6.2
Analisi complessa
Jeremy Gray, Open University, England
6.2.1
Introduzione
Una delle caratteristiche salienti del progresso della matematica nel 19° secolo è lo sviluppo dell’analisi
complessa. Lo studio delle funzioni complesse di una variabile complessa venne affrontato
sporadicamente nel corso del 18° secolo; i numeri complessi furono introdotti nello studio delle
funzioni trigonometriche, nell’integrazione delle funzioni razionali, nella teoria dei numeri (con
riferimento all’ultimo teorema di Fermat) e nello studio delle applicazioni conformi (e nella cartografia
teorica). Molto spesso però, l’uso dei numeri complessi aveva un carattere più formale che sostanziale,
in accordo con la tendenza predominante del 18° secolo verso l’algebra. Nel 19° secolo venne creata
una ricca teoria delle funzioni complesse, e l’analisi complessa raggiunse uno stato di parità con
l’analisi reale. Ciò è dovuto in parte al fatto che è possibile passare dal dominio reale a quello
complesso in modo facile e matematicamente naturale, e in parte al fatto che transizioni di questo tipo
si dimostrarono proficue (per esempio nello studio delle equazioni polinomiali dal punto di vista
geometrico e in quello strettamente collegato delle funzioni armoniche).
Il percorso tortuoso che portò alla delucidazione della teoria dei numeri complessi si estende
attraverso un arco di tempo che va dal 16° secolo alla metà del 19° secolo (v. Algebra dei polinomi).i
Lo studio delle funzioni complesse procedette a lungo in maniera indipendente perché, per la maggior
parte dei matematici i problemi con i numeri complessi emergevano con il loro utilizzo, non in algebra,
ma nella teoria delle funzioni. D’Alambert ed Eulero, per esempio, discussero a lungo sul significato da
assegnare al logaritmo di un numero complesso. D’Alembert insisteva che ogni numero complesso
dovesse avere un unico logaritmo; Eulero assunse la posizione, che alla fine prevalse, secondo cui il
logaritmo di un numero complesso doveva avere infiniti valori.
Ancora nel 1843, Gauss insisteva sulla differenza che esiste tra definire i numeri complessi e
rappresentarli come punti del piano. Questa distinzione sottile non impedì a Gauss di creare una teoria
delle funzioni di variabile complessa fondata su considerazioni geometriche. Infatti, annullare questa
distinzione senza preoccuparsi eccessivamente delle sue implicazioni filosofiche fu la strada seguita da
molti matematici attratti dallo studio delle funzioni complesse. Tornando a Gauss, come risulta dalla
corrispondenza con l’astronomo Bessel nel 1811 (Werke, X.1, 366), egli chiedeva a chiunque
intendesse introdurre una nuova funzione in analisi, di spiegare:
se intende calcolarla solo per quantità reali, e i valori immaginari dell’argomento si presentano, per
così dire, come un effetto secondario, o se è d’accordo con il mio principio che gli immaginari
devono godere degli stessi diritti dei reali nel dominio delle quantità. Non è una questione di utilità
pratica, secondo me l’analisi è una scienza indipendente. Trascurando le quantità immaginarie
perde molto in bellezza e semplicità; verità che altrimenti varrebbero in generale, devono essere
necessariamente condizionate a pesanti restrizioni.
Il fatto che Gauss passi nella stessa frase da quantità immaginarie a verità generali è una
indicazione evidente della tensione che esisteva tra la matematica ed una qualsiasi filosofia della
matematica.
Come possono oggetti immaginari condurre a verità? Innanzitutto, come indicazione delle verità
che aveva in mente, Gauss continuava nella sua lettera a Bessel con una discussione degli integrali
complessi. Dopo aver osservato che il valore di un integrale complesso dipende dal cammino che
congiunge i suoi estremi, scriveva:
L’integrale ∫φ(x)dx lungo due diversi cammini di integrazione avrà sempre lo stesso valore se non
accade mai che φ(x)= ∞ nello spazio compreso tra le curve che rappresentano i cammini. Questo è
un bel teorema di cui intendo dare la dimostrazione, non troppo difficile, al momento opportuno. …
In ogni caso questo fatto chiarisce immediatamente perché una funzione definita a partire da un
integrale ∫φ(x)dx possa avere più valori in corrispondenza di un singolo valore di x, perché è
possibile girare attorno ad un punto in cui φ(x)= ∞, una, nessuna, o più volte. Per esempio,
definendo log x come ∫dx/x, partendo da x=1 si può arrivare a log x senza girare intorno al punto
x=0, girandoci intorno una sola volta, o girandoci intorno più volte; ogni volta bisogna sommare la
costante 2πι o -2πι. In questo modo è chiaro perché un numero complesso ha molti logaritmi.
In questo caso la verità non riguarda tanto il fatto che il logaritmo è una funzione a più valori di una
variabile complessa, quanto il fatto che la ragione di ciò si debba ricercare negli aspetti geometrici del
problema. La rappresentazione delle quantità immaginarie è all’origine della verità, e Gauss era sempre
stato attento a porre in rilievo l’importanza di trovare le giuste ragioni profonde.
Come quando abbiamo parlato della natura fittizia dei numeri complessi, dobbiamo di nuovo
osservare l’inadeguatezza della filosofia, o meglio dobbiamo notare che il contrasto tra la nuova teoria
delle funzioni complesse e la vecchia filosofia della matematica, adeguata per la geometria classica e
per l’aritmetica, non era più conciliabile. Come in molti altri dibattiti filosofici, non ci fu mai un
confronto decisivo; lo stile di questi dibattiti non è quello della pubblica abiura. Ci fu invece uno
spostamento, segnato nella maniera più evidente dai lavori di Riemann e del suo precursore filosofo
Herbart, verso la semplice accettazione delle grandezze bidimensionali, e più in generale ndimensionali, come grandezze fondamentali. Non furono solo i numeri complessi che portarono a
questo cambiamento. Contribuì anche, nella prima metà del 19° secolo, la preistoria del calcolo
vettoriale.
Restano da fare due osservazioni conclusive. La filosofia algebrica formale della matematica non
scomparì completamente, infatti resta viva in varie forme ancor oggi. Per quanto riguarda la storia delle
della teoria delle funzioni complesse, la distinzione pratica che bisogna fare è quella tra teorie
algebriche e teorie geometriche. Infine, ci possiamo domandare perché la natura di √(−1) fosse
diventato un problema così urgente negli anni immediatamente successivi il 1800.
L’assenza dei matematici principali dal dibattito suggerisce che a focalizzare l’attenzione sui
fondamenti non furono i problemi originati dalle ricerche avanzate sull’argomento. È più verosimile
che la lenta crescita di interesse nei numeri complessi durante il 18° secolo avesse semplicemente reso
d’attualità il problema. Ma la singolare preponderanza di nomi francesi suggerisce un altro punto di
vista. Nello scompiglio generale seguito alla rivoluzione francese, può darsi che molti vecchi luoghi
comuni venissero finalmente ritenuti criticabili. Questa possibilità viene meno salvo che si permetta ai
matematici rivoluzionari di mantenere una visione politica reazionaria – cosa che Cauchy dimostrò per
tutta la vita. Anche se non si vuole ascrivere tale nobile causa a un dibattito così oscuro, si può ancora
notare che a partire dal 1795 il regime francese assegnò alla matematica un rango elevato e produsse un
gran numero di matematici con un elevato livello di istruzione. Ad essi furono riservati impieghi nel
campo dell’istruzione superiore e tra il personale più qualificato del genio (civile e militare), e furono
fondate nuove riviste per pubblicare le loro idee. Non ci si può sorprendere del fatto che alcuni di loro,
realizzando che dopo tutto la filosofia dei numeri complessi non era stata ancora adeguatamente capita,
volessero suggerire le loro spiegazioni.
6.2.2 Origini della teoria delle funzioni complesse:
Il primo lavoro di Cauchy nell’ambito dell’analisi complessa fu una memoria presentata all’Institut de
France nel 1814 sulla valutazione degli integrali reali impropri quando uno o entrambi gli estremi di
integrazioni sono infiniti. Tali integrali erano stati considerati da Eulero, Laplace e Poisson e negli
Exercise de calcul intégral (1811) di Legendre, e Cauchy osservò che in molti casi gli integrali
venivano calcolati “per mezzo di una sorta di induzione” basata sul “passaggio dal reale
all’immaginario”. Cauchy condivideva il punto di vista di Laplace secondo cui a questo metodo
mancava una dimostrazione rigorosa e si impegnò nel tentativo di fornirne una. Basò il suo tentativo
sull’analisi formale delle funzioni di due variabili reali, e in particolare delle funzioni che soddisfano
quelle che oggi chiamiamo le equazioni di Cauchy – Riemann (proposte da Cauchy in una oscura
forma generalizzata). In quel periodo era piuttosto comune veder apparire le equazioni di Cauchy Riemann in questo contesto; ma né Cauchy nel suo lavoro, né altri in quel periodo si resero conto della
loro importanza fondamentale. Il modo in cui una funzione reale poteva essere estesa ad una funzione
complessa emerse più per caso che per un disegno preciso, e questa può essere la ragione per cui
Legendre e Poisson, nella loro relazione sulla memoria, ritennero che la spiegazione di Cauchy e le
illustrazioni del suo metodo non contenessero nulla di nuovo.
Legendre ritenne invece più originale la seconda parte della memoria. In essa Cauchy
discuteva la possibilità di invertire l’ordine di integrazione per valutare un integrale doppio. Cauchy
focalizzò l’attenzione sui punti singolari della funzione integranda, dove la funzione da integrare
diventa infinita, e mostrò che in certi casi si ottengono due valori distinti e ben determinati, a seconda
dell’ordine di integrazione. Queste scoperte furono alla base di due delle teorie importanti di Cauchy:
quella degli integrali singolari (integrali reali per i quali la funzione integranda diventa infinita) e quella
dei poli e dei residui delle funzioni analitiche.
Cauchy cominciò ad insegnare alla Ecole Polythechnique nel Novembre del 1815, nel 1816 gli
fu conferito l’incarico di professore di ruolo, e continuò ad insegnare presso quell’istituto fino al 1830.
Era quindi tenuto a scrivere libri di testo per gli studenti, e nel 1821 pubblicò il Cours d’analyse
sull’analisi algebrica1, seguito dopo due anni dal Resumé (1823) sul calcolo differenziale ed integrale. I
capitoli VII e XII del Cours contengono quella che Cauchy chiamava “una nuova teoria degli
immaginari”. Nel capitolo X diede una dimostrazione del teorema fondamentale dell’algebra, che
aveva già presentato in un articolo [1817b] e che diceva di aver tratto da Legendre (1808).
Come era piuttosto comune in quel periodo, Cauchy definiva i numeri immaginari come
‘espressioni simboliche’ della forma α+β√−1, dove α e β sono quantità reali (1821a, 173-176), ma
definiva i concetti matematici e le operazioni per queste “espressioni” in modo molto più preciso dei
suoi predecessori. Una delle ragioni per cui la sua trattazione era così ampia, un totale di 55 pagine, va
ricercata nella sua sensibilità nei confronti dei problemi sollevati dalla non univocità delle potenze
razionali dei numeri immaginari, che per profondità andava ben oltre le idee dei suoi contemporanei.
Un problema molto dibattuto riguardava (2cos x)m per m razionale. Lagrange aveva proposto un
metodo per sviluppare questa funzione in serie di potenze, che sembrava produrre un solo valore, ma la
sua opinione troppo ottimista doveva essere contraddetta da un controesempio ottenuto da S. D.
Poisson, che era stato suo studente, considerando il caso m=1/3 e x=π. Da 2mcosmx si ottiene 21/3(-1)1/3 e
quindi, dalle formule di De Moivre, tre valori complessi distintiii:
 1+ i 3 


, − 2 1 / 3 , 2 1 / 3  1 − i 3 
21 / 3 
 2 
 2 




Sebbene Poisson avesse identificato in modo convincente gli errori di Lagrange, non era stato
capace di correggerli, e col passare del tempo un numero sempre più grande di matematici si trovò ad
affrontare problemi simili. Senza dubbio Cauchy aveva ben presente questo dibattito quando cominciò
a scrivere il Cours. Per lui fu abbastanza semplice definire le funzioni razionali di una variabile
immaginaria e dare significato a xa (quando a è un numero razionale), ma giudicò completamente
inadeguati i metodi convenzionali quando giunse al punto di definire le funzioni logaritmiche e
trigonometriche di una variabile complessa. Allo scopo propose di utilizzare le serie di potenze. Per
prima cosa definì le serie di potenze di una variabile reale a coefficienti complessi, poi estese la teoria
al caso di una variabile complessa. Stabilì la convergenza della serie geometrica a termini immaginari
∑z
n
n
(cos nϑ + − 1sen nϑ )
per valori reali di z tali che |z|<1, quindi affermò, sulla base di un teorema che successivamente si
dimostrò essere falso, che la somma di questa serie è funzione continua di z in quell’intervallo. Poi
mostrò come estendere la teoria a valori complessi di z, e finalmente definì Az, sin z e cos z per valori
immaginari di z.
