6.2 Analisi complessa Jeremy Gray, Open University, England 6.2.1 Introduzione Una delle caratteristiche salienti del progresso della matematica nel 19° secolo è lo sviluppo dell’analisi complessa. Lo studio delle funzioni complesse di una variabile complessa venne affrontato sporadicamente nel corso del 18° secolo; i numeri complessi furono introdotti nello studio delle funzioni trigonometriche, nell’integrazione delle funzioni razionali, nella teoria dei numeri (con riferimento all’ultimo teorema di Fermat) e nello studio delle applicazioni conformi (e nella cartografia teorica). Molto spesso però, l’uso dei numeri complessi aveva un carattere più formale che sostanziale, in accordo con la tendenza predominante del 18° secolo verso l’algebra. Nel 19° secolo venne creata una ricca teoria delle funzioni complesse, e l’analisi complessa raggiunse uno stato di parità con l’analisi reale. Ciò è dovuto in parte al fatto che è possibile passare dal dominio reale a quello complesso in modo facile e matematicamente naturale, e in parte al fatto che transizioni di questo tipo si dimostrarono proficue (per esempio nello studio delle equazioni polinomiali dal punto di vista geometrico e in quello strettamente collegato delle funzioni armoniche). Il percorso tortuoso che portò alla delucidazione della teoria dei numeri complessi si estende attraverso un arco di tempo che va dal 16° secolo alla metà del 19° secolo (v. Algebra dei polinomi).i Lo studio delle funzioni complesse procedette a lungo in maniera indipendente perché, per la maggior parte dei matematici i problemi con i numeri complessi emergevano con il loro utilizzo, non in algebra, ma nella teoria delle funzioni. D’Alambert ed Eulero, per esempio, discussero a lungo sul significato da assegnare al logaritmo di un numero complesso. D’Alembert insisteva che ogni numero complesso dovesse avere un unico logaritmo; Eulero assunse la posizione, che alla fine prevalse, secondo cui il logaritmo di un numero complesso doveva avere infiniti valori. Ancora nel 1843, Gauss insisteva sulla differenza che esiste tra definire i numeri complessi e rappresentarli come punti del piano. Questa distinzione sottile non impedì a Gauss di creare una teoria delle funzioni di variabile complessa fondata su considerazioni geometriche. Infatti, annullare questa distinzione senza preoccuparsi eccessivamente delle sue implicazioni filosofiche fu la strada seguita da molti matematici attratti dallo studio delle funzioni complesse. Tornando a Gauss, come risulta dalla corrispondenza con l’astronomo Bessel nel 1811 (Werke, X.1, 366), egli chiedeva a chiunque intendesse introdurre una nuova funzione in analisi, di spiegare: se intende calcolarla solo per quantità reali, e i valori immaginari dell’argomento si presentano, per così dire, come un effetto secondario, o se è d’accordo con il mio principio che gli immaginari devono godere degli stessi diritti dei reali nel dominio delle quantità. Non è una questione di utilità pratica, secondo me l’analisi è una scienza indipendente. Trascurando le quantità immaginarie perde molto in bellezza e semplicità; verità che altrimenti varrebbero in generale, devono essere necessariamente condizionate a pesanti restrizioni. Il fatto che Gauss passi nella stessa frase da quantità immaginarie a verità generali è una indicazione evidente della tensione che esisteva tra la matematica ed una qualsiasi filosofia della matematica. Come possono oggetti immaginari condurre a verità? Innanzitutto, come indicazione delle verità che aveva in mente, Gauss continuava nella sua lettera a Bessel con una discussione degli integrali complessi. Dopo aver osservato che il valore di un integrale complesso dipende dal cammino che congiunge i suoi estremi, scriveva: L’integrale ∫φ(x)dx lungo due diversi cammini di integrazione avrà sempre lo stesso valore se non accade mai che φ(x)= ∞ nello spazio compreso tra le curve che rappresentano i cammini. Questo è un bel teorema di cui intendo dare la dimostrazione, non troppo difficile, al momento opportuno. … In ogni caso questo fatto chiarisce immediatamente perché una funzione definita a partire da un integrale ∫φ(x)dx possa avere più valori in corrispondenza di un singolo valore di x, perché è possibile girare attorno ad un punto in cui φ(x)= ∞, una, nessuna, o più volte. Per esempio, definendo log x come ∫dx/x, partendo da x=1 si può arrivare a log x senza girare intorno al punto x=0, girandoci intorno una sola volta, o girandoci intorno più volte; ogni volta bisogna sommare la costante 2πι o -2πι. In questo modo è chiaro perché un numero complesso ha molti logaritmi. In questo caso la verità non riguarda tanto il fatto che il logaritmo è una funzione a più valori di una variabile complessa, quanto il fatto che la ragione di ciò si debba ricercare negli aspetti geometrici del problema. La rappresentazione delle quantità immaginarie è all’origine della verità, e Gauss era sempre stato attento a porre in rilievo l’importanza di trovare le giuste ragioni profonde. Come quando abbiamo parlato della natura fittizia dei numeri complessi, dobbiamo di nuovo osservare l’inadeguatezza della filosofia, o meglio dobbiamo notare che il contrasto tra la nuova teoria delle funzioni complesse e la vecchia filosofia della matematica, adeguata per la geometria classica e per l’aritmetica, non era più conciliabile. Come in molti altri dibattiti filosofici, non ci fu mai un confronto decisivo; lo stile di questi dibattiti non è quello della pubblica abiura. Ci fu invece uno spostamento, segnato nella maniera più evidente dai lavori di Riemann e del suo precursore filosofo Herbart, verso la semplice accettazione delle grandezze bidimensionali, e più in generale ndimensionali, come grandezze fondamentali. Non furono solo i numeri complessi che portarono a questo cambiamento. Contribuì anche, nella prima metà del 19° secolo, la preistoria del calcolo vettoriale. Restano da fare due osservazioni conclusive. La filosofia algebrica formale della matematica non scomparì completamente, infatti resta viva in varie forme ancor oggi. Per quanto riguarda la storia delle della teoria delle funzioni complesse, la distinzione pratica che bisogna fare è quella tra teorie algebriche e teorie geometriche. Infine, ci possiamo domandare perché la natura di √(−1) fosse diventato un problema così urgente negli anni immediatamente successivi il 1800. L’assenza dei matematici principali dal dibattito suggerisce che a focalizzare l’attenzione sui fondamenti non furono i problemi originati dalle ricerche avanzate sull’argomento. È più verosimile che la lenta crescita di interesse nei numeri complessi durante il 18° secolo avesse semplicemente reso d’attualità il problema. Ma la singolare preponderanza di nomi francesi suggerisce un altro punto di vista. Nello scompiglio generale seguito alla rivoluzione francese, può darsi che molti vecchi luoghi comuni venissero finalmente ritenuti criticabili. Questa possibilità viene meno salvo che si permetta ai matematici rivoluzionari di mantenere una visione politica reazionaria – cosa che Cauchy dimostrò per tutta la vita. Anche se non si vuole ascrivere tale nobile causa a un dibattito così oscuro, si può ancora notare che a partire dal 1795 il regime francese assegnò alla matematica un rango elevato e produsse un gran numero di matematici con un elevato livello di istruzione. Ad essi furono riservati impieghi nel campo dell’istruzione superiore e tra il personale più qualificato del genio (civile e militare), e furono fondate nuove riviste per pubblicare le loro idee. Non ci si può sorprendere del fatto che alcuni di loro, realizzando che dopo tutto la filosofia dei numeri complessi non era stata ancora adeguatamente capita, volessero suggerire le loro spiegazioni. 6.2.2 Origini della teoria delle funzioni complesse: Il primo lavoro di Cauchy nell’ambito dell’analisi complessa fu una memoria presentata all’Institut de France nel 1814 sulla valutazione degli integrali reali impropri quando uno o entrambi gli estremi di integrazioni sono infiniti. Tali integrali erano stati considerati da Eulero, Laplace e Poisson e negli Exercise de calcul intégral (1811) di Legendre, e Cauchy osservò che in molti casi gli integrali venivano calcolati “per mezzo di una sorta di induzione” basata sul “passaggio dal reale all’immaginario”. Cauchy condivideva il punto di vista di Laplace secondo cui a questo metodo mancava una dimostrazione rigorosa e si impegnò nel tentativo di fornirne una. Basò il suo tentativo sull’analisi formale delle funzioni di due variabili reali, e in particolare delle funzioni che soddisfano quelle che oggi chiamiamo le equazioni di Cauchy – Riemann (proposte da Cauchy in una oscura forma generalizzata). In quel periodo era piuttosto comune veder apparire le equazioni di Cauchy Riemann in questo contesto; ma né Cauchy nel suo lavoro, né altri in quel periodo si resero conto della loro importanza fondamentale. Il modo in cui una funzione reale poteva essere estesa ad una funzione complessa emerse più per caso che per un disegno preciso, e questa può essere la ragione per cui Legendre e Poisson, nella loro relazione sulla memoria, ritennero che la spiegazione di Cauchy e le illustrazioni del suo metodo non contenessero nulla di nuovo. Legendre ritenne invece più originale la seconda parte della memoria. In essa Cauchy discuteva la possibilità di invertire l’ordine di integrazione per valutare un integrale doppio. Cauchy focalizzò l’attenzione sui punti singolari della funzione integranda, dove la funzione da integrare diventa infinita, e mostrò che in certi casi si ottengono due valori distinti e ben determinati, a seconda dell’ordine di integrazione. Queste scoperte furono alla base di due delle teorie importanti di Cauchy: quella degli integrali singolari (integrali reali per i quali la funzione integranda diventa infinita) e quella dei poli e dei residui delle funzioni analitiche. Cauchy cominciò ad insegnare alla Ecole Polythechnique nel Novembre del 1815, nel 1816 gli fu conferito l’incarico di professore di ruolo, e continuò ad insegnare presso quell’istituto fino al 1830. Era quindi tenuto a scrivere libri di testo per gli studenti, e nel 1821 pubblicò il Cours d’analyse sull’analisi algebrica1, seguito dopo due anni dal Resumé (1823) sul calcolo differenziale ed integrale. I capitoli VII e XII del Cours contengono quella che Cauchy chiamava “una nuova teoria degli immaginari”. Nel capitolo X diede una dimostrazione del teorema fondamentale dell’algebra, che aveva già presentato in un articolo [1817b] e che diceva di aver tratto da Legendre (1808). Come era piuttosto comune in quel periodo, Cauchy definiva i numeri immaginari come ‘espressioni simboliche’ della forma α+β√−1, dove α e β sono quantità reali (1821a, 173-176), ma definiva i concetti matematici e le operazioni per queste “espressioni” in modo molto più preciso dei suoi predecessori. Una delle ragioni per cui la sua trattazione era così ampia, un totale di 55 pagine, va ricercata nella sua sensibilità nei confronti dei problemi sollevati dalla non univocità delle potenze razionali dei numeri immaginari, che per profondità andava ben oltre le idee dei suoi contemporanei. Un problema molto dibattuto riguardava (2cos x)m per m razionale. Lagrange aveva proposto un metodo per sviluppare questa funzione in serie di potenze, che sembrava produrre un solo valore, ma la sua opinione troppo ottimista doveva essere contraddetta da un controesempio ottenuto da S. D. Poisson, che era stato suo studente, considerando il caso m=1/3 e x=π. Da 2mcosmx si ottiene 21/3(-1)1/3 e quindi, dalle formule di De Moivre, tre valori complessi distintiii: 1+ i 3 , − 2 1 / 3 , 2 1 / 3 1 − i 3 21 / 3 2 2 Sebbene Poisson avesse identificato in modo convincente gli errori di Lagrange, non era stato capace di correggerli, e col passare del tempo un numero sempre più grande di matematici si trovò ad affrontare problemi simili. Senza dubbio Cauchy aveva ben presente questo dibattito quando cominciò a scrivere il Cours. Per lui fu abbastanza semplice definire le funzioni razionali di una variabile immaginaria e dare significato a xa (quando a è un numero razionale), ma giudicò completamente inadeguati i metodi convenzionali quando giunse al punto di definire le funzioni logaritmiche e trigonometriche di una variabile complessa. Allo scopo propose di utilizzare le serie di potenze. Per prima cosa definì le serie di potenze