservanza dei limiti specifici prescritti per il loro impegno, da operare in modo che la sostanza secca da cereali non risulti inferiore al 55% di quella totale - Tabella 2 Mais(*) Pastone di granella (1) Sorgo Orzo Frumento Triticale Avena Cereali minori (2) Cruscami ed altro (3) Patata disidratata Fino al 50% della ss della razione Fino al 50% della ss della razione Fino al 40% della ss della razione Fino al 45% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 20% della ss della razione Fino al 15% della ss della razione 212 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Manioca Fino al 5% della ss della razione Barbabietola e polpe umide (4) Fino al 25% della ss della razione Lino, expeller Fino al 2% della ss della razione Barbabietole e polpe secche (5) Fino al 4% della ss della razione Marco mele, pere buccette (6) Fino al 4% della ss della razione Latte, siero Fino a max 15 l/capo/d Latticello Fino max ss 250 g/capo/d Erba medica disidratata Fino al 2% della ss della razione Melasso Fino al 5% della ss della razione Soia farina d’estrazione Fino al 15% della ss della razione Girasole farina d’estrazione Fino al 8% della ss della razione Sesamo farina d’estrazione Fino al 3% della ss della razione Mais germe farina d’estrazione Fino al 5% della ss della razione Pisello (7) Fino al 5% della ss della razione Lievito di birra e/o morula Fino al 2% della ss della razione Lipidi (8) Fino al 2% della ss della razione (1) e/o pannocchie (2) ad es: riso bramato (3) Sottoprodotti della lavorazione del frumento (4) Surpressate ed insilate (5) Esauste (6) Buccette d’uva e di pomodori, impiegati quali veicoli di integratori (7) e/o altri semi di leguminose (8) punto di fusione superiore a 40°C ss = sostanza secca * = se indicati senza altra specificazione, i cereali sono somministrati come granella secca sfarinata L’uso congiunto di siero e latticello non deve essere superiore a 15 l/capo/d Il contenuto di azoto associato alle borlande deve essere inferiore al 2% L’uso congiunto di patata disidratata e manioca non deve superare il 15% di ss della razione Tutti i parametri indicati ammettono una tolleranza non superiore al 10% Art. 5 - Identificazione e Rintracciabilità dei Suini I suini presenti all’interno degli allevamenti che aderiscono al disciplinare per la produzione del Prosciutto Marchigiano DOP devono essere identificati da: • un tatuaggio auricolare riportante la codifica dell’allevamento di nascita mediante un codice assegnato dall’autorità sanitaria locale; • un tatuaggio ad inchiostro su entrambe le cosce, riportante il mese di nascita dell’animale (espresso attraverso una lettera). DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 213 Inoltre l’identificazione e la rintracciabilità dei suini deve essere garantito da un sistema di registrazione che permetta di collegare tra loro i seguenti dati: - numero di capi; - marchio di identificazione; - mese di nascita. Al momento della cessione dei suini da parte dell’allevamento di nascita all’allevamento d’ingrasso, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità: Registro di carico e scarico dei suini; Dichiarazione di provenienza degli animali (mod. 4), riportante: numero suini; marchio auricolare; categoria dì appartenenza; attestazione sanitaria. Documento di Trasporto riportante: • quantità di suini trasportati, • codice allevamento, • lettera del mese di nascita, • tipo genetico predominante Al momento della cessione dei suini al macello, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità dei suini con gli allevamenti di nascita e di ingrasso: • Registro di carico e scarico dei suini; • Dichiarazione di provenienza degli animali (MOD. 4), riportante: - numero suini; - marchio auricolare; - categoria di appartenenza; - attestazione sanitaria. - Documento di Trasporto (riportante quantità di suini trasportati, codice e lettera del mese di nascita, tipo genetico predominante) Art. 6 - Metodiche di elaborazione del salame lardellato Macinatura e lavorazione Le carni e il grasso sono riposti in appositi contenitori nelle celle frigo (-1/0°C) e dopo il raggiungimento del giusto grado di raffreddamento vengono miscelati in funzione della percentuale di grasso desiderata. Il lardo tagliato a cubetti (8-10 mm) e salato è mescolato a tagli di carne, il contenuto in lardelli varia dal 10 al 12%. La carne subisce un primo taglio, ed è così pronta per essere macinata, macinatura che può essere fatta con una oppure due trafile; se viene fatta con una trafila, si utilizza una grana di 3 – 4 mm., mentre se si fa una macinatura con due trafile, si utilizza una grana di 4 – 8 mm, ottenendo quindi una macinatura più fine. 214 • • 215 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE L’impasto è condito con sale marino (2,5 - 3%), pepe nero in polvere (0,1 – 0,2%) e in grani (0,1 – 0,15%), come aromi naturali si possono utilizzare, aglio fresco (0,03 – 0,05%) e vino bianco o rosso proveniente dai vitigni marchigiani quali: Verdicchio, Lacrima, Vernaccia nera, Pecorino, Passerina, Biancame. (da 0,50 a 0,75 L/q di carne) ed eventualmente chiodi di garofano o cannella. atteristiche di conservazione senza rischi di irrancidimento, non si deve tuttavia dimenticare il clima e la tipologia delle razze allevate tutti caratteri identificativi di un prodotto, il salame lardellato, fortemente radicato al territorio. Il salame lardellato oggi è sempre presente nelle sagre locali e banchetti in quanto è un insaccato tipico. La lavorazione del prodotto pur avendo subito un’evoluzione industriale ha fortemente mantenuto le tradizioni contadine della lavorazione. L’aspetto importante che ha contribuito allo sviluppo dell’arte salumiera nelle Marche è la posizione geografica della regione sede di antiche città marinare e passaggio della via del sale. Refrigerazione Successivamente l’impasto così preparato viene messo in contenitori e stoccato in celle frigo alla temperatura di -1/+1°C per 12 - 24 ore. Insacco e legatura Quindi l’impasto viene insaccato e pressato nel budello gentile o filzetta precedentemente dissalato mediante lavaggio con aceto e/o acqua calda. Gli insaccati vengono sottoposti a legatura con spago naturale ed eseguita a mano. Riposo I salami appena confezionati vengono appesi senza avere contatto tra loro, vengono lasciati riposare in condizioni microclimatiche controllate per 12 – 24 ore favorendo l’eliminazione ulteriore dell’acqua e l’acidificazione del prodotto a temperatura di +2/+4 °C. Asciugatura L’asciugatura ha una durata di circa 6 – 7 gg e avviene in condizioni microclimatiche controllate. Si parte da una temperatura di 18 – 23°C e al 75 - 80 % di UR. (gradualmente la T deve essere abbassata) e man mano che passano i giorni la temperatura deve essere abbassata, in modo tale che l’ultimo giorno di asciugatura sia contraddistinto da una temperatura di 12 – 16 °C ; il salame viene quindi trasferito in sala di stagionatura. Stagionatura Il salame viene trasferito nella sala di stagionatura, dove staziona da 30 a 90 gg. Il locale adibito alla stagionatura deve essere asciutto, fresco ed areato con temperature comprese tra 12 e 16° C e al 75 – 85% di UR. Art. 7 – Legame con il territorio Il salame lardellato DOP si caratterizza per il sapore sapido e speziato di carne stagionata ottenuto dall’utilizzo nella preparazione nel processo di produzione, dei vini marchigiani, provenienti