Attraverso questo procedimento complicato ma rigoroso Cauchy definì le funzioni algebriche
e trascendenti elementari di una variabile complessa. Ma non disse nulla sulla possibilità di dare una
definizione generale di funzione complessa di una variabile immaginaria. Questa doveva rimanere la
difficoltà mai sufficientemente chiarita nella sua ricerca matematica per circa vent’anni.
Negli anni immediatamente successivi, Cauchy intraprese molti studi sull’integrazione, che
culminarono nel il suo capolavoro, l’articolo del 1825 sugli integrali in un dominio complesso,
stranamente pubblicato solo come opuscolo e non in una rivista (Cauchy 1825a). In esso si riferiva alla
Memoria del 1814 (non ancora pubblicata) e ad altri suoi articoli per l’interpretazione che dava degli
integrali del tipo
X
∫ f ( x)dx
x0
dove x0 e X sono limiti reali ma f(x) può essere funzione a valori reali o immaginari della variabile x. In
un altro dei momenti in cui non si preoccupava della consistenza dei suoi ragionamenti e che dovevano
1
Cauchy (1821a). Per lo studio dettagliato del libro di Cauchy condotto da Bottazzini, si veda Cauchy
[1992].
rendere il lavoro di Cauchy su questi argomenti così difficile da capire per i suoi successori, estese
questa definizione al caso complesso per semplice analogia, senza preoccuparsi di cosa significasse per
f essere funzione di una variabile complessa.
Cauchy diede però una definizione precisa dell’integrale risultante come integrale di linea e
quindi, nelle ipotesi che f(x+√−1 y) fosse limitata e continua in un rettangolo, dimostrò per mezzo del
calcolo delle variazioni che il valore dell’integrale è indipendente dal cammino. Più precisamente
dimostrò che nelle suddette ipotesi una variazione infinitesima del cammino non cambia il valore
dell’integrale. Era la prima volta che faceva la sua comparsa il teorema integrale di Cauchy. Vale la
pena osservare che in questo lavoro Cauchy parlava di funzioni continue di una variabile immaginaria,
un concetto che non aveva mai definito esplicitamente nei suoi articoli precedenti. Guardando al modo
in cui faceva uso di tali funzioni, sembrerebbe che egli assumesse che fossero ad un solo valore, che
non avessero poli e, fatto fondamentale, che avessero derivata continua. Altrove Cauchy assunse come
ovvio il fatto che tali funzioni soddisfacessero le condizioni di Cauchy - Riemann.Tutte queste tacite
assunzioni dovettero essere identificate ed esplicitate dagli autori successivi. Vale forse la pena
aggiungere, per enfatizzare le possibilità di confusione, che ancora nel 1825 non è chiaro che Cauchy
sta lavorando con funzioni complesse invece che con particolari coppie di funzioni reali.
D’altra parte, Cauchy continuò a produrre una grande quantità di risultati essenziali per lo
sviluppo successivo della teoria delle funzioni complesse. Dimostrò la formula integrale di Cauchy per
le funzioni con poli di ordine finito e la applicò al calcolo degli integrali reali (impropri).
Successivamente, nel 1825, Cauchy cominciò a pubblicare gli Exercices de mathématiques, il modo
migliore per diffondere le sue ricerche. A partire dal primo volume estese sistematicamente i metodi
che aveva introdotto nel suo [1825a] e senza dare alcuna spiegazione li chiamò calcolo dei residui
(nome che rimase) e introdusse un simbolo speciale per l’estrazione del residuo di una funzione. Verso
la fine della sua esistenza dedicò alcuni lavori alle sue applicazioni, nel corso dei quali pubblicò alcuni
raffinamenti della teoria dei residui, compreso il caso di un dominio circolare e di un anello. In questo
modo fece capire l’importanza del nuovo calcolo, senza dargli però un solido fondamento.
La diffusione delle idee di Cauchy non fu aiutata dal suo estremismo politico, che lo condusse
ad auto esiliarsi dal 1830 al 1838 dopo la caduta della monarchia borbonica. In quel periodo,
nonostante alcune visite occasionali a Parigi, perse l’impiego alla École Polytechnique e con questo
l’incentivo a presentare la teoria delle funzioni complesse con un dettaglio almeno paragonabile a
quello impiegato nella presentazione della teoria reale. A quanto sembra inoltre, e per ragioni che molti
hanno trovato difficili da comprendere, Cauchy non utilizzò, né mai citò per decenni il suo lavoro del
1825 e il suo teorema integrale. Freudenthal (1991, 438) si domanda se Cauchy non l’avesse
semplicemente dimenticato, limitandosi a considerare solo cammini rettangolari, circolari o sul bordo
di un anello, e riferendosi alla Mémoire ormai datata del 1814, invece che a quella del 1825. Non la
menzionò neppure in un lavoro presentato all’Accademia il 3 Agosto 1846 (Cauchy 1846a), che è
comunemente considerato dagli storici come il lavoro in cui apparve la prima formulazione generale
del teorema integrale. Il paradosso però si ridimensiona leggendo quel lavoro; diviene chiaro allora che
in esso Cauchy non si riferisce mai alle funzioni complesse né all’integrazione complessa. Il lavoro
riguarda invece il teorema di Green.
Tuttavia, sembra che scrivere il lavoro abbia risvegliato molte idee che riposavano nella fertile
mente di Cauchy. Una settimana dopo scrisse una nota in cui osservava per la prima volta che i principi
enunciati nel suo Cours erano applicabili in considerevole generalità. Come ha commentato Morris
Kline [1972, p.638]: “Cauchy deve aver pensato a lungo e intensamente per rendersi conto che alcune
relazioni tra coppie di funzioni reali acquisiscono la forma più semplice quando vengono introdotte le
quantità complesse”. Una serie di articoli, scritti con cadenza quasi settimanale, elaborò questo nuovo
punto di vista. L’interpretazione geometrica di x+√−1 y fu introdotta per la prima volta, e di qui l’idea
di integrale curvilineo lungo un cammino nel piano complesso. L’utilità del calcolo dei residui
allontanò Cauchy dal problema delle funzioni a più valori, e fu solo per commentare la memoria di
Puiseaux del 1851 che tornò a considerare l’argomento. Sebbene fosse stato un problema con la natura
a più valori delle espressioni complesse che aveva ispirato a Cauchy alcuni delle sue prime indagini
sulle funzioni complesse, non gli riuscì mai di dominare completamente questo genere di problemi. In
un lavoro sugli integrali ellittici del 1846 si avvicinò all’idea che i loro valori formassero una superficie
connessa, allontanandosene poi immediatamente. Il più delle volte tagliava il dominio in pezzi,
all’interno dei quali la funzione era ad un solo valore, e trattava il fenomeno della funzioni a più valori
considerando i salti compiuti dalla funzione nell’attraversare i tagli. Nel frattempo, nel 1847, Cauchy
cercò di definire, per suo piacere, che cosa fosse un numero complesso se non era un semplice artificio
formale per fondere insieme due numeri reali. Suggerì diverse teorie. Una, ispirata ai lavori di Gauss e
di Kummer sulle classi di forme quadratiche, considerava equivalenti due polinomi reali nella variabile
i se davano lo stesso resto nella divisione per i2+1, e definiva un numero complesso come una classe di
equivalenza di polinomi. Nel 1849 Cauchy cambiò idea e ritornò alla teoria geometrica usuale, citando
una selezione piuttosto curiosa di fonti autorevoli per sostenere questo punto di vista. Tutto ciò
suggerisce che il principale teorico delle funzioni del tempo fosse sorprendentemente a disagio con i
fondamenti.
Fu nel 1847 che Cauchy definì per la prima volta la nozione di continuità per una funzione
complessa qualsiasi, anche se si trattava di una semplice generalizzazione del caso reale, e nel 1851
isolò come caratteristica che definisce una funzione complessa di x+i y quella di avere la derivata in
ogni punto indipendente da
dy
dx
una proprietà che egli chiamò “monogeneità” (il termine moderno è analitica o olomorfa). Nello stesso
articolo enunciò un risultato simile al seguente: una funzione monogena definita su un disco aperto
ammette, su quel disco, uno sviluppo in serie di potenze convergente. Aveva pubblicato la
dimostrazione della proposizione inversa nella sua memoria di Torino del 1831. Insieme le due
proposizioni stabiliscono l’equivalenza dei due approcci ovvi alla teoria delle funzioni complesse
(quello basato sulle equazioni di Cauchy – Riemann e quello basato sulle serie di potenze convergenti).
Cauchy aveva elaborato negli anni la teoria delle serie di potenze ma, come sempre, le sue affermazioni
dovevano risultare imprecise; l’enfasi era posta sulla continuità di una funzione, mentre era rilevante la
sua differenziabilità, e la continuità della derivata veniva assunta tacitamente.
Cauchy rientrò definitivamente a Parigi nel 1838, e trovò che stava emergendo una nuova
generazione di matematici francesi, alcuni dei quali avevano dato dei contributi al tema che egli aveva
avuto fino a quel momento a suo quasi completo appannaggio: l’analisi complessa. Le interazioni non
furono sempre facili: per gli altri fu difficile scoprire ciò che Cauchy aveva già pubblicato, e lui cedeva
facilmente alla tentazione di affermare di conoscere già le loro idee.
La teoria di Cauchy si sviluppava intorno all’idea di considerare le funzioni analitiche in un
disco. Abbastanza stranamente sembra che a Cauchy non sia mai venuto in mente di trattare
direttamente le funzioni con poli tagliando un piccolo disco contenenteiii il polo e riducendo così il
disco ad un anello, o di cercare il prolungamento analitico in una regione anulare. Fu invece un
ingegnere, P.A. Laurent (1813-1854), nel 1843, il primo ad agire così. Presentò un lavoro
all’Accademia sullo sviluppo in serie di potenze di una funzione definita e differenziabile in un anello.
Laurent enunciò il suo teorema in completa generalità ma non ne diede una dimostrazione, solo la
discussione di un caso particolare. L’articolo fu pubblicato solo nel 1863 dopo la morte dell’autore e
per un certo periodo si seppe che era prossimo alla pubblicazione solo grazie alla recensione che ne
fece Cauchy. Egli trovò che i risultati erano ben degni di considerazione, sebbene fossero già stati
inclusi come “casi particolari” in alcuni dei suoi lavori precedenti. Pubblicò quindi una nota in cui
diede la prima dimostrazione del teorema di Laurent (essenzialmente la dimostrazione moderna,
utilizzando la formula integrale) che non aveva mai pensato di scrivere prima. Cauchy aveva
considerato molte volte funzioni con poli, ed aveva anche calcolato le loro espansioni di “Laurent” ma
questo non gli aveva mai suggerito un teorema generale. (L’ironia in tutto ciò si manifesta pienamente
solo quando si passa a considerare il contributo di Weierstrass, come vedremo poi).
Uno dei risultati principali della teoria moderna delle funzioni complesse è un teorema che
prende il nome da Joseph Liouville. Afferma che una funzione complessa ovunque definita e limitata è
costante. La storia di questo teorema è interessante perché segna l’avvento di una nuova generazione di
matematici francesi impegnati a superare un gigante nel loro campo che per lungo tempo aveva avuto
questo tema di ricerca a proprio quasi esclusivo appannaggio. Liouville presentò il teorema in un
articolo all’Accademia nel 1846 in cui affermava, a proposito delle funzioni ad un solo valore, che “se
una tale funzione è doppiamente periodica e si riesce a capire che non diventa mai infinita, allora è
possibile, solo da questo, dedurre che si riduce ad una costante”. Cauchy si affrettò ad affermare che il
principio generale era conseguenza del suo lavoro precedente, e forse era davvero così, ma anche se
fosse, non era mai stato isolato né considerato da Cauchy prima che Liouville lo scoprisse
indipendentemente e cominciasse a utilizzarlo. Cauchy fu anche il primo a dare una dimostrazione del
risultato in generale, utilizzando il suo calcolo dei residui, e continuò fino a darne altre quattro nel
1847, mentre Liouville non pubblicò mai neppure una dimostrazione. Tutta questa attività era
sicuramente mirata a dare l’impressione che la scoperta di Liouville fosse già nota a Cauchy, ma
Lützen ha scoperto che Liouville aveva già isolato la proprietà per tutte le funzioni complesse nel 1844
e quindi sembra che l’attribuzione, per una volta, sia corretta.