di una variabile reale a coefficienti complessi, poi estese la teoria al caso di una variabile complessa. Stabilì la convergenza della serie geometrica a termini immaginari ∑z n n (cos nϑ + − 1sen nϑ ) per valori reali di z tali che |z|<1, quindi affermò, sulla base di un teorema che successivamente si dimostrò essere falso, che la somma di questa serie è funzione continua di z in quell’intervallo. Poi mostrò come estendere la teoria a valori complessi di z, e finalmente definì Az, sin z e cos z per valori immaginari di z. Attraverso questo procedimento complicato ma rigoroso Cauchy definì le funzioni algebriche e trascendenti elementari di una variabile complessa. Ma non disse nulla sulla possibilità di dare una definizione generale di funzione complessa di una variabile immaginaria. Questa doveva rimanere la difficoltà mai sufficientemente chiarita nella sua ricerca matematica per circa vent’anni. Negli anni immediatamente successivi, Cauchy intraprese molti studi sull’integrazione, che culminarono nel il suo capolavoro, l’articolo del 1825 sugli integrali in un dominio complesso, stranamente pubblicato solo come opuscolo e non in una rivista (Cauchy 1825a). In esso si riferiva alla Memoria del 1814 (non ancora pubblicata) e ad altri suoi articoli per l’interpretazione che dava degli integrali del tipo X ∫ f ( x)dx x0 dove x0 e X sono limiti reali ma f(x) può essere funzione a valori reali o immaginari della variabile x. In un altro dei momenti in cui non si preoccupava della consistenza dei suoi ragionamenti e che dovevano 1 Cauchy (1821a). Per lo studio dettagliato del libro di Cauchy condotto da Bottazzini, si veda Cauchy [1992]. rendere il lavoro di Cauchy su questi argomenti così difficile da capire per i suoi successori, estese questa definizione al caso complesso per semplice analogia, senza preoccuparsi di cosa significasse per f essere funzione di una variabile complessa. Cauchy diede però una definizione precisa dell’integrale risultante come integrale di linea e quindi, nelle ipotesi che f(x+√−1 y) fosse limitata e continua in un rettangolo, dimostrò per mezzo del calcolo delle variazioni che il valore dell’integrale è indipendente dal cammino. Più precisamente dimostrò che nelle suddette ipotesi una variazione infinitesima del cammino non cambia il valore dell’integrale. Era la prima volta che faceva la sua comparsa il teorema integrale di Cauchy. Vale la pena osservare che in questo lavoro Cauchy parlava di funzioni continue di una variabile immaginaria, un concetto che non aveva mai definito esplicitamente nei suoi articoli precedenti. Guardando al modo in cui faceva uso di tali funzioni, sembrerebbe che egli assumesse che fossero ad un solo valore, che non avessero poli e, fatto fondamentale, che avessero derivata continua. Altrove Cauchy assunse come ovvio il fatto che tali funzioni soddisfacessero le condizioni di Cauchy - Riemann.Tutte queste tacite assunzioni dovettero essere identificate ed esplicitate dagli autori successivi. Vale forse la pena aggiungere, per enfatizzare le possibilità di confusione, che ancora nel 1825 non è chiaro che Cauchy sta lavorando con funzioni complesse invece che con particolari coppie di funzioni reali. D’altra parte, Cauchy continuò a produrre una grande quantità di risultati essenziali per lo sviluppo successivo della teoria delle funzioni complesse. Dimostrò la formula integrale di Cauchy per le funzioni con poli di ordine finito e la applicò al calcolo degli integrali reali (impropri). Successivamente, nel 1825, Cauchy cominciò a pubblicare gli Exercices de mathématiques, il modo migliore per diffondere le sue ricerche. A partire dal primo volume estese sistematicamente i metodi che aveva introdotto nel suo [1825a] e senza dare alcuna spiegazione li chiamò calcolo dei residui (nome che rimase) e introdusse un simbolo speciale per l’estrazione del residuo di una funzione. Verso la fine della sua esistenza dedicò alcuni lavori alle sue applicazioni, nel corso dei quali pubblicò alcuni raffinamenti della teoria dei residui, compreso il caso di un dominio circolare e di un anello. In questo modo fece capire l’importanza del nuovo calcolo, senza dargli però un solido fondamento. La diffusione delle idee di Cauchy non fu aiutata dal suo estremismo politico, che lo condusse ad auto esiliarsi dal 1830 al 1838 dopo la caduta della monarchia borbonica. In quel periodo, nonostante alcune visite occasionali a Parigi, perse l’impiego alla École Polytechnique e con questo l’incentivo a presentare la teoria delle funzioni complesse con un dettaglio almeno paragonabile a quello impiegato nella presentazione della teoria reale. A quanto sembra inoltre, e per ragioni che molti hanno trovato difficili da comprendere, Cauchy non utilizzò, né mai citò per decenni il suo lavoro del 1825 e il suo teorema integrale. Freudenthal (1991, 438) si domanda se Cauchy non l’avesse semplicemente dimenticato, limitandosi a considerare solo cammini rettangolari, circolari o sul bordo di un anello, e riferendosi alla Mémoire ormai datata del 1814, invece che a quella del 1825. Non la menzionò neppure in un lavoro presentato all’Accademia il 3 Agosto 1846 (Cauchy 1846a), che è comunemente considerato dagli storici come il lavoro in cui apparve la prima formulazione generale del teorema integrale. Il paradosso però si ridimensiona leggendo quel lavoro; diviene chiaro allora che in esso Cauchy non si riferisce mai alle funzioni complesse né all’integrazione complessa. Il lavoro riguarda invece il teorema di Green. Tuttavia, sembra che scrivere il lavoro abbia risvegliato molte idee che riposavano nella fertile mente di Cauchy. Una settimana dopo scrisse una nota in cui osservava per la prima volta che i principi enunciati nel suo Cours erano applicabili in considerevole generalità. Come ha commentato Morris Kline [1972, p.638]: “Cauchy deve aver pensato a lungo e intensamente per rendersi conto che alcune relazioni tra coppie di funzioni reali acquisiscono la forma più semplice quando vengono introdotte le quantità complesse”. Una serie di articoli, scritti con cadenza quasi settimanale, elaborò questo nuovo punto di vista. L’interpretazione geometrica di x+√−1 y fu introdotta per la prima volta, e di qui l’idea di integrale curvilineo lungo un cammino nel piano complesso. L’utilità del calcolo dei residui allontanò Cauchy dal problema delle funzioni a più valori, e fu solo per commentare la memoria di Puiseaux del 1851 che tornò a considerare l’argomento. Sebbene fosse stato un problema con la natura a più valori delle espressioni complesse che aveva ispirato a Cauchy alcuni delle sue prime indagini sulle funzioni complesse, non gli riuscì mai di dominare completamente questo genere di problemi. In un lavoro sugli integrali ellittici del 1846 si avvicinò all’idea che i loro valori formassero una superficie connessa, allontanandosene poi immediatamente. Il più delle volte tagliava il dominio in pezzi, all’interno dei quali la funzione era ad un solo valore, e trattava il fenomeno della funzioni a più valori considerando i salti compiuti dalla funzione nell’attraversare i tagli. Nel frattempo, nel 1847, Cauchy cercò di definire, per suo piacere, che cosa fosse un numero complesso se non era un semplice artificio formale per fondere insieme due numeri reali. Suggerì diverse teorie. Una, ispirata ai lavori di Gauss e di Kummer sulle classi di forme quadratiche, considerava equivalenti due polinomi reali nella variabile i se davano lo stesso resto nella divisione per i2+1, e definiva un numero complesso come una classe di equivalenza di polinomi. Nel 1849 Cauchy cambiò idea e ritornò alla teoria geometrica usuale, citando una selezione piuttosto curiosa di fonti autorevoli per sostenere questo punto di vista. Tutto ciò suggerisce che il principale teorico delle funzioni del tempo fosse sorprendentemente a disagio con i fondamenti. Fu nel 1847 che Cauchy definì per la prima volta la nozione di continuità per una funzione complessa qualsiasi, anche se si trattava di una semplice generalizzazione del caso reale, e nel 1851 isolò come caratteristica che definisce una funzione complessa di x+i y quella di avere la derivata in ogni punto indipendente da dy dx una proprietà che egli chiamò “monogeneità” (il termine moderno è analitica o olomorfa). Nello stesso articolo enunciò un risultato simile al seguente: una funzione monogena definita su un disco aperto ammette, su quel disco, uno sviluppo in serie di potenze convergente. Aveva pubblicato la dimostrazione della proposizione inversa nella sua memoria di Torino del 1831. Insieme le due proposizioni stabiliscono l’equivalenza dei due approcci ovvi alla teoria delle funzioni complesse (quello basato sulle equazioni di Cauchy – Riemann e quello basato sulle serie di potenze convergenti). Cauchy aveva elaborato negli anni la teoria delle serie di potenze ma, come sempre, le sue affermazioni dovevano risultare imprecise; l’enfasi era posta sulla continuità di una funzione, mentre era rilevante la sua differenziabilità, e la continuità della derivata veniva assunta tacitamente. Cauchy rientrò definitivamente a Parigi nel 1838, e trovò che stava emergendo una nuova generazione di matematici francesi, alcuni dei quali avevano dato dei contributi al tema che egli aveva avuto fino a quel momento a suo quasi completo appannaggio: l’analisi complessa. Le interazioni non furono sempre facili: per gli altri fu difficile scoprire ciò che Cauchy aveva già pubblicato, e lui cedeva facilmente alla tentazione di affermare di conoscere già le loro idee. La teoria di Cauchy si sviluppava intorno all’idea di considerare le funzioni analitiche in un disco. Abbastanza stranamente sembra che a Cauchy non sia mai venuto in mente di trattare direttamente le funzioni con poli tagliando un piccolo disco contenenteiii il polo e riducendo così il disco ad un anello, o di cercare il prolungamento analitico in una regione anulare. Fu invece un ingegnere, P.A. Laurent (1813-1854), nel 1843, il primo ad agire così. Presentò un lavoro all’Accademia sullo sviluppo in serie di potenze di una funzione definita e differenziabile in un anello. Laurent enunciò il suo teorema in completa generalità ma non ne diede una dimostrazione, solo la discussione di un caso particolare. L’articolo fu pubblicato solo nel 1863 dopo la morte dell’autore e per un certo periodo si seppe che era prossimo alla pubblicazione solo grazie alla recensione che ne fece Cauchy. Egli trovò che i risultati erano ben degni di considerazione, sebbene fossero già stati inclusi come “casi particolari” in alcuni dei suoi lavori precedenti. Pubblicò quindi una nota in cui diede la prima dimostrazione del teorema di Laurent (essenzialmente la dimostrazione moderna, utilizzando la formula integrale) che non aveva mai pensato di scrivere prima. Cauchy aveva considerato molte volte funzioni con poli, ed aveva anche calcolato le loro espansioni di “Laurent” ma questo non gli aveva mai suggerito un teorema generale. (L’ironia in tutto ciò si manifesta pienamente solo quando si passa a considerare il contributo di Weierstrass, come vedremo poi). Uno dei risultati principali della teoria moderna delle funzioni complesse è un teorema che prende il nome da Joseph Liouville. Afferma che una funzione complessa ovunque definita e limitata è costante. La storia di questo teorema è interessante perché segna l’avvento di una nuova generazione di matematici francesi impegnati a superare un gigante nel loro campo che per lungo tempo aveva avuto questo tema di ricerca a proprio quasi esclusivo appannaggio. Liouville presentò il teorema in un articolo all’Accademia nel 1846 in cui affermava, a proposito delle funzioni ad un solo valore, che “se una tale funzione è doppiamente periodica e si riesce a capire che non diventa mai infinita, allora è possibile, solo da questo, dedurre che si riduce ad una costante”. Cauchy si affrettò ad affermare che il principio generale era conseguenza del suo lavoro precedente, e forse era davvero così, ma anche se fosse, non era mai stato isolato né considerato da Cauchy prima che Liouville lo scoprisse indipendentemente e cominciasse a utilizzarlo. Cauchy fu anche il primo a dare una dimostrazione del risultato in generale, utilizzando il suo calcolo dei residui, e continuò fino a darne altre quattro nel 1847, mentre Liouville non pubblicò mai neppure una dimostrazione. Tutta questa attività era sicuramente mirata a dare l’impressione