CHE COSA HA VERAMENTE DETTO NICCOLO' MACHIAVELLI
Massimo Desideri
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Massimo Desideri
Che cosa ha veramente detto
Niccolò Machiavelli
1513-2013: le “scandalose” verità del primo pensatore politico
moderno nel quinto centenario del Principe
in appendice: profilo dell’età di Machiavelli e una scelta di testi
esemplari dalle opere
1
«Il mondo è divenuto più simile a quello di Machiavelli di quanto
non lo fosse in passato, e l’uomo moderno, prima di rifiutare la sua
filosofia, deve pensarci meglio che nel XIX secolo»
Bertrand Russell
2
Indice
Che cosa ha veramente detto Niccolò Machiavelli
Premessa p. 5
È davvero “machiavellico” Niccolò Machiavelli?
1 - Machiavelli è ancora tra noi p.16
2 - Niccolò Machiavelli: una vita per la politica p.32
3 - Breve guida alle opere minori di Niccolò Machiavelli prima
del Principe p.41
4 - Machiavelli “alla sbarra” p.44
5 - L’annuncio del Principe all’amico Francesco Vettori p.51
6 - Il Principe di Niccolò Machiavelli, il manuale del “perfetto”
p.54
capo di stato
Lo schema del ragionamento “machiavelliano” p.62
7 - Machiavelli e i diversi tipi di potere politico
p.63
8 - «Virtù» e «Fortuna» nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli p.64
9 - Esercito «moderno» e armi proprie: i punti di forza del principe
nuovo
p.68
10 - La bontà in un principe non è una virtù, ma un difetto politico
p.71
11 - È più sicuro farsi temere che amare p.74
12 - Meglio sembrare che essere: l’ideale della volpe e del leone p.78
13 - La fortuna cede agli audaci p.81
14 - La conclusione del Principe p.86
15 - Il trattato politico dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio p.89
16 - La religione come civiltà e moralità di un popolo p.98
17 - La Chiesa di Roma è l’ostacolo politico all’unità d’Italia p.101
18 - Lo «stato» come civiltà e moralità di un popolo p.103
19 - Machiavelli storico e “militare”
p.105
20 - Machiavelli letterato: la commedia La mandragola p.109
21 - Le altre opere letterarie di Machiavelli: la Novella di Belfagor
arcidiavolo e l’Asino p.117
22 - La contraddizione come vitale dinamismo del pensiero di
Machiavelli p.124
3
Appendice 1
1 - La perfezione degli antichi come strumento di ricerca
p.132
della Verità e dell’Armonia nel pensiero rinascimentale
2 - Un testo cardine del classicismo rinascimentale: la Poetica
di Aristotele
p.135
3 - Il tempo di Niccolò Machiavelli
p.137
4 - La visione dell’uomo e della storia nel pensiero
dell’età rinascimentale
p.141
Appendice 2
La “parola” a Niccolò Machiavelli:
1 - La lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 p.143
2 - L’incipit del «Principe» p.150
3 - Il capitolo VI del Principe: “istruzioni” per fondare uno Stato
nuovo
p.152
4 - Il capitolo XVII del Principe: meglio essere temuti che amati p.159
5 - Il capitolo XVIII del Principe: la volpe e il leone p.165
p.172
6 - Il capitolo XXV del Principe: l’aggressione alla fortuna
7 - Conclusione del capitolo XXVI del Principe: l’appello a salvare
l’Italia dai barbari p.178
8 - Il capitolo 11 del libro I dei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio: utilità “politica” della religione p.179
9 - Il capitolo 12 del libro I dei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio: responsabilità “politica” della Chiesa in Italia p.183
10 - Il capitolo 41 del libro III dei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio: lo Stato come “civiltà” di un popolo
p.189
11- La Novella di Belfagor arcidiavolo
p.191
4
Premessa
È davvero “machiavellico” Niccolò Machiavelli?
Un poveraccio di cartolaio-tabaccaio, di nazionalità italiana, che ha
il negozio dietro casa mia, potrebbe essere preso a simbolo del
rapporto Italia-Cina di oggi.