Nel 1846 anche Liouville era un matematico all’apice delle sue capacità, responsabile di una
propria rivista e con uno studente molto dotato, Charles Hermite, che lo spronava. Nel 1851, infastidito
dalle affermazioni di Cauchy, Liouville decise di tenere un corso di pubbliche conferenze sul suo
lavoro al Collège de France. Tra il pubblico erano presenti Briot e Bouquet, che misero insieme quello
che avevano imparato da Cauchy sulla teoria delle funzioni complesse con l’approccio di Louville alle
funzioni doppiamente periodiche per scrivere, nel 1859, il primo libro di testo sull’argomento. Cauchy
era ormai morto, ed era cominciato un nuovo periodo di sviluppo nel campo.
Nel loro libro, Briot e Bouquet definirono tre termini fondamentali: monodrome, che significa
ad un solo valore, monogène che nella terminologia moderna si traduce con analitico, e synectique che
significa finito, continuo, monodrome e monogène in una regione del piano. I concetti sono tratti da
Cauchy, insieme con la confusione tra continuo e differenziabile; il concetto di continuità viene
introdotto nelle definizioni, quello di differenziabilità viene utilizzato nelle dimostrazioni. Ne segue
una trattazione della teoria delle funzioni complesse ragionevolmente completa, anche secondo lo
standard moderno. Il teorema integrale di Cauchy e la formula integrale di Cauchy vengono dimostrati,
e sono utilizzati per sviluppare in serie di potenze le funzioni analitiche. Viene proposta una teoria dei
poli finiti e delle serie di Laurent: un polo di ordine m, per cui Briot e Bouquet non utilizzano alcun
termine speciale, è un punto z=a in cui la funzione f(z) è infinita ma il prodotto (z-a)mf(z) è finito per
qualche esponente m. Il comportamento di funzioni come e1/z nell’origine o di ez all’infinito era assai
più problematico da trattare. Briot e Bouquet pensavano che le funzioni fossero ovunque definite e così
arrivarono ad enunciare teoremi che affermavano che le funzioni synectique definite ovunque, infinito
incluso, assumono ogni possibile valore. Autori posteriori provarono addirittura a difendere questo
punto di vista con argomenti di passaggio al limite, ma sembra che nel 1859 Briot e Bouquet lo
accettassero acriticamente, forse perché conduceva ad una teoria molto compatta secondo la quale una
funzione ovunque definita assumeva ogni valore, apparentemente come corollario del teorema di
Liouville.
La teoria delle funzioni complesse riempiva 40 pagine scarse, ed era seguita da materiale più
difficile sulle equazioni differenziali nel dominio complesso che, d’altra parte, forniva le basi per una
estesa trattazione della teoria delle funzioni ellittiche. Riunendo questi argomenti, venne fornita una
chiara base concettuale per l’importante argomento delle funzioni ellittiche, che si amalgamava bene
con la nuova teoria delle funzioni complesse. Questo sviluppo in parallelo doveva diventare abituale
per circa un secolo, fino a che la teoria delle funzioni complesse divenne troppo ampia per trovar
spazio assieme alla più prestigiosa delle sue applicazioni in un unico libro,.
Le funzioni a più valori costituivano uno degli argomenti familiari ai matematici del 19°
secolo, ma che perfino Cauchy aveva difficoltà a trattare con precisione. La più semplice di queste
‘funzioni’ è la radice quadrata: w2=z, o z=√w. Per ogni valore di z diverso da 0 (e da ∞, se vogliamo
permetterlo) la ‘funzione’ w assume due valori, la radice positiva e la radice negativa del numero z.
Questo esempio poneva pochi problemi, perché era facilmente trattabile con tecniche ad hoc. Ad
esempio, si può scrivere z=reiθ=rei(θ+2π), da cui w=√ reiθ/2 e w=√ rei(θ+2π)/2=√ rei(θ/2+π)=-√ reiθ/2. Se si
prende z su un cerchio attorno all’origine, e si fissa un corrispondente valore di w, è chiaro che quando
si ritorna al punto di partenza il valore di w ha cambiato segno. Se questo è un problema, e in generale
non lo è, si può immaginare di tagliare il piano lungo l’asse reale negativo, da 0 a -∞. Se si fa variare z
su un qualsiasi cammino che non attraversa il taglio, il corrispondente valore di w non cambia segno.
Questo metodo utilizzato da Cauchy è insegnato ancor oggi ed è adeguato allo scopo, ma è un modo
troppo rozzo per trattare funzioni a più valori più complicate. Si basa sull’idea di tagliare il piano in
numero sufficiente di linee rette (chiamate da Cauchy ‘lignes d’arræt’) in modo tale che w assuma
sempre un solo valore fintantoché z non attraversa i tagli. In effetti quello che Cauchy sembra suggerire
è che una funzione a più valori debba avere dei tagli (non semplicemente che è possibile assegnarle dei
tagli).
Nel 1850 Victor Puiseux pubblicò un altro metodo nella rivista di Liouville. In primo luogo
distinse con attenzione tra poli (dove la funzione diventa infinita) e punti di diramazione (come
l’origine per la funzione a più valori z=w2). Fissò quindi l’attenzione sulle permutazioni dei diversi
valori di w quando z percorre un cerchio attorno ad ognuno dei punti di diramazione ed analizzò
attentamente il modo in cui questo poteva accadere, descrivendo un metodo per risolvere
completamente il problema in ogni caso. Non è necessario per esempio che i valori siano tutti
permutati, ma dimostrò che erano tutti connessi, ovvero che è possibile muovere z lungo un cammino
che congiunge una qualsiasi coppia fissata di valori di w. Per ogni punto di diramazione della funzione
mostrò come ottenere uno sviluppo in serie di potenze con esponenti frazionari, e sviluppò un metodo
per ottenere questi esponenti (il metodo del poligono di Newton – Puiseux).
Dimostrò anche che è possibile trovare un cammino su cui far muovere z in modo che sia z che
w ritornino ai loro valori originari ma senza che il cammino di w possa essere contratto ad un punto.
Chiamò periodo l’integrale di w lungo questo cammino, per analogia con la teoria degli integrali
ellittici, e valutò questi periodi in alcuni casi. Cauchy commentò favorevolmente il lavoro di Puiseux di
fronte all’Accademia, e in un’altra occasione [(2), 14, 384] attribuì a Puiseux il merito di essere stato il
primo a chiamare cammino (‘chemin’) un cammino di integrazione, facendo di Puiseaux il primo a
parlare di integrale di linea. L’uso delle matrici per descrivere come vengono permutati i punti di
ramificazione si deve a Hermite (v. Equazioni differenziali).
6.2.3 Riemann
Nessun matematico, in retrospettiva, domina la parte centrale del 19°secolo più di Bernhard Riemann.
Malgrado la sua influenza dovesse rivelarsi così profonda, bisognò attendere anni, addirittura decenni,
per poter capire tutte le sue implicazioni. In nessun altro dominio ciò risulta più evidente che nel suo
preferito, quello della teoria delle funzioni complesse.
Quando era studente all’università di Göttingen, Riemann cominciò a leggere i lavori di
Cauchy e di Gauss, e l’influenza di Cauchy appare chiaramente in tutto ciò che scrisse. Quella di Gauss
è più difficile da individuare perché i contributi di Gauss non erano organici, e alcuni furono inglobati
per la prima volta nel corpo della teoria delle funzioni complesse da Riemann stesso. Quando si
trasferì all’Università di Berlino nel 1847 Riemann continuò a leggere i lavori di Gauss sulla teoria del
potenziale, sul principio di Dirichlet, e sulle applicazioni conformi (v. Geometria). Riemann
conosceva Gauss anche personalmente, ma l’influenza più grande su di lui fu esercitata senza dubbio
da Dirichlet, che riconobbe e incoraggiò il suo straordinario talento. Quando Dirichlet visitò
l’Università di Göttingen per un anno nel 1851 lui e Riemann discutevano assieme quasi ogni giorno.
Il primo lavoro importante di Riemann fu la sua dissertazione dottorale del 1851, pubblicata
per la prima volta solo nella prima edizione dei Riemann Werke [1876]. Le poche copie stampate della
tesi distribuite nel 1851 erano sicuramente poco note e difficili da trovare, e questo è probabilmente il
motivo per cui c’è una considerevole sovrapposizione con il lavoro del 1857 sulle funzioni abeliane. La
dissertazione cominciava con tre idee importanti: la definizione e le proprietà fondamentali di una
funzione complessa, l’idea di superficie (di Riemann), e il ruolo fondamentale della teoria delle
funzioni armoniche. Nell’articolo viene utilizzata una definizione informale di continuità, ma
l’influenza di Dirichlet risulta evidente in alcune annotazioni rimaste che mostrano come Riemann
basasse le sue idee di continuità sulla epsilon-delta definizione del Cours d’analyse di Cauchy. La
distinzione tra coppie di funzioni di due variabili reali e funzione complessa di una variabile
complessa, che era costata a Cauchy tanti sforzi, fu colta immediatamente da Riemann: una variabile
complessa si dice funzione complessa di un’altra variabile complessa z se il valore del limite del
rapporto incrementale dw/dz è indipendente dal valore del differenziale dz. Riemann osservò che
questo succede ogni volta che le regole di differenziazione vengono applicate in maniera puramente
formale. Dedicò il resto dell’articolo a trovare quali fossero le proprietà di cui godeva una funzione
complessa generale.
Innanzitutto Riemann dimostrò che una funzione complessa è conforme, purché la sua derivata
non si annulli. Questa enfasi era originale; Cauchy non l’aveva mai esplicitata. Dimostrò anche che una
funzione complessa f(x+iy)=u(x,y)+iv(x,y) soddisfa le equazioni di Cauchy –Riemann:
∂u ∂v
∂u
∂v
=
,
=−
∂ x ∂y
∂y
∂x
Da queste equazioni segue subito che le funzioni u e v sono armoniche2; esse soddisfanoiv
∂ 2u ∂ 2v
+
=0
∂x 2 ∂y 2
Riemann si rese conto che la sua definizione di funzione complessa richiedeva solo che la
funzione fosse definita su una famiglia di aperti bidimensionali. Questi aperti si possono intersecare,
2
Riemann non utilizzò un termine specifico per indicare questa proprietà.
ma non è necessario che la loro unione coincida con il piano complesso – altre superficie sono
possibili. Questo punto di vista gli permise di trattare con funzioni a più valori, forse l’argomento che
più aveva messo in difficoltà Cauchy, sostenendo che tali funzioni dovessero essere pensate come
definite su superfici che si estendono sopra al piano della variabile z. In una tale superficie non erano
ammessi incroci, ma la superficie poteva avvolgersi intorno a certi punti, che Riemann chiamò punti di
diramazione. Cosa si intendesse per intorno di un punto di diramazione non fu spiegato in modo
chiaro. Nel Dicembre del 1851 Riemann aveva già letto la relazione di Cauchy sulla memoria di
Puiseux ma sembra improbabile che questa abbia avuto qualche influenza sulla sua tesi dottorale. Il
concetto di superficie di Riemann doveva risultare ostico da padroneggiare per i matematici posteriori,
non da ultimo perché presentava la superficie come qualcosa che si estende sopra l’intero piano
complesso, in un modo che dipende da quattro dimensioni reali. Riemann cercava di rappresentare una
superficie in parti maneggevoli per mezzo di tagli. Diceva che una parte di superficie era connessa
quando per ogni coppia di punti contenuti in essa esiste una curva che li congiunge. Riemann sezionava
le superfici per mezzo di tagli lungo cicli, curve semplici (non intrecciate) con gli estremi sul bordov;
tagli pre-esistenti di questo genere contavano anche loro come parti del bordo, e si poteva scegliere un
punto arbitrario della superficie come punto del bordo da cui cominciare il processo di dissezione. Una
superficie si diceva semplicemente connessa se ogni taglio lungo un ciclo la divideva in due pezzi e nvolte connessa se era necessario un sistema di n-1 tagli lungo cicli per farla diventare semplicemente
connessavi.
Per studiare le funzioni complesse, Riemann utilizzò la teoria delle funzioni armoniche con
punti singolari. Il teorema fondamentale su cui basava il suo studio era una versione del teorema di
Green già nota a Cauchy, Green e Gauss (senza dubbio la fonte di Riemann, forse attraverso Dirichlet).
Esso mette in relazione un integrale di superficie con un integrale lungo il bordo della superficie stessa.
Riemann dimostrò questo teorema e lo utilizzò per dimostrare che una funzione armonica u con punti
singolari isolati possiede derivate di ogni ordine, un passo fondamentale sulla via dell’unificazione
della teoria delle funzioni complesse con quella delle funzioni armoniche. Esso implica che una
funzione complessa w=x+iy è infinitamente differenziabile, perché lo sono la parte reale e la parte
immaginaria. Riemann considerò quindi la teoria dello sviluppo in serie di Laurent nell’intorno di un
polo di ordine finito, e la teoria dei punti di diramazione.