che la scoperta di Liouville fosse già nota a Cauchy, ma Lützen ha scoperto che Liouville aveva già isolato la proprietà per tutte le funzioni complesse nel 1844 e quindi sembra che l’attribuzione, per una volta, sia corretta. Nel 1846 anche Liouville era un matematico all’apice delle sue capacità, responsabile di una propria rivista e con uno studente molto dotato, Charles Hermite, che lo spronava. Nel 1851, infastidito dalle affermazioni di Cauchy, Liouville decise di tenere un corso di pubbliche conferenze sul suo lavoro al Collège de France. Tra il pubblico erano presenti Briot e Bouquet, che misero insieme quello che avevano imparato da Cauchy sulla teoria delle funzioni complesse con l’approccio di Louville alle funzioni doppiamente periodiche per scrivere, nel 1859, il primo libro di testo sull’argomento. Cauchy era ormai morto, ed era cominciato un nuovo periodo di sviluppo nel campo. Nel loro libro, Briot e Bouquet definirono tre termini fondamentali: monodrome, che significa ad un solo valore, monogène che nella terminologia moderna si traduce con analitico, e synectique che significa finito, continuo, monodrome e monogène in una regione del piano. I concetti sono tratti da Cauchy, insieme con la confusione tra continuo e differenziabile; il concetto di continuità viene introdotto nelle definizioni, quello di differenziabilità viene utilizzato nelle dimostrazioni. Ne segue una trattazione della teoria delle funzioni complesse ragionevolmente completa, anche secondo lo standard moderno. Il teorema integrale di Cauchy e la formula integrale di Cauchy vengono dimostrati, e sono utilizzati per sviluppare in serie di potenze le funzioni analitiche. Viene proposta una teoria dei poli finiti e delle serie di Laurent: un polo di ordine m, per cui Briot e Bouquet non utilizzano alcun termine speciale, è un punto z=a in cui la funzione f(z) è infinita ma il prodotto (z-a)mf(z) è finito per qualche esponente m. Il comportamento di funzioni come e1/z nell’origine o di ez all’infinito era assai più problematico da trattare. Briot e Bouquet pensavano che le funzioni fossero ovunque definite e così arrivarono ad enunciare teoremi che affermavano che le funzioni synectique definite ovunque, infinito incluso, assumono ogni possibile valore. Autori posteriori provarono addirittura a difendere questo punto di vista con argomenti di passaggio al limite, ma sembra che nel 1859 Briot e Bouquet lo accettassero acriticamente, forse perché conduceva ad una teoria molto compatta secondo la quale una funzione ovunque definita assumeva ogni valore, apparentemente come corollario del teorema di Liouville. La teoria delle funzioni complesse riempiva 40 pagine scarse, ed era seguita da materiale più difficile sulle equazioni differenziali nel dominio complesso che, d’altra parte, forniva le basi per una estesa trattazione della teoria delle funzioni ellittiche. Riunendo questi argomenti, venne fornita una chiara base concettuale per l’importante argomento delle funzioni ellittiche, che si amalgamava bene con la nuova teoria delle funzioni complesse. Questo sviluppo in parallelo doveva diventare abituale per circa un secolo, fino a che la teoria delle funzioni complesse divenne troppo ampia per trovar spazio assieme alla più prestigiosa delle sue applicazioni in un unico libro,. Le funzioni a più valori costituivano uno degli argomenti familiari ai matematici del 19° secolo, ma che perfino Cauchy aveva difficoltà a trattare con precisione. La più semplice di queste ‘funzioni’ è la radice quadrata: w2=z, o z=√w. Per ogni valore di z diverso da 0 (e da ∞, se vogliamo permetterlo) la ‘funzione’ w assume due valori, la radice positiva e la radice negativa del numero z. Questo esempio poneva pochi problemi, perché era facilmente trattabile con tecniche ad hoc. Ad esempio, si può scrivere z=reiθ=rei(θ+2π), da cui w=√ reiθ/2 e w=√ rei(θ+2π)/2=√ rei(θ/2+π)=-√ reiθ/2. Se si prende z su un cerchio attorno all’origine, e si fissa un corrispondente valore di w, è chiaro che quando si ritorna al punto di partenza il valore di w ha cambiato segno. Se questo è un problema, e in generale non lo è, si può immaginare di tagliare il piano lungo l’asse reale negativo, da 0 a -∞. Se si fa variare z su un qualsiasi cammino che non attraversa il taglio, il corrispondente valore di w non cambia segno. Questo metodo utilizzato da Cauchy è insegnato ancor oggi ed è adeguato allo scopo, ma è un modo troppo rozzo per trattare funzioni a più valori più complicate. Si basa sull’idea di tagliare il piano in numero sufficiente di linee rette (chiamate da Cauchy ‘lignes d’arræt’) in modo tale che w assuma sempre un solo valore fintantoché z non attraversa i tagli. In effetti quello che Cauchy sembra suggerire è che una funzione a più valori debba avere dei tagli (non semplicemente che è possibile assegnarle dei tagli). Nel 1850 Victor Puiseux pubblicò un altro metodo nella rivista di Liouville. In primo luogo distinse con attenzione tra poli (dove la funzione diventa infinita) e punti di diramazione (come l’origine per la funzione a più valori z=w2). Fissò quindi l’attenzione sulle permutazioni dei diversi valori di w quando z percorre un cerchio attorno ad ognuno dei punti di diramazione ed analizzò attentamente il modo in cui questo poteva accadere, descrivendo un metodo per risolvere completamente il problema in ogni caso. Non è necessario per esempio che i valori siano tutti permutati, ma dimostrò che erano tutti connessi, ovvero che è possibile muovere z lungo un cammino che congiunge una qualsiasi coppia fissata di valori di w. Per ogni punto di diramazione della funzione mostrò come ottenere uno sviluppo in serie di potenze con esponenti frazionari, e sviluppò un metodo per ottenere questi esponenti (il metodo del poligono di Newton – Puiseux). Dimostrò anche che è possibile trovare un cammino su cui far muovere z in modo che sia z che w ritornino ai loro valori originari ma senza che il cammino di w possa essere contratto ad un punto. Chiamò periodo l’integrale di w lungo questo cammino, per analogia con la teoria degli integrali ellittici, e valutò questi periodi in alcuni casi. Cauchy commentò favorevolmente il lavoro di Puiseux di fronte all’Accademia, e in un’altra occasione [(2), 14, 384] attribuì a Puiseux il merito di essere stato il primo a chiamare cammino (‘chemin’) un cammino di integrazione, facendo di Puiseaux il primo a parlare di integrale di linea. L’uso delle matrici per descrivere come vengono permutati i punti di ramificazione si deve a Hermite (v. Equazioni differenziali). 6.2.3 Riemann Nessun matematico, in retrospettiva, domina la parte centrale del 19°secolo più di Bernhard Riemann. Malgrado la sua influenza dovesse rivelarsi così profonda, bisognò attendere anni, addirittura decenni, per poter capire tutte le sue implicazioni. In nessun altro dominio ciò risulta più evidente che nel suo preferito, quello della teoria delle funzioni complesse. Quando era studente all’università di Göttingen, Riemann cominciò a leggere i lavori di Cauchy e di Gauss, e l’influenza di Cauchy appare chiaramente in tutto ciò che scrisse. Quella di Gauss è più difficile da individuare perché i contributi di Gauss non erano organici, e alcuni furono inglobati per la prima volta nel corpo della teoria delle funzioni complesse da Riemann stesso. Quando si trasferì all’Università di Berlino nel 1847 Riemann continuò a leggere i lavori di Gauss sulla teoria del potenziale, sul principio di Dirichlet, e sulle applicazioni conformi (v. Geometria). Riemann conosceva Gauss anche personalmente, ma l’influenza più grande su di lui fu esercitata senza dubbio da Dirichlet, che riconobbe e incoraggiò il suo straordinario talento. Quando Dirichlet visitò l’Università di Göttingen per un anno nel 1851 lui e Riemann discutevano assieme quasi ogni giorno. Il primo lavoro importante di Riemann fu la sua dissertazione dottorale del 1851, pubblicata per la prima volta solo nella prima edizione dei Riemann Werke [1876]. Le poche copie stampate della tesi distribuite nel 1851 erano sicuramente poco note e difficili da trovare, e questo è probabilmente il motivo per cui c’è una considerevole sovrapposizione con il lavoro del 1857 sulle funzioni abeliane. La dissertazione cominciava con tre idee importanti: la definizione e le proprietà fondamentali di una funzione complessa, l’idea di superficie (di Riemann), e il ruolo fondamentale della teoria delle funzioni armoniche. Nell’articolo viene utilizzata una definizione informale di continuità, ma l’influenza di Dirichlet risulta evidente in alcune annotazioni rimaste che mostrano come Riemann basasse le sue idee di continuità sulla epsilon-delta definizione del Cours d’analyse di Cauchy. La distinzione tra coppie di funzioni di due variabili reali e funzione complessa di una variabile complessa, che era costata a Cauchy tanti sforzi, fu colta immediatamente da Riemann: una variabile complessa si dice funzione complessa di un’altra variabile complessa z se il valore del limite del rapporto incrementale dw/dz è indipendente dal valore del differenziale dz. Riemann osservò che questo succede ogni volta che le regole di differenziazione vengono applicate in maniera puramente formale. Dedicò il resto dell’articolo a trovare quali fossero le proprietà di cui godeva una funzione complessa generale. Innanzitutto Riemann dimostrò che una funzione complessa è conforme, purché la sua derivata non si annulli. Questa enfasi era originale; Cauchy non l’aveva mai esplicitata. Dimostrò anche che una funzione complessa f(x+iy)=u(x,y)+iv(x,y) soddisfa le equazioni di Cauchy –Riemann: ∂u ∂v ∂u ∂v = , =− ∂ x ∂y ∂y ∂x Da queste equazioni segue subito che le funzioni u e v sono armoniche2; esse soddisfanoiv ∂ 2u ∂ 2v + =0 ∂x 2 ∂y 2 Riemann si rese conto che la sua definizione di funzione complessa richiedeva solo che la funzione fosse definita su una famiglia di aperti bidimensionali. Questi aperti si possono intersecare, 2 Riemann non utilizzò un termine specifico per indicare questa proprietà. ma non è necessario che la loro unione coincida con il piano complesso – altre superficie sono possibili. Questo punto di vista gli permise di trattare con funzioni a più valori, forse l’argomento che più aveva messo in difficoltà Cauchy, sostenendo che tali funzioni dovessero essere pensate come definite su superfici che si estendono sopra al piano della variabile z. In una tale superficie non erano ammessi incroci, ma la superficie poteva avvolgersi intorno a certi punti, che Riemann chiamò punti di diramazione. Cosa si intendesse per intorno di un punto di diramazione non fu spiegato in modo chiaro. Nel Dicembre del 1851 Riemann aveva già letto la relazione di Cauchy sulla memoria di Puiseux ma sembra improbabile che questa abbia avuto qualche influenza sulla sua tesi dottorale. Il concetto di superficie di Riemann doveva risultare ostico da padroneggiare per i matematici posteriori, non da ultimo perché presentava la superficie come qualcosa che si estende sopra l’intero piano complesso, in un modo che dipende da quattro dimensioni reali. Riemann cercava di rappresentare una superficie in parti maneggevoli per mezzo di tagli. Diceva che una parte di superficie era connessa quando per ogni coppia di punti contenuti in essa esiste una curva che li congiunge. Riemann sezionava le superfici per mezzo di tagli lungo cicli, curve semplici (non intrecciate) con gli estremi sul bordov; tagli pre-esistenti di questo genere contavano anche loro come parti del bordo, e si poteva scegliere un punto arbitrario della superficie come punto del bordo da cui cominciare il processo di dissezione. Una superficie si diceva semplicemente connessa se ogni taglio lungo un ciclo la divideva in due pezzi e nvolte connessa se era necessario un sistema di n-1 tagli lungo cicli per farla diventare semplicemente connessavi. Per studiare le funzioni complesse, Riemann utilizzò la teoria delle funzioni armoniche con punti singolari. Il teorema fondamentale su cui basava il suo studio era una versione del teorema di Green già nota a Cauchy, Green e Gauss (senza dubbio la fonte di Riemann, forse attraverso Dirichlet). Esso mette in relazione un integrale di superficie con un integrale lungo il bordo della superficie stessa. Riemann dimostrò questo teorema e lo utilizzò per dimostrare che una funzione armonica u con punti singolari isolati possiede derivate di ogni ordine, un passo fondamentale sulla via