Tempo fa, preso da una sana pulsione d’amore nazionale, mi sono
rivolto a lui, chiedendo dei fogli contenitori plastificati flessibili
formato A24; per di più mi serviva un francobollo per spedire una
lettera a un conoscente in Germania; oltre a una ricarica telefonica,
visto che sulla vetrina del suo locale recita la scritta, a caratteri
quasi cubitali, “Si fanno ricariche telefoniche”.
Quanto alla prima richiesta, mi ha detto d’essere sprovvisto di fogli
del formato da me desiderato; per la seconda richiesta, mi ha detto
che i francobolli, quella mattina, non erano stati resi disponibili da
chi di dovere; ma poi, in un’altra zona, ho scoperto, dopo un po’,
che solo lui ne era sprovvisto; in merito alla terza richiesta, mi ha
risposto che, quella mattina, non c’era linea e che, quindi, la
ricarica non me la poteva fare. E così l’ho fatta, poco dopo, da
un’altra parte.
La zona dove è ubicato il locale di questo singolare cartolaiotabaccaio, indolente o sfortunato fate voi, non ha nelle vicinanze
altri esercizi simili al suo: il che oggi a Roma non è poco.
Fatto sta che, a quattro o cinque isolati da lui, c’è un negozio tipo
bazar, a gestione cinese, come ne sono spuntati a bizzeffe, nella
capitale d’Italia, in questi ultimi anni: lì ho trovato, in mezzo a una
baraonda di tutto un po’, tre scaffali pieni di fogli contenitori
plastificati flessibili formato A24, compreso ogni altro formato, e
tutti gli articoli di cartoleria possibili e immaginabili, pur accanto a
statuette e altri indefinibili oggetti di plastica inguardabili dalla più
mirabolante policromia.
A parte ciò, sulla faccia del cartolaio-tabaccaio italiano si legge la
rassegnazione e l’impotente abulia, ormai atavica, della nostra gente
tipo “impero romano alla fine della decadenza”, mentre sulle facce,
pur difficilmente distinguibili per noi, degli operatori e gestori cinesi
5
di questi incredibili punti-vendita - quasi tutti sufficientemente
bilingui - si coglie quell’operosità instancabile e quella voglia di
fare, che io ricordo, da bambino, nei negozianti italiani degli anni
sessanta.
Non sarà tutta colpa nostra questa situazione: ci sarà di mezzo la
globalizzazione, la crisi finanziaria di questi ultimi anni, una
burocrazia tra le più ottuse del mondo, una tassazione tra le più alte
del globo, il fatto che ci avevano spinti a vivere al di sopra delle
nostre possibilità e che, adesso, siamo disperati a dovercene tornare
indietro; sarà colpa dell’arretratezza culturale di ritorno in Italia e
le responsabilità di ogni tipo della nostra classe politica
impreparata, ladronesca, solo tartassante, e via di questo passo.
Fatto sta che noi regrediamo e altri, fuori d’Italia, pur con difficoltà,
qualche progressuccio lo fanno, sia economico sia mentale.
Che dire, per esempio, saltando di palo in frasca, ma fino a un certo
punto, della notizia, riportata dal Corriere della sera del 25/5/2013,
a firma di Dino Messina, riguardante il “nostro” Niccolò
Machiavelli?
In occasione dei cinquecento anni dalla composizione del Principe
(1513), in Cina - non in Italia - si è tenuto un grande convegno
internazionale dedicato a Niccolò Machiavelli, di cui, tra l’altro,
l’editore Jilin ha quasi finito di pubblicare l’opera omnia in cinese.
Strano Paese, la Cina: fedele custode della sua millenaria cultura,
eppure anche così curiosamente giovane da aprirsi ai valori artistici
e culturali altrui, laddove si avvertano universali.
E non da ora: se è vero che un certo Lin Shu, tra Ottocento e
Novecento tradusse in cinese Shakespeare, Dickens, Scott, Dumas,
Cervantes, Ibsen, Tolstoj, Hugo; e se un altro letterato, Liang Ch’ich’ao, scrisse un dramma in sette atti, Hsin Lo-ma (“La nuova
Roma”), pubblicato nel 1904 a Tokyo su una rivista edita da esuli
cinesi, in cui i tre eroi protagonisti, Mazzini, Garibaldi e Cavour,
molto ammirati dall’autore, sono introdotti, nel prologo, dal
personaggio di Dante, sebbene “cinesizzato”, ovvero vestito come
un “immortale taoista”, cioè nella foggia di un eremita dedito alla
meditazione e a una rigida disciplina di vita.