La tesi, a questo punto, non era ancora a metà. Nella seconda parte diede una dimostrazione
del fatto che due superficie piane semplicemente connesse si possono sempre trasformare l’una
nell’altra con una applicazione conforme e che tale applicazione è unica una volta fissate l’immagine di
un punto interno arbitrario e quella di un punto del bordo, anch’esso arbitrario. Questo risultato, oggi
chiamato teorema dell’applicazione di Riemann ed enunciato in maniera leggermente diversa, stabilisce
che ogni coppia di regioni semplicemente connesse sono equivalenti ai fini della teoria di Riemann
delle funzioni complesse, e quindi, in particolare, che esistono funzioni complesse definite su ognuna
di esse.
Si dice spesso che la dimostrazione di Riemann si basava in modo essenziale sul principio di
Dirichlet, e che per questa ragione non fu accettata da molti matematici3. In effetti però l’approccio di
Riemann era piuttosto differente. Egli non si limitava ad applicare in maniera ingenua qualcosa
chiamato principio di Dirichlet, secondo cui se è assegnata una funzione continua sul bordo di una
regione semplicemente connessa allora esiste una funzione armonica definita sull’intera regione che
coincide con la funzione data sul bordo. Nel 1857 Riemann spiegò che nella sua dissertazione aveva
cercato di generalizzare il principio di Dirichlet al caso in cui venissero ammesse determinate
discontinuità. La funzione armonica da prendere in considerazione era la funzione che minimizzava un
certo integrale. Permaneva una confusione diffusa tra l’esistenza di un estremo inferiore per l’integrale
(mai messa in dubbio) e l’esistenza di una funzione che realizzava tale estremo. Riemann cercò di
dimostrare il risultato di esistenza argomentando che l’integrale era funzione continua dell’espressione
integranda, e che questi ingredienti formavano quello che lui descriveva come un “dominio connesso
chiuso in sé stesso”. Siccome gli ingredienti erano essi stessi funzioni, l’affermazione è audace, ma
non si tratta di un uso ingenuo del principio euristico di Dirichlet. Purtroppo, come altri non tardarono
ad osservare, l’argomento di Riemann è inconsistente sotto altri punti di vista.
L’intero approccio di Riemann si basa su questo risultato. Usando le sue parole, questi principi
“aprono la strada ad uno studio delle funzioni di una variabile complessa che non dipende da una loro
espressione esplicita” [1851, §19]. Un punto di vista siffatto determinò una frattura completa con l’idea
3
Vedi per esempio il libro di riferimento sulla sua storia, Monna [1975], e le discussioni in Bottazzini
[1986] e Gray [1986].
che la teoria delle funzioni complesse avesse essenzialmente a che fare con espressioni formali come le
serie di potenze e semplificò enormemente il compito di decidere quando due espressioni
rappresentano la stessa funzione; per esempio è chiaro, come egli affermò (§20), che se una funzione è
ovunque definita su una regione che ricopre l’intero piano una o più volte, e ha singolarità solo di
ordine finito e solo in un numero finito di punti, allora è una funzione algebrica.
L’articolo di Riemann del 1857 fu pubblicato nel Crelle Journal. Prendeva in esame un
problema centrale della matematica di quel periodo, l’oscura teoria delle funzioni abeliane. Egli
cominciava spiegando ancora una volta il suo approccio alle funzioni complesse, e mostrando come gli
integrali su una superficie possano essere indipendenti dal cammino che congiunge i loro estremi.
Il principale oggetto di studio era la teoria delle funzioni su una curva algebrica. La curva era
concepita in due modi, che Riemann cercò di amalgamare senza molto successo; prima come oggetto
definito da una equazione irriducibile tra le variabili complesse s e z di gradi n in s ed m in z, e poi
come oggetto rappresentato da un rivestimento T ad n fogli del piano della variabile z. Le funzioni
razionali di s e z sono funzioni ad un solo valore su T, ramificate come s; nello stesso articolo Riemann
dimostrò anche la proposizione inversa. L’integrale di una funzione razionale produce una funzione a
più valori i cui diversi prolungamenti analitici differiscono solo per una costante, poiché le derivate
devoano coincidere punto per punto. Era questo sistema di funzioni che egli proponeva di studiare per
mezzo del principio di Dirichlet e della sua tecnica di sezionare la superficie per mezzo di 2p tagli per
poterla distendere sul piano e trasformarla in una superficie semplicemente connessa T’.
Le più semplici sono le funzioni a più valori w che sono sempre finite. Riemann mostrò,
considerando i loro incrementi nell’attraversamento dei tagli, che ci sono al più p funzioni linearmente
indipendenti siffatte, w1,...,wp. Sul modello della classificazione degli integrali ellittici, furono chiamate
da Riemann integrali del primo tipo; compaiono quando si integrano espressioni ovunque olomorfe.
Quindi ci sono funzioni con un polo di ordine superiore in un singolo punto, chiamate da Riemann
integrali del secondo tipo; compaiono quando si integrano funzioni razionali prive di poli semplici.
Riemann le denotava βjtj. Infine ci sono funzioni con due poli logaritmici, uguali ma opposti; furono
chiamate integrali del terzo tipo e compaiono integrando funzioni con poli semplici aventi residui
opposti.
Così, diceva Riemann, l’espressione generale per una funzione complessa con m poli semplici
su una superficie è della forma
s= β1t1+β2t2+ …+βmtm++α1t2+α2t2+ …+αptp+cost.
dove i valori di t sono arbitrari e quelli di e α e β sono costanti. Se tutti gli incrementi nell’attraversare i
2p tagli (chiamati da Riemann moduli di periodicità) svaniscono, la funzione è ad un solo valore. Con
semplici ragionamenti di algebra lineare stabilì che essa dipende linearmente da m-p+1 costanti
arbitrarie. Se questo numero è più grande di 1, cioè quando m>p, esisteranno funzioni non costanti con
al più m poli. Questa è la celebre disuguaglianza di Riemann. La sua principale applicazione consiste
nello stabilire l’esistenza di funzioni razionali su una superficie di Riemann.
Riemann dimostrò successivamente che funzioni razionali distinte e non costanti soddisfano
un’equazione polinomiale che si può assumere come l’equazione di una superficie di Riemann,
stabilendo in questo modo una connessione tra i suoi due approcci all’argomento. Infine osservò che se
w è una qualsiasi funzione definita su T e avente solo poli semplici, allora dw/dz è un’altra funzione
dello stesso tipo. In particolare essa può avere solo poli nei punti in cui li ha la funzione w. Perciò tutte
le funzioni definite su T o sono funzioni che hanno le stesse diramazioni di T oppure sono integrali di
funzioni siffatte. Inoltre, il sistema di queste funzioni è determinato quando è assegnata la superficie T
e dipende solo dalla posizione dei punti di diramazione.
Uno dei meriti dell’approccio di Riemann è che chiarisce come la stessa superficie di Riemann
si possa rappresentare attraverso molte equazioni, ottenibili le une dalle altre attraverso una
trasformazione razionale delle variabili. Egli fu in grado di dimostrare che la famiglia delle superficie
non equivalenti di un dato genere dipende con continuità da 3p-3 parametri complessi che, diceva,
“verranno detti i moduli”. Da allora lo spazio dei moduli ha continuato ad attrarre grande interesse. Con
un breve argomento indipendente dimostrò che esiste uno spazio delle superficie di Riemann di genere,
che dipende da un parametro.
La seconda metà dell’articolo di Riemann era dedicato allo studio delle funzioni razionali e
algebriche su una data superficie di Riemann e per questa ragione sarà discussa in seguito. La profonda
originalità in questo notevole articolo si può misurare dal fatto che nel leggerlo un’autorità del calibro
di Weierstrass decise addirittura di ritardare un suo lavoro sullo stesso argomento, preferendo aspettare
finché avesse assimilato quello che Riemann aveva da dire.
La salute di Riemann era sempre stata precaria, e collassò completamente a causa della
tubercolosi nel 1862; trascorse in Italia la maggior parte dei quattro anni che gli restavano da vivere,
dove numerosi matematici italiani presero contatto con lui. Dopo la morte ci fu un tentativo di curare
l’edizione dei suoi lavori. Anch’esso fu tormentato dalla malattiavii, ma finalmente Dedekind e Weber
ne curarono un’edizione nel 1876, in cui la maggior parte dei suoi risultati fu presentata per la prima
volta in un luogo facilmente accessibile. Le sue idee si diffusero anche attraverso lavoro dei pochi che
avevano assistito alle sue lezioni o che l’avevano conosciuto personalmente. Poiché si dice spesso che
le reazioni immediate al lavoro di Riemann furono scarse, è interessante fornirne una lista, anche
parziale. Mentre Riemann era ancora vivo Clebsch [1863] diede il proprio contributo al concetto di
genere, al teorema di Abel e all’uso delle funzioni abeliane in geometria; Roch [1864] raffinò la
disuguaglianza di Riemann in una uguaglianza; Neumann scrisse un libro [1865] sull’approccio di
Riemann agli integrali iperellittici; Durège [1865] basò il primo libro in tedesco sulla teoria delle
funzioni complesse sulle idee di Riemann; numerosi autori (Clebsh, Lüroth, Rosanes e Clifford) fecero
chiarezza su alcuni problemi riguardanti la comprensione della topologia di una curva algebrica ;
Clebsh e Gordan scrissero un libro [1866] sulla teoria delle funzioni abeliane. Dopo la sua morte,
Prym, Christoffel e Schwartz lavorarono sul teorema dell’applicazione di Riemann negli anni 60 del
19° secolo; Casorati pubblicò una presentazione esplicitamente riemanniana della teoria delle funzioni
complesse nel 1868; Schottki estese il teorema dell’applicazione di Riemann a domini non
semplicemente connessi.; Brill e Noether scrissero un articolo [1872] sulle curve algebriche in cui per
la prima volta il teorema di Riemann - Roch viene designato con questo nome; Tonelli scrisse il suo
articolo del 1875 sulla definizione di Riemann di genere e verso la fine degli anni 70 del 19° secolo
Weierstrass ne diede una nuova definizione e dedusse il cosiddetto teorema delle lacune. Altri autori si
occuparono di altri aspetti dell’eredità di Riemann.
Questa lista, e il contemporaneo sforzo di curare l’edizione degli articoli non pubblicati, delle
dispense dei corsi e dei frammenti, suggerisce una volontà reale di mantenere vive le idee di Riemann
dopo la sua prematura scomparsa. Il mondo accademico aveva riconosciuto da tempo il talento di
Riemann. Weierstrass aveva caldeggiato con forza la candidatura di Riemann all’Accademia della
Scienze di Berlino nel 1859, e negli anni successivi aveva incoraggiato i suoi i studenti migliori a
cercare buoni argomenti su cui lavorare nei lavori di Riemann, e questo dimostra un’alta opinione della
loro importanza, se non del loro rigore.
La sua teoria delle funzioni complesse si basava su pochi punti fondamentali: l’importanza
della natura globale del dominio di una variabile complessa, e la sua analisi topologica; il principio di
Dirichlet per stabilire l’esistenza di funzioni complesse con prescritte singolarità; la disuguaglianza di
Riemann. L’accettazione di ognuno di questi punti era problematica anche per i migliori tra i suoi
contemporanei.
Volendo considerare l’esempio più famoso, l’uso di Riemann del controverso principio di
Dirichlet, negli anni 80 del 19° secolo, Klein cercò di argomentare che Riemann avesse invocato il
principio di Dirichlet sulla base di considerazioni fisiche ma Bottazzini ha fatto vedere che alcuni
studenti di Riemann, in particolare Prym, non erano d’accordo. Infatti, tutti i matematici ritenevano che
il principio richiedesse una dimostrazione – solo i fisici come Helmoltz e Maxwell erano contrari. Ma
bisognò attendere il 1900 perché Hilbert riuscisse a dare una dimostrazione diretta della validità del
principio di Dirichlet per un’ampia classe di domini, ripristinando così la linea originale dell’approccio
di Riemann sotto ipotesi poco restrittive.
Comunque, la ricerca delle dimostrazioni doveva spesso condurre una generazione di
matematici lontano dalla visione di Riemann. Clebsch, il successore di Dirichlet a Göttingen, era il
leader di un forte gruppo di geometri algebrici che cercarono di riscrivere le idee di Riemann
utilizzando il linguaggio della geometria proiettiva delle curve algebriche, e di qui ritornare all’analisi
attraversando il ponte, come essi lo chiamavano, fornito dal teorema di Abel. Prym, uno degli allievi di
Riemann, scrisse a Casorati che il libro di Clebsch e Gordan era completamente inutile. Ciò che lo
disturbava era l’enfasi dell’algebra sulla topologia. Pur imperfettamente, Riemann aveva tentato di
separare la superficie, pensata come oggetto astratto, da ogni immersione che poteva avere in un
qualche spazio proiettivo; la trattazione di Clebsch-Gordan cercava di far cadere quella distinzione.
