CHE COSA HA VERAMENTE DETTO NICCOLO' MACHIAVELLI Massimo Desideri Copyright © 2013 Società Editrice Dante Alighieri S.R.L. www.societaeditricedantealighieri.it I diritti di elaborazione in qualsiasi forma o opera, di memorizzazione anche digitale su supporti di qualsiasi tipo (inclusi magnetici e ottici), di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), i diritti di noleggio, di prestito e di traduzione sono riservati per tutti i paesi. L’acquisto della presente copia dell’opera non implica il trasferimento dei suddetti diritti né li esaurisce. Le fotocopie per uso personale (cioè privato e individuale, con esclusione quindi di strumenti di uso collettivo) possono essere effettuate, nei limiti del 15% di ciascun volume, dietro pagamento alla S.I.A.E del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. 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Un poveraccio di cartolaio-tabaccaio, di nazionalità italiana, che ha il negozio dietro casa mia, potrebbe essere preso a simbolo del rapporto Italia-Cina di oggi. Tempo fa, preso da una sana pulsione d’amore nazionale, mi sono rivolto a lui, chiedendo dei fogli contenitori plastificati flessibili formato A24; per di più mi serviva un francobollo per spedire una lettera a un conoscente in Germania; oltre a una ricarica telefonica, visto che sulla vetrina del suo locale recita la scritta, a caratteri quasi cubitali, “Si fanno ricariche telefoniche”. Quanto alla prima richiesta, mi ha detto d’essere sprovvisto di fogli del formato da me desiderato; per la seconda richiesta, mi ha detto che i francobolli, quella mattina, non erano stati resi disponibili da chi di dovere; ma poi, in un’altra zona, ho scoperto, dopo un po’, che solo lui ne era sprovvisto; in merito alla terza richiesta, mi ha risposto che, quella mattina, non c’era linea e che, quindi, la ricarica non me la poteva fare. E così l’ho fatta, poco dopo, da un’altra parte. La zona dove è ubicato il locale di questo singolare cartolaiotabaccaio, indolente o sfortunato fate voi, non ha nelle vicinanze altri esercizi simili al suo: il che oggi a Roma non è poco. Fatto sta che, a quattro o cinque isolati da lui, c’è un negozio tipo bazar, a gestione cinese, come ne sono spuntati a bizzeffe, nella capitale d’Italia, in questi ultimi anni: lì ho trovato, in mezzo a una baraonda di tutto un po’, tre scaffali pieni di fogli contenitori plastificati flessibili formato A24, compreso ogni altro formato, e tutti gli articoli di cartoleria possibili e immaginabili, pur accanto a statuette e altri indefinibili oggetti di plastica inguardabili dalla più mirabolante policromia. A parte ciò, sulla faccia del cartolaio-tabaccaio italiano si legge la rassegnazione e l’impotente abulia, ormai atavica, della nostra gente tipo “impero romano alla fine della decadenza”, mentre sulle facce, pur difficilmente distinguibili per noi, degli operatori e gestori cinesi 5 di questi incredibili punti-vendita - quasi tutti sufficientemente bilingui - si coglie quell’operosità instancabile e quella voglia di fare, che io ricordo, da bambino, nei negozianti italiani degli anni sessanta. Non sarà tutta colpa nostra questa situazione: ci sarà di mezzo la globalizzazione, la crisi finanziaria di questi ultimi anni, una burocrazia tra le più ottuse del mondo, una tassazione tra le più alte del globo, il fatto che ci avevano spinti a vivere al di sopra delle nostre possibilità e che, adesso, siamo disperati a dovercene tornare indietro; sarà colpa dell’arretratezza culturale di ritorno in Italia e le responsabilità di ogni tipo della nostra classe politica impreparata, ladronesca, solo tartassante, e via di questo passo. Fatto sta che noi regrediamo e altri, fuori d’Italia, pur con difficoltà, qualche progressuccio lo fanno, sia economico sia mentale. Che dire, per esempio, saltando di palo in frasca, ma fino a un certo punto, della notizia, riportata dal Corriere della sera del 25/5/2013, a firma di Dino Messina, riguardante il “nostro” Niccolò Machiavelli? In occasione dei cinquecento anni dalla composizione del Principe (1513), in Cina - non in Italia - si è tenuto un grande convegno internazionale dedicato a Niccolò Machiavelli, di cui, tra l’altro, l’editore Jilin ha quasi finito di pubblicare