dell’unificazione della teoria delle funzioni complesse con quella delle funzioni armoniche. Esso implica che una funzione complessa w=x+iy è infinitamente differenziabile, perché lo sono la parte reale e la parte immaginaria. Riemann considerò quindi la teoria dello sviluppo in serie di Laurent nell’intorno di un polo di ordine finito, e la teoria dei punti di diramazione. La tesi, a questo punto, non era ancora a metà. Nella seconda parte diede una dimostrazione del fatto che due superficie piane semplicemente connesse si possono sempre trasformare l’una nell’altra con una applicazione conforme e che tale applicazione è unica una volta fissate l’immagine di un punto interno arbitrario e quella di un punto del bordo, anch’esso arbitrario. Questo risultato, oggi chiamato teorema dell’applicazione di Riemann ed enunciato in maniera leggermente diversa, stabilisce che ogni coppia di regioni semplicemente connesse sono equivalenti ai fini della teoria di Riemann delle funzioni complesse, e quindi, in particolare, che esistono funzioni complesse definite su ognuna di esse. Si dice spesso che la dimostrazione di Riemann si basava in modo essenziale sul principio di Dirichlet, e che per questa ragione non fu accettata da molti matematici3. In effetti però l’approccio di Riemann era piuttosto differente. Egli non si limitava ad applicare in maniera ingenua qualcosa chiamato principio di Dirichlet, secondo cui se è assegnata una funzione continua sul bordo di una regione semplicemente connessa allora esiste una funzione armonica definita sull’intera regione che coincide con la funzione data sul bordo. Nel 1857 Riemann spiegò che nella sua dissertazione aveva cercato di generalizzare il principio di Dirichlet al caso in cui venissero ammesse determinate discontinuità. La funzione armonica da prendere in considerazione era la funzione che minimizzava un certo integrale. Permaneva una confusione diffusa tra l’esistenza di un estremo inferiore per l’integrale (mai messa in dubbio) e l’esistenza di una funzione che realizzava tale estremo. Riemann cercò di dimostrare il risultato di esistenza argomentando che l’integrale era funzione continua dell’espressione integranda, e che questi ingredienti formavano quello che lui descriveva come un “dominio connesso chiuso in sé stesso”. Siccome gli ingredienti erano essi stessi funzioni, l’affermazione è audace, ma non si tratta di un uso ingenuo del principio euristico di Dirichlet. Purtroppo, come altri non tardarono ad osservare, l’argomento di Riemann è inconsistente sotto altri punti di vista. L’intero approccio di Riemann si basa su questo risultato. Usando le sue parole, questi principi “aprono la strada ad uno studio delle funzioni di una variabile complessa che non dipende da una loro espressione esplicita” [1851, §19]. Un punto di vista siffatto determinò una frattura completa con l’idea 3 Vedi per esempio il libro di riferimento sulla sua storia, Monna [1975], e le discussioni in Bottazzini [1986] e Gray [1986]. che la teoria delle funzioni complesse avesse essenzialmente a che fare con espressioni formali come le serie di potenze e semplificò enormemente il compito di decidere quando due espressioni rappresentano la stessa funzione; per esempio è chiaro, come egli affermò (§20), che se una funzione è ovunque definita su una regione che ricopre l’intero piano una o più volte, e ha singolarità solo di ordine finito e solo in un numero finito di punti, allora è una funzione algebrica. L’articolo di Riemann del 1857 fu pubblicato nel Crelle Journal. Prendeva in esame un problema centrale della matematica di quel periodo, l’oscura teoria delle funzioni abeliane. Egli cominciava spiegando ancora una volta il suo approccio alle funzioni complesse, e mostrando come gli integrali su una superficie possano essere indipendenti dal cammino che congiunge i loro estremi. Il principale oggetto di studio era la teoria delle funzioni su una curva algebrica. La curva era concepita in due modi, che Riemann cercò di amalgamare senza molto successo; prima come oggetto definito da una equazione irriducibile tra le variabili complesse s e z di gradi n in s ed m in z, e poi come oggetto rappresentato da un rivestimento T ad n fogli del piano della variabile z. Le funzioni razionali di s e z sono funzioni ad un solo valore su T, ramificate come s; nello stesso articolo Riemann dimostrò anche la proposizione inversa. L’integrale di una funzione razionale produce una funzione a più valori i cui diversi prolungamenti analitici differiscono solo per una costante, poiché le derivate devoano coincidere punto per punto. Era questo sistema di funzioni che egli proponeva di studiare per mezzo del principio di Dirichlet e della sua tecnica di sezionare la superficie per mezzo di 2p tagli per poterla distendere sul piano e trasformarla in una superficie semplicemente connessa T’. Le più semplici sono le funzioni a più valori w che sono sempre finite. Riemann mostrò, considerando i loro incrementi nell’attraversamento dei tagli, che ci sono al più p funzioni linearmente indipendenti siffatte, w1,...,wp. Sul modello della classificazione degli integrali ellittici, furono chiamate da Riemann integrali del primo tipo; compaiono quando si integrano espressioni ovunque olomorfe. Quindi ci sono funzioni con un polo di ordine superiore in un singolo punto, chiamate da Riemann integrali del secondo tipo; compaiono quando si integrano funzioni razionali prive di poli semplici. Riemann le denotava βjtj. Infine ci sono funzioni con due poli logaritmici, uguali ma opposti; furono chiamate integrali del terzo tipo e compaiono integrando funzioni con poli semplici aventi residui opposti. Così, diceva Riemann, l’espressione generale per una funzione complessa con m poli semplici su una superficie è della forma s= β1t1+β2t2+ …+βmtm++α1t2+α2t2+ …+αptp+cost. dove i valori di t sono arbitrari e quelli di e α e β sono costanti. Se tutti gli incrementi nell’attraversare i 2p tagli (chiamati da Riemann moduli di periodicità) svaniscono, la funzione è ad un solo valore. Con semplici ragionamenti di algebra lineare stabilì che essa dipende linearmente da m-p+1 costanti arbitrarie. Se questo numero è più grande di 1, cioè quando m>p, esisteranno funzioni non costanti con al più m poli. Questa è la celebre disuguaglianza di Riemann. La sua principale applicazione consiste nello stabilire l’esistenza di funzioni razionali su una superficie di Riemann. Riemann dimostrò successivamente che funzioni razionali distinte e non costanti soddisfano un’equazione polinomiale che si può assumere come l’equazione di una superficie di Riemann, stabilendo in questo modo una connessione tra i suoi due approcci all’argomento. Infine osservò che se w è una qualsiasi funzione definita su T e avente solo poli semplici, allora dw/dz è un’altra funzione dello stesso tipo. In particolare essa può avere solo poli nei punti in cui li ha la funzione w. Perciò tutte le funzioni definite su T o sono funzioni che hanno le stesse diramazioni di T oppure sono integrali di funzioni siffatte. Inoltre, il sistema di queste funzioni è determinato quando è assegnata la superficie T e dipende solo dalla posizione dei punti di diramazione. Uno dei meriti dell’approccio di Riemann è che chiarisce come la stessa superficie di Riemann si possa rappresentare attraverso molte equazioni, ottenibili le une dalle altre attraverso una trasformazione razionale delle variabili. Egli fu in grado di dimostrare che la famiglia delle superficie non equivalenti di un dato genere dipende con continuità da 3p-3 parametri complessi che, diceva, “verranno detti i moduli”. Da allora lo spazio dei moduli ha continuato ad attrarre grande interesse. Con un breve argomento indipendente dimostrò che esiste uno spazio delle superficie di Riemann di genere, che dipende da un parametro. La seconda metà dell’articolo di Riemann era dedicato allo studio delle funzioni razionali e algebriche su una data superficie di Riemann e per questa ragione sarà discussa in seguito. La profonda originalità in questo notevole articolo si può misurare dal fatto che nel leggerlo un’autorità del calibro di Weierstrass decise addirittura di ritardare un suo lavoro sullo stesso argomento, preferendo aspettare finché avesse assimilato quello che Riemann aveva da dire. La salute di Riemann era sempre stata precaria, e collassò completamente a causa della tubercolosi nel 1862; trascorse in Italia la maggior parte dei quattro anni che gli restavano da vivere, dove numerosi matematici italiani presero contatto con lui. Dopo la morte ci fu un tentativo di curare l’edizione dei suoi lavori. Anch’esso fu tormentato dalla malattiavii, ma finalmente Dedekind e Weber ne curarono un’edizione nel 1876, in cui la maggior parte dei suoi risultati fu presentata per la prima volta in un luogo facilmente accessibile. Le sue idee si diffusero anche attraverso lavoro dei pochi che avevano assistito alle sue lezioni o che l’avevano conosciuto personalmente. Poiché si dice spesso che le reazioni immediate al lavoro di Riemann furono scarse, è interessante fornirne una lista, anche parziale. Mentre Riemann era ancora vivo Clebsch [1863] diede il proprio contributo al concetto di genere, al teorema di Abel e all’uso delle funzioni abeliane in geometria; Roch [1864] raffinò la disuguaglianza di Riemann in una uguaglianza; Neumann scrisse un libro [1865] sull’approccio di Riemann agli integrali iperellittici; Durège [1865] basò il primo libro in tedesco sulla teoria delle funzioni complesse sulle idee di Riemann; numerosi autori (Clebsh, Lüroth, Rosanes e Clifford) fecero chiarezza su alcuni problemi riguardanti la comprensione della topologia di una curva algebrica ; Clebsh e Gordan scrissero un libro [1866] sulla teoria delle funzioni abeliane. Dopo la sua morte, Prym, Christoffel e Schwartz lavorarono sul teorema dell’applicazione di Riemann negli anni 60 del 19° secolo; Casorati pubblicò una presentazione esplicitamente riemanniana della teoria delle funzioni complesse nel 1868; Schottki estese il teorema dell’applicazione di Riemann a domini non semplicemente connessi.; Brill e Noether scrissero un articolo [1872] sulle curve algebriche in cui per la prima volta il teorema di Riemann - Roch viene designato con questo nome; Tonelli scrisse il suo articolo del 1875 sulla definizione di Riemann di genere e verso la fine degli anni 70 del 19° secolo Weierstrass ne diede una nuova definizione e dedusse il cosiddetto teorema delle lacune. Altri autori si occuparono di altri aspetti dell’eredità di Riemann. Questa lista, e il contemporaneo sforzo di curare l’edizione degli articoli non pubblicati, delle dispense dei corsi e dei frammenti, suggerisce una volontà reale di mantenere vive le idee di Riemann dopo la sua prematura scomparsa. Il mondo accademico aveva riconosciuto da tempo il talento di Riemann. Weierstrass aveva caldeggiato con forza la candidatura di Riemann all’Accademia della Scienze di Berlino nel 1859, e negli anni successivi aveva incoraggiato i suoi i studenti migliori a cercare buoni argomenti su cui lavorare nei lavori di Riemann, e questo dimostra un’alta opinione della loro importanza, se non del loro rigore. La sua teoria delle funzioni complesse si basava su pochi punti fondamentali: l’importanza della natura globale del dominio di una variabile complessa, e la sua analisi topologica; il principio di Dirichlet per stabilire l’esistenza di funzioni complesse con prescritte singolarità; la disuguaglianza di Riemann. L’accettazione di ognuno di questi punti era problematica anche per i migliori tra i suoi contemporanei. Volendo considerare l’esempio più famoso, l’uso di Riemann del controverso principio di Dirichlet, negli anni 80 del 19° secolo, Klein cercò di argomentare che Riemann avesse invocato il principio di Dirichlet sulla base di considerazioni fisiche ma Bottazzini ha fatto vedere che alcuni studenti di Riemann, in particolare Prym, non erano d’accordo. Infatti, tutti i matematici ritenevano che il principio richiedesse una dimostrazione – solo i fisici come Helmoltz e Maxwell erano contrari. Ma bisognò attendere il 1900 perché Hilbert riuscisse a dare una dimostrazione diretta della validità del principio di Dirichlet per un’ampia classe di domini, ripristinando così la linea originale dell’approccio di Riemann sotto ipotesi poco restrittive. Comunque, la ricerca delle dimostrazioni doveva spesso condurre una generazione di matematici lontano