Analogamente, Roch fu perentorio sulla prima edizione del “Vorlesungen uber Riemann’s Theorie der
Abel’schen Integral” di Neumann [1865], definendola “poltiglia ribollita”. Curiosamente, quando la
seconda edizione venne riletta a Göttingen, Klein commentò che faceva sembrare ogni cosa così
semplice da sembrare quasi un insultoviii. Evidentemente, a Göttingen almeno, la gente aveva
cominciato a rimettersi in pari con Riemann. Solo Casorati in Italia ebbe successo con un libro che
mescolava le tecniche e le idee di Cauchy, Riemann e Weierstrass, e che fece molto per affermare in
Italia la teoria di Riemann delle funzioni complesse. La seconda parte, più elementare, copre gli
argomenti che Riemann stesso aveva coperto nelle sue lezioni, mentre la prima parte approfondisce le
superfici di Riemann e sulle funzioni abeliane.
Il successo in Italia, dove molti matematici avevano incontrato Riemann personalmente, non
dovrebbe oscurare i problemi altrove. Weierstrass e i suoi studenti erano antagonisti allo spirito
riemanniano, come verrà descritto più avanti, e in Francia Hermite ritardò l’accettazione delle idee di
Riemann per almeno una generazione, finché furono superate da Poincaré e Picard. Anche a
Göttingen, dove Felix Klein fece così tanto per tener viva la speranza di una teoria riemanniana delle
funzioni, la prima trattazione soddisfacente delle superficie di Riemann fu data da Weil solo nel 1913.
6.2.4 Weierstrass.
Una caratteristica notevole dell’approccio di Weierstrass all’analisi complessa consiste nel fatto che
viene evitato l’integrale. Questo è in linea con la diffidenza di Weierstrass nell’attribuire alle equazioni
di Cauchy – Riemann un ruolo fondamentale, basata sull’idea che “le condizioni per l’esistenza della
derivata sono così complicate che a priori non è assolutamente possibile verificare se una data funzione
ammette derivate, a meno che non lo si sappia per esperienza”. [Weierstrass, 1866, 1988, 115]. Quindi
costruì una teoria delle funzioni definite per mezzo di serie di funzioni razionali uniformemente
convergenti su un qualche dominio. Come ha fatto vedere Majer, questo procurò a lui e ai suoi seguaci
molte difficoltà. Una consisteva nella dimostrazione dell’esistenza e unicità dello sviluppo in serie di
Laurent di una funzione analitica su un anello. La dimostrazione usuale dell’esistenza, come quella
dello stesso Weierstrass del 1841, faceva uso del teorema integrale di Cauchy, e Weierstrass non riuscì
mai ad evitarlo (nelle sue lezioni si riduceva a dire “ È ben noto che …”). Nel 1884 furono pubblicate
due dimostrazioni che evitavano completamente l’integrale, una di Scheefers e l’altra di Mittag-Leffler.
Nel 1896 un’altra dimostrazione fu trovata da Pringsheim. Altri problemi consistevano nel dimostrare il
teorema delle singolarità eliminabili e il teorema di Liouville. Weierstrass fu in grado di superare
queste difficoltà, ma perfino i suoi allievi trovavano gli argomenti difficili, e a chiunque non
condividesse l’idea che la convergenza uniforme fosse elementare mentre non lo era la teoria
dell’integrale, questo modo di procedere appariva astruso. Come ci si poteva aspettare a causa delle
loro continue dispute a Berlino sulla natura della matematica, di intensità sempre crescente, i punti di
vista di Weierstrass sui fondamenti dell’analisi complessa non erano condivisi da Kronecker, che
basava sul teorema integrale di Cauchy e sulla formula integrale di Cauchy le sue lezioni sulla teoria
delle funzioni complesse, affermando in proposito che “l’intera teoria moderna delle funzioni è
concentrata in questi due integrali” [Kronecker, Vorlesungen, p. 167].
Caratteristico dell’approccio di Weierstrass era il desiderio di erigere una teoria veramente
elementare delle funzioni complesse, che non facesse nessuna assunzione e non contenesse circoli
viziosi. In questo ricordava Euclide più di ogni altro matematico di quel periodo. In parte questo era
conseguenza della sua posizione di direttore del più grande e importante dipartimento di matematica
del mondo, in parte rifletteva il suo personale desiderio di uniformità e di rigore. Come Euclide, diede
scarse indicazioni sugli altri approcci alla materia, dando così l’impressione di ritenere che gli altri
approcci lasciassero qualcosa a desiderare, ovvero che non si armonizzassero con il suo approccio
globale. Weierstrass rifletteva a lungo e con grande attenzione sul giusto grado di generalità con cui
considerare un problema o un concetto, e amava saggiarne tutte le implicazioni e le conseguenze prima
di includerlo nel suo ciclo di lezioni. Di conseguenza si devono a lui molte delle distinzioni
fondamentali della teoria, che contribuirono indubbiamente a chiarire molto del materiale che si andava
accumulando.
Un problema sollevato da Riemann era se ogni funzione complessa, definita alla sua maniera
astratta, coincidesse con una funzione definita algebricamente. Egli pensava a riguardo che la risposta
fosse “si”, ma invece alla domanda fu data risposta negativa dai matematici berlinesi. Le serie di
funzioni razionali si possono comportare in maniera molto diversa dalle serie di potenze. Per esempio
la serie Σn1/(zn+z-n) converge per |z|>1 e per |z|<1, ma non quando per |z|=1. Infatti il cerchio definito
dalla condizione |z|=1 è quello che si dice un bordo naturale per le funzioni definite al suo interno e al
suo esterno dalla serie che stiamo considerando: nessuna può essere prolungata con continuità
nell’altra. Così una stessa espressione algebrica definisce due funzioni distinte, in contrasto con le
convinzioni di Riemann.
I bordi naturali sono quelli che impediscono ad una funzione complessa definita su un disco di
essere prolungata all’intera sfera di Riemann. Sono fatti di punti in ogni intorno dei quali la funzione ha
almeno un polo (e quindi non può essere definita). Per comprenderli furono impegnate molte energie.
In conseguenza del teorema dell’applicazione di Riemann i bordi naturali possono avere una grande
varietà di forme. Anche quando sono cerchi possono essere costituiti completamente da poli, avere un
insieme denso di poli , o non avere poli per niente. (esempi di tali bordi sono facili da trovare).Un caso
celebre è dato dalle funzioni ellittiche, in particolare dalla funzione
θ ( z ) = 1 + 2∑ q n
2
n ≥1
introdotta da Jacobi, che ha come bordo naturale il cerchio unitario. Potrebbe sembrare che questa
funzione definisca ancora una funzione reale sul cerchio unitario, ma Weierstrass capì che se così fosse
la funzione dovrebbe avere proprietà notevoli. Analizzandola fu condotto a studiare una funzione
leggermente diversa che risultò essere ovunque continua e mai differenziabile. Questa fu la prima
funzione di questo tipo definita rigorosamente, e aprì la strada alla comprensione che la continuità e la
differenziabilità sono proprietà estremamente diverse.
All’estremo opposto, il più semplice bordo naturale che una funzione può avere è un singolo
punto, e anche in questo caso il problema è sottile. Se il bordo naturale consiste di un polo, o anche di
molti poli in punti distinti, la funzione è una funzione razionale. Ma Weierstrass scoprì nel 1875 che
esisteva una differenza cruciale tra un punto che rappresenta un polo di ordine finito e quello che in
seguito al suo lavoro venne chiamato una singolarità essenziale. In tali punti non è definita né la
funzione né la sua reciproca. Weierstrass scoprì che in ogni intorno di una singolarità essenziale la
funzione assume valori arbitrariamente vicini ad ogni valore. (In effetti, come doveva dimostrare
Picard nel 1879, in ogni intorno di un punto singolare essenziale la funzione assume ogni valore finito,
eccetto al più uno).
Weierstrass si occupò anche del problema inverso: assegnato un insieme di punti, esiste una
funzione che ammette poli o singolarità essenziali precisamente in quei punti? L’insieme non può avere
un punto di accumulazione altrimenti la funzione si annullerebbe identicamente. Inoltre fece l’ipotesi
che ci fosse solo un numero finito di punti singolari essenziali. Come Weierstrass dimostrò nel 1875,
non erano necessarie altre restrizioni, e diede convenienti espressioni esplicite per le funzioni cercate
nella forma di prodotti infiniti (analoghe alle espressioni determinate da Eulero). La sua ispirazione
proveniva dai prodotti infiniti per la funzione Γ di Eulero e Gauss. Le sue idee vennero riprese da
Mittag – Leffler, che ne era venuto a conoscenza durante le lezioni di Weierstrass del 1875. Mittag –
Leffler dimostrò che esiste sempre una funzione meromorfa con parti principali specificate (espressioni
della forma ix
N
ai
∑ ( z − a)
i =1
i
)
6.2.5 Funzioni ellittiche e funzioni abeliane
La teoria delle funzioni ellittiche esercitò un’influenza decisiva sulla teoria delle funzioni complesse,
perché si trattava di una branca ben sviluppata della matematica che la teoria delle funzioni complesse
prometteva di approfondire e semplificare. Essa emerse da quello che era stato, a partire dal 1790 circa,
uno degli interessi costanti di Adrien Marie Legendre. Per quarant’anni aveva pubblicato libri e articoli
sugli integrali ellittici, un argomento che occupava un posto da lungo tempo ben definito
nell’astronomia dell’epoca, dove tali integrali descrivevano la lunghezza d’arco lungo un’orbita
ellittica. Nei suoi Exercises [1817] e nel suo Traité [1827] li pose in relazione con molti problemi, tra
cui la rotazione di un solido attorno ad un punto fisso, l’attrazione esercitata da un elissoide omogeneo,
il moto rispetto a forze centrali, e il problema di determinare le geodetiche di un elissoide. Il Traité di
Legendre era una presentazione sistematica di nuove funzioni di una variabile reale che comprendeva
la loro definizione e le loro proprietà fondamentali, e tabulava i loro valori mostrando nello stesso
tempo la loro utilità nel risolvere problemi significativi di matematica applicata.
Legandre operò attivamente affinché L’Accademia delle Scienze di Parigi assegnasse il suo
Grand Prize della matematica a Carl Gustav Jacob Jacobi di Konisberg, allora venticinquenne, e alla
famiglia dello scomparso Niel Henrik Abel di Christiana (Abel era morto l’anno prima, all’età di 26
anni). Essi non soltanto avevano esteso le idee di Legndre, ma le avevano completamente riformulate
invertendo gli integrali (cosa che Legandre, pur sapendo che si poteva fare, non aveva mai saputo
apprezzare) e ammettendo la possibilità di considerare estremi di integrazione complessi (cosa che
Legendre non aveva mai fatto) . L’inversione è un processo familiare nella trigonometria. L’integrale
u=∫
v
dt
1− t2
definisce la funzione a più valori u(v)=arcsen(v), che si può utilizzare per definire, prendendone
l’inversa, la funzione v=sen(u). Allo stesso modo l’integrale ellittico più semplice e paradigmatico è
0
v
u=∫
dt
1− t4
che misura la lunghezza d’arco lungo la lemniscata r2=cos 2θ, che è una curva con la forma di un otto.
Esso definisce una funzione a più valori u(v), che si può utilizzare per definire, prendendone l’inversa,
una funzione doppiamente periodica v(u), che Gauss chiamò sl(v) per sinus lemniscatus.
0
La ragione per estendere questa funzione a valori complessi di v sta in un’apparente rottura
dell’analogia con le funzioni trigonometriche. L’equazione per la trisezione di un angolo
sen(x)=sen(α/3), ha tre soluzioni distinte per x in corrispondenza di ogni valore assegnato di α, mentre
la corrispondente equazione per sl(v) ha 9 soluzioni invece di 3. Questo suggerì a Gauss, Abel, e
Jacobi, ma non a Legendre, che le radici mancanti fossero complesse, e quindi che la funzione si
dovesse considerare come una funzione complessa.