l’opera omnia in cinese. Strano Paese, la Cina: fedele custode della sua millenaria cultura, eppure anche così curiosamente giovane da aprirsi ai valori artistici e culturali altrui, laddove si avvertano universali. E non da ora: se è vero che un certo Lin Shu, tra Ottocento e Novecento tradusse in cinese Shakespeare, Dickens, Scott, Dumas, Cervantes, Ibsen, Tolstoj, Hugo; e se un altro letterato, Liang Ch’ich’ao, scrisse un dramma in sette atti, Hsin Lo-ma (“La nuova Roma”), pubblicato nel 1904 a Tokyo su una rivista edita da esuli cinesi, in cui i tre eroi protagonisti, Mazzini, Garibaldi e Cavour, molto ammirati dall’autore, sono introdotti, nel prologo, dal personaggio di Dante, sebbene “cinesizzato”, ovvero vestito come un “immortale taoista”, cioè nella foggia di un eremita dedito alla meditazione e a una rigida disciplina di vita. 6 Insomma, uno sforzo notevole, che dura ancora oggi, a quanto pare, di studio delle culture occidentali. E noi? Beh, noi, un po’ meno facciamo: non solo studiamo poco lingue e culture altrui, ma siamo parecchio distratti anche sulla nostra. C’è gente, per esempio, addirittura imboscata in Parlamento, che non solo ignora quand’è stata scoperta l’America o quando sia scoppiata la Rivoluzione Francese, ma traballa parecchio anche in storia nazionale e in cultura generale; incespica rovinosamente quando tenta di usare qualche congiuntivo, strapazza i nessi sintattici, e mastica poco pure di carta costituzionale, che nei Palazzi Istituzionali dovrebbe essere, invece, pane quotidiano. Con grave oltraggio, perciò, alla tradizione democratica nostra, di cui a chiacchiere si proclama convinta paladina. Ma lasciando perdere il Parlamento per ridiscendere fra noi poveretti comuni, che a maggior ragione non stiamo messi meglio, molti nostri connazionali conoscono qualche parola o personaggio di Dante più grazie a Benigni che per merito della preparazione ricevuta, si fa per dire, a scuola, dove professori dialettofoni o un po’ approssimativi non sono un’eccezione, ma una divertita costante. Come c’insegna l’esilarante parodia del Professor Ròstico di Carlo Verdone, che recita enfatico A Silvia senza che si capisca un’acca a causa d’un’inflessione dialettale sconcertante. D’altronde, l’ultima statistica che m’è capitata sotto mano dice che l’Italia ha i livelli di lettura più bassi d’Europa: solo il 47% degli italiani legge almeno un libro all’anno; mentre in Spagna il 59, il 70 in Francia e l’83% in Germania. Se poi si mette un po’ il coltello nella piaga, sono dolori:... figurarsi, per esempio, che qualche tempo fa una ragazza, per età di sicuro già diplomata, interpellata dalle solite Iene, ha detto, dopo averci pensato su, che è stato Manzoni a scrivere i Malavoglia e che il nome dei protagonisti dei Promessi Sposi è Dante e Beatrice; o…forse, Renzo e Beatrice. Insomma, di Lucia manco a parlarne: e fosse solo quella ai danni della poverina l’unica ingiuria!. Per consolarci, però, veniamo informati, nella breve nota del Corsera di cui sopra a proposito di Machiavelli, che lo storico Valdo 7 Spini, presidente per le celebrazioni del quinto centenario del Principe, è stato della partita, tant’è vero che si trovava, in quei giorni, a Tianjin, sede del congresso; e che Giuliano Amato ha dato il suo contributo per il rilancio degli studi sul Segretario Fiorentino. Però ci si dice pure che un italianista dell’Università di Strasburgo, Emanuele Cutinelli Réndina, ha rivelato che, per pubblicare un volume sugli scritti diplomatici di Machiavelli, avevano dovuto metter mano al portafogli gli svizzeri (la Fondazione Margherita di Sion, città del Vallese) e un gentiluomo straniero, di cui si tace il nome. Bello, no? Certo, se non fosse che l’Italia, culturalmente miope e intellettualmente povera, non trova un quattrino per stampare gli epistolari e il libro destinato a raccogliere i circa trecento autografi machiavelliani. Che, c’è da scommettere, non verranno pubblicati. Ma forse la difficoltà più grande è che non c’è la sensibilità né la preparazione necessaria per capire l’importanza della tutela del nostro patrimonio culturale e artistico. D’altra parte, è un problema culturale, appunto, di educazione di base delle nuove generazioni ed è inutile star qui a