principalmente dalla fermentazione delle uve dei vitigni autoctoni della regione quali: Lacrima (rosso), Vernaccia Nera (rosso), Verdicchio (bianco), Pecorino (bianco), Passerina (bianco), Biancame (bianco), che conferiscono carattere ed aroma particolari al prodotto. Non si deve dimenticare che la presenza di parti grasse a forma lardellata da al salume un gusto equilibrato. La tipologia di allevamento e soprattutto l’alimentazione dei suini, costituita da materie prime prevalentemente coltivate nelle Marche, permettono di ottenere un grasso equilibrato con car- Art. 8 - Il Salame Lardellato nella storia La ricerca storica ha fatto emergere fonti e documenti assolutamente eterogenei tra loro, ma in grado di attestare la presenza radicata del salame, ed in particolare di quello lardellato, nella cultura agro - alimentare, gastronomica e conviviale delle Marche attraverso i secoli. E’ così emersa l’importanza costante di questa produzione, da sempre ampiamente commercializzata (come attestano molti antichi tariffari e liste di prezzi), ed anche ricorrente nelle mense signorili e popolari, comprata ma spessissimo autoprodotta, consumata nei giorni ordinari (per le classi signorili) ma in particolare assaporata dalla stragrande maggioranza della popolazione nelle feste familiari, nelle ricorrenze sacre e profane, private e di piazza. Alcuni documenti manoscritti ed a stampa sulle pratiche di confezionamento del salame (ricette di salumeria, note di pagamento ai norcini, inventari di case e cantine con il computo finale dei prodotti della “salata”) riportano quelle pratiche e quei particolari caratteristici che rappresentano tuttora le peculiarità di questo prodotto. In particolare ad esempio una caratteristica ricorrente, minuziosamente raccomandata anche negli antichi manoscritti, è la presenza associata al sale del pepe, nella duplice forma di un quantitativo macinato e contemporaneamente anche di una dose in grani. Non manca poi il profumo e la bagnatura nel vino, certamente quello più comune e casalingo, prodotto con i vitigni autoctoni (per questo uso di sicuro di norcineria non si sprecavano certamente i vini pregiati e costosi di importazione, definiti “forensi” o “forestieri” dai calmieri cittadini, i quali tra l’altro erano certamente solo familiari all’aristocrazia). Ma certamente in questo prodotto il tratto più distintivo è certamente la lardellatura, ossia l’incorporare ala macinato tagli di carne magra e nobile quella inconfondibile (anche allo sguardo) “dadolata” di grasso tagliato a cubetti regolari. Del resto in questa terra caratterizzata da abbondanti e capillarmente diffusi allevamenti suini, il lardo era una presenza importante e ricorrente nella cultura gastronomica rurale. Le memorie raccolte riportano del lavoro quotidiano della pestatura del lardo nelle cucine, costantemente tritato per arricchire le diverse e modeste cotture (come ad esempio le tipiche preparazioni “in porchetta” assieme al finocchio selvatico), ma anche i condimenti per pietanze ordinarie come la polenta. Questa aggiunta così peculiare rende pertanto prezioso ed appetito questo salame, servito ritualmente nelle grandi feste comandate in case umili e signorili (la tradizione conviviale marchigiana lo inquadra ad esempio in abbinamento con la crescia al formaggio e le uova sode nella tipica e canonica mensa della colazione pasquale). Non a caso molte antiche note di spese di case private e di istituzioni ne documentano l’impiego e l’acquisto, ed alcune carte d’archivio attestano come venisse comprato dai governi cittadini in occasione di solenni banchetti e pubbliche accoglienze a personaggi illustri, o anche come costituisse un cibo ricorrente negli approvvigionamenti dovuti agli eserciti. Altre citazioni sono presenti nei ricettari, a stampa 216 • • 217 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE o manoscritti, ed anche in cronache di conviti e menù di memorabili conviti. Sono molto significative anche alcune preziose citazioni dai trattati di arte conviviale (che insegnano come servire il salame nei banchetti più raffinati ed esclusivi), ed anche alcune scritture e memorie personali. Fondamentale è poi il censimento e la raccolta di dati e memorie orali sul campo da parte degli studiosi di sociologia rurale e delle tradizioni contadine. Infine una certificazione preziosa del salame lardellato nel passato marchigiano proviene dalle attestazioni visive del repertorio pittorico marchigiano, trovando vivide citazioni iconografiche in nature morte settecentesche. che deve essere tradotta nella lingua del Paese in cui il prodotto viene commercializzato e/o dal simbolo grafico comunitario. E’ vietata l’aggiunta di qualsiasi qualificazione non espressamente prevista. E’ tuttavia ammesso l’utilizzo di indicazioni che facciano riferimento a nomi o ragioni sociali o marchi privati purché abbiano non significato laudativo o tali da trarre in inganno l’acquirente. La dicitura “Salame Lardellato” deve essere riportata in lingua italiana. Art. 9 – Prova dell’Origine Ogni fase del processo produttivo viene monitorata documentando per ognuna gli input e gli output. In questo modo, attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dalla struttura di controllo, degli allevatori, macellatori, sezionatori e dei confezionatori è garantita la tracciabilità del prodotto. Tutte le persone, fisiche o giuridiche, iscritte nei relativi elenchi, sono assoggettate al controllo da parte della struttura di controllo, secondo quanto disposto dal presente disciplinare di produzione e dal relativo piano di controllo. Art. 10 - Responsabilità del macellatore Il macellatore è responsabile della corrispondenza qualitativa e dell’origine dei tagli. Il certificato del macello che accompagna ciascuna partita di materia prima e ne attesta la provenienza e la tipologia deve essere conservato dal produttore. I relativi controlli vengono direttamente effettuati dall’Autorità di controllo. Art. 11 - Prescrizioni legislative e controlli Attrezzature e locali II materiali e le attrezzature devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997 n.155 in particolare si deve fare riferimento al Capitolo V e al Capitolo VIII dell’allegato del suddetto decreto pubblicato sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 13/06/1997 – Serie Generale. I locali per la lavorazione devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n.155, in particolare si deve fare riferimento ai Capitoli I e II dell’allegato al suddetto Decreto. Controlli I controlli sulla conformità del prodotto saranno garantiti da una struttura di controllo rispondente all’art. 10 e 11 del Reg. CE 510/06. Art. 12 - Etichettatura e Confezionamento Il “Salame Lardellato” è immesso al consumo non confezionato o confezionato sottovuoto o in atmosfera protettiva, intero, in tranci o affettato. La designazione della Denominazione di Origine Protetta “Salame Lardellato” deve essere apposta sull’etichetta in caratteri chiari ed indelebili, ben distinguibile da ogni altra scritta che compare sull’etichetta e deve essere immediatamente seguita dalla menzione “Denominazione Origine Protetta” e/o dalla sigla “DOP” Il logo della DOP “Salame Lardellato” rappresenta una figura composta da un ovale e tre elementi. Il rapporto fra la larghezza e l’altezza dell’ovale è pari a 100/63,52. Il logo presenta una outline ovale verde (pantone 580C). Nell’ovale sono inseriti tre elementi distinti: • la figura stilizzata del salame lardellato posta in basso e trasbordante dall’ovale è in colore: rosso (pantone 1805C) per il taglio, bianco per i lardelli, rosso (pantone 487C) per il budello e nero pieno per la legatura, la sezione del budello tagliato e di colore giallo (pantone 1205C); • la figura stilizzata della Regione Marche di sottofondo, trasbordante in basso dall’ovale, è in colore verde (pantone 7482C) su fondo verde (pantone 580C); • la denominazione di prodotto ”Salame Lardellato DOP” su due righe arcquate in alto, è in colore rosso (pantone 1805C) su fondo giallo (pantone 7499C). Il font utilizzato nella dicitura “Salame Lardellato DOP” è “Albino”. LONZA DELLE MARCHE Denominazione d’Origine Protetta Art. 1 - Denominazione La denominazione di “Lonza delle Marche” viene attribuito esclusivamente al prodotto di salumeria insaccato e stagionato crudo che corrisponde alle condizioni ed ai requisiti del presente disciplinare di produzione. 