Tuttavia, nel 1830, lo sviluppo di una teoria esplicita delle funzioni complesse era troppo
limitato per potervi attingere, e alla teoria di Cauchy mancava la trattazione degli integrandi a più
valori (come le radici quadrate negli integrali ellittici). La teoria sviluppata da Abel e Jacobi doveva
stimolare invece lo sviluppo della teoria delle funzioni complesse. Essi dimostrarono che le funzioni
ottenute invertendo l’integrale ellittico generale
x
u=∫
0
dt
(1 − c t )(1 + e 2 t 2 )
2 2
(per valori reali dei parametri c ed e) erano generalizzazioni interessanti e comprensibili delle funzioni
trigonometriche. Verificavano, per esempio, leggi di addizione analoghe a quelle della funzione seno.
(che esprime sen(u+v) in funzione del seno e del coseno di u e v). In effetti, procedendo in questa
maniera fu possibile estendere queste funzioni vennero estese da valori reali a valori complessi della
variabile. Questi sviluppi erano completamente formali e si dovevano rivelare per certi versi infondati
ad un’analisi successiva.
L’eccitazione che fece seguito al lavoro di Abel e Jacobi non turbò una persona: Gauss, che in
un famoso commento disse che Abel aveva percorso solo un terzo della strada. Questa osservazione
inaspettata venne alla luce solo con la pubblicazione postuma dei suoi quadernix. Uno dei problemi che
Gauss aveva risolto era la definizione di queste funzioni per valori complessi di c e di e, che gli permise
di dimostrare che le funzioni doppiamente periodiche più semplici, dalle quali si potevano costruire
algebricamente tutte le altre, sono funzioni ellittiche, e viceversa. Gauss aveva anche una migliore
comprensione del ruolo che spettava alle equazioni differenziali ordinarie lineari nella teoria delle
funzioni ellittiche. In entrambi i casi ciò era conseguenza del fatto che possedeva una teoria
geometrica delle funzioni di una variabile complessa.
Intorno al 1840 altri matematici, tra cui Cauchy e Cayley, cominciarono lentamente a
pubblicare le idee che Gauss teneva per sé. In seguito, come è stato già detto, Liouville dimostrò che
ogni funzione doppiamente periodica ha almeno due poli nel parallelogramma dei periodi, in un modo
che esemplificava il vantaggio di applicare la teoria generale delle funzioni alla teoria delle funzioni
ellittiche, e Briot e Bouquet scrissero un intero libro basando la teoria delle funzioni ellittiche sulla
teoria delle equazioni differenziali complesse. In seguito, la maggior parte degli autori ritennero che
fosse naturale sviluppare assieme le due teorie. Il punto di partenza per la teoria delle funzioni ellittiche
divenne così un aspetto della teoria più ampia e generale delle funzioni complesse, che giunse a
inglobare, nel suo sviluppo, la connessione con gli integrali ellittici. Questo accoppiamento divenne
così importante che la maggior parte degli autori di quel periodo parlava a riguardo di ‘teoria delle
funzioni’: la teoria delle funzioni del 19° secolo era la teoria delle funzioni complesse.
Così come gli integrali ellittici erano integrali di forma semplice che non si potevano
esprimere utilizzando le funzioni “note” nel 18° secolo, esisteva una vasta classe di integrali che non si
potevano esprimere nemmeno utilizzando le funzioni ellittiche. Anch’essi provenivano da qualcosa che
non era più complicato dei polinomi. Erano gli integrali della forma
∫ F ( x, y)dx
in cui le variabili (reali o complesse) devono soddisfare un’equazione del tipo G(x,y)=0 con F e G
funzioni razionali in x e y. Si ottiene un integrale ellittico quando G(x,y)=y2-f(x), f(x) è un polinomio di
grado quattro e F(x,y)=1/y. In generale si assume che il polinomio G sia assegnato e F sia variabilexi; i
matematici di orientamento geometrico parlavano di integrare funzioni definite sulla curva di
equazione G(x,y)=0.
Le difficoltà nella comprensione di questi integrali furono utilmente chiarite da Abel, in una
importante memoria che fu pubblicata solo nel 1845, 15 anni dopo la sua morte, quando Jacobi, venuto
a conoscenza della sua esistenza, spronò l’Accademia delle Scienze di Parigi a rovistare nei suoi
archivi per ritrovarla. Jacobi chiamò la memoria monumentum aere pereniis di Abel, ovvero
monumento più duraturo del bronzo. Le funzioni che furono introdotte in questa memoria sono dette
ancor oggi funzioni abeliane. Differiscono dalle funzioni ellittiche in un aspetto cruciale. Abel dimostrò
che esiste un numero p, determinato da G, tale che la somma di un numero qualsiasi di integrali
abeliani si può scrivere come somma di esattamente p di quelli. Nel caso degli integrali ellittici, p=1, e
l’inversione è facile. Ma quando p>1, ciò che Abel fece vedere e che Jacobi continuò a sfruttare, è che
la situazione è molto più complicata.
Nel caso più semplice si assume che gli integrali
∫ F ( x, y)dx
abbiano integrandi olomorfi in ogni punto. Esisteranno p integrali olomorfi siffatti, diciamo
∫ F ( x, y)dx, j = 1, … , p
j
Per ognuno di questi si consideri la somma di p integrali ottenuta fissando un punto iniziale arbitrario,
diciamo x0, e p punti finali x1,…,xp., ovvero
p
xi
∑ ∫ F ( x, y)dx
j
i =1 x
0
o meglio, la p-pla di tali integrali
p xi

 p xi
 ∑ F1 ( x, y )dx, … , ∑ F p ( x, y )dx 
∫
∫

 i =1 x
i =1 x
0
0


Questo oggetto, a prima vista intrattabile, è una funzione dei p numeri x1,…,xp, e il suo valore è un’altra
p-pla di numeri, diciamo y1,…,yp. La scoperta di Abel e Jacobi è che la funzione inversa, che esprime
x1,…,xp come funzione di y1,…,yp è una funzione 2p-volte periodica di p variabilixii.
I matematici rimasero a lungo sconcertati da queste funzioni. Ciò che conferì a Weierstrass la
reputazione internazionale e gli assicurò la posizione accademica a Berlino, fu il fatto di essere riuscito
per primo a dare una trattazione dettagliata di queste funzioni nel caso speciale in cui G(x,y) è della
forma y2 – un polinomio in x (detto, per ovvie ragioni, caso iperellittico). In seguito, nel 1857, Riemann
utilizzò la sua teoria delle funzioni complesse per generalizzare la teoria di Jacobi delle funzioni theta
al caso di più variabili, dando così la prima trattazione delle funzioni abeliane in generale.
Nonostante ciò le difficoltà tecniche nello studio delle funzioni abeliane rimasero formidabili,
e molto di quello che fu scritto è un tributo alla forza dell’ingegno analitico. Ciò che mancava era una
teoria delle funzioni complesse di più variabili capace di far luce sul problema nello stesso modo in cui
la teoria delle funzioni di una singola variabile complessa aveva semplificato la trattazione delle
funzioni ellittiche. Questa mancanza era avvertita acutamente, e un certo numero di matematici cercò di
ovviarvi, fra loro Weierstrass e Poincaré, ma alcuni successi parziali furono accompagnati da fallimenti
altrettanto notevoli.
Non esiste una generalizzazione semplice delle equazioni di Cauchy – Riemann al caso di più
variabili perché si ottengono più equazioni che variabili e manca un’intima connessione tra funzioni
analitiche e funzioni armoniche. Nella teoria di una variabile il teorema dell’applicazione di Riemann
stabiliva i domini possibili per una funzione; non fu possibile trovare un risultato analogo nel caso di
più variabili. Per una variabile il concetto di punto singolare è ricco di implicazioni, e la distinzione tra
poli finiti e singolarità essenziali è un fatto cruciale. Ancora nel 1900 si poteva dire molto meno nel
caso di più variabili. Le difficoltà sono esemplificate da una funzione semplice come x/y, che non
assomiglia ad una funzione con un punto singolare essenziale ma la cui reciproca è anch’essa diversa
da zero. Nel caso di una sola variabile c’è un teorema notevole di Cauchy su integrali e residui; per più
variabili la situazione fu chiarita intorno al 1880, e solo parzialmente, da alcuni risultati di Poincaré e di
Picard.
Fu possibile sviluppare una teoria locale delle funzioni a più variabili complesse utilizzando le
serie di potenze in più variabili e delle relative regioni di convergenza, ma anche il semplice risultato
che tali funzioni sono precisamente quelle che analitiche separatamente in ogni variabile fu dimostrato
in modo esatto solo nel 1905. Lo sviluppo della teoria fu fortemente rallentato dal fallimento generale
dei tentativi di trattare con le singolarità, in particolare di definire e chiarire la natura delle singolarità
essenziali. I punti singolari essenziali di una funzione di una variabile possono essere isolati o formare
un insieme denso, che in tal caso è un bordo naturale della funzione. Nel 1880, Weierstrass affermò che
anche le funzioni di più variabili possono avere punti singolari essenziali isolati, un errore che continuò
a persistere fino a quando fu corretto dal matematico italiano E. E. Levi nel 1910 e che dimostra come
era difficile questa branca della matematica. Anche la semplice osservazione che una funzione analitica
di più variabili non può avere una singolarità ordinaria in un punto isolato, che si dimostra
considerando la sua espansione in serie di Laurent, sembra che sia stata fatta per la prima volta da
Hurwitz solo nel 1897.
Analoghe difficoltà attendevano i tentativi di generalizzare direttamente la teoria delle
funzioni ellittiche e delle loro funzioni theta. Per giungere a risultati definitivi in questo senso si
dovette attendere fino al 20° secolo (v. …xiii). Sembra che in quegli anni la caratteristica peculiare di
questa branca della matematica fosse la sua complessiva mancanza di successi, piuttosto che una
qualsiasi delle sue sofferte vittorie.
6.2.6 Argomenti avanzati della teoria generale delle funzioni complesse
Nonostante l’esempio di Abel, a lungo si è scritto un integrale ellittico nella forma
z
∫
0
dt
(1 − t )(1 − k 2 t 2 )
2
dove il parametro k che appare è detto modulo. I periodi della corrispondente funzione ellittica, e
quindi del loro quoziente, sono naturalmente funzioni di questo parametro. Il quoziente si chiama
funzione ellittica modulare, e nel 1878 era già chiaro da molti anni che si trattava di un oggetto
fondamentale da prendere in considerazione in ogni tentativo di capire la teoria delle funzioni ellittiche.
Ma solo in quell’anno Dedekind fu in grado di dare una trattazione della funzione ellittica modulare
che non si basasse sulla teoria vasta e difficile delle funzioni ellittiche.
La teoria creata da Dedekind era molto geometrica, e ruotava intorno ad una funzione
(successivamente chiamata da Klein funzione j) definita nel semipiano {z | Im(z)>0}, che verifica una
semplice generalizzazione della condizione di periodicità:
 ατ + β
ν 
 γτ + δ

 = ν (τ )

dove
α β 


γ δ 
è una matrice a coefficienti interi e determinante 1. Associata ad una tale funzione esiste una regione
dove la funzione assume ogni suo possibile valore una ed una sola volta, detta regione fondamentale,
che nel caso in esame è delimitata da un semicerchio e da due rette verticali. Utilizzando questa
funzione Dedekind fu in grado di sviluppare una teoria quasi completa per rispondere a domande sui
periodi e sui moduli, del tipo seguente: che relazioni ci sono tra i moduli se il corrispondente rapporto
dei periodi è moltiplicato per un numero primo? Si trattava di problemi classici del campo, ma
l’approccio di Dedekind fu il primo approccio diretto, e rapidamente divenne standard.
L’anno successivo Klein diede un contributo significativo, ponendo in rilievo i legami con la
teoria dei gruppi. Le matrici della forma
α

γ
β

δ 
con coefficienti interi e determinante 1 formano un gruppo Γ contenente molti sottogruppi, tra i quali
quello, già noto a Gauss, delle matrici per cui α e δ sono dispari e β e γ sono pari, che formano il
sottogruppo delle matrici
α

γ
β  1 0
≡
 (mod 2)
δ   0 1 
Klein studiò come queste matrici agiscono geometricamente sul piano complesso. Esse spostano en
bloxivc la regione fondamentale e con essa pavimentano il semipiano superiore. Le regioni fondamentali
dei sottogruppi sono fatte da più copie della regione fondamentale della funzione j; queste formano un
nuovo tassello che viene mosso en bloc dal sottogruppo.
La scoperta più interessante di Klein riguarda il sottogruppo delle matrici
β  1 0

≡
 (mod 7)
δ   0 1 

La sua regione fondamentale si compone di 168 copie della regione fondamentale della
funzione j, formando un poligono a 14 lati mosso en bloc da Γ7. I lati che si toccano nella
pavimentazione definiscono coppie di lati nel tassello fondamentale che quando sono incollati assieme
danno origine ad una superficie di Riemann (in questo caso di genere 3). Il gruppo quoziente Γ/Γ7
trasforma la superficie in sé. A partire da una descrizione così esplicita della superficie di Riemann, la
prima di questo tipo, Klein fu in grado di determinare per essa un’equazione come curva nello spazio
proiettivo.