ricordare i decennali guasti della scuola italiana, prodotti dal demenziale e clientelare “sistema” di reclutamento degli insegnanti e dal mancato controllo della qualità e dei metodi dell’istruzione: problema che non è solo riducibile a una questione di stanziamento di fondi, ma soprattutto imputabile anche a una disastrosa mancanza di qualità della nostra classe politica, clientelare, irreversibilmente incolta e culturalmente analfabeta. Per cui Machiavelli, come altri geni nazionali del passato, si studia poco e male, col rischio di ridurlo a un retrivo teorico di dittatoriali sfaceli novecenteschi, con una confusione mentale e culturale da far rabbrividire; che è, però, lo specchio attuale del Paese, prigioniero di demagogia e pressapochismo. E allora, per dare un modesto contributo al ricordo della figura e dell’opera del Machiavelli - e non solo per l’occasione del “cinquecentenario” del Principe -, questo libro non aggiungerà nulla, nell’illustrare le linee essenziali del suo pensiero, a quello che 8 il Machiavelli dice lui stesso, di sé e dell’Italia del suo tempo, l’età difficile del Cinquecento. L’età del Rinascimento da un lato, ma anche l’età delle divisioni politiche e delle discordie tra i tanti Stati regionali italiani di quel periodo. L’opera sua più famosa, il Principe, molti sintetizzano nella formula, non di lui ma per sua spacciata da chi poco lo conosce, “il fine giustifica i mezzi”. Machiavelli fu osteggiato ed emarginato, fin dai suoi tempi, e non manca chi lo osteggia ancor oggi, perché ha detto verità scomode: per esempio, che la politica non ha niente a che vedere con la morale. A lui questo dispiace, va detto; basta leggerlo: ma il fatto è che non lui, bensì i politici, una cosa dicono e un’altra fanno. E questo, da sempre: per cui, vista l’impossibilità di mutare la natura profonda dell’uomo - almeno nell’immediato dei suoi tempi -, Machiavelli consiglia, come “medicina”, e come strategia per chi quella medicina si proponga di somministrare all’Italia malata, la prassi teorizzata nel Principe, necessariamente spregiudicata e amorale, in quanto fondata sulla «verità effettuale della cosa» e non su realtà inesistenti e immaginarie. A noi, oggi, semmai, spetta dimostrare che la politica, come dovrebbe essere, specialmente in uno Stato democratico moderno, si coniuga solo con l’osservanza delle leggi morali e con la verità, piuttosto che con l’inganno e gli interessi privati. Soltanto dimostrando questo, potremo dar torto a Machiavelli, a patto poi che si provi davvero la sua presunta diabolicità: sulla quale non si sa poi cos’avranno da scherzare gli inglesi, che, ancora oggi, chiamano il diavolo, amichevolmente, the old Nick, «il vecchio Niccolò». Come se loro fossero dappertutto perfetti! Machiavelli ha molto da dirci e da farci riflettere, perché, ricordiamolo, non ha scritto solo il Principe, “terapia d’urgenza” per i mali da cui vedeva afflitta l’Italia del suo tempo, ma pure i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, un’altra importante opera politica, in cui analizza le ragioni della superiorità della forma repubblicana del potere politico. 9 Per comprenderne appieno il messaggio, e interpretarlo correttamente, però, lo scrittore non va mai disgiunto dalle problematiche del suo tempo: Machiavelli è il rappresentante nuovo di una cultura che ama le cose pratiche; la cultura figlia dei banchieri e dei mercanti fiorentini del ‘300. Costoro non erano esperti di Platone, di Aristotele o della letteratura greca classica; preferivano il Boccaccio trasgressivo, o anche il Dante vivace dell’Inferno, e la letteratura realistica e burlesca alla Luigi Pulci. E anche Machiavelli, tutt’altro che stinco di santo ed esperto della vita, come testimoniano le sue trasgressioni extraconiugali con prostitute fiorentine o altri suoi amori - per esempio quello, noto, per una donna fiorentina detta la “Barbera” -, usa spesso espressioni colorite e argute, inequivocabili doppi sensi sessuali, battute sintetiche e sferzanti; di questa cultura, legata alla realtà e alla prassi, è fatto pure il pensiero politico machiavelliano, assolutamente innovativo e d’una originalità unica rispetto alle teorie politiche precedenti. Cacciato nell’esilio dell’Albergaccio dai