218 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Art. 2 - Zona di produzione La nascita, le operazioni di allevamento e macellazione dei suini nonché le operazioni di produzione, stagionatura e confezionamento del salame lardellato devono avvenire nella regione Marche. Art. 3 - Descrizione e caratteristiche del prodotto La lonza, proviene dal taglio ottenuto tra l’attaccatura del collo del maiale disossato fino alla sesta-settima costola del carré, da specificare poi che le costole vengono tagliate presso l’angolo. Dopodiché ossa e muscoli vengono staccati per intero dal grasso di copertura e dalla cotenna. E’ un taglio magro nella cui costituzione entrano vari muscoli suddivisi da infiltrazione lipidica più o meno abbondante. Più precisamente i muscoli sono quelli compresi nella parte dorsale del collo e hanno come base anatomica le vertebre cervicali, le prime 3-4 vertebre dorsali, con le relative costole. La lonza a fine stagionatura ha una pezzatura che varia da 1,8 a 3,2 kg, forma cilindrica, diametro da 80 – 120 mm e lunghezza 250 – 550 mm. Caratteristiche organolettiche Aspetto esterno: forma cilindrica Consistenza del prodotto: si presenta compatto e non elastico Aspetto al taglio: la fetta si presenta consistente e soda Colore: colore rosso rubino tendente al granato, brillante nella parte muscolare e screziature di lardo più o meno regolari Odore: speziato e di carne stagionata Sapore: saporito con leggera prevalenza della speziatura, in cui il dolce del lardo si mescola con la spezia e col sapido della carne. Art. 4 - Metodo di produzione Materie prime Ai fini previsti dal presente disciplinare possono essere utilizzati: 1) Suini di razza Large Withe Italiana e Landrace Italiana così come migliorate dal Libro Genealogico Italiano o figli di verri delle stesse razze 2) Suini figli di verri di razza Duroc Italiana, così come migliorate dal Libro genealogico Italiano 3) Suini figli di verri ibridi, nati in Italia e che provengano da schemi di selezione o incrocio attuati con finalità compatibili con quelle del Libro Genealogico Italiano per la produzione del suino pesante. 4) Inoltre i suini devono essere allevati in aziende sottoposte a certificazione in base ad un disciplinare di produzione assoggettato al controllo di un ente terzo e/o rientranti nel marchio rispondente al disciplinare regionale “QM” Non sono in ogni caso ammessi: DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 219 1) Suini portatori del gene responsabile della sensibilità allo stress (PSS) 2) Tipi genetici o animali ritenuti non conformi ai fini del presente disciplinare 3) Animali in purezza della razza Landrace Belga, Hampshire, Pietrain, Duroc e Spotted Poland 4) Verri e Scrofe Alimentazione dei suini L’alimentazione prevede l’utilizzo di mangimi non OGM che non contengono materie prime capaci di conferire odori sgradevoli alle carne e al grasso, di modificare il colore ed abbassare il punto di fusione del grasso che dovrà essere sodo e bianco. Per l’alimentazione dei suini da 30 fino a 80 kg di P.V. sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati (tabella 1), oltre a quelli considerati in tabella 2 ed impiegati in idonee concentrazioni. Le quantità degli alimenti sono indicati come concentrazione di sostanza secca , in particolare l’uso dei cereali come sostanza secca non deve essere inferiore al 45 % di quella totale - Tabella 1 Corn gluten feed e/o semola glutinata di mais Carrube denocciolate Farina di estrazione di soia Farina di pesce Latticello (1) Distillers Lipidi aggiunti (p. fusione > 36°C e ac. Linoleico <15%) Lisati proteici vegetali Sali minerali (2) Fino al 5% della ss della razione Fino al 3% della ss della razione Fino al 20% della ss della razione Fino al 1% della ss della razione Fino a max 6 l/capo/d Fino al 3% di ss della razione Fino al 2% di ss della razione Fino al 1% della ss della razione Fino al 3% della ss della razione Per l’alimentazione dei suini oltre gli 80 kg di PV, sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati come sostanza secca con l’osservanza dei limiti specifici prescritti per il loro impegno, da operare in modo che la sostanza secca da cereali non risulti inferiore al 55% di quella totale. - Tabella 2 Mais(*) Pastone di granella (1) Sorgo Orzo Frumento Triticale Avena Cereali minori Fino al 50% della ss della razione Fino al 50% della ss della razione Fino al 40% della ss della razione Fino al 45% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione 220 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Cruscami (3) Fino al 20% della ss della razione Patata disidratata (4) Fino al 15% della ss della razione Manioca (4) Fino al 5% della ss della razione Polpe di bietola surpressate ed insilate Fino al 15% della ss della razione Lino, expeller Fino al 2% della ss della razione Polpe secche esauste di bietola Fino al 4% della ss della razione Marco mele e pere, buccette d’uva o di pomo- Fino al 2% della ss della razione doro Siero di latte (1) Fino a max 15 l/capo/d Latticello (1) Fino max ss 250 g/capo/d Erba medica disidratata Fino al 2% della ss della razione Melasso (6) Fino al 5% della ss della razione Farina d’estrazione di soia Fino al 15% della ss della razione Farina d’estrazione di girasole Fino al 8% della ss della razione Farina d’estrazione di sesamo Fino al 3% della ss della razione Farina di estrazione di cocco Fino al 5% della ss della razione Farina d’estrazione di germe di mais Fino al 5% della ss della razione Pisello o altri semi di leguminose con grasso < Fino al 5% della ss della razione 3% Lievito di birra e/o morula Fino al 2% della ss della razione Sali minerali (2) Fino al 3% della ss della razione (1) Siero e latticello insieme non devono superare i 15 l capo/d (2) Sali di calcio, fosforo, sodio e magnesio autorizzati dalla normativa vigente (3) Nel loro complesso frumento, triticale e cruscami non devono superare il 40% della razione (4) Patata e manioca insieme non più del 15% (5) Ammessi quali veicoli di integratori (6) Se associato a borlande il contenuto totale di azoto deve essere inferiore a 2% ss = sostanza secca Tutti i parametri indicati ammettono una tolleranza non superiore al 10% Art. 5 - Identificazione e Rintracciabilità dei Suini I suini presenti all’interno degli allevamenti che aderiscono al disciplinare per la produzione della