α
Γ7 := 
 γ
Poincaré cominciò indipendentemente nel 1880 un programma di lavoro che generalizzava di
gran lunga quello che era stato fatto, e creava una teoria profondamente geometrica delle funzioni
complesse. Egli aveva scoperto un altro modo di costruire triangoli e poligoni analoghi a quelli di
Klein, e aveva osservato che si spostavano sotto l’azione di gruppi opportuni in modo da ricoprire, di
solito, un disco. Inoltre questo disco aveva una struttura geometrica non euclidea invariante per
l’azione dei gruppi e quindi la corrispondente superficie di Riemann era localmente uguale a una
porzione di spazio non euclideo bidimensionalexv. Molto rapidamente lui e Klein congetturarono che
ogni superficie di Riemann corrispondesse esattamente ad un gruppo di questo tipo e viceversa. Questo
implicava che ogni superficie di Riemann si potesse ottenere da un poligono contenuto nella sfera di
Riemann, o nel piano complesso o nel disco unitario. Fu solo nel 1907 che questo risultato, il
cosiddetto teorema di uniformizzazione, fu dimostrato da Poincaré e Koebe.
Poincaré era stato condotto a questo lavoro dai suoi interessi nella teoria delle equazioni
differenziali ordinarie lineari, a quel tempo oggetto di un premio bandito dalla Académie des Sciences
di Parigi. Nel 1884 annunciò di aver scoperto una classe di funzioni che generalizzavano le funzioni
ellittiche e le funzioni theta, per mezzo delle quali si potevano esprimere le soluzioni di ogni equazione
differenziale lineare ordinaria a coefficienti algebrici; un risultato stupefacente, anche se difficoltà
formidabili si ergevano di fronte ai tentativi di applicare questa scoperta, o anche solo di controllare i
dettagli della dimostrazione (Poincaré era un visionario, incline a trascurare i dettagli delicati) .
Gli anni 80 del 18° secolo assistettero al rifiorire di interesse nei confronti della teoria delle
funzioni complesse, in particolare in Francia, dove la generazione di Poincaré e di Picard fu seguita,
nell’arco di quindici anni, da quella di Borel e di Hadamard. Nel 1879 Picard scoprì un miglioramento
notevole del teorema di Casorati – Weierstrass. Dimostrò che una funzione intera (definita su tutto il
piano complesso, finita e priva di punti singolari) assume ogni valore finito, eccetto al più uno, e che in
ogni intorno di un punto singolare essenziale una funzione assume ogni valore finito eccetto al più uno.
Il suo metodo faceva un uso intelligente della funzione ellittica modulare, e quindi sollevò il problema
di trovare una dimostrazione essenzialmente elementare, che non facesse uso di metodi apparentemente
estranei – i matematici cercano spesso questo tipo di dimostrazioni per essere sicuri di aver capito le
ragioni per cui un teorema è vero.
Il lavoro di Picard doveva stimolare molte ricerche sulle funzioni intere. Il giovane Hadamard
le mise in relazione con lo studio della funzione zeta di Riemann, mentre Borel fu il primo a dare una
dimostrazione elementare dei teoremi di Picard. La caratteristica fondamentale di questo lavoro
consiste nel problema di capire cosa dicono i coefficienti di una serie di Taylor sulla funzione che tale
serie definisce, e sulla natura dei punti singolari sul cerchio di convergenza o arbitrariamente vicini ad
esso. Darboux diede inizio a queste ricerche con la pubblicazione di una articolo sull’approssimazione
delle funzioni, che focalizzò l’attenzione sul modo in cui una serie di potenze diviene infinita sul suo
cerchio di convergenza. Questo stimolò Hadamard a scegliere come argomento della sua tesi di
dottorato le proprietà di una funzione definita da una serie di Taylor. Egli considerò una serie di
potenze con raggio di convergenza unitario, e studiò come la natura delle singolarità dipendesse dalla
rapidità con cui crescevano i coefficienti. Tra i risultati contenuti nella tesi c’erano condizioni
necessarie e sufficienti sugli an perché un dato punto sul cerchio di convergenza fosse una singolarità.
La principale tra queste è il teorema delle lacune di Hadamard, che afferma che se c’è una costante
λ >1 tale che per tutti i k, ak+1/ak≥λxvi allora la serie definisce una funzione che ammette il cerchio come
bordo naturale.
Nel 1892 Hadamard pubblicò il famoso articolo sulle funzioni intere che gli valse il Gran
Prix. Ciò che gli assicurò la gloria fu la dimostrazione rigorosa, contenuta in questo lavoro, di uno dei
punti chiave che Riemann utilizzò senza dimostrare nello studio della funzione ζ. Subito dopo Emilie
Borel iniziò la pubblicazione di una serie di articoli sulla teoria delle funzioni intere. Raffinò e
semplificò le definizioni relative alla descrizione della crescita di una funzione al crescere del modulo
della variabile, e utilizzò i delicati risultati di Hadamard sul posizionamento degli zeri di una funzione
intera e le proprietà del concetto di ordine per dare una dimostrazione del piccolo teorema di Picard.
6.2.7 Il predominio della teoria delle funzioni complesse
L’analisi, per ragioni legate all’ampiezza dello spettro delle sue applicazioni e al carattere matematico
universale del concetto di funzione è stata, se non la principale, una delle branche importanti della
matematica fin dall’invenzione del calcolo differenziale ed integrale. Nel corso del 19° secolo, l’analisi
venne sempre di più ad assumere il significato di analisi complessa; molte delle sottigliezze e delle
applicazioni dell’analisi reale sono creazioni degli ultimi anni del 19° secolo o dei primi anni del 20°
secolo.
Non c’era, naturalmente, convergenza di opinioni sul contenuto dei programmi per
l’insegnamento della matematica nel 19° secolo. C’erano però due centri dominanti; le due Grandes
Écoles di Parigi e l’Università di Berlino. Nella seconda metà del 19° secolo i leader riconosciuti dei
matematici francesi scrissero i loro Traité, di solito in tre volumi, il cui contenuto sopravanzava di
molto il programma svolto nei relativi corsi. La fama di quelli di Jordan e di Picard è arrivata fino ai
giorni nostri. La terza edizione di quello di Jordan fu ristampata fino al 1959, ben dopo la sua morte. Il
primo volume comincia con i fondamenti del calcolo differenziale, prosegue con le funzioni di una sola
variabile complessa e si conclude con le applicazioni alla geometria (una combinazione molto francese,
nel solco della tradizione della École Polytechnique). Il secondo volume, sul calcolo integrale, copre
argomenti quali gli integrali di Eulero, gli integrali di Fourier, e il teorema di Green, ma metà del
volume riguarda ancora la teoria delle funzioni ellittiche. Il terzo volume è sulle equazioni differenziali,
parziali e ordinarie, reali e complesse. Il Traité di Picard è diverso ma non meno complesso: è il punto
in cui la teoria delle superfici di Riemann fece il suo ingresso nei programmi francesi.
A Berlino Weierstrass teneva un corso di lezioni strutturato in quattro semestri. Copriva
l’analisi reale, fondamenti compresi, l’analisi complessa, le funzioni ellittiche ed abeliane e alcune
applicazioni (principalmente quelle di Legendre), e veniva rivisto ogni due anni. Tra le altre figure
dominanti a Berlino, sia Kronecker che Kummer erano per lo più associati all’analisi complessa, e dei
loro successori, se Schwarz lavorava sia sul versante reale che su quello complesso, Fuchs si occupava
esclusivamente di analisi complessa.
Naturalmente, questa enfasi si rifletteva anche altrove. Il ciclo di lezioni di Klein, sviluppato a
Gottingen in diretto antagonismo, si sospetta, con quello di Weierstrass, era prevalentemente dedicato
agli aspetti complessi. È più facile nominare autori inglesi e americani di testi di analisi complessa
piuttosto che di analisi reale (Forsyth, Harkness e Morley), e lo stesso vale in Italia (per esempio
Pincherle). Così è ragionevole domandarsi perché.
Una risposta è che la geometria del tempo era naturalmente algebricaxvii. Il teorema
fondamentale dell’algebra ricompensa chiunque scelga i numeri complessi invece dei numeri reali, e di
conseguenza, ogni teoria geometrica delle soluzioni delle equazioni polinomiali diviene complessa in
modo naturale. Si potrebbe pensare che questo sviluppo possa realizzarsi solo pagando un prezzo,
quello di dover affrontare difficoltà maggiori nell’applicazione della teoria ai problemi del mondo reale
Questa supposizione assume per prima cosa che il mondo reale accetti solo numeri reali come risposte,
e poi che questo sia necessariamente un prezzo da pagare. Entrambe le supposizioni devono essere
ridimensionate. Cominciamo dalla seconda: in un momento di crescente autonomia della matematica
pura, il fatto che una teoria ben sviluppata producesse risposte complesse, forse inutili, non è
necessariamente da condannare. Il punto di vista dell’epoca era duplice. Innanzitutto una teoria
complessa poteva offrire risposte che una teoria reale non poteva dare; è meglio, dopo tutto, avere
risposte complesse a un problema, piuttosto che sapere solo che non esistono risposte reali. E poi non
esisteva alcuna opposizione alla creazione di una teoria reale, ma la saggezza generata dall’esperienza
suggeriva che le risposte, e perfino i problemi, potevano essere per loro stessa natura complessi.
Questo ci riporta alla prima supposizione; che la matematica applicata richieda i numeri reali.
Questo è falso da tutti i punti di vista. Per esempio, un’applicazione così comune che non è stata
neppure degna di essere menzionata finora, consiste nel semplice trucco formale secondo cui una
coppia di numeri reali x e y si possono fondere insieme in una singola quantità complessa x+i y. Un
passo oltre questa osservazione banale è il teorema di de Moivre: eiθ=cos θ + i sen θ. Durante il
19°secolo questa notazione è onnipresente nelle applicazioni delle serie di Fourier. Non c’è motivo di
conferirgli la dignità di capitolo della teoria delle funzioni complesse, ma è complessa in ogni caso, ed
è abituale sentire i fisici che parlano di fase della luce in termini complessi. Basandosi sul precedente
lavoro di Fresnel, Cauchy introdusse la prima quantità fisica genuinamente complessa quando discusse
la riflettivitàxviii dei metalli. Un altro esempio, anche se dei primi anni del 20° secolo, può aiutare a
chiarire questo punto: la teoria delle correnti alternate era molto più complicata della semplice algebra
delle correnti continue e fu ampiamente formulata da Steinmetz attraverso gli esponenziali complessi.
Lo stesso trucco notazionale di scrivere z=x+i y e dz=dx+i dy si dimostrò molto utile nella teoria delle
mappe conformi e quindi nella cartografia teorica.
Divenne chiaro con la teoria delle funzioni ellittiche che tali funzioni e gli integrali ellittici
associati, erano necessariamente complessi. Questo non diminuì la loro utilità, e non ci fu mai nessuno
che suggerisse che fosse necessaria una teoria reale per giustificare il loro utilizzo nel mondo reale. Le
prime esposizioni sistematiche delle funzioni di Bessel, quelle di Lommel e C. A. Neumann,
utilizzarono in maniera sistematica il teorema integrale di Cauchy e trattarono automaticamente le
funzioni come funzioni di variabile complessa. Anche lo stretto legame tra le funzioni complesse e le
funzioni armoniche contribuì a rendere naturale la teoria complessa. Maxwell l’aveva chiamata in
causa nel suo Treatise on Electricity and Magnetism. Klein scrisse e tenne lezioni sull’approccio di
Riemann alla teoria delle funzioni complesse, partendo dall’elettrostatica. All’altro estremo dello
spettro, negli anni 90 del 19° secolo, il pioniere russo dell’aeronautica, Zhokovskii, osservò che le
funzioni della forma
w = az +
b
z
potevano trasformare in modo conforme il cerchio unitario in una varietà di forme aventi
approssimativamente l’aspetto di un profilo alare. Il flusso attorno ad un cerchio si ottiene facilmente e
da questo Zhokovskii fu in grado di analizzare altri profili alari, stimandone la portanza generata.
Zhokovskii si avvaleva anche dei primi esperimenti nella galleria del vento che mostrarono la
discrepanza (considerevole) tra la teoria e l’ esperienza.