Medici, Machiavelli cominciò a scrivere il trattato dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui l’analisi della fase repubblicana di Roma, esaminata dallo storico latino, gli serve per studiare quel grande modello politico: e se anche nella Roma antica l’età dei re - l’età della “forza” - aveva preceduto la repubblica, adesso all’Italia del suo tempo occorreva uno stato unitario forte, per salvare se stessa e fronteggiare le grandi monarchie unitarie occidentali. Uno stato forte, che solo un principe “forte” poteva costituire. Machiavelli non precisa i limiti territoriali di questo stato, ed è inutile volerlo trasformare in un precursore dell’idea dell’unità nazionale, quasi fosse un antesignano del pensiero risorgimentale. Forse pensava a una unità territoriale, che includesse l’Italia centrale dal Po al regno di Napoli: in ogni caso, solo un principe “nuovo” sarebbe potuto riuscire nell’intento. Per questo, Machiavelli interruppe la stesura dei Discorsi al capitolo XVIII del primo libro per scrivere, di getto, il Principe, nel 1513; 10 salvo riprendere, poi, i Discorsi, che continuò a comporre e a correggere fino al 1519. Al grande e sottilissimo “ragionatore” fiorentino interessa analizzare le diverse forme di principato, ma si vede subito che quello che gli piace di più è il “principato nuovo”, quello che si conquista con le armi “proprie” e “virtuosamente”: naturalmente, con la “virtù” come la intende lui, lontana le mille miglia da quella cristiana. E se per lui la politica richiede capacità propriamente “politiche”, che nulla abbiano a che vedere con la morale - come l’esperienza “pratica” insegna -, ecco, allora, che politici ideali sono personaggi tutt’altro che “buoni” nell’accezione comune del termine: e cioè, lo spregiudicato duca Valentino, che non esitava ad eliminare fisicamente i suoi avversari, il “decisionista” Francesco Sforza, che «di privato diventò duca di Milano» e Ferdinando il Cattolico, uno che «non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo». È soprattutto per mezzo del personaggio del Valentino che Machiavelli illustra il suo pensiero in merito alla fortuna, alla virtù e all’occasione: ma dei diversi aspetti del suo pensiero politico tratterò meglio più avanti. Per adesso, contentiamoci di riconoscere a Machiavelli soluzioni dimostrative originalissime, sia sul piano dei contenuti sia su quello del procedimento argomentativo ed esemplificativo: si pensi solo all’invenzione dell’immagine del principe-centauro, sintesi “ideale” di razionalità umana, scaltrezza volpina e forza leonina. E diciamo anche che, sebbene sul piano linguistico e formale il periodare machiavelliano non abbia ancora nulla a che vedere con la prosa galileiana, che è molto più moderna e agile, tuttavia il gusto antiscolastico e antidogmatico di procedere del Machiavelli, la sua necessità di conquistare il consenso degli interlocutori, come per farseli alleati, è un contributo importante verso quell’ammodernamento della prosa italiana che culminerà, appunto, nel Seicento, nella prosa scientifica di Galileo Galilei. Quanto, poi, all’eredità “morale” lasciata dal Machiavelli, io dico che lui è stato vittima, cosciente peraltro, della propria venerazione 11 per la “verità effettuale della cosa”, dato che più esecrazioni e condanne s’è tirato dietro nei secoli che non plausi o rispetto. E mentre il contemporaneo Erasmo da Rotterdam (ca. 1466-1536) è considerato il simbolo nobile dell’Umanesimo e dà il suo nome, oggi, al Progetto «Erasmus», che porta i giovani europei a studiare oltre le loro frontiere, uniti da una condivisa - sempre più, si spera unità culturale e in un reciproco scambio di esperienze e di formazione, Machiavelli sembra essere, invece, solo l’immagine di un cinico passato dal quale prendere le distanze e che non ci appartiene più. Certo, nessuno nega che Erasmo sia il precettore del buon cristiano, e non solo, prima col trattatello edificante e pedagogico Enchiridion militis christiani, utopistico, comunque, dati i tempi, e poi, soprattutto, con la sua Institutio principis christiani, vero e proprio manuale di educazione religiosa, morale e politica dei principi. Eppure, anche se nel complesso la visione di Erasmo è antitetica a quella di Machiavelli, tanto