Lonza delle Marche DOP devono essere identificati da: • un tatuaggio auricolare riportante la codifica dell’allevamento di nascita mediante un codice assegnato dall’autorità sanitaria locale; • un tatuaggio ad inchiostro su entrambe le cosce, riportante il mese di nascita dell’animale (espresso attraverso una lettera). Inoltre l’identificazione e la rintracciabilità dei suini deve essere garantito da un sistema di reg- DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 221 istrazione che permetta di collegare tra loro i seguenti dati: - numero di capi; - marchio di identificazione; - mese di nascita. Al momento della cessione dei suini da parte dell’allevamento di nascita all’allevamento dì ingrasso, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità: Registro di carico e scarico dei suini; Dichiarazione di provenienza degli animali (mod. 4), riportante: numero suini; marchio auricolare; categoria dì appartenenza; attestazione sanitaria. Documento di Trasporto riportante: • quantità di suini trasportati, • codice allevamento, • lettera del mese di nascita, • tipo genetico predominante Al momento della cessione dei suini al macello, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità dei suini con gli allevamenti di nascita e di ingrasso: • Registro di carico e scarico dei suini; • Dichiarazione di provenienza degli animali (MOD. 4), riportante: - numero suini; - marchio auricolare; - categoria di appartenenza; - attestazione sanitaria. - Documento di Trasporto (riportante quantità di suini trasportati, codice e lettera del mese di nascita, tipo genetico predominante) Art. 6 - Metodiche di elaborazione della lonza di capocollo Isolamento dei tagli anatomici L’isolamento di queste masse muscolari viene effettuato a caldo, subito dopo la macellazione, successivamente i tagli vengono immediatamente posti a raffreddare in ambiente a 0/-2° C per avere un corretto rassodamento della carne da sottoporre a successiva rifilatura, che permette di ripulire il taglio anatomico da carnicci e grasso superfluo. Massaggio e salatura Il taglio di carne viene adeguatamente massaggiato per favorire la spremitura dei grossi vasi, quindi si procede alla salagione manuale con sale marino la cui quantità varia da 2,5 a 3,5%, il periodo di salagione in questo caso dura circa 10 – 15 gg. Se si fa uso di autoclave la fase di salagione dura al massimo 3 gg. 222 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Riposo Successivamente la lonza viene posta a riposo in ambiente a temperatura di 0 - 4°C, umidità relativa 75-85% per 10-15 gg. Toelettatura e asciugatura Dopo questo periodo di riposo la lonza viene ripulita del sale, i pezzi possono essere toelettati, eventualmente lavati con acqua tiepida ed asciugati per 3 – 4 gg. in ambiente condizionato (temperatura 23 – 15° C e umidità relativa 60 -85%). Insacco e legatura Una volta asciutta la lonza viene ricoperta con pepe nero macinato (0,2 – 0,4 %), è inoltre possibile l’aggiunta di aglio, vino proveniente da vitigni autoctoni della Regione Marche e spezie in relazione ai gusti. Quindi vengono insaccati in budello naturale (bondiana di bovino o cieco di maiale) e le lonze così rivestite vengono forate, legate con spago ed imbrigliate. Stagionatura La stagionatura dopo l’inserimento in budello può avere una durata variabile da 90 a 120 gg . La comparsa di fioriture sull’involucro dopo alcuni giorni di presenza nella sala di stagionatura indica il giusto grado di temperatura ed umidità (12-15°C e UR del 65-88%). Il calo di peso dovuto alla stagionatura può variare da 15-35%. Art. 7 – Legame con il territorio ……………………………. Art. 8 - Prova dell’origine Ogni fase del processo produttivo viene monitorata documentando per ognuna gli input e gli output. In questo modo, attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dalla struttura di controllo, degli allevatori, macellatori, sezionatori e dei confezionatori è garantita la tracciabilità del prodotto. Tutte le persone, fisiche o giuridiche, iscritte nei relativi elenchi, sono assoggettate al controllo da parte della struttura di controllo, secondo quanto disposto dal disciplinare di produzione e dal relativo piano di controllo. DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 223 e la tipologia deve essere conservato dal produttore. I relativi controlli vengono direttamente effettuati dall’Autorità di controllo. Art. 10 - Prescrizioni legislative e controlli Attrezzature e locali II materiali e le attrezzature devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997 n°155 in particolare si deve fare riferimento al Capitolo V e al Capitolo VIII dell’allegato del suddetto decreto pubblicato sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 13/06/1997 – Serie Generale I locali per la lavorazione devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n155, in particolare si deve gare riferimento ai Capitoli I e II dell’allegato al suddetto Decreto. Controlli I controlli sulla conformità del prodotto saranno garantiti da una struttura di controllo rispondente all’art. 10 e 11 del Reg. CE. 510/06. Art. 11 - Etichettatura e Confezionamento La “Lonza o Lonza di capocollo” è ammessa al consumo non confezionata o confezionata sottovuoto intero, in tranci, affettata. La Lonza intera può essere commercializzato con pesi variabili dai 1,8 – 3,2 kg. La designazione della denominazione di origine protetta “Lonza o Lonza di capocollo” deve essere apposta sull’etichetta in caratteri chiari ed indelebili, ben distinguibile da ogni altra scritta che compare sull’etichetta e deve essere seguita dalla menzione “Denominazione Origine Protetta” o DOP e tradotta in qualsiasi lingua del paese in cui il prodotto viene commercializzato. E’ tuttavia ammesso l’utilizzo di indicazioni che facciano riferimento a nomi o ragioni sociali o marchi privati purché non traggano in inganno l’acquirente. La dicitura “Lonza o Lonza di capocollo” deve essere riportata in lingua italiana. Art. 9 - Responsabilità del macellatore Il peso medio della singola partita (peso vivo) inviata alla macellazione deve essere compreso nell’intervallo che va da Kg 144 a Kg 176. Le carcasse ottenute dalla macellazione e destinate alla produzione di “Lonza o Lonza di capocollo” DOP devono essere classificate come pesanti nelle forme previste dal Regolamento (CEE) n. 3220/84, dalla decisione della Commissione 2001/468/CE del 8/6/2001 e dal Decreto Ministeriale 11/07/2002 e caratterizzate dalle classi centrali del sistema ufficiale di valutazione della carnosità. Il macellatore è responsabile della corrispondenza qualitativa e dell’origine dei tagli. Il certificato del macello che accompagna ciascuna partita di materia prima e ne attesta la provenienza Il logo della DOP “Lonza delle Marche” rappresenta una figura composta da un ovale e tre elementi. Il rapporto fra la larghezza e l’altezza dell’ovale è pari a 100/63,52. Il logo presenta una 224 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE outline ovale verde (pantone 580C). Nell’ovale sono inseriti tre elementi distinti: • la figura stilizzata della lonza posta in basso e trasbordante dall’ovale è in colore: rosso (pantone 1805C) per il taglio, bianco per i lardelli, rosso (pantone 487C) per il budello e nero pieno per la legatura, la sezione del budello tagliato e di colore giallo (pantone 1205C); • la figura stilizzata della Regione Marche di