dalla visione di Riemann. Clebsch, il successore di Dirichlet a Göttingen, era il leader di un forte gruppo di geometri algebrici che cercarono di riscrivere le idee di Riemann utilizzando il linguaggio della geometria proiettiva delle curve algebriche, e di qui ritornare all’analisi attraversando il ponte, come essi lo chiamavano, fornito dal teorema di Abel. Prym, uno degli allievi di Riemann, scrisse a Casorati che il libro di Clebsch e Gordan era completamente inutile. Ciò che lo disturbava era l’enfasi dell’algebra sulla topologia. Pur imperfettamente, Riemann aveva tentato di separare la superficie, pensata come oggetto astratto, da ogni immersione che poteva avere in un qualche spazio proiettivo; la trattazione di Clebsch-Gordan cercava di far cadere quella distinzione. Analogamente, Roch fu perentorio sulla prima edizione del “Vorlesungen uber Riemann’s Theorie der Abel’schen Integral” di Neumann [1865], definendola “poltiglia ribollita”. Curiosamente, quando la seconda edizione venne riletta a Göttingen, Klein commentò che faceva sembrare ogni cosa così semplice da sembrare quasi un insultoviii. Evidentemente, a Göttingen almeno, la gente aveva cominciato a rimettersi in pari con Riemann. Solo Casorati in Italia ebbe successo con un libro che mescolava le tecniche e le idee di Cauchy, Riemann e Weierstrass, e che fece molto per affermare in Italia la teoria di Riemann delle funzioni complesse. La seconda parte, più elementare, copre gli argomenti che Riemann stesso aveva coperto nelle sue lezioni, mentre la prima parte approfondisce le superfici di Riemann e sulle funzioni abeliane. Il successo in Italia, dove molti matematici avevano incontrato Riemann personalmente, non dovrebbe oscurare i problemi altrove. Weierstrass e i suoi studenti erano antagonisti allo spirito riemanniano, come verrà descritto più avanti, e in Francia Hermite ritardò l’accettazione delle idee di Riemann per almeno una generazione, finché furono superate da Poincaré e Picard. Anche a Göttingen, dove Felix Klein fece così tanto per tener viva la speranza di una teoria riemanniana delle funzioni, la prima trattazione soddisfacente delle superficie di Riemann fu data da Weil solo nel 1913. 6.2.4 Weierstrass. Una caratteristica notevole dell’approccio di Weierstrass all’analisi complessa consiste nel fatto che viene evitato l’integrale. Questo è in linea con la diffidenza di Weierstrass nell’attribuire alle equazioni di Cauchy – Riemann un ruolo fondamentale, basata sull’idea che “le condizioni per l’esistenza della derivata sono così complicate che a priori non è assolutamente possibile verificare se una data funzione ammette derivate, a meno che non lo si sappia per esperienza”. [Weierstrass, 1866, 1988, 115]. Quindi costruì una teoria delle funzioni definite per mezzo di serie di funzioni razionali uniformemente convergenti su un qualche dominio. Come ha fatto vedere Majer, questo procurò a lui e ai suoi seguaci molte difficoltà. Una consisteva nella dimostrazione dell’esistenza e unicità dello sviluppo in serie di Laurent di una funzione analitica su un anello. La dimostrazione usuale dell’esistenza, come quella dello stesso Weierstrass del 1841, faceva uso del teorema integrale di Cauchy, e Weierstrass non riuscì mai ad evitarlo (nelle sue lezioni si riduceva a dire “ È ben noto che …”). Nel 1884 furono pubblicate due dimostrazioni che evitavano completamente l’integrale, una di Scheefers e l’altra di Mittag-Leffler. Nel 1896 un’altra dimostrazione fu trovata da Pringsheim. Altri problemi consistevano nel dimostrare il teorema delle singolarità eliminabili e il teorema di Liouville. Weierstrass fu in grado di superare queste difficoltà, ma perfino i suoi allievi trovavano gli argomenti difficili, e a chiunque non condividesse l’idea che la convergenza uniforme fosse elementare mentre non lo era la teoria dell’integrale, questo modo di procedere appariva astruso. Come ci si poteva aspettare a causa delle loro continue dispute a Berlino sulla natura della matematica, di intensità sempre crescente, i punti di vista di Weierstrass sui fondamenti dell’analisi complessa non erano condivisi da Kronecker, che basava sul teorema integrale di Cauchy e sulla formula integrale di Cauchy le sue lezioni sulla teoria delle funzioni complesse, affermando in proposito che “l’intera teoria moderna delle funzioni è concentrata in questi due integrali” [Kronecker, Vorlesungen, p. 167]. Caratteristico dell’approccio di Weierstrass era il desiderio di erigere una teoria veramente elementare delle funzioni complesse, che non facesse nessuna assunzione e non contenesse circoli viziosi. In questo ricordava Euclide più di ogni altro matematico di quel periodo. In parte questo era conseguenza della sua posizione di direttore del più grande e importante dipartimento di matematica del mondo, in parte rifletteva il suo personale desiderio di uniformità e di rigore. Come Euclide, diede scarse indicazioni sugli altri approcci alla materia, dando così l’impressione di ritenere che gli altri approcci lasciassero qualcosa a desiderare, ovvero che non si armonizzassero con il suo approccio globale. Weierstrass rifletteva a lungo e con grande attenzione sul giusto grado di generalità con cui considerare un problema o un concetto, e amava saggiarne tutte le implicazioni e le conseguenze prima di includerlo nel suo ciclo di lezioni. Di conseguenza si devono a lui molte delle distinzioni fondamentali della teoria, che contribuirono indubbiamente a chiarire molto del materiale che si andava accumulando. Un problema sollevato da Riemann era se ogni funzione complessa, definita alla sua maniera astratta, coincidesse con una funzione definita algebricamente. Egli pensava a riguardo che la risposta fosse “si”, ma invece alla domanda fu data risposta negativa dai matematici berlinesi. Le serie di funzioni razionali si possono comportare in maniera molto diversa dalle serie di potenze. Per esempio la serie Σn1/(zn+z-n) converge per |z|>1 e per |z|<1, ma non quando per |z|=1. Infatti il cerchio definito dalla condizione |z|=1 è quello che si dice un bordo naturale per le funzioni definite al suo interno e al suo esterno dalla serie che stiamo considerando: nessuna può essere prolungata con continuità nell’altra. Così una stessa espressione algebrica definisce due funzioni distinte, in contrasto con le convinzioni di Riemann. I bordi naturali sono quelli che impediscono ad una funzione complessa definita su un disco di essere prolungata all’intera sfera di Riemann. Sono fatti di punti in ogni intorno dei quali la funzione ha almeno un polo (e quindi non può essere definita). Per comprenderli furono impegnate molte energie. In conseguenza del teorema dell’applicazione di Riemann i bordi naturali possono avere una grande varietà di forme. Anche quando sono cerchi possono essere costituiti completamente da poli, avere un insieme denso di poli , o non avere poli per niente. (esempi di tali bordi sono facili da trovare).Un caso celebre è dato dalle funzioni ellittiche, in particolare dalla funzione θ ( z ) = 1 + 2∑ q n 2 n ≥1 introdotta da Jacobi, che ha come bordo naturale il cerchio unitario. Potrebbe sembrare che questa funzione definisca ancora una funzione reale sul cerchio unitario, ma Weierstrass capì che se così fosse la funzione dovrebbe avere proprietà notevoli. Analizzandola fu condotto a studiare una funzione leggermente diversa che risultò essere ovunque continua e mai differenziabile. Questa fu la prima funzione di questo tipo definita rigorosamente, e aprì la strada alla comprensione che la continuità e la differenziabilità sono proprietà estremamente diverse. All’estremo opposto, il più semplice bordo naturale che una funzione può avere è un singolo punto, e anche in questo caso il problema è sottile. Se il bordo naturale consiste di un polo, o anche di molti poli in punti distinti, la funzione è una funzione razionale. Ma Weierstrass scoprì nel 1875 che esisteva una differenza cruciale tra un punto che rappresenta un polo di ordine finito e quello che in seguito al suo lavoro venne chiamato una singolarità essenziale. In tali punti non è definita né la funzione né la sua reciproca. Weierstrass scoprì che in ogni intorno di una singolarità essenziale la funzione assume valori arbitrariamente vicini ad ogni valore. (In effetti, come doveva dimostrare Picard nel 1879, in ogni intorno di un punto singolare essenziale la funzione assume ogni valore finito, eccetto al più uno). Weierstrass si occupò anche del problema inverso: assegnato un insieme di punti, esiste una funzione che ammette poli o singolarità essenziali precisamente in quei punti? L’insieme non può avere un punto di accumulazione altrimenti la funzione si annullerebbe identicamente. Inoltre fece l’ipotesi che ci fosse solo un numero finito di punti singolari essenziali. Come Weierstrass dimostrò nel 1875, non erano necessarie altre restrizioni, e diede convenienti espressioni esplicite per le funzioni cercate nella forma di prodotti infiniti (analoghe alle espressioni determinate da Eulero). La sua ispirazione proveniva dai prodotti infiniti per la funzione Γ di Eulero e Gauss. Le sue idee vennero riprese da Mittag – Leffler, che ne era venuto a conoscenza durante le lezioni di Weierstrass del 1875. Mittag – Leffler dimostrò che esiste sempre una funzione meromorfa con parti principali specificate (espressioni della forma ix N ai ∑ ( z − a) i =1 i ) 6.2.5 Funzioni ellittiche e funzioni abeliane La teoria delle funzioni ellittiche esercitò un’influenza decisiva sulla teoria delle funzioni complesse, perché si trattava di una branca ben sviluppata della matematica che la teoria delle funzioni complesse prometteva di approfondire e semplificare. Essa emerse da quello che era stato, a partire dal 1790 circa, uno degli interessi costanti di Adrien Marie Legendre. Per quarant’anni aveva pubblicato libri e articoli sugli integrali ellittici, un argomento che occupava un posto da lungo tempo ben definito nell’astronomia dell’epoca, dove tali integrali descrivevano la lunghezza d’arco lungo un’orbita ellittica. Nei suoi Exercises [1817] e nel suo Traité [1827] li pose in relazione con molti problemi, tra cui la rotazione di un solido attorno ad un punto fisso, l’attrazione esercitata da un elissoide omogeneo, il moto rispetto a forze centrali, e il problema di determinare le geodetiche di un elissoide. Il Traité di Legendre era una presentazione sistematica di nuove funzioni di una variabile reale che comprendeva la loro definizione e le loro proprietà fondamentali, e tabulava i loro valori mostrando nello stesso tempo la loro utilità nel risolvere problemi significativi di matematica applicata. Legandre operò attivamente affinché L’Accademia delle Scienze di Parigi assegnasse il suo Grand Prize della matematica a Carl Gustav Jacob Jacobi di Konisberg, allora venticinquenne, e alla famiglia dello scomparso Niel Henrik Abel di Christiana (Abel era morto l’anno prima, all’età di 26 anni). Essi non soltanto avevano esteso le idee di Legndre, ma le avevano completamente riformulate invertendo gli integrali (cosa che Legandre, pur sapendo che si poteva fare, non aveva mai saputo apprezzare) e ammettendo la possibilità di considerare estremi di integrazione complessi (cosa che Legendre non aveva mai fatto) . L’inversione è un processo familiare nella trigonometria. L’integrale u=∫ v dt 1− t2 definisce la funzione a più valori u(v)=arcsen(v), che si può utilizzare per definire, prendendone l’inversa, la funzione v=sen(u). Allo stesso modo l’integrale ellittico più semplice e paradigmatico è 0 v u=∫ dt 1− t4 che misura la lunghezza d’arco lungo la lemniscata r2=cos 2θ, che è una curva con la forma di un otto. Esso definisce una funzione a più valori u(v), che si può utilizzare per definire, prendendone l’inversa, una funzione doppiamente periodica v(u), che Gauss chiamò sl(v) per sinus lemniscatus. 