Non bisogna sovrastimare quanto la matematica si facesse, per così dire, complessa nel 19°
secolo, ma ciò nonostante è una tendenza da mettere in rilievo. Nei 60 anni tra il 1859 e il 1919 furono
scritti almeno 60 libri sull’argomento, in almeno 8 lingue. La Germania, naturalmente, era alla testa di
questa tendenza, seguita dalla Francia. I testi inglesi e americani erano all’incirca tanti quanti quelli
italiani. Esistevano poi testi russi, spagnoli, polacchi e danesi. I testi tedeschi da principio seguirono
l’approccio di Riemann, quindi tennero banco i seguaci di Weierstrass, finché molti autori provarono a
fondere i due approcci. I Francesi dovettero attendere a lungo qualche autore che assimilasse quello che
Riemann aveva cercato di dire. Solo gli Italiani, tra le altre nazioni, annoveravano ricercatori di punta
nel campo della teoria delle funzioni complesse, e quindi i testi di Casorati, Bianchi e Pincherle
rivestono un significato speciale, anche se gli ultimi due sono piuttosto tardi (1989-1901). Gli autori
inglesi e americani sembrano più che altro discepoli volenterosi. Forsyth provò a unificare le tre teorie
principali, quelle di Cauchy, Riemann e Weierstrass, ma Osgood trovava che la sua trattazione
lasciasse a desiderare. Harkness e Morley, d’altra parte, seguirono deliberatamente l’approccio di
Weierstrass, sebbene si debba notare che una traduzione inglese del testo di Durège fosse stata
preparata per il mercato americano nel 1896.
Per mettere ordine in questa abbondanza, si possono scegliere alcuni argomenti
rappresentativi, e citare appena gli altri, dando così un’idea di come si andasse sviluppando la teoria.
Tutti gli autori francesi, quelli come Lindelof che scrivevano in francese e i tedeschi attratti
dall’approccio di Riemann, (come Durège e Carl Neumann intorno al 1860 e successivamente
Koenigsberger), definivano una funzione complessa ponendo condizioni sulla derivata. Per ottenere i
risultati necessari sulle serie di potenze, dimostravano il teorema integrale di Cauchy e la formula
integrale di Cauchy. Ciò permetteva di dimostrare che gli zeri di una funzione complessa devono essere
isolati, e quindi che una funzione complessa costante su un dominio D, piccolo a piacere, è costante su
ogni dominio semplicemente connesso contenente D. Altri risultati fondamentali contemplano il
teorema dell’indicatore logaritmico di Cauchy, pubblicato nel 1855, che afferma che il numero degli
zeri meno il numero dei poli della funzione f all’interno di una curva chiusa coincide con l’integrale
1
2πι
∫
f'
1
=
d log f
f
2πι ∫
lungo la curva chiusaxix; e infine il principio del massimo: il massimo modulo di una funzione
complessa definita su un dominio, se esiste, viene assunto sul bordo del dominio stesso. Applicazioni
tipiche includevano il teorema fondamentale dell’algebra (come era stato dimostrato da Gauss, Cauchy
o in qualche altro modo), il teorema di Liouville e la caratterizzazione delle funzioni razionali a partire
dai loro zeri e poli (dimostrato da Briot e Bouquet).
Le differenze maggiori tra questi autori riguardavano le applicazioni. Per Briot e Bouquet
erano essenzialmente le funzioni ellittiche. Altri autori ritornarono alle motivazioni originali di Cauchy
enfatizzando l’uso dei metodi complessi per valutare gli integrali reali. Durège aveva lo scopo di
esporre la teoria di Riemann dei moduli, e riscriveva quella parte del suo libro ad ogni nuova edizione.
Autori successivi nel solco della tradizione riemanniana, sono Harnack e Lipschitz.
Gli autori della scuola di Weierstrass avevano a disposizione i vari cicli di lezione del maestro
come punto di partenza per le loro elaborazioni e siccome a queste lezioni partecipavano fino a 200
persone, possiamo assumere che quasi tutti i matematici tedeschi e un buon numero di matematici
stranieri fossero a conoscenza dei suoi principi. Tra gli effetti positivi del suo insegnamento c’era la
distinzione tra poli finiti e singolarità essenziali, e di conseguenza il teorema di Casorati – Weierstrass,
insieme ad una significativa critica implicita delle discussioni fuorvianti degli autori precedenti sul
fatto che funzioni come e1/z assumessero nell’origine ogni valore in dipendenza del modo in cui ci si
avvicinava a zero. Tra gli effetti negativi c’era la rinuncia ad utilizzare il teorema integrale di Cauchy e
le conseguenti contorsioni per dimostrare il teorema di Laurent. Il primo libro nello stile di Weierstrass
fu quello di Thomae del 1880. Egli ne fece seguire una seconda edizione nello stesso spirito nel 1898,
che indusse Fricke, uno stretto collaboratore di Klein, a commentare che agli studenti poteva risultare
più semplice l’approccio basato sulle idee di Cauchy. Il libro di Fricke del 1900, rivolto ai matematici
applicati, era conforme a quella ipotesi, e approfondiva le applicazioni delle funzioni ellittiche. È
interessante il fatto che Thomae scrisse un libro sulla teoria delle funzioni complesse nel 1890 che era
completamente nello spirito di Riemann, suggerendo che gli studenti dovessero cominciare con il
rigore di Weierstrass e quindi acquisire il gusto per l’ispirazione di Riemann. Il libro di Biermann del
1887 era ancor più ligio all’ortodossia di Weierstress, e doveva divenire il miglior approccio iniziale
alla teoria perchè Weierstrass non scrisse mai un’esposizione delle suo punto di vista. Si davano le
dimostrazioni tipiche di Weierstrass del teorema di Liouville (senza che gli venisse attribuito il nome di
Liouville) e del teorema fondamentale dell’algebra, che veniva dedotto dal teorema di Casorati –
Weierstrass.
Tra gli autori italiani, Pincherle e Bianchi presentarono una miscela dell’approccio di CauchyRiemann e di quello di Weierstrass da cui partivano per presentare una varietà argomenti più avanzati.
Fu lasciato a Vivanti il compito di scrivere un’esposizione ortodossa della teoria di Weierstrass, che
Gutzmer commentò così favorevolmente nel 1901, da accantonare l’idea di scrivere lui stesso un libro
del genere e pubblicò invece una traduzione rivista e allargata del libro di Vivanti nel 1906. Un
commentatore francese, probabilmente Jules Tannery, si lamentava che, a differenza dei geometri, che
si muovevano ormai felicemente tra metodi analitici e sintetici, gli analisti geometrici e algebrici
sembravano sempre distanti tra loro.
Il desiderio di unificazione in questa materia era ormai maturo per realizzarsi. Nel 1900
Weierstrass e gli altri fondatori della grande scuola matematica di Berlino la matematica erano ormai
morti, e la loro tradizione si andava dissolvendo. Il libro di Burkhard del 1897, che fu ristampato in 4
edizioni, cominciava con il modo di Riemann di presentare le cose, e quindi passava ad una
presentazione più precisa, alla maniera di Weierstrass. Inoltre, il centro universitario dominante in
Germania, stava rapidamente diventando Göttingen, dove lo spirito era dichiaratamente riemanniano.
David Hilbert tenne a Göttingen un corso di lezioni nel 1896/97 sulla teoria delle funzioni complesse, e
le annotazioni ai suoi appunti mostrano che egli raccomandava il libro di Durège per una prima
introduzione, e con maggior calore l’Abriss di Thomae del 1890 per l’approccio di Cauchy - Riemann e
il libro del [1888] di Thomae per l’approccio di Weierstrass. Affermava che il libro del [1886] di
Biermann era meno affidabile, e secondo le note di un altro studente aggiungeva che Burkhardt era il
testo raccomandato per l’acquisto. Venivano anche elogiati il Traité di Jordan e quello di Picard. Una
tale panoramica sulla letteratura era l’antitesi dell’approccio di Berlino, dove i professori avevano
preferito rielaborare il materiale e produrre la loro (si potrebbe dire “la”) versione, senza riferimenti che
suggerissero percorsi alternativi. Questo è un approccio marcatamente autoritario per tenere i propri
studenti lontani dall’errore.
Il corso di Hilbert è uno dei primi ad offrire qualcosa che incontri il consenso moderno. I libri
che fanno così sono quelli di Knopp del 1918 e di Bieberbach del 1921 in Germania e l’esposizione
francese, meno rigorosa, di Goursat del 1902.Una dimostrazione della maturità raggiunta dalla
tradizione risulta evidente quando si rifletta che tutti i testi moderni compiono più o meno lo stesso
percorso di quelli citati nell’approccio alla materia. Il testo di Ahlfors è tipico, e le note tra parentesi ne
sottolineano gli aspetto più moderni. Vengono definiti i numeri complessi e vengono illustrate le loro
operazioni algebriche fondamentali, quindi si definisce una funzione olomorfa come una funzione che
ha una derivata (non necessariamente continua); essa soddisfa perciò le equazioni di Cauchy Riemann
(su qualche dominio da determinare). Il primo risultato fondamentale è il teorema integrale di Cauchy,
dimostrato utilizzando il metodo di Goursat (si discute una questione profonda sulla classe rilevante di
cammini chiusi, e l’argomento del numero di avvolgimentixx). Segue la formula integrale di Cauchy,
utilizzando la quale si dimostra che una funzione olomorfa è infinitamente differenziabile e ammette
una espansione in serie di Taylor; il principio del massimo modulo viene utilizzato per garantire la
convergenza. Viene sviluppata la teoria dei poli di ordine finito: il teorema dei residui di Cauchy, gli
sviluppi in serie di Laurent, e il conto degli zeri e dei poli interni ad una regione. Vengono quindi
descritte le singolarità essenziali e viene dimostrato il teorema di Casorati Weierstrass. Alcuni
argomenti ulteriori sono a questo punto a portata di mano; tra questi, il teorema di Liouville, il teorema
di Morera e il teorema della singolarità eliminabile di Riemann.
Questo è un mero elenco degli argomenti che costituiscono il nucleo elementare della teoria
delle funzioni complesse, secondo l’opinione generale. Esiste una certa flessibilità sui complementi;
alcuni introducono un capitolo sulle funzioni armoniche, altri no. Il libro di Ahlfors segna il punto in
cui il legame con le funzioni ellittiche venne rescisso; egli rinvia il lettore al libro di Copson del 1935.
Il cambiamento riflette il consenso che, a partire dal 1950, esiste sui programmi; c’è un nucleo
fondamentale della materia e oltre a questo non una ma molte aree di applicazione e di
approfondimento della teoria. Queste si possono trattare in un secondo volume o il lettore può essere
rinviato ad altri autori. Tra gli argomenti di questo genere ci sono le funzioni ellittiche, il
prolungamento analitico, la teoria delle funzioni intere e delle funzioni meromorfe, e il teorema
dell’applicazione di Riemann; le funzioni algebriche e le superficie di Riemann compatte, le famiglie
normali; i teoremi di rappresentazione di Weierstrass e di Mittag-Leffler.
i
Il riferimento è ad un articolo della Storia della Scienza che presumo verrà tradotto con Algebra dei
polinomi.
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ii
Ho corretto un errore nella formula originale. L’altro valore riportato da Gray,
, non è radice di –
2
2, come si verifica immediatamente. D’altra parte è ben noto che le radici cubiche di un numero
complesso non nullo sono tre, quindi sono solo quelle che ha già scritto. Toglierei quindi la frase “A
different account ...”
iii
Credo che “continuig the hole” nell’originale sia errato e vada sostituito con “containing the hole”.
iv
C’è un errore della nella formula dell’originale che ho corretto, ha scambiato x con y.
v
La definizione di Gray è errata. non comprende le curve chiuse, che poi gli servono.
vi
La descrizione del procedimento di dissezione è a mio avviso troppo concisa. Ritengo opportuno un
riferimento bibliografico. Suggerisco l’articolo Analysis Situs di Oscar Chisini apparso nel volume III
dell’Enciclopedia Treccani, che contiene anche delle figure molto chiare, in particolare il paragrafo
Varietà a due dimensioni.
vii
Non capisco il senso della frase.
viii
Non capisco il senso della frase.
ix
Nella formula ho corretto un errore dell’originale
x
Non sono sicuro della traduzione di questa frase.
xi
Eviterei di scrivere “il polinomio F” perché Gray ha appena discusso un esempio in cui F non è un
polinomio.
xii
Ho corretto una inconsistenza nella notazione di Gray, che ha invertito le x con le y.
xiii
Nell’originale manca il riferimento
xiv
Si può tradurre in blocco.
xv
Ho aggiunto qualcosa all’originale per chiarire il senso del discorso.
xvi
Ho corretto un’incongruenza di notazione nell’originale.
xvii
La traduzione letterale è priva di senso. Credo che ci sia un errore nell’originale e che geometria
debba sostituire algebra.
xviii
Reflectivity
xix
Ho corretto la formula dell’originale che era sbagliata.
xx
Si usa abitualmente il termine inglese winding number invece di numero di avvolgimenti.
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6.2 Analisi complessa - Dipartimento di Matematica