sottofondo, trasbordante in basso dall’ovale, è in colore verde (pantone 7482C) su sfondo verde (pantone 580C); • la denominazione di prodotto ”Lonza delle Marche DOP” su due righe acquate in alto, è in colore rosso (pantone 1805C) su sfondo giallo (pantone 7499C). Il font utilizzato nella dicitura “Lonza delle Marche” è “Albino/regular” LONZINO DELLE MARCHE Denominazione d’Origine Protetta Art. 1 - Denominazione La denominazione di “Lonzino delle Marche” viene attribuito esclusivamente al prodotto di salumeria insaccato e stagionato crudo che corrisponde alle condizioni ed ai requisiti del presente disciplinare di produzione. Art. 2 - Zona di produzione La nascita, le operazioni di allevamento e macellazione dei suini nonché le operazioni di produzione, stagionatura e confezionamento del Lonzino delle Marche devono avvenire nella regione Marche. Art. 3 - Descrizione e caratteristiche del prodotto La pezzatura del Lonzino delle Marche si ottiene dal muscolo compreso tra la 6-7° costola del carré, il lombo e la coda viene anche indicato come capolombo. La pezzatura del taglio anatomico risulta di peso variabile da 4 – 5 kg. L’insaccato intero è lungo 300 - 650 mm e ha un diametro di 90 – 120 mm. Art. 4 - Caratteristiche fisiche e organolettiche Aspetto esterno: forma cilindrica Consistenza del prodotto: si presenta compatto e non elastico Aspetto al taglio: si presenta compatto, senza venature, con lardo a mezzaluna intorno alla parte magra. Colore: rosato Odore: speziato di carne stagionata Sapore: sapido e somigliante alla carne secca. Art. 5 - Metodo di produzione Materie prime DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 225 Ai fini previsti dal presente disciplinare possono essere utilizzati: 1) Suini di razza Large White Italiana e Landrace Italiana così come migliorate dal Libro Genealogico Italiano o figli di verri delle stesse razze 2) Suini figli di verri di razza Duroc Italiana, così come migliorate dal Libro genealogico Italiano 3) Suini figli di verri ibridi, nati in Italia e che provengano da schemi di selezione o incrocio attuati con finalità compatibili con quelle del Libro Genealogico Italiano per la produzione del suino pesante. 4) Inoltre i suini devono essere allevati in aziende sottoposte a certificazione in base ad un disciplinare di produzione assoggettato al controllo di un ente terzo e/o rientranti nel marchio rispondente al disciplinare regionale “QM” Non sono in ogni caso ammessi: 1) Suini portatori del gene responsabile della sensibilità allo stress (PSS) 2) Tipi genetici o animali ritenuti non conformi ai fini del presente disciplinare 3) Animali in purezza della razza Landrace Belga, Hampshire, Pietrain, Duroc e Spotted Poland 4) Verri e Scrofe Alimentazione dei suini L’alimentazione prevede l’utilizzo di mangimi che non contengono materie prime capaci di conferire odori sgradevoli alle carne e al grasso, di modificare il colore ed abbassare il punto di fusione del grasso che dovrà essere sodo e bianco. Per l’alimentazione dei suini da 30 fino a 80 kg di P.V. sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati (tabella 1), oltre a quelli considerati in tabella 2 ed impiegati in idonee concentrazioni. Le quantità degli alimenti sono indicati come concentrazione di sostanza secca , in particolare l’uso dei cereali come sostanza secca non deve essere inferiore al 45 % di quella totale - Tabella 1 Corn gluten feed e/o semola glutinata di mais Carrube denocciolate Farina di estrazione fdi soia Farina di pesce Latticello (1) Distillers Lipidi aggiunti (p. fusione > 36°C e ac. Linoleico <15%) Lisati proteici vegetali Sali minerali (2) Fino al 5% della ss della razione Fino al 3% della ss della razione Fino al 20% della ss della razione Fino al 1% della ss della razione Fino a max 6 l/capo/d Fino al 3% di ss della razione Fino al 2% di ss della razione Fino al 1% della ss della razione Fino al 3% della ss della razione Per l’alimentazione dei suini oltre gli 80 Kg di PV, sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati 226 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE come sostanza secca con l’osservanza dei limiti specifici prescritti per il loro impegno, da operare in modo che la sostanza secca da cereali non risulti inferiore al 55% di quella totale. - Tabella 2 Mais(*) Fino al 50% della ss della razione Pastone di granella (1) Fino al 50% della ss della razione Sorgo Fino al 40% della ss della razione Orzo Fino al 45% della ss della razione Frumento Fino al 25% della ss della razione Triticale Fino al 25% della ss della razione Avena Fino al 25% della ss della razione Cereali minori Fino al 25% della ss della razione Cruscami (3) Fino al 20% della ss della razione Patata disidratata (4) Fino al 15% della ss della razione Manioca (4) Fino al 5% della ss della razione Polpe di bietola surpressate ed insilate Fino al 15% della ss della razione Lino, expeller Fino al 2% della ss della razione Polpe secche esauste di bietola Fino al 4% della ss della razione Marco mele e pere, buccette d’uva o di pomo- Fino al 2% della ss della razione doro Siero di latte (1) Fino a max 15 l/capo/d Latticello (1) Fino max ss 250 g/capo/d Erba medica disidratata Fino al 2% della ss della razione Melasso (6) Fino al 5% della ss della razione Farina d’estrazione di soia Fino al 15% della ss della razione Farina d’estrazione di girasole Fino al 8% della ss della razione Farina d’estrazione di sesamo Fino al 3% della ss della razione Farina di estrazione di cocco Fino al 5% della ss della razione Farina d’estrazione di germe di mais Fino al 5% della ss della razione Pisello o altri semi di leguminose con grasso Fino al 5% della ss della razione <3% Lievito di birra e/o morula Fino al 2% della ss della razione Sali minerali (2) Fino al 3% della ss della razione DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 227 (1) Siero e latticello insieme non devono superare i 15 l capo/d (2) Sali di calcio, fosforo, sodio e magnesio autorizzati dalla normativa vigente (3) Nel loro complesso frumento, triticale e cruscami non devono superare il 40% della razione (4) Patata e manioca insieme non più del 15% (5) Ammessi quali veicoli di integratori (6) Se associato a borlande il contenuto totale di azoto deve essere inferiore a 2% ss = sostanza secca Tutti i parametri indicati ammettono una tolleranza non superiore al 10% Art. 6 - Identificazione e Rintracciabilità dei Suini I suini presenti all’interno degli allevamenti che aderiscono al disciplinare per la produzione del Lonzino delle Marche DOP devono essere identificati da: • un tatuaggio auricolare riportante la codifica dell’allevamento di nascita mediante un codice assegnato dall’autorità sanitaria locale; • un tatuaggio ad inchiostro su entrambe le cosce, riportante il mese di nascita dell’animale (espresso attraverso una lettera). Inoltre l’identificazione e la rintracciabilità dei suini deve essere garantito da un sistema di registrazione che permetta di collegare tra loro i seguenti dati: - numero di capi; - marchio di identificazione; - mese di nascita. Al momento della cessione dei suini da parte dell’allevamento di nascita all’allevamento dì ingrasso, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità: Registro di carico e scarico dei suini; Dichiarazione di provenienza degli animali (mod. 4), riportante: numero suini; marchio auricolare; categoria dì