0 La ragione per estendere questa funzione a valori complessi di v sta in un’apparente rottura dell’analogia con le funzioni trigonometriche. L’equazione per la trisezione di un angolo sen(x)=sen(α/3), ha tre soluzioni distinte per x in corrispondenza di ogni valore assegnato di α, mentre la corrispondente equazione per sl(v) ha 9 soluzioni invece di 3. Questo suggerì a Gauss, Abel, e Jacobi, ma non a Legendre, che le radici mancanti fossero complesse, e quindi che la funzione si dovesse considerare come una funzione complessa. Tuttavia, nel 1830, lo sviluppo di una teoria esplicita delle funzioni complesse era troppo limitato per potervi attingere, e alla teoria di Cauchy mancava la trattazione degli integrandi a più valori (come le radici quadrate negli integrali ellittici). La teoria sviluppata da Abel e Jacobi doveva stimolare invece lo sviluppo della teoria delle funzioni complesse. Essi dimostrarono che le funzioni ottenute invertendo l’integrale ellittico generale x u=∫ 0 dt (1 − c t )(1 + e 2 t 2 ) 2 2 (per valori reali dei parametri c ed e) erano generalizzazioni interessanti e comprensibili delle funzioni trigonometriche. Verificavano, per esempio, leggi di addizione analoghe a quelle della funzione seno. (che esprime sen(u+v) in funzione del seno e del coseno di u e v). In effetti, procedendo in questa maniera fu possibile estendere queste funzioni vennero estese da valori reali a valori complessi della variabile. Questi sviluppi erano completamente formali e si dovevano rivelare per certi versi infondati ad un’analisi successiva. L’eccitazione che fece seguito al lavoro di Abel e Jacobi non turbò una persona: Gauss, che in un famoso commento disse che Abel aveva percorso solo un terzo della strada. Questa osservazione inaspettata venne alla luce solo con la pubblicazione postuma dei suoi quadernix. Uno dei problemi che Gauss aveva risolto era la definizione di queste funzioni per valori complessi di c e di e, che gli permise di dimostrare che le funzioni doppiamente periodiche più semplici, dalle quali si potevano costruire algebricamente tutte le altre, sono funzioni ellittiche, e viceversa. Gauss aveva anche una migliore comprensione del ruolo che spettava alle equazioni differenziali ordinarie lineari nella teoria delle funzioni ellittiche. In entrambi i casi ciò era conseguenza del fatto che possedeva una teoria geometrica delle funzioni di una variabile complessa. Intorno al 1840 altri matematici, tra cui Cauchy e Cayley, cominciarono lentamente a pubblicare le idee che Gauss teneva per sé. In seguito, come è stato già detto, Liouville dimostrò che ogni funzione doppiamente periodica ha almeno due poli nel parallelogramma dei periodi, in un modo che esemplificava il vantaggio di applicare la teoria generale delle funzioni alla teoria delle funzioni ellittiche, e Briot e Bouquet scrissero un intero libro basando la teoria delle funzioni ellittiche sulla teoria delle equazioni differenziali complesse. In seguito, la maggior parte degli autori ritennero che fosse naturale sviluppare assieme le due teorie. Il punto di partenza per la teoria delle funzioni ellittiche divenne così un aspetto della teoria più ampia e generale delle funzioni complesse, che giunse a inglobare, nel suo sviluppo, la connessione con gli integrali ellittici. Questo accoppiamento divenne così importante che la maggior parte degli autori di quel periodo parlava a riguardo di ‘teoria delle funzioni’: la teoria delle funzioni del 19° secolo era la teoria delle funzioni complesse. Così come gli integrali ellittici erano integrali di forma semplice che non si potevano esprimere utilizzando le funzioni “note” nel 18° secolo, esisteva una vasta classe di integrali che non si potevano esprimere nemmeno utilizzando le funzioni ellittiche. Anch’essi provenivano da qualcosa che non era più complicato dei polinomi. Erano gli integrali della forma ∫ F ( x, y)dx in cui le variabili (reali o complesse) devono soddisfare un’equazione del tipo G(x,y)=0 con F e G funzioni razionali in x e y. Si ottiene un integrale ellittico quando G(x,y)=y2-f(x), f(x) è un polinomio di grado quattro e F(x,y)=1/y. In generale si assume che il polinomio G sia assegnato e F sia variabilexi; i matematici di orientamento geometrico parlavano di integrare funzioni definite sulla curva di equazione G(x,y)=0. Le difficoltà nella comprensione di questi integrali furono utilmente chiarite da Abel, in una importante memoria che fu pubblicata solo nel 1845, 15 anni dopo la sua morte, quando Jacobi, venuto a conoscenza della sua esistenza, spronò l’Accademia delle Scienze di Parigi a rovistare nei suoi archivi per ritrovarla. Jacobi chiamò la memoria monumentum aere pereniis di Abel, ovvero monumento più duraturo del bronzo. Le funzioni che furono introdotte in questa memoria sono dette ancor oggi funzioni abeliane. Differiscono dalle funzioni ellittiche in un aspetto cruciale. Abel dimostrò che esiste un numero p, determinato da G, tale che la somma di un numero qualsiasi di integrali abeliani si può scrivere come somma di esattamente p di quelli. Nel caso degli integrali ellittici, p=1, e l’inversione è facile. Ma quando p>1, ciò che Abel fece vedere e che Jacobi continuò a sfruttare, è che la situazione è molto più complicata. Nel caso più semplice si assume che gli integrali ∫ F ( x, y)dx abbiano integrandi olomorfi in ogni punto. Esisteranno p integrali olomorfi siffatti, diciamo ∫ F ( x, y)dx, j = 1, … , p j Per ognuno di questi si consideri la somma di p integrali ottenuta fissando un punto iniziale arbitrario, diciamo x0, e p punti finali x1,…,xp., ovvero p xi ∑ ∫ F ( x, y)dx j i =1 x 0 o meglio, la p-pla di tali integrali p xi p xi ∑ F1 ( x, y )dx, … , ∑ F p ( x, y )dx ∫ ∫ i =1 x i =1 x 0 0 Questo oggetto, a prima vista intrattabile, è una funzione dei p numeri x1,…,xp, e il suo valore è un’altra p-pla di numeri, diciamo y1,…,yp. La scoperta di Abel e Jacobi è che la funzione inversa, che esprime x1,…,xp come funzione di y1,…,yp è una funzione 2p-volte periodica di p variabilixii. I matematici rimasero a lungo sconcertati da queste funzioni. Ciò che conferì a Weierstrass la reputazione internazionale e gli assicurò la posizione accademica a Berlino, fu il fatto di essere riuscito per primo a dare una trattazione dettagliata di queste funzioni nel caso speciale in cui G(x,y) è della forma y2 – un polinomio in x (detto, per ovvie ragioni, caso iperellittico). In seguito, nel 1857, Riemann utilizzò la sua teoria delle funzioni complesse per generalizzare la teoria di Jacobi delle funzioni theta al caso di più variabili, dando così la prima trattazione delle funzioni abeliane in generale. Nonostante ciò le difficoltà tecniche nello studio delle funzioni abeliane rimasero formidabili, e molto di quello che fu scritto è un tributo alla forza dell’ingegno analitico. Ciò che mancava era una teoria delle funzioni complesse di più variabili capace di far luce sul problema nello stesso modo in cui la teoria delle funzioni di una singola variabile complessa aveva semplificato la trattazione delle funzioni ellittiche. Questa mancanza era avvertita acutamente, e un certo numero di matematici cercò di ovviarvi, fra loro Weierstrass e Poincaré, ma alcuni successi parziali furono accompagnati da fallimenti altrettanto notevoli. Non esiste una generalizzazione semplice delle equazioni di Cauchy – Riemann al caso di più variabili perché si ottengono più equazioni che variabili e manca un’intima connessione tra funzioni analitiche e funzioni armoniche. Nella teoria di una variabile il teorema dell’applicazione di Riemann stabiliva i domini possibili per una funzione; non fu possibile trovare un risultato analogo nel caso di più variabili. Per una variabile il concetto di punto singolare è ricco di implicazioni, e la distinzione tra poli finiti e singolarità essenziali è un fatto cruciale. Ancora nel 1900 si poteva dire molto meno nel caso di più variabili. Le difficoltà sono esemplificate da una funzione semplice come x/y, che non assomiglia ad una funzione con un punto singolare essenziale ma la cui reciproca è anch’essa diversa da zero. Nel caso di una sola variabile c’è un teorema notevole di Cauchy su integrali e residui; per più variabili la situazione fu chiarita intorno al 1880, e solo parzialmente, da alcuni risultati di Poincaré e di Picard. Fu possibile sviluppare una teoria locale delle funzioni a più variabili complesse utilizzando le serie di potenze in più variabili e delle relative regioni di convergenza, ma anche il semplice risultato che tali funzioni sono precisamente quelle che analitiche separatamente in ogni variabile fu dimostrato in modo esatto solo nel 1905. Lo sviluppo della teoria fu fortemente rallentato dal fallimento generale dei tentativi di trattare con le singolarità, in particolare di definire e chiarire la natura delle singolarità essenziali. I punti singolari essenziali di una funzione di una variabile possono essere isolati o formare un insieme denso, che in tal caso è un bordo naturale della funzione. Nel 1880, Weierstrass affermò che anche le funzioni di più variabili possono avere punti singolari essenziali isolati, un errore che continuò a persistere fino a quando fu corretto dal matematico italiano E. E. Levi nel 1910 e che dimostra come era difficile questa branca della matematica. Anche la semplice osservazione che una funzione analitica di più variabili non può avere una singolarità ordinaria in un punto isolato, che si dimostra considerando la sua espansione in serie di Laurent, sembra che sia stata fatta per la prima volta da Hurwitz solo nel 1897. Analoghe difficoltà attendevano i tentativi di generalizzare direttamente la teoria delle funzioni ellittiche e delle loro funzioni theta. Per giungere a risultati definitivi in questo senso si dovette attendere fino al 20° secolo (v. …xiii). Sembra che in quegli anni la caratteristica peculiare di questa branca della matematica fosse la sua complessiva mancanza di successi, piuttosto che una qualsiasi delle sue sofferte vittorie. 6.2.6 Argomenti avanzati della teoria generale delle funzioni complesse Nonostante l’esempio di Abel, a lungo si è scritto un integrale ellittico nella forma z ∫ 0 dt (1 − t )(1 − k 2 t 2 ) 2 dove il parametro k che appare è detto modulo. I periodi della corrispondente funzione ellittica, e quindi del loro quoziente, sono naturalmente funzioni di questo parametro. Il quoziente si chiama funzione ellittica modulare, e nel 1878 era già chiaro da molti anni che si trattava di un oggetto fondamentale da prendere in considerazione in ogni tentativo di capire la teoria delle funzioni ellittiche. Ma solo in quell’anno Dedekind fu in grado di dare una trattazione della funzione ellittica modulare che non si basasse sulla teoria vasta e difficile delle funzioni ellittiche. La teoria creata da Dedekind era molto geometrica, e ruotava intorno ad una funzione (successivamente chiamata da Klein funzione j) definita nel semipiano {z | Im(z)>0}, che verifica una semplice generalizzazione della condizione di periodicità: ατ + β ν γτ + δ = ν (τ ) dove α β γ δ è una matrice a coefficienti interi e determinante 1. Associata ad una tale funzione esiste una regione dove la funzione assume ogni suo possibile valore una ed una sola volta, detta regione fondamentale, che nel caso in esame è delimitata da un semicerchio e da due rette verticali. Utilizzando questa funzione Dedekind fu in grado di sviluppare una teoria quasi completa per rispondere a domande sui periodi e sui moduli, del tipo seguente: che relazioni ci sono tra i moduli se il corrispondente rapporto dei periodi è moltiplicato per un numero primo? Si trattava di problemi classici del campo, ma l’approccio di Dedekind fu il primo approccio diretto, e rapidamente divenne standard. L’anno successivo Klein diede un contributo significativo, ponendo in rilievo i legami con la teoria dei gruppi. Le matrici della forma α γ β δ con coefficienti interi e determinante 1 formano un gruppo Γ contenente molti sottogruppi, tra i quali quello, già noto a Gauss, delle matrici per cui α e δ sono dispari e β e γ sono pari, che formano il sottogruppo delle matrici α γ β 1 0 ≡ (mod 2) δ 0 1 Klein studiò come queste matrici agiscono geometricamente sul piano complesso. Esse spostano en bloxivc la regione fondamentale e con essa pavimentano il semipiano superiore. Le regioni fondamentali dei sottogruppi sono fatte da più copie della regione fondamentale della funzione j; queste formano un nuovo tassello che viene mosso en bloc dal sottogruppo. La scoperta più interessante di Klein riguarda il sottogruppo delle matrici β 1 0 ≡ (mod 7) δ 0 1 La sua regione fondamentale si compone di 168 copie della regione fondamentale della funzione j, formando un poligono a 14 lati mosso en bloc da Γ7. I lati che si toccano nella pavimentazione definiscono coppie di lati nel tassello fondamentale che quando sono incollati assieme danno origine ad una superficie di Riemann (in questo caso di genere 3). Il gruppo quoziente Γ/Γ7 trasforma