da fargli scrivere il libello “pacifista” Dulce bellum inexpertis («La guerra è bella per chi non la conosce»), un po’ di “machiavellismo” si trova anche nel pensatore olandese, dato che è suo (si ritrova tra gli Adagia del 1508) l’esempio della volpe e del leone («Si leonina pellis non satis est, vulpina addenda» [Se la pelle di leone non basta, aggiungi quella della volpe]). Solo che Erasmo, come l’insieme della sua opera rivela, si batte, da moralista e da riformatore umanista, per virtù “benvolute” e universalmente condivise, come la libertà di coscienza, la conoscenza e la lotta contro ogni fanatismo, compresa quella contro la degenerazione dei valori cristiani; e, in campo pedagogico, per un profondo rinnovamento dei metodi d’insegnamento, che devono tendere, sopra ogni altra cosa, ad esaltare la personalità fisica e spirituale del discente. E se qualche concessione al realismo politico c’è, è prevalente però in lui la tensione morale, anche quando appaia, per la verità, poco “realistica” in confronto ai tempi che al grande umanista toccò di vivere. 12 Ma, si sa che, in generale, agli uomini piace più sentirsi dire “come si dovrebbe vivere” che non sentirsi ricordare “come si vive”: piace più, insomma, “sognare” e riempirsi la bocca di ideali che “guardare in faccia la realtà” e sentirsi dire la verità. Del resto, è sacrosanto dovere dell’umanità, come Erasmo insegna, battersi in ogni caso, con sincerità e onestà intellettuale, per il progresso morale e spirituale, oltre che per quello delle scienze e della tecnica: ma Machiavelli, in quei suoi tempi difficili, messe da parte, a suo dire, le utopie, scelse di osservare la realtà in tutta la sua crudezza e ritenne che per salvare il suo Paese dalla débâcle politica cui era condannato servisse prima di tutto un “capo”, cioè un principe determinato e senza scrupoli; e che solo dopo, semmai, si potesse pensare ad avviare un processo di “ricostruzione” etica e civile. Col risultato che noi, oggi, aspiriamo a Erasmo, cui affidiamo le speranze del nostro futuro, e guardiamo con diffidenza Machiavelli, “grillo parlante” un poco molesto. Tuttavia, questi due grandi pensatori, tutti e due, l’uno, Erasmo, rappresentante di un Umanesimo universale ma difficile da far trionfare, e l’altro, Machiavelli, rappresentante di una Scienza “nuova” crudamente pragmatica, sono ancora lì, a provocarci, e a interrogare la nostra coscienza di moderni: saremo capaci di realizzare l’universalismo democratico di Erasmo e di relegare Machiavelli in una visione della politica e della vita di ciascuno ormai morta e sepolta? La lezione del Cinquecento, anche se apparentemente così lontana nel tempo, è ancora attuale, perché tuttora inascoltata; e solo per colpa nostra: chi in un modo chi in un altro, Machiavelli, Erasmo, cui aggiungerei pure Tommaso Moro, il loro insegnamento ce l’hanno dato, e chiaro. Contemporanei, eppure così diversi, ma uniti nell’esigenza di denunciare i difetti del loro mondo e in quella di proporre soluzioni: peggio per noi, se ancora siamo qui, imperfetti, e a lamentarci di una democrazia incompiuta. Moro, il coraggioso accusatore della iniqua politica economica e sociale inglese del suo tempo, consapevole della propria solitudine, 13 ma determinato davvero a voler cambiare il mondo, scrive, tra il 1510 e il ’16, Utopia, una specie di relazione di un viaggio immaginario nei mari d’Oriente, dove scopre l’isola della libertà, dell’ordine e della tolleranza, cui dà, significativamente, il nome di “Utopia”. Alla base della cui felicità c’è il lavoro, di tutti: si può essere più attuali? E proprio lui, il sostenitore della tolleranza religiosa, dall’intolleranza e dalla prevaricazione del suo re, Enrico VIII, fu imprigionato e giustiziato nel 1535. Erasmo, l’olandese dal “sogno impossibile”, quello di vedere l’Europa rinnovata, senza guerre e conflitti religiosi, e unita sotto la guida di un cristianesimo profondamente rinnovato nei costumi, scrive nel 1511 l’Elogio della pazzia, satira spietata della decadenza della Chiesa del suo tempo. Il suo testamento spirituale è in una lettera del 1522 al riformatore svizzero Zwingli, dove si proclama mundi civis: «Ego mundi civis esse cupio» (“Io voglio essere cittadino del mondo”). E