appartenenza; attestazione sanitaria. Documento di Trasporto riportante: • quantità di suini trasportati, • codice allevamento, • lettera del mese di nascita, • tipo genetico predominante Al momento della cessione dei suini al macello, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità dei suini con gli allevamenti di nascita e di ingrasso: • Registro di carico e scarico dei suini; • Dichiarazione di provenienza degli animali (MOD. 4), riportante: - numero suini; - marchio auricolare; 228 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE - categoria di appartenenza; - attestazione sanitaria. - Documento di Trasporto (riportante quantità di suini trasportati, codice e lettera del mese di nascita, tipo genetico predominante) Art. 7 - Metodiche di elaborazione del Lonzino delle Marche Isolamento dei tagli anatomici L’isolamento delle masse muscolari viene effettuato a caldo, subito dopo la macellazione, successivamente i tagli vengono immediatamente posti a raffreddare alla temperatura di 10 - 12° C e UR 30 – 90%. Il pezzo di carne viene quindi adeguatamente rifilato. DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 229 Art. 10 - Responsabilità del macellatore Il peso medio della singola partita (peso vivo) inviata alla macellazione deve essere compreso nell’intervallo pari a Kg 144 e Kg 176 Le carcasse ottenute dalla macellazione e destinate alla produzione di “Lonzino delle Marche” DOP devono essere classificate come pesanti nelle forme previste dal Regolamento (CEE) n. 3220/84, dalla decisione della Commissione 2001/468/CE del 8/6/2001 e dal Decreto Ministeriale 11/07/2002 e caratterizzate dalle classi centrali del sistema ufficiale di valutazione della carnosità. Il macellatore è responsabile della corrispondenza qualitativa e dell’origine dei tagli. Il certificato del macello che accompagna ciascuna partita di materia prima e ne attesta la provenienza e la tipologia deve essere conservato dal produttore. I relativi controlli vengono direttamente effettuati dall’Autorità di controllo. Art. 11 - Prescrizioni legislative e controlli Massaggio e salatura Il taglio viene successivamente sottoposto a massaggio per far spurgare i grossi vasi, poi salato con sale marino, strofinato, fasciato e lasciato per 10 – 12 gg insieme ad aglio e spezie per aromatizzare la carne. Attrezzature e locali Ripulito dal sale il lonzino è trattato con vino bianco per lavare la carne, asciugato per 3-4 gg (temperatura 23 -15° C e UR 60 - 85%), ricoperto con pepe nero macinato in quantità da 0,2 a 0,4%. II materiali e le attrezzature devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997 n°155 in particolare si deve fare riferimento al Capitolo V e al Capitolo VIII dell’allegato del suddetto decreto pubblicato sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 13/06/1997, Serie Generale. I locali per la lavorazione devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n155, in particolare si deve gare riferimento ai Capitoli I e II dell’allegato al suddetto Decreto. Insacco Controlli Il lonzino viene inserito in un budello naturale (cieco di maiale) o sintetico, ricucito e legato stretto con lo spago. I controlli sulla conformità del prodotto saranno garantiti da una struttura di controllo rispondente all’art. 10 del regolamento CE 2081/92 Lavaggio e Asciugatura Art. 12 - Etichettatura e Confezionamento Stagionatura Viene sottoposto a stagionatura in camere condizionate (temperatura 12 - 15 ° C e UR 65 – 85%) per la durata di 75 – 90 gg. Al termine del periodo di stagionatura il lonzino deve avere una percentuale di sale da 2,5 a 4% Art. 8 – Legame con il territorio ……………………………. Art. 9 - Prova dell’origine Ogni fase del processo produttivo viene monitorata documentando per ognuna gli input e gli output. In questo modo, attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dalla struttura di controllo, degli allevatori, macellatori, sezionatori e dei confezionatori è garantita la tracciabilità del prodotto. Tutte le persone, fisiche o giuridiche, iscritte nei relativi elenchi, sono assoggettate al controllo da parte della struttura di controllo, secondo quanto disposto dal disciplinare di produzione e dal relativo piano di controllo. Il “Lonzino delle Marche” è ammesso al consumo non confezionata o confezionata sottovuoto intero, in tranci e affettata. La designazione della denominazione di origine protetta “Lonzino delle Marche” deve essere apposta sull’etichetta in caratteri chiari ed indelebili, ben distinguibile 230 • • 231 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE da ogni altra scritta che compare sull’etichetta e deve essere seguita dalla menzione “Denominazione Origine Protetta” o DOP e tradotta in qualsiasi lingua del paese in cui il prodotto viene commercializzato. E’ tuttavia ammesso l’utilizzo di indicazioni che facciano riferimento a nomi o ragioni sociali o marchi privati purché non traggano in inganno l’acquirente. La dicitura “Lonzino delle Marche” deve essere riportata in lingua italiana. Il logo della DOP “Lonzino delle Marche” rappresenta una figura composta da un ovale e tre elementi. Il rapporto fra la larghezza e l’altezza dell’ovale è pari a 100/63,52. Il logo presenta una outline ovale verde (pantone 580C). Nell’ovale sono inseriti tre elementi distinti: • la figura stilizzata del lonzino posta in basso e trasbordante dall’ovale è in colore: rosso (pantone 1805C) per il taglio, bianco per il grasso, rosso (pantone 487C) per il budello e nero pieno per la legatura, la sezione del budello tagliato e di colore giallo (pantone 1205C); • la figura stilizzata della Regione Marche di sottofondo, trasbordante in basso dall’ovale, è in colore verde (pantone 7482C) su sfondo verde (pantone 580C); • la denominazione di prodotto ”Lonzino delle Marche” su due righe acquate in alto, è in colore rosso (pantone 1805C) su sfondo giallo (pantone 7499C). Il font utilizzato nella dicitura “Lonzino delle Marche” è “Albino/regular” Aspetto esterno: forma cilindrica, sferica, ellissoidale o schiacciata - ellissoidale Consistenza del prodotto: si presenta tendenzialmente compatto, leggermente elastico Aspetto al taglio: si presenta tendenzialmente grossolano, con presenze di parti cartilaginee e grasse. Colore: rosato e bianco opalescente dovuto alla diversa presenza di ingredienti e ricco di altre colorazioni dovute agli ingredienti Odore: speziato Sapore: sapido, untuoso ed estremamente caratterizzato. COPPA DI TESTA MARCHIGIANA Art. 1 - Denominazione La denominazione di “Coppa di Testa Marchigiana” viene attribuito esclusivamente al prodotto di salumeria cotto e insaccato che corrisponde alle condizioni ed ai requisiti del presente disciplinare di produzione. Art. 2 - Zona di produzione Le operazioni di allevamento e macellazione dei suini nonché le operazioni di produzione, stazionamento e confezionamento della Coppa di Testa Marchigiana devono avvenire nella regione Marche. Art. 3 - Descrizione e caratteristiche del prodotto La coppa di testa è un prodotto ottenuto dalla lavorazione delle teste, cotenne e lingue di suino con l’aggiunta di altri ingredienti ed aromi naturali La pezzatura della coppe di testa intera può variare notevolmente da 4,5 – 5 Kg, fino a 12 Kg, se confezionata sottovuoto, la coppa di testa viene solitamente suddivisa in tranci da 1Kg - 2,5Kg, in base alle richieste di mercato. La Coppa può essere anche tenuta, in ambiente refrigerato, sotto pressa o comunque sotto la pressione di un peso, in modo da ottenere una forma schiacciata – ellissoidale. Art. 4 - Caratteristiche fisiche e organolettiche Art. 5 - Metodo di produzione Materie prime Ai fini previsti dal presente disciplinare possono essere utilizzati: 1) Suini di razza Large White Italiana e Landrace Italiana così come migliorate dal Libro Genealogico Italiano o figli di verri delle stesse razze 2) Suini figli di verri di razza Duroc Italiana, così come migliorate dal Libro genealogico Italiano 3) Suini figli di verri ibridi, nati in Italia e che provengano da schemi di selezione o incrocio attuati con finalità compatibili con quelle del Libro Genealogico Italiano per la produzione del suino pesante e (quindi gran suino padano). 