la superficie in sé. A partire da una descrizione così esplicita della superficie di Riemann, la prima di questo tipo, Klein fu in grado di determinare per essa un’equazione come curva nello spazio proiettivo. α Γ7 := γ Poincaré cominciò indipendentemente nel 1880 un programma di lavoro che generalizzava di gran lunga quello che era stato fatto, e creava una teoria profondamente geometrica delle funzioni complesse. Egli aveva scoperto un altro modo di costruire triangoli e poligoni analoghi a quelli di Klein, e aveva osservato che si spostavano sotto l’azione di gruppi opportuni in modo da ricoprire, di solito, un disco. Inoltre questo disco aveva una struttura geometrica non euclidea invariante per l’azione dei gruppi e quindi la corrispondente superficie di Riemann era localmente uguale a una porzione di spazio non euclideo bidimensionalexv. Molto rapidamente lui e Klein congetturarono che ogni superficie di Riemann corrispondesse esattamente ad un gruppo di questo tipo e viceversa. Questo implicava che ogni superficie di Riemann si potesse ottenere da un poligono contenuto nella sfera di Riemann, o nel piano complesso o nel disco unitario. Fu solo nel 1907 che questo risultato, il cosiddetto teorema di uniformizzazione, fu dimostrato da Poincaré e Koebe. Poincaré era stato condotto a questo lavoro dai suoi interessi nella teoria delle equazioni differenziali ordinarie lineari, a quel tempo oggetto di un premio bandito dalla Académie des Sciences di Parigi. Nel 1884 annunciò di aver scoperto una classe di funzioni che generalizzavano le funzioni ellittiche e le funzioni theta, per mezzo delle quali si potevano esprimere le soluzioni di ogni equazione differenziale lineare ordinaria a coefficienti algebrici; un risultato stupefacente, anche se difficoltà formidabili si ergevano di fronte ai tentativi di applicare questa scoperta, o anche solo di controllare i dettagli della dimostrazione (Poincaré era un visionario, incline a trascurare i dettagli delicati) . Gli anni 80 del 18° secolo assistettero al rifiorire di interesse nei confronti della teoria delle funzioni complesse, in particolare in Francia, dove la generazione di Poincaré e di Picard fu seguita, nell’arco di quindici anni, da quella di Borel e di Hadamard. Nel 1879 Picard scoprì un miglioramento notevole del teorema di Casorati – Weierstrass. Dimostrò che una funzione intera (definita su tutto il piano complesso, finita e priva di punti singolari) assume ogni valore finito, eccetto al più uno, e che in ogni intorno di un punto singolare essenziale una funzione assume ogni valore finito eccetto al più uno. Il suo metodo faceva un uso intelligente della funzione ellittica modulare, e quindi sollevò il problema di trovare una dimostrazione essenzialmente elementare, che non facesse uso di metodi apparentemente estranei – i matematici cercano spesso questo tipo di dimostrazioni per essere sicuri di aver capito le ragioni per cui un teorema è vero. Il lavoro di Picard doveva stimolare molte ricerche sulle funzioni intere. Il giovane Hadamard le mise in relazione con lo studio della funzione zeta di Riemann, mentre Borel fu il primo a dare una dimostrazione elementare dei teoremi di Picard. La caratteristica fondamentale di questo lavoro consiste nel problema di capire cosa dicono i coefficienti di una serie di Taylor sulla funzione che tale serie definisce, e sulla natura dei punti singolari sul cerchio di convergenza o arbitrariamente vicini ad esso. Darboux diede inizio a queste ricerche con la pubblicazione di una articolo sull’approssimazione delle funzioni, che focalizzò l’attenzione sul modo in cui una serie di potenze diviene infinita sul suo cerchio di convergenza. Questo stimolò Hadamard a scegliere come argomento della sua tesi di dottorato le proprietà di una funzione definita da una serie di Taylor. Egli considerò una serie di potenze con raggio di convergenza unitario, e studiò come la natura delle singolarità dipendesse dalla rapidità con cui crescevano i coefficienti. Tra i risultati contenuti nella tesi c’erano condizioni necessarie e sufficienti sugli an perché un dato punto sul cerchio di convergenza fosse una singolarità. La principale tra queste è il teorema delle lacune di Hadamard, che afferma che se c’è una costante λ >1 tale che per tutti i k, ak+1/ak≥λxvi allora la serie definisce una funzione che ammette il cerchio come bordo naturale. Nel 1892 Hadamard pubblicò il famoso articolo sulle funzioni intere che gli valse il Gran Prix. Ciò che gli assicurò la gloria fu la dimostrazione rigorosa, contenuta in questo lavoro, di uno dei punti chiave che Riemann utilizzò senza dimostrare nello studio della funzione ζ. Subito dopo Emilie Borel iniziò la pubblicazione di una serie di articoli sulla teoria delle funzioni intere. Raffinò e semplificò le definizioni relative alla descrizione della crescita di una funzione al crescere del modulo della variabile, e utilizzò i delicati risultati di Hadamard sul posizionamento degli zeri di una funzione intera e le proprietà del concetto di ordine per dare una dimostrazione del piccolo teorema di Picard. 6.2.7 Il predominio della teoria delle funzioni complesse L’analisi, per ragioni legate all’ampiezza dello spettro delle sue applicazioni e al carattere matematico universale del concetto di funzione è stata, se non la principale, una delle branche importanti della matematica fin dall’invenzione del calcolo differenziale ed integrale. Nel corso del 19° secolo, l’analisi venne sempre di più ad assumere il significato di analisi complessa; molte delle sottigliezze e delle applicazioni dell’analisi reale sono creazioni degli ultimi anni del 19° secolo o dei primi anni del 20° secolo. Non c’era, naturalmente, convergenza di opinioni sul contenuto dei programmi per l’insegnamento della matematica nel 19° secolo. C’erano però due centri dominanti; le due Grandes Écoles di Parigi e l’Università di Berlino. Nella seconda metà del 19° secolo i leader riconosciuti dei matematici francesi scrissero i loro Traité, di solito in tre volumi, il cui contenuto sopravanzava di molto il programma svolto nei relativi corsi. La fama di quelli di Jordan e di Picard è arrivata fino ai giorni nostri. La terza edizione di quello di Jordan fu ristampata fino al 1959, ben dopo la sua morte. Il primo volume comincia con i fondamenti del calcolo differenziale, prosegue con le funzioni di una sola variabile complessa e si conclude con le applicazioni alla geometria (una combinazione molto francese, nel solco della tradizione della École Polytechnique). Il secondo volume, sul calcolo integrale, copre argomenti quali gli integrali di Eulero, gli integrali di Fourier, e il teorema di Green, ma metà del volume riguarda ancora la teoria delle funzioni ellittiche. Il terzo volume è sulle equazioni differenziali, parziali e ordinarie, reali e complesse. Il Traité di Picard è diverso ma non meno complesso: è il punto in cui la teoria delle superfici di Riemann fece il suo ingresso nei programmi francesi. A Berlino Weierstrass teneva un corso di lezioni strutturato in quattro semestri. Copriva l’analisi reale, fondamenti compresi, l’analisi complessa, le funzioni ellittiche ed abeliane e alcune applicazioni (principalmente quelle di Legendre), e veniva rivisto ogni due anni. Tra le altre figure dominanti a Berlino, sia Kronecker che Kummer erano per lo più associati all’analisi complessa, e dei loro successori, se Schwarz lavorava sia sul versante reale che su quello complesso, Fuchs si occupava esclusivamente di analisi complessa. Naturalmente, questa enfasi si rifletteva anche altrove. Il ciclo di lezioni di Klein, sviluppato a Gottingen in diretto antagonismo, si sospetta, con quello di Weierstrass, era prevalentemente dedicato agli aspetti complessi. È più facile nominare autori inglesi e americani di testi di analisi complessa piuttosto che di analisi reale (Forsyth, Harkness e Morley), e lo stesso vale in Italia (per esempio Pincherle). Così è ragionevole domandarsi perché. Una risposta è che la geometria del tempo era naturalmente algebricaxvii. Il teorema fondamentale dell’algebra ricompensa chiunque scelga i numeri complessi invece dei numeri reali, e di conseguenza, ogni teoria geometrica delle soluzioni delle equazioni polinomiali diviene complessa in modo naturale. Si potrebbe pensare che questo sviluppo possa realizzarsi solo pagando un prezzo, quello di dover affrontare difficoltà maggiori nell’applicazione della teoria ai problemi del mondo reale Questa supposizione assume per prima cosa che il mondo reale accetti solo numeri reali come risposte, e poi che questo sia necessariamente un prezzo da pagare. Entrambe le supposizioni devono essere ridimensionate. Cominciamo dalla seconda: in un momento di crescente autonomia della matematica pura, il fatto che una teoria ben sviluppata producesse risposte complesse, forse inutili, non è necessariamente da condannare. Il punto di vista dell’epoca era duplice. Innanzitutto una teoria complessa poteva offrire risposte che una teoria reale non poteva dare; è meglio, dopo tutto, avere risposte complesse a un problema, piuttosto che sapere solo che non esistono risposte reali. E poi non esisteva alcuna opposizione alla creazione di una teoria reale, ma la saggezza generata dall’esperienza suggeriva che le risposte, e perfino i problemi, potevano essere per loro stessa natura complessi. Questo ci riporta alla prima supposizione; che la matematica applicata richieda i numeri reali. Questo è falso da tutti i punti di vista. Per esempio, un’applicazione così comune che non è stata neppure degna di essere menzionata finora, consiste nel semplice trucco formale secondo cui una coppia di numeri reali x e y si possono fondere insieme in una singola quantità complessa x+i y. Un passo oltre questa osservazione banale è il teorema di de Moivre: eiθ=cos θ + i sen θ. Durante il 19°secolo questa notazione è onnipresente nelle applicazioni delle serie di Fourier. Non c’è motivo di conferirgli la dignità di capitolo della teoria delle funzioni complesse, ma è complessa in ogni caso, ed è abituale sentire i fisici che parlano di fase della luce in termini complessi. Basandosi sul precedente lavoro di Fresnel, Cauchy introdusse la prima quantità fisica genuinamente complessa quando discusse la riflettivitàxviii dei metalli. Un altro esempio, anche se dei primi anni del 20° secolo, può aiutare a chiarire questo punto: la teoria delle correnti alternate era molto più complicata della semplice algebra delle correnti continue e fu ampiamente formulata da Steinmetz attraverso gli esponenziali complessi. Lo stesso trucco notazionale di scrivere z=x+i y e dz=dx+i dy si dimostrò molto utile nella teoria delle mappe conformi e quindi nella cartografia teorica. Divenne chiaro con la teoria delle funzioni ellittiche che tali funzioni e gli integrali ellittici associati, erano necessariamente complessi. Questo non diminuì la loro utilità, e non ci fu mai nessuno che suggerisse che fosse necessaria una teoria reale per giustificare il loro utilizzo nel mondo reale. Le prime esposizioni sistematiche delle funzioni di Bessel, quelle di Lommel e C. A. Neumann, utilizzarono in maniera sistematica il teorema integrale di Cauchy e trattarono automaticamente le funzioni come funzioni di variabile complessa. Anche lo stretto legame tra le funzioni complesse e le funzioni armoniche contribuì a rendere naturale la teoria complessa. Maxwell l’aveva chiamata in causa nel suo Treatise on Electricity and Magnetism. Klein scrisse e tenne lezioni sull’approccio di Riemann alla teoria delle funzioni complesse, partendo dall’elettrostatica. All’altro estremo dello spettro, negli anni 90 del 19° secolo, il pioniere russo dell’aeronautica, Zhokovskii, osservò che le funzioni della forma w = az + b z potevano trasformare in modo conforme il cerchio unitario in una varietà di forme aventi approssimativamente l’aspetto di un profilo alare. Il flusso attorno ad un cerchio si ottiene facilmente e da questo Zhokovskii fu in grado di analizzare altri profili alari, stimandone la portanza generata. Zhokovskii si avvaleva anche dei primi esperimenti nella galleria del vento che mostrarono la discrepanza (considerevole) tra la teoria e l’ esperienza. Non bisogna sovrastimare quanto la matematica si facesse, per così dire, complessa nel 19° secolo, ma ciò nonostante è una tendenza da mettere in rilievo. Nei 60 anni tra il 1859 e il 1919 furono scritti almeno 60 