Machiavelli, il lucido rivelatore di quello che la prassi politica era e di come la si sarebbe potuta almeno volgere a vantaggio del popolo e dello Stato, scrive il Principe nel 1513 e finisce i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio nel ’19, completando il disegno d’insieme della sua “scienza” politica. Ma, suo malgrado, forzandone e radicalizzandone il pensiero, al “solo” Principe si rifanno i teorici e i faziosi dei totalitarismi, figli dello Stato etico hegeliano; mentre dei “soli” Discorsi si considerano seguaci i fervidi sostenitori della democrazia liberale. Tuttavia ogni distorsione, forzatura o unilateralismo del pensiero dell’uno come del pensiero dell’altro, è una dimostrazione d’inferiorità da parte di chi non ha saputo leggere correttamente i loro insegnamenti. Tutti e tre quei grandi pensatori sono figli del loro tempo: dell’età, cioè, del Rinascimento; un’epoca in cui, nonostante il riformismo sia ritenuto necessario e improcrastinabile in nome dei nuovi valori, non si riesce a scrollarsi di dosso qualche eccesso di utopia. Nemmeno nel “realistico” Machiavelli, come vedremo più avanti. 14 Un’età che tende a delineare il profilo di un mondo ideale desiderabile, com’era tipico della tradizione platonica, prevalente nel Rinascimento: vuoi che si tratti di suggerire un comportamento ideale al cortigiano; vuoi che si tratti di delineare l’architettura della città ideale, un modello linguistico o poetico ideale, una natura umana ideale, o un modello politico ideale. Ma l’importante è che noi, oggi, di quelle lezioni sappiamo cogliere ciò che di ancora vitale ed universale esse conservano, come base della civiltà di cui siamo figli. E Machiavelli, che dei tre è forse quello più severamente, ancorché amaramente, coerente - al di là di non determinanti incongruenze -, è il più consapevole della dirompente irruenza e della possibile ricaduta pratica delle sue conclusioni: perciò, di dire la “verità” fondata sui fatti e, da questi, come “specialista” di essa, ricavare precetti per un’arte della politica, che solo a criteri politici dovesse attenersi, fece lo scopo della propria esistenza e dell’operato di tutta la sua attività pubblica. Massimo Desideri Maggio 2013 15 1. Machiavelli è ancora tra noi Ricorrono, quest’anno, i cinque secoli dalla pubblicazione del Principe: una bella età, eppure il trattato del Machiavelli è quasi un’opera di oggi, dato che ha segnato, per sempre, la svolta decisiva nel modo, tuttora valido, di pensare la politica e di indagarne meccanismi e finalità. Machiavelli ha fondato, col Principe, la scienza politica moderna, o meglio l’arte (tékhne) politica, poiché ha voluto studiare la pratica di governo con metodo scientifico. Rivoluzionario, va posto accanto ai nomi dei grandi rivoluzionari della scienza, peraltro venuti dopo di lui, dei secoli XVI e XVII, quali Copernico e Galileo: come loro, Machiavelli ribalta, nel suo ambito di studi, il modo di pensare precedente. Come tutti i grandi, Machiavelli parte da presupposti apparentemente scontati e persino banali: sostiene che chiunque si prefigga di apprendere le regole della politica e di metterle in pratica in modo sensato ed efficiente deve ispirarsi alla realtà e non affidarsi all’immaginazione di essa, cioè, di fatto, ad una non-realtà, ad un mondo solo sognato ed utopistico. Nel Principe Machiavelli teorizza un metodo politico: la scienza politica si ricava solo dall’analisi dei fatti reali, senza di che l’azione politica è cieca, ovvero solo velleitaria e destinata all’insuccesso. Se si vuole in politica, come nella vita, conquistare il successo, un buon specialista della politica, cioè un buon governante, deve fondarsi sulla conoscenza della realtà e sulla propria capacità di far tesoro delle lezioni dell’esperienza. Machiavelli è il primo teorico della politica a legare strettamente, in una sintesi indissolubile, la teoria alla sua immediata applicazione pratica: insiste molto sulla sua intenzione di volersi fondare solo sulla realtà e sull’esperienza pratica, mai su ciò che non è riscontrabile concretamente («...mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa» anziché «alla imaginazione di essa», Il principe, XV). 