4) Inoltre i suini devono essere allevati in aziende sottoposte a certificazione in base ad un disciplinare di produzione assoggettato al controllo di un ente terzo e/o rientranti nel marchio rispondente al disciplinare regionale “QM” Non sono in ogni caso ammessi: 1) Suini portatori del gene responsabile della sensibilità allo stress (PSS) 2) Tipi genetici o animali ritenuti non conformi ai fini del presente disciplinare 3) Animali in purezza della razza Landrace Belga, Hampshire, Pietrain, Duroc e Spotted Poland 4) Verri e Scrofe Alimentazione dei suini L’alimentazione prevede l’utilizzo di alimenti che siano conformi agli standard merceologici e non devono contenere materie prime capaci di conferire odori sgradevoli alle carne e al grasso, di modificare il colore ed abbassare il punto di fusione del grasso che dovrà essere sodo e bianco. Per l’alimentazione dei suini da 30 fino a 80 kg di P.V. sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati (tabella 1), oltre a quelli considerati in tabella 2 ed impiegati in idonee concentrazioni. Le quantità degli alimenti di seguito elencate sono indicati come concentrazione di sostanza secca , in particolare l’uso dei cereali come sostanza secca non deve essere inferiore al 45 % di quella totale. - Tabella 1 - 232 • • 233 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE Mais, semola glutinata (1) Fino al 5% della ss della razione Carrube denocciolate Fino al 3% della ss della razione Farina di aringhe(2) Fino al 1% della ss della razione Latticello Fino a max 6 l/capo/d Distillers (3) Fino al 3% di ss della razione Lipidi aggiunti (punto fusione superiore a Fino al 2% di ss della razione 36°C) Lisati proteici Fino al 1% della ss della razione (1) ovvero corn gluten feed (2) farine (3) per “distillers” si intende il sottoprodotto ottenuto dal mais sottoposto a fermentazione alcolica, costituito principalmente da trebbie solubili, o analoghi sottoprodotti di distillazione dei cereali, l’impiego di distillers come supporto di additivi ammessi è consentito per un limite massimo del 2% Siero di latte Fino a max 15 l/capo/d Latticello Fino max ss 250 g/capo/d Erba medica disidratata Fino al 2% della ss della razione Melasso (6) Fino al 5% della ss della razione Farina d’estrazione di soia Fino al 15% della ss della razione Farina d’estrazione di girasole Fino al 8% della ss della razione Farina d’estrazione di sesamo Fino al 3% della ss della razione Farina di estrazione di cocco Fino al 5% della ss della razione Farina d’estrazione di germe di mais Fino al 5% della ss della razione Pisello (7) Fino al 5% della ss della razione Lipidi Lievito di birra e/o morula Fino al 2% della ss della razione (1) e/o pannocchia (2) ad esempio riso sbramato (3) sottoprodotti della lavorazione del frumento (4) surpressate ed insilate (5) esauste (6) buccette d’uva e di pomodori impiegate come veicoli di integratori (7) e/o altri semi di leguminose (8) con punto di fusione superiore a 40°C • L’uso congiunto di siero e latticello non deve superare i 15 l/capo/d • Contenuto di azoto associato a borlande non deve essere inferiore al 2% • L’uso congiunto di patata disidratata e manioca non deve superare il 15% ss della razione • Tutti i parametri indicati ammettono una tolleranza non superiore al 10% ss = sostanza secca Per l’alimentazione dei suini oltre gli 80 Kg di PV, sono utilizzati gli alimenti di seguito elencati come sostanza secca con l’osservanza dei limiti specifici prescritti per il loro impegno, da operare in modo che la sostanza secca da cereali non risulti inferiore al 55% di quella totale. - Tabella 2 Mais(*) Mais, Pastone di granella (1) Sorgo Orzo Frumento Triticale Avena Cereali minori (2) Cruscami e altro (3) Patata disidratata Manioca Barbabietole e polpe umide (4) Lino, expeller Polpe secche esauste di bietola (5) Marco mele e pere, buccette (6) Fino al 50% della ss della razione Fino al 50% della ss della razione Fino al 40% della ss della razione Fino al 45% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 25% della ss della razione Fino al 20% della ss della razione Fino al 15% della ss della razione Fino al 5% della ss della razione Fino al 15% della ss della razione Fino al 2% della ss della razione Fino al 4% della ss della razione Fino al 2% della ss della razione Art. 6 - Identificazione e Rintracciabilità dei Suini I suini presenti all’interno degli allevamenti che aderiscono al disciplinare per la produzione della Coppa di Testa Marchigiana devono essere identificati da: • un tatuaggio auricolare riportante la codifica dell’allevamento di nascita mediante un codice assegnato dall’autorità sanitaria locale; • un tatuaggio ad inchiostro su entrambe le cosce, riportante il mese di nascita dell’animale (espresso attraverso una lettera). Inoltre l’identificazione e la rintracciabilità dei suini deve essere garantito da un sistema di registrazione che permetta di collegare tra loro i seguenti dati: - numero di capi; - marchio di identificazione; - mese di nascita. 234 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DISCIPLINARI DI PRODUZIONE • 235 Al momento della cessione dei suini da parte dell’allevamento di nascita all’allevamento dì ingrasso, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità: Registro di carico e scarico dei suini; Dichiarazione di provenienza degli animali (mod. 4), riportante: numero suini; marchio auricolare; categoria dì appartenenza; attestazione sanitaria. Documento di Trasporto riportante: • quantità di suini trasportati, • codice allevamento, • lettera del mese di nascita, • tipo genetico predominante Cottura Al momento della cessione dei suini al macello, gli allevatori sono tenuti a compilare i seguenti documenti che consentono di mantenere la rintracciabilità dei suini con gli allevamenti di nascita e di ingrasso: • Registro di carico e scarico dei suini; • Dichiarazione di provenienza degli animali (MOD. 4), riportante: - numero suini; - marchio auricolare; - categoria di appartenenza; - attestazione sanitaria. Una volta terminata la cottura le teste vengono spolpate, separando quindi in maniera accurata la carne dalle ossa, operazione eseguita completamente a mano dagli operatori. Per preparare il trito, che andrà a comporre l’insaccato, occorre un 10 – 15% di cotenne e il 4 – 7% di lingue, fatto pari a cento la quantità di teste di suino. In seguito, i muscoli facciali, lingue e cotenne vengono tritate manualmente con mannaie e coltelli specifici, in modo da creare un miscuglio non omogeneo per taglio anatomico e pezzatura dei triti; il miscuglio viene poi riposto in marne