libri sull’argomento, in almeno 8 lingue. La Germania, naturalmente, era alla testa di questa tendenza, seguita dalla Francia. I testi inglesi e americani erano all’incirca tanti quanti quelli italiani. Esistevano poi testi russi, spagnoli, polacchi e danesi. I testi tedeschi da principio seguirono l’approccio di Riemann, quindi tennero banco i seguaci di Weierstrass, finché molti autori provarono a fondere i due approcci. I Francesi dovettero attendere a lungo qualche autore che assimilasse quello che Riemann aveva cercato di dire. Solo gli Italiani, tra le altre nazioni, annoveravano ricercatori di punta nel campo della teoria delle funzioni complesse, e quindi i testi di Casorati, Bianchi e Pincherle rivestono un significato speciale, anche se gli ultimi due sono piuttosto tardi (1989-1901). Gli autori inglesi e americani sembrano più che altro discepoli volenterosi. Forsyth provò a unificare le tre teorie principali, quelle di Cauchy, Riemann e Weierstrass, ma Osgood trovava che la sua trattazione lasciasse a desiderare. Harkness e Morley, d’altra parte, seguirono deliberatamente l’approccio di Weierstrass, sebbene si debba notare che una traduzione inglese del testo di Durège fosse stata preparata per il mercato americano nel 1896. Per mettere ordine in questa abbondanza, si possono scegliere alcuni argomenti rappresentativi, e citare appena gli altri, dando così un’idea di come si andasse sviluppando la teoria. Tutti gli autori francesi, quelli come Lindelof che scrivevano in francese e i tedeschi attratti dall’approccio di Riemann, (come Durège e Carl Neumann intorno al 1860 e successivamente Koenigsberger), definivano una funzione complessa ponendo condizioni sulla derivata. Per ottenere i risultati necessari sulle serie di potenze, dimostravano il teorema integrale di Cauchy e la formula integrale di Cauchy. Ciò permetteva di dimostrare che gli zeri di una funzione complessa devono essere isolati, e quindi che una funzione complessa costante su un dominio D, piccolo a piacere, è costante su ogni dominio semplicemente connesso contenente D. Altri risultati fondamentali contemplano il teorema dell’indicatore logaritmico di Cauchy, pubblicato nel 1855, che afferma che il numero degli zeri meno il numero dei poli della funzione f all’interno di una curva chiusa coincide con l’integrale 1 2πι ∫ f' 1 = d log f f 2πι ∫ lungo la curva chiusaxix; e infine il principio del massimo: il massimo modulo di una funzione complessa definita su un dominio, se esiste, viene assunto sul bordo del dominio stesso. Applicazioni tipiche includevano il teorema fondamentale dell’algebra (come era stato dimostrato da Gauss, Cauchy o in qualche altro modo), il teorema di Liouville e la caratterizzazione delle funzioni razionali a partire dai loro zeri e poli (dimostrato da Briot e Bouquet). Le differenze maggiori tra questi autori riguardavano le applicazioni. Per Briot e Bouquet erano essenzialmente le funzioni ellittiche. Altri autori ritornarono alle motivazioni originali di Cauchy enfatizzando l’uso dei metodi complessi per valutare gli integrali reali. Durège aveva lo scopo di esporre la teoria di Riemann dei moduli, e riscriveva quella parte del suo libro ad ogni nuova edizione. Autori successivi nel solco della tradizione riemanniana, sono Harnack e Lipschitz. Gli autori della scuola di Weierstrass avevano a disposizione i vari cicli di lezione del maestro come punto di partenza per le loro elaborazioni e siccome a queste lezioni partecipavano fino a 200 persone, possiamo assumere che quasi tutti i matematici tedeschi e un buon numero di matematici stranieri fossero a conoscenza dei suoi principi. Tra gli effetti positivi del suo insegnamento c’era la distinzione tra poli finiti e singolarità essenziali, e di conseguenza il teorema di Casorati – Weierstrass, insieme ad una significativa critica implicita delle discussioni fuorvianti degli autori precedenti sul fatto che funzioni come e1/z assumessero nell’origine ogni valore in dipendenza del modo in cui ci si avvicinava a zero. Tra gli effetti negativi c’era la rinuncia ad utilizzare il teorema integrale di Cauchy e le conseguenti contorsioni per dimostrare il teorema di Laurent. Il primo libro nello stile di Weierstrass fu quello di Thomae del 1880. Egli ne fece seguire una seconda edizione nello stesso spirito nel 1898, che indusse Fricke, uno stretto collaboratore di Klein, a commentare che agli studenti poteva risultare più semplice l’approccio basato sulle idee di Cauchy. Il libro di Fricke del 1900, rivolto ai matematici applicati, era conforme a quella ipotesi, e approfondiva le applicazioni delle funzioni ellittiche. È interessante il fatto che Thomae scrisse un libro sulla teoria delle funzioni complesse nel 1890 che era completamente nello spirito di Riemann, suggerendo che gli studenti dovessero cominciare con il rigore di Weierstrass e quindi acquisire il gusto per l’ispirazione di Riemann. Il libro di Biermann del 1887 era ancor più ligio all’ortodossia di Weierstress, e doveva divenire il miglior approccio iniziale alla teoria perchè Weierstrass non scrisse mai un’esposizione delle suo punto di vista. Si davano le dimostrazioni tipiche di Weierstrass del teorema di Liouville (senza che gli venisse attribuito il nome di Liouville) e del teorema fondamentale dell’algebra, che veniva dedotto dal teorema di Casorati – Weierstrass. Tra gli autori italiani, Pincherle e Bianchi presentarono una miscela dell’approccio di CauchyRiemann e di quello di Weierstrass da cui partivano per presentare una varietà argomenti più avanzati. Fu lasciato a Vivanti il compito di scrivere un’esposizione ortodossa della teoria di Weierstrass, che Gutzmer commentò così favorevolmente nel 1901, da accantonare l’idea di scrivere lui stesso un libro del genere e pubblicò invece una traduzione rivista e allargata del libro di Vivanti nel 1906. Un commentatore francese, probabilmente Jules Tannery, si lamentava che, a differenza dei geometri, che si muovevano ormai felicemente tra metodi analitici e sintetici, gli analisti geometrici e algebrici sembravano sempre distanti tra loro. Il desiderio di unificazione in questa materia era ormai maturo per realizzarsi. Nel 1900 Weierstrass e gli altri fondatori della grande scuola matematica di Berlino la matematica erano ormai morti, e la loro tradizione si andava dissolvendo. Il libro di Burkhard del 1897, che fu ristampato in 4 edizioni, cominciava con il modo di Riemann di presentare le cose, e quindi passava ad una presentazione più precisa, alla maniera di Weierstrass. Inoltre, il centro universitario dominante in Germania, stava rapidamente diventando Göttingen, dove lo spirito era dichiaratamente riemanniano. David Hilbert tenne a Göttingen un corso di lezioni nel 1896/97 sulla teoria delle funzioni complesse, e le annotazioni ai suoi appunti mostrano che egli raccomandava il libro di Durège per una prima introduzione, e con maggior calore l’Abriss di Thomae del 1890 per l’approccio di Cauchy - Riemann e il libro del [1888] di Thomae per l’approccio di Weierstrass. Affermava che il libro del [1886] di Biermann era meno affidabile, e secondo le note di un altro studente aggiungeva che Burkhardt era il testo raccomandato per l’acquisto. Venivano anche elogiati il Traité di Jordan e quello di Picard. Una tale panoramica sulla letteratura era l’antitesi dell’approccio di Berlino, dove i professori avevano preferito rielaborare il materiale e produrre la loro (si potrebbe dire “la”) versione, senza riferimenti che suggerissero percorsi alternativi. Questo è un approccio marcatamente autoritario per tenere i propri studenti lontani dall’errore. Il corso di Hilbert è uno dei primi ad offrire qualcosa che incontri il consenso moderno. I libri che fanno così sono quelli di Knopp del 1918 e di Bieberbach del 1921 in Germania e l’esposizione francese, meno rigorosa, di Goursat del 1902.Una dimostrazione della maturità raggiunta dalla tradizione risulta evidente quando si rifletta che tutti i testi moderni compiono più o meno lo stesso percorso di quelli citati nell’approccio alla materia. Il testo di Ahlfors è tipico, e le note tra parentesi ne sottolineano gli aspetto più moderni. Vengono definiti i numeri complessi e vengono illustrate le loro operazioni algebriche fondamentali, quindi si definisce una funzione olomorfa come una funzione che ha una derivata (non necessariamente continua); essa soddisfa perciò le equazioni di Cauchy Riemann (su qualche dominio da determinare). Il primo risultato fondamentale è il teorema integrale di Cauchy, dimostrato utilizzando il metodo di Goursat (si discute una questione profonda sulla classe rilevante di cammini chiusi, e l’argomento del numero di avvolgimentixx). Segue la formula integrale di Cauchy, utilizzando la quale si dimostra che una funzione olomorfa è infinitamente differenziabile e ammette una espansione in serie di Taylor; il principio del massimo modulo viene utilizzato per garantire la convergenza. Viene sviluppata la teoria dei poli di ordine finito: il teorema dei residui di Cauchy, gli sviluppi in serie di Laurent, e il conto degli zeri e dei poli interni ad una regione. Vengono quindi descritte le singolarità essenziali e viene dimostrato il teorema di Casorati Weierstrass. Alcuni argomenti ulteriori sono a questo punto a portata di mano; tra questi, il teorema di Liouville, il teorema di Morera e il teorema della singolarità eliminabile di Riemann. Questo è un mero elenco degli argomenti che costituiscono il nucleo elementare della teoria delle funzioni complesse, secondo l’opinione generale. Esiste una certa flessibilità sui complementi; alcuni introducono un capitolo sulle funzioni armoniche, altri no. Il libro di Ahlfors segna il punto in cui il legame con le funzioni ellittiche venne rescisso; egli rinvia il lettore al libro di Copson del 1935. Il cambiamento riflette il consenso che, a partire dal 1950, esiste sui programmi; c’è un nucleo fondamentale della materia e oltre a questo non una ma molte aree di applicazione e di approfondimento della teoria. Queste si possono trattare in un secondo volume o il lettore può essere rinviato ad altri autori. Tra gli argomenti di questo genere ci sono le funzioni ellittiche, il prolungamento analitico, la teoria delle funzioni intere e delle funzioni meromorfe, e il teorema dell’applicazione di Riemann; le funzioni algebriche e le superficie di Riemann compatte, le famiglie normali; i teoremi di rappresentazione di Weierstrass e di Mittag-Leffler. i Il riferimento è ad un articolo della Storia della Scienza che presumo verrà tradotto con Algebra dei polinomi. 21 / 3 ii Ho corretto un errore nella formula originale. L’altro valore riportato da Gray, , non è radice di – 2 2, come si verifica immediatamente. D’altra parte è ben noto che le radici cubiche di un numero complesso non nullo sono tre, quindi sono solo quelle che ha già scritto. Toglierei quindi la frase “A different account ...” iii Credo che “continuig the hole” nell’originale sia errato e vada sostituito con “containing the hole”. iv C’è un errore della nella formula dell’originale che ho corretto, ha scambiato x con y. v La definizione di Gray è errata. non comprende le curve chiuse, che poi gli servono. vi La descrizione del procedimento di dissezione è a mio avviso troppo concisa. Ritengo opportuno un riferimento bibliografico. Suggerisco l’articolo Analysis Situs di Oscar Chisini apparso nel volume III dell’Enciclopedia Treccani, che contiene anche delle figure molto chiare, in particolare il paragrafo Varietà a due dimensioni. vii Non capisco il senso della frase. viii Non capisco il senso della frase. ix Nella formula ho corretto un errore dell’originale x Non sono sicuro della traduzione di questa frase. xi Eviterei di scrivere “il polinomio F” perché Gray ha appena discusso un esempio in cui F non è un polinomio. xii Ho corretto una inconsistenza nella notazione di Gray, che ha invertito le x con le y. xiii Nell’originale manca il riferimento xiv Si può tradurre in blocco. xv Ho aggiunto qualcosa all’originale per chiarire il senso del discorso. xvi Ho corretto un’incongruenza di notazione nell’originale. xvii La traduzione letterale è priva di senso. Credo che ci sia un errore nell’originale e che geometria debba sostituire algebra. xviii Reflectivity xix Ho corretto la formula dell’originale che era sbagliata. xx Si usa abitualmente il termine inglese winding number invece di numero di avvolgimenti.