16 Solo così è possibile evitare l’errore di «molti», che «si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero». Per Machiavelli è del tutto inconcepibile una teoria politica che non si realizzi subito come azione politica. Lo scrittore rivendica un realismo integrale, tanto spregiudicato che tutta la concezione precedente del reggitore politico forte, ma insieme «buono» e leale (che va, almeno, da Platone a Dante), è completamente rovesciata. Il Principe non è una novità assoluta, per quanto riguarda il genere del «trattato» politico, e lo stesso Machiavelli ne è consapevole, come dimostra l’inizio del capitolo XV («...io so che molti di questo hanno scritto...»): nel Medioevo, difatti, erano molto diffusi gli specula principis («specchi del principe»), veri e propri manuali di educazione politica e di edificazione morale destinati ai governanti; nel Quattrocento, all’epoca delle città-stato repubblicane o a guida personale e familiare, molte opere trattarono temi legati all’etica nel reggimento di un principato e alla delineazione di una figura ideale di principe; nella stessa Firenze, da quando i Medici nel 1512 erano rientrati in città, molti illustri cittadini avevano indirizzato loro personali opuscoli di suggerimento e di consiglio sul modo di governare. Una tradizione, perciò, questa della perorazione di un privato cittadino al suo signore, non certo inventata dal Machiavelli. Ma lo scrittore introduce caratteristiche del tutto nuove in una tradizione già esistente. Rifiutata decisamente la concezione solo edificante medioevale, Machiavelli riprende dell’Umanesimo (ca. 1350-fine ‘400) la tendenza - che avvia la mentalità moderna - alla cosiddetta decompartimentazione del sapere, ovvero la divisione specialistica dei saperi. Una suddivisione per singole branche del sapere che, in nome di un riformismo ottimistico, supera l’enciclopedismo medioevale, ossia la tendenza del Medioevo a voler racchiudere e conciliare in un unico sistema di pensiero i diversi ambiti della conoscenza (la filosofia, l’arte, la politica, la metafisica, e così via). 17 L’Umanesimo «scopre» la necessità di uno studio specialistico, specifico, delle diverse «discipline», per poterle conoscere in modo preciso, «scientifico» e pratico, e di esse potersi servire per rinnovare il mondo. Del resto, già in Boccaccio, portavoce di quell’etica mercantile che aveva aggiornato ai tempi nuovi l’aristocratica visione del mondo di Dante, tutto è rapportato alle necessità del trionfo del profitto e del successo personale. Machiavelli, che vive però l’età del crollo delle utopie comunque insite anche nel pensiero umanistico in Italia sotto i colpi delle invasioni straniere di inizio Cinquecento, sebbene conservi una dichiarata fiducia di fondo nelle capacità dell’uomo di modificare il proprio destino, abbandona la teoria per la pratica. Ma non del tutto: perché, nonostante concentri la propria attenzione prevalentemente sul terreno della realtà e della politica, finisce per addentrarsi anche nel «pericoloso» e opinabile territorio dei comportamenti umani: molto difficili da inserire in precisi schemi teorici, come egli si impone ottimisticamente di fare. Nessuna età storica rompe del tutto i ponti con quella precedente: così anche Machiavelli, non rinunciando alla sua fiducia nelle capacità umane, si dimostra un tipico uomo dell’epoca sua. Dell’Umanesimo, e poi dello sviluppo di questo nel Rinascimento, conserva un nucleo di utopica, a volte eccessiva, contraddittoria e un po’ troppo meccanica fiducia nelle possibilità umane di modificare il mondo: non si possono, perciò, comprendere pienamente le sue opere (Principe in testa), senza considerare bene quel clima culturale della prima metà del Cinquecento in Italia. Sul piano filosofico e culturale, già gli umanisti, ma poi gli uomini del Rinascimento soprattutto, concepivano il Medioevo cristiano, col suo dogmatismo scolastico-religioso, un regresso, quanto meno un’interruzione, rispetto al pensiero del mondo classico; di cui essi si sentivano i restauratori. Per questo la diffusa aspirazione verso un ritorno al mondo classico precristiano è avvertita, nel Rinascimento italiano, come una condizione indispensabile, più o meno apertamente dichiarata, per la ripresa di un effettivo cammino di progresso dell’umanità. 18