d’acciaio. Una volta composto il miscuglio delle carni bisogna preparare il condimento che andrà ad insaporire e a fornire quelle caratteristiche proprie della coppa di testa. - Documento di Trasporto (riportante quantità di suini trasportati, codice e lettera del mese di nascita, tipo genetico predominante) Gli ingredienti vengono aggiunti alle carni e il tutto viene amalgamato manualmente dall’operatore per circa 8 – 15 minuti fino ad ottenere una distribuzione omogenea del condimento sulle carni. Per il condimento della Coppa di Testa Marchigiana, vengono aggiunti i seguenti ingredienti, ogni 100 Kg di carne: • 1,5 – 5% sale marino; • 0,2 – 0,5% pepe nero macinato; • 0,1 – 0,5% noce moscata; • 0,1 – 0,5% Aroma di arancio; • 0,1 – 0,5% Aroma di limone; • 0,005 – 0,02 % Liquore al Rum; • 0,1 – 0,5% Concia per Coppa; • Estratto di Arancia; • 10 – 15% Brodo di cottura; In base alle richieste del consumatore possono essere poi utilizzati: • 1 - 5% olive verdi; • 0,5 – 3% mandorle sgusciate; • 0,5 – 2% pistacchi; Art. 7 - Metodiche di elaborazione della Coppa di Testa Marchigiana Refrigerazione La lavorazione dura generalmente una giornata, le teste di suino prima di essere trasformate vengono refrigerata per 24 ore ad una temperature compresa tra 0° e + 4°C, Pulitura e lavaggio Il giorno successivo vengono poste sul banco di lavorazione a temperatura ambiente e se necessario vengono ripulite con fiamma e raschiate per rimuovere le eventuali setole rimaste dopo la macellazione. Viene poi effettuato un lavaggio con acqua calda ed eliminate le parti non necessarie alla trasformazione, inoltre per ogni testa viene eliminato un orecchio. Isolamento e refrigerazione dei tagli anatomici Sia le lingue che le cotenne di suino vengono tenute in ambiente refrigerato ad una temperatura compresa tra 0° e 4°C, entrambi i tagli anatomici vengono prelevati per la lavorazione, le lingue in particolare subiscono come le teste un lavaggio con acqua calda prima della cottura. La prima operazione di trasformazione è la cottura delle teste e delle lingue che viene effettuata contemporaneamente in caldaia (cuoci coppa) in acqua e con l’aggiunta di due additivi alimentari quali E 250 ed E252 per migliorare e mantenere il colore. La cottura delle teste e delle lingue perdura almeno fino all’ebollizione dell’acqua (100°C) ed ha una durata di circa 3 ore, tuttavia può essere protratta più a lungo, a discrezione dell’operatore e in funzione della consistenza della carne. Tale procedura permette di staccare con maggiore facilità la parte muscolare dalle ossa della testa. La stessa operazione di cottura viene ripetuta per le cotenne di suino, ma separatamente dalle teste e dalle lingue. Preparazione del Trito Aggiunta degli ingredienti Insacco e legatura Si procede poi con l’operazione di insacco e legatura; la coppa può essere insaccata in budello sintetico (diametro 130cm, lunghezza 50cm), in bondiana oppure in vescica naturale, a seconda 236 • DISCIPLINARI DI PRODUZIONE della pezzatura e della forma che si vuole ottenere. La Coppa viene sottoposta ad apposita legatura con spago da cucina, appesa su carrelli dove riposa per 8 – 12 ore in ambiente a temperatura di 0 – 4°C prima di essere commercializzata. La pezzatura della coppe di testa intera può variare notevolmente, da 4,5 – 5 Kg, fino a 12 Kg, se confezionata sottovuoto, la coppa di testa viene solitamente suddivisa in tranci da 1Kg - 2,5Kg, in base alle richieste di mercato. La Coppa può essere anche tenuta in ambiente refrigerato sotto pressa o comunque sotto la pressione di un peso, in modo da ottenere una forma schiacciata – ellissoidale. Art. 9 - Prova dell’origine Ogni fase del processo produttivo viene monitorata documentando per ognuna gli input e gli output. In questo modo, attraverso l’iscrizione in appositi elenchi, gestiti dalla struttura di controllo, degli allevatori, macellatori, sezionatori e dei confezionatori è garantita la tracciabilità del prodotto. Tutte le persone, fisiche o giuridiche, iscritte nei relativi elenchi, sono assoggettate al controllo da parte della struttura di controllo, secondo quanto disposto dal disciplinare di produzione e dal relativo piano di controllo. Art. 10 - Responsabilità del macellatore Il peso medio della singola partita (peso vivo) inviata alla macellazione deve essere compreso nell’intervallo pari a Kg 144 e Kg 176 Le carcasse ottenute dalla macellazione e destinate alla produzione di “Coppa di Testa Marchigiana” devono essere classificate come pesanti nelle forme previste dal Regolamento (CEE) n. 3220/84, dalla decisione della Commissione 2001/468/CE del 8/6/2001 e dal Decreto Ministeriale 11/07/2002 e caratterizzate dalle classi centrali del sistema ufficiale di valutazione della carnosità. Il macellatore è responsabile della corrispondenza qualitativa e dell’origine dei tagli. Il certificato del macello che accompagna ciascuna partita di materia prima e ne attesta la provenienza e la tipologia deve essere conservato dal produttore. I relativi controlli vengono direttamente effettuati dall’Autorità di controllo. Art. 11 - Prescrizioni legislative e controlli Attrezzature e locali II materiali e le attrezzature devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997 n°155 in particolare si deve fare riferimento al Capitolo V e al Capitolo VIII dell’allegato del suddetto decreto pubblicato sul Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale del 13/06/1997, Serie Generale. I locali per la lavorazione devono essere conformi al Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n155, in particolare si deve fare riferimento ai Capitoli I e II dell’allegato al suddetto Decreto. Controlli I controlli sulla conformità del prodotto saranno garantiti da una struttura di controllo rispondente all’art. 10 del regolamento CE 2081/92 “O SALUMI BENE AMATI” • 241 Bibliografia agnolotti vincenzo, Manuale del cuoco e del pasticciere di raffinato gusto moderno, Pesaro, Nobili 1832. 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Collabora con sistemi museali per lo studio e la valorizzazione di reperti, opere d’arte, manufatti e tradizioni di interesse storico – alimentare, e per l’ideazione e la progettazione di mostre e eventi rievocativi e divulgativi sulla cultura gastronomica e l’arte conviviale. Tra l’attività convegnistica e le conferenze si ricordano i cicli di incontri organizzati in qualità anche di curatore scientifico per rassegne culturali e rievocative a tema tra cui “La Terra dei Castelli” (Ancona, 2003 e 2004), “Sentieri d’arte e di mense” (Centro Italia, dal 2003 al 2007), “La Festa del Nino” (Province di Pesaro ed Ancona), “La Cucina dello Spirito” (dal 2008 ad oggi). Tra le pubblicazioni e volumi monografici sulla materia si ricordano Convivio: arte e storia della gastronomia e della convivialità nella Provincia di Padova (con Maria Vittoria Tescione, Padova, 2004); Dal corbezzolo al salame, in volo sulla provincia apparecchiata (Ancona, 2007), L’aratro l’arola l’aia: storie e tradizioni di colture, cucine, feste tra Cesano e Metauro (con Oretta Zanini De Vita, Pergola, 2008), Piatti reali e trionfi di zucchero: carte di casa Bonaccorsi nella Macerata del Seicento (con Ugo Bellesi ed Angiola Maria Napolioni, Roma, 2009), Storia dell’alimentazione, della cultura gastronomica, dell’arte conviviale nelle Marche (con Ugo Bellesi ed Ettore Franca, Ancona, 2009).