6
Insomma, uno sforzo notevole, che dura ancora oggi, a quanto pare,
di studio delle culture occidentali.
E noi? Beh, noi, un po’ meno facciamo: non solo studiamo poco
lingue e culture altrui, ma siamo parecchio distratti anche sulla
nostra.
C’è gente, per esempio, addirittura imboscata in Parlamento, che
non solo ignora quand’è stata scoperta l’America o quando sia
scoppiata la Rivoluzione Francese, ma traballa parecchio anche in
storia nazionale e in cultura generale; incespica rovinosamente
quando tenta di usare qualche congiuntivo, strapazza i nessi
sintattici, e mastica poco pure di carta costituzionale, che nei Palazzi
Istituzionali dovrebbe essere, invece, pane quotidiano.
Con grave oltraggio, perciò, alla tradizione democratica nostra, di
cui a chiacchiere si proclama convinta paladina.
Ma lasciando perdere il Parlamento per ridiscendere fra noi
poveretti comuni, che a maggior ragione non stiamo messi meglio,
molti nostri connazionali conoscono qualche parola o personaggio
di Dante più grazie a Benigni che per merito della preparazione
ricevuta, si fa per dire, a scuola, dove professori dialettofoni o un
po’ approssimativi non sono un’eccezione, ma una divertita costante.
Come c’insegna l’esilarante parodia del Professor Ròstico di Carlo
Verdone, che recita enfatico A Silvia senza che si capisca un’acca a
causa d’un’inflessione dialettale sconcertante.
D’altronde, l’ultima statistica che m’è capitata sotto mano dice che
l’Italia ha i livelli di lettura più bassi d’Europa: solo il 47% degli
italiani legge almeno un libro all’anno; mentre in Spagna il 59, il 70
in Francia e l’83% in Germania.
Se poi si mette un po’ il coltello nella piaga, sono dolori:... figurarsi,
per esempio, che qualche tempo fa una ragazza, per età di sicuro già
diplomata, interpellata dalle solite Iene, ha detto, dopo averci
pensato su, che è stato Manzoni a scrivere i Malavoglia e che il
nome dei protagonisti dei Promessi Sposi è Dante e Beatrice;
o…forse, Renzo e Beatrice. Insomma, di Lucia manco a parlarne: e
fosse solo quella ai danni della poverina l’unica ingiuria!.
Per consolarci, però, veniamo informati, nella breve nota del
Corsera di cui sopra a proposito di Machiavelli, che lo storico Valdo
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Spini, presidente per le celebrazioni del quinto centenario del
Principe, è stato della partita, tant’è vero che si trovava, in quei
giorni, a Tianjin, sede del congresso; e che Giuliano Amato ha dato
il suo contributo per il rilancio degli studi sul Segretario Fiorentino.
Però ci si dice pure che un italianista dell’Università di Strasburgo,
Emanuele Cutinelli Réndina, ha rivelato che, per pubblicare un
volume sugli scritti diplomatici di Machiavelli, avevano dovuto
metter mano al portafogli gli svizzeri (la Fondazione Margherita di
Sion, città del Vallese) e un gentiluomo straniero, di cui si tace il
nome.
Bello, no? Certo, se non fosse che l’Italia, culturalmente miope e
intellettualmente povera, non trova un quattrino per stampare gli
epistolari e il libro destinato a raccogliere i circa trecento autografi
machiavelliani. Che, c’è da scommettere, non verranno pubblicati.
Ma forse la difficoltà più grande è che non c’è la sensibilità né la
preparazione necessaria per capire l’importanza della tutela del
nostro patrimonio culturale e artistico.
D’altra parte, è un problema culturale, appunto, di educazione di
base delle nuove generazioni ed è inutile star qui a ricordare i
decennali guasti della scuola italiana, prodotti dal demenziale e
clientelare “sistema” di reclutamento degli insegnanti e dal mancato
controllo della qualità e dei metodi dell’istruzione: problema che
non è solo riducibile a una questione di stanziamento di fondi, ma
soprattutto imputabile anche a una disastrosa mancanza di qualità
della nostra classe politica, clientelare, irreversibilmente incolta e
culturalmente analfabeta.
Per cui Machiavelli, come altri geni nazionali del passato, si studia
poco e male, col rischio di ridurlo a un retrivo teorico di dittatoriali
sfaceli novecenteschi, con una confusione mentale e culturale da far
rabbrividire; che è, però, lo specchio attuale del Paese, prigioniero
di demagogia e pressapochismo.
E allora, per dare un modesto contributo al ricordo della figura e
dell’opera del Machiavelli - e non solo per l’occasione del
“cinquecentenario” del Principe -, questo libro non aggiungerà
nulla, nell’illustrare le linee essenziali del suo pensiero, a quello che
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il Machiavelli dice lui stesso, di sé e dell’Italia del suo tempo, l’età
difficile del Cinquecento.
L’età del Rinascimento da un lato, ma anche l’età delle divisioni
politiche e delle discordie tra i tanti Stati regionali italiani di quel
periodo.
L’opera sua più famosa, il Principe, molti sintetizzano nella formula,
non di lui ma per sua spacciata da chi poco lo conosce, “il fine
giustifica i mezzi”.
Machiavelli fu osteggiato ed emarginato, fin dai suoi tempi, e non
manca chi lo osteggia ancor oggi, perché ha detto verità scomode:
per esempio, che la politica non ha niente a che vedere con la
morale.
A lui questo dispiace, va detto; basta leggerlo: ma il fatto è che non
lui, bensì i politici, una cosa dicono e un’altra fanno.
E questo, da sempre: per cui, vista l’impossibilità di mutare la
natura profonda dell’uomo - almeno nell’immediato dei suoi tempi -,
Machiavelli consiglia, come “medicina”, e come strategia per chi
quella medicina si proponga di somministrare all’Italia malata, la
prassi teorizzata nel Principe, necessariamente spregiudicata e
amorale, in quanto fondata sulla «verità effettuale della cosa» e non
su realtà inesistenti e immaginarie.
A noi, oggi, semmai, spetta dimostrare che la politica, come
dovrebbe essere, specialmente in uno Stato democratico moderno, si
coniuga solo con l’osservanza delle leggi morali e con la verità,
piuttosto che con l’inganno e gli interessi privati.
Soltanto dimostrando questo, potremo dar torto a Machiavelli, a
patto poi che si provi davvero la sua presunta diabolicità: sulla
quale non si sa poi cos’avranno da scherzare gli inglesi, che, ancora
oggi, chiamano il diavolo, amichevolmente, the old Nick, «il vecchio
Niccolò». Come se loro fossero dappertutto perfetti!
Machiavelli ha molto da dirci e da farci riflettere, perché,
ricordiamolo, non ha scritto solo il Principe, “terapia d’urgenza”
per i mali da cui vedeva afflitta l’Italia del suo tempo, ma pure i
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, un’altra importante opera
politica, in cui analizza le ragioni della superiorità della forma
repubblicana del potere politico.
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Per comprenderne appieno il messaggio, e interpretarlo
correttamente, però, lo scrittore non va mai disgiunto dalle
problematiche del suo tempo: Machiavelli è il rappresentante nuovo
di una cultura che ama le cose pratiche; la cultura figlia dei
banchieri e dei mercanti fiorentini del ‘300.
Costoro non erano esperti di Platone, di Aristotele o della
letteratura greca classica; preferivano il Boccaccio trasgressivo, o
anche il Dante vivace dell’Inferno, e la letteratura realistica e
burlesca alla Luigi Pulci.
E anche Machiavelli, tutt’altro che stinco di santo ed esperto della
vita, come testimoniano le sue trasgressioni extraconiugali con
prostitute fiorentine o altri suoi amori - per esempio quello, noto, per
una donna fiorentina detta la “Barbera” -, usa spesso espressioni
colorite e argute, inequivocabili doppi sensi sessuali, battute
sintetiche e sferzanti; di questa cultura, legata alla realtà e alla
prassi, è fatto pure il pensiero politico machiavelliano,
assolutamente innovativo e d’una originalità unica rispetto alle
teorie politiche precedenti.
Cacciato nell’esilio dell’Albergaccio dai Medici, Machiavelli
cominciò a scrivere il trattato dei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio, in cui l’analisi della fase repubblicana di Roma,
esaminata dallo storico latino, gli serve per studiare quel grande
modello politico: e se anche nella Roma antica l’età dei re - l’età
della “forza” - aveva preceduto la repubblica, adesso all’Italia del
suo tempo occorreva uno stato unitario forte, per salvare se stessa e
fronteggiare le grandi monarchie unitarie occidentali.
Uno stato forte, che solo un principe “forte” poteva costituire.
Machiavelli non precisa i limiti territoriali di questo stato, ed è
inutile volerlo trasformare in un precursore dell’idea dell’unità
nazionale, quasi fosse un antesignano del pensiero risorgimentale.
Forse pensava a una unità territoriale, che includesse l’Italia
centrale dal Po al regno di Napoli: in ogni caso, solo un principe
“nuovo” sarebbe potuto riuscire nell’intento.
Per questo, Machiavelli interruppe la stesura dei Discorsi al capitolo
XVIII del primo libro per scrivere, di getto, il Principe, nel 1513;
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salvo riprendere, poi, i Discorsi, che continuò a comporre e a
correggere fino al 1519.
Al grande e sottilissimo “ragionatore” fiorentino interessa
analizzare le diverse forme di principato, ma si vede subito che
quello che gli piace di più è il “principato nuovo”, quello che si
conquista con le armi “proprie” e “virtuosamente”: naturalmente,
con la “virtù” come la intende lui, lontana le mille miglia da quella
cristiana.
E se per lui la politica richiede capacità propriamente “politiche”,
che nulla abbiano a che vedere con la morale - come l’esperienza
“pratica” insegna -, ecco, allora, che politici ideali sono personaggi
tutt’altro che “buoni” nell’accezione comune del termine: e cioè, lo
spregiudicato duca Valentino, che non esitava ad eliminare
fisicamente i suoi avversari, il “decisionista” Francesco Sforza, che
«di privato diventò duca di Milano» e Ferdinando il Cattolico, uno
che «non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è
inimicissimo».
È soprattutto per mezzo del personaggio del Valentino che
Machiavelli illustra il suo pensiero in merito alla fortuna, alla virtù e
all’occasione: ma dei diversi aspetti del suo pensiero politico
tratterò meglio più avanti.
Per adesso, contentiamoci di riconoscere a Machiavelli soluzioni
dimostrative originalissime, sia sul piano dei contenuti sia su quello
del procedimento argomentativo ed esemplificativo: si pensi solo
all’invenzione dell’immagine del principe-centauro, sintesi “ideale”
di razionalità umana, scaltrezza volpina e forza leonina.
E diciamo anche che, sebbene sul piano linguistico e formale il
periodare machiavelliano non abbia ancora nulla a che vedere con
la prosa galileiana, che è molto più moderna e agile, tuttavia il gusto
antiscolastico e antidogmatico di procedere del Machiavelli, la sua
necessità di conquistare il consenso degli interlocutori, come per
farseli
alleati,
è
un
contributo
importante
verso
quell’ammodernamento della prosa italiana che culminerà, appunto,
nel Seicento, nella prosa scientifica di Galileo Galilei.
Quanto, poi, all’eredità “morale” lasciata dal Machiavelli, io dico
che lui è stato vittima, cosciente peraltro, della propria venerazione
11
per la “verità effettuale della cosa”, dato che più esecrazioni e
condanne s’è tirato dietro nei secoli che non plausi o rispetto.
E mentre il contemporaneo Erasmo da Rotterdam (ca. 1466-1536) è
considerato il simbolo nobile dell’Umanesimo e dà il suo nome,
oggi, al Progetto «Erasmus», che porta i giovani europei a studiare
oltre le loro frontiere, uniti da una condivisa - sempre più, si spera unità culturale e in un reciproco scambio di esperienze e di
formazione, Machiavelli sembra essere, invece, solo l’immagine di
un cinico passato dal quale prendere le distanze e che non ci
appartiene più.
Certo, nessuno nega che Erasmo sia il precettore del buon cristiano,
e non solo, prima col trattatello edificante e pedagogico Enchiridion
militis christiani, utopistico, comunque, dati i tempi, e poi,
soprattutto, con la sua Institutio principis christiani, vero e proprio
manuale di educazione religiosa, morale e politica dei principi.
Eppure, anche se nel complesso la visione di Erasmo è antitetica a
quella di Machiavelli, tanto da fargli scrivere il libello “pacifista”
Dulce bellum inexpertis («La guerra è bella per chi non la
conosce»), un po’ di “machiavellismo” si trova anche nel pensatore
olandese, dato che è suo (si ritrova tra gli Adagia del 1508)
l’esempio della volpe e del leone («Si leonina pellis non satis est,
vulpina addenda» [Se la pelle di leone non basta, aggiungi quella
della volpe]).
Solo che Erasmo, come l’insieme della sua opera rivela, si batte, da
moralista e da riformatore umanista, per virtù “benvolute” e
universalmente condivise, come la libertà di coscienza, la
conoscenza e la lotta contro ogni fanatismo, compresa quella contro
la degenerazione dei valori cristiani; e, in campo pedagogico, per un
profondo rinnovamento dei metodi d’insegnamento, che devono
tendere, sopra ogni altra cosa, ad esaltare la personalità fisica e
spirituale del discente.
E se qualche concessione al realismo politico c’è, è prevalente però
in lui la tensione morale, anche quando appaia, per la verità, poco
“realistica” in confronto ai tempi che al grande umanista toccò di
vivere.
12
Ma, si sa che, in generale, agli uomini piace più sentirsi dire “come
si dovrebbe vivere” che non sentirsi ricordare “come si vive”: piace
più, insomma, “sognare” e riempirsi la bocca di ideali che
“guardare in faccia la realtà” e sentirsi dire la verità.
Del resto, è sacrosanto dovere dell’umanità, come Erasmo insegna,
battersi in ogni caso, con sincerità e onestà intellettuale, per il
progresso morale e spirituale, oltre che per quello delle scienze e
della tecnica: ma Machiavelli, in quei suoi tempi difficili, messe da
parte, a suo dire, le utopie, scelse di osservare la realtà in tutta la
sua crudezza e ritenne che per salvare il suo Paese dalla débâcle
politica cui era condannato servisse prima di tutto un “capo”, cioè
un principe determinato e senza scrupoli; e che solo dopo, semmai,
si potesse pensare ad avviare un processo di “ricostruzione” etica e
civile.
Col risultato che noi, oggi, aspiriamo a Erasmo, cui affidiamo le
speranze del nostro futuro, e guardiamo con diffidenza Machiavelli,
“grillo parlante” un poco molesto.
Tuttavia, questi due grandi pensatori, tutti e due, l’uno, Erasmo,
rappresentante di un Umanesimo universale ma difficile da far
trionfare, e l’altro, Machiavelli, rappresentante di una Scienza
“nuova” crudamente pragmatica, sono ancora lì, a provocarci, e a
interrogare la nostra coscienza di moderni: saremo capaci di
realizzare l’universalismo democratico di Erasmo e di relegare
Machiavelli in una visione della politica e della vita di ciascuno
ormai morta e sepolta?
La lezione del Cinquecento, anche se apparentemente così lontana
nel tempo, è ancora attuale, perché tuttora inascoltata; e solo per
colpa nostra: chi in un modo chi in un altro, Machiavelli, Erasmo,
cui aggiungerei pure Tommaso Moro, il loro insegnamento ce
l’hanno dato, e chiaro.
Contemporanei, eppure così diversi, ma uniti nell’esigenza di
denunciare i difetti del loro mondo e in quella di proporre soluzioni:
peggio per noi, se ancora siamo qui, imperfetti, e a lamentarci di
una democrazia incompiuta.
Moro, il coraggioso accusatore della iniqua politica economica e
sociale inglese del suo tempo, consapevole della propria solitudine,
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ma determinato davvero a voler cambiare il mondo, scrive, tra il
1510 e il ’16, Utopia, una specie di relazione di un viaggio
immaginario nei mari d’Oriente, dove scopre l’isola della libertà,
dell’ordine e della tolleranza, cui dà, significativamente, il nome di
“Utopia”. Alla base della cui felicità c’è il lavoro, di tutti: si può
essere più attuali?
E proprio lui, il sostenitore della tolleranza religiosa,
dall’intolleranza e dalla prevaricazione del suo re, Enrico VIII, fu
imprigionato e giustiziato nel 1535.
Erasmo, l’olandese dal “sogno impossibile”, quello di vedere
l’Europa rinnovata, senza guerre e conflitti religiosi, e unita sotto la
guida di un cristianesimo profondamente rinnovato nei costumi,
scrive nel 1511 l’Elogio della pazzia, satira spietata della decadenza
della Chiesa del suo tempo.
Il suo testamento spirituale è in una lettera del 1522 al riformatore
svizzero Zwingli, dove si proclama mundi civis: «Ego mundi civis
esse cupio» (“Io voglio essere cittadino del mondo”).
E Machiavelli, il lucido rivelatore di quello che la prassi politica era
e di come la si sarebbe potuta almeno volgere a vantaggio del
popolo e dello Stato, scrive il Principe nel 1513 e finisce i Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio nel ’19, completando il disegno
d’insieme della sua “scienza” politica.
Ma, suo malgrado, forzandone e radicalizzandone il pensiero, al
“solo” Principe si rifanno i teorici e i faziosi dei totalitarismi, figli
dello Stato etico hegeliano; mentre dei “soli” Discorsi si
considerano seguaci i fervidi sostenitori della democrazia liberale.
Tuttavia ogni distorsione, forzatura o unilateralismo del pensiero
dell’uno come del pensiero dell’altro, è una dimostrazione
d’inferiorità da parte di chi non ha saputo leggere correttamente i
loro insegnamenti.
Tutti e tre quei grandi pensatori sono figli del loro tempo: dell’età,
cioè, del Rinascimento; un’epoca in cui, nonostante il riformismo sia
ritenuto necessario e improcrastinabile in nome dei nuovi valori, non
si riesce a scrollarsi di dosso qualche eccesso di utopia. Nemmeno
nel “realistico” Machiavelli, come vedremo più avanti.
14
Un’età che tende a delineare il profilo di un mondo ideale
desiderabile, com’era tipico della tradizione platonica, prevalente
nel Rinascimento: vuoi che si tratti di suggerire un comportamento
ideale al cortigiano; vuoi che si tratti di delineare l’architettura
della città ideale, un modello linguistico o poetico ideale, una natura
umana ideale, o un modello politico ideale.
Ma l’importante è che noi, oggi, di quelle lezioni sappiamo cogliere
ciò che di ancora vitale ed universale esse conservano, come base
della civiltà di cui siamo figli.
E Machiavelli, che dei tre è forse quello più severamente, ancorché
amaramente, coerente - al di là di non determinanti incongruenze -,
è il più consapevole della dirompente irruenza e della possibile
ricaduta pratica delle sue conclusioni: perciò, di dire la “verità”
fondata sui fatti e, da questi, come “specialista” di essa, ricavare
precetti per un’arte della politica, che solo a criteri politici dovesse
attenersi, fece lo scopo della propria esistenza e dell’operato di tutta
la sua attività pubblica.
Massimo Desideri
Maggio 2013
15
1.
Machiavelli è ancora tra noi
Ricorrono, quest’anno, i cinque secoli dalla pubblicazione del
Principe: una bella età, eppure il trattato del Machiavelli è quasi
un’opera di oggi, dato che ha segnato, per sempre, la svolta decisiva
nel modo, tuttora valido, di pensare la politica e di indagarne
meccanismi e finalità.
Machiavelli ha fondato, col Principe, la scienza politica moderna, o
meglio l’arte (tékhne) politica, poiché ha voluto studiare la pratica di
governo con metodo scientifico.
Rivoluzionario, va posto accanto ai nomi dei grandi rivoluzionari
della scienza, peraltro venuti dopo di lui, dei secoli XVI e XVII,
quali Copernico e Galileo: come loro, Machiavelli ribalta, nel suo
ambito di studi, il modo di pensare precedente.
Come tutti i grandi, Machiavelli parte da presupposti apparentemente
scontati e persino banali: sostiene che chiunque si prefigga di
apprendere le regole della politica e di metterle in pratica in modo
sensato ed efficiente deve ispirarsi alla realtà e non affidarsi
all’immaginazione di essa, cioè, di fatto, ad una non-realtà, ad un
mondo solo sognato ed utopistico.
Nel Principe Machiavelli teorizza un metodo politico: la scienza
politica si ricava solo dall’analisi dei fatti reali, senza di che l’azione
politica è cieca, ovvero solo velleitaria e destinata all’insuccesso.
Se si vuole in politica, come nella vita, conquistare il successo, un
buon specialista della politica, cioè un buon governante, deve
fondarsi sulla conoscenza della realtà e sulla propria capacità di far
tesoro delle lezioni dell’esperienza.
Machiavelli è il primo teorico della politica a legare strettamente, in
una sintesi indissolubile, la teoria alla sua immediata applicazione
pratica: insiste molto sulla sua intenzione di volersi fondare solo
sulla realtà e sull’esperienza pratica, mai su ciò che non è
riscontrabile concretamente («...mi è parso più conveniente andare
drieto alla verità effettuale della cosa» anziché «alla imaginazione di
essa», Il principe, XV).
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Solo così è possibile evitare l’errore di «molti», che «si sono
imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né
conosciuti essere in vero».
Per Machiavelli è del tutto inconcepibile una teoria politica che non
si realizzi subito come azione politica.
Lo scrittore rivendica un realismo integrale, tanto spregiudicato che
tutta la concezione precedente del reggitore politico forte, ma
insieme «buono» e leale (che va, almeno, da Platone a Dante), è
completamente rovesciata.
Il Principe non è una novità assoluta, per quanto riguarda il genere
del «trattato» politico, e lo stesso Machiavelli ne è consapevole,
come dimostra l’inizio del capitolo XV («...io so che molti di questo
hanno scritto...»): nel Medioevo, difatti, erano molto diffusi gli
specula principis («specchi del principe»), veri e propri manuali di
educazione politica e di edificazione morale destinati ai governanti;
nel Quattrocento, all’epoca delle città-stato repubblicane o a guida
personale e familiare, molte opere trattarono temi legati all’etica nel
reggimento di un principato e alla delineazione di una figura ideale
di principe; nella stessa Firenze, da quando i Medici nel 1512 erano
rientrati in città, molti illustri cittadini avevano indirizzato loro
personali opuscoli di suggerimento e di consiglio sul modo di
governare.
Una tradizione, perciò, questa della perorazione di un privato
cittadino al suo signore, non certo inventata dal Machiavelli.
Ma lo scrittore introduce caratteristiche del tutto nuove in una
tradizione già esistente.
Rifiutata decisamente la concezione solo edificante medioevale,
Machiavelli riprende dell’Umanesimo (ca. 1350-fine ‘400) la
tendenza - che avvia la mentalità moderna - alla cosiddetta
decompartimentazione del sapere, ovvero la divisione specialistica
dei saperi.
Una suddivisione per singole branche del sapere che, in nome di un
riformismo ottimistico, supera l’enciclopedismo medioevale, ossia
la tendenza del Medioevo a voler racchiudere e conciliare in un
unico sistema di pensiero i diversi ambiti della conoscenza (la
filosofia, l’arte, la politica, la metafisica, e così via).
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L’Umanesimo «scopre» la necessità di uno studio specialistico,
specifico, delle diverse «discipline», per poterle conoscere in modo
preciso, «scientifico» e pratico, e di esse potersi servire per rinnovare
il mondo.
Del resto, già in Boccaccio, portavoce di quell’etica mercantile che
aveva aggiornato ai tempi nuovi l’aristocratica visione del mondo di
Dante, tutto è rapportato alle necessità del trionfo del profitto e del
successo personale.
Machiavelli, che vive però l’età del crollo delle utopie comunque
insite anche nel pensiero umanistico in Italia sotto i colpi delle
invasioni straniere di inizio Cinquecento, sebbene conservi una
dichiarata fiducia di fondo nelle capacità dell’uomo di modificare il
proprio destino, abbandona la teoria per la pratica.
Ma non del tutto: perché, nonostante concentri la propria attenzione
prevalentemente sul terreno della realtà e della politica, finisce per
addentrarsi anche nel «pericoloso» e opinabile territorio dei
comportamenti umani: molto difficili da inserire in precisi schemi
teorici, come egli si impone ottimisticamente di fare.
Nessuna età storica rompe del tutto i ponti con quella precedente:
così anche Machiavelli, non rinunciando alla sua fiducia nelle
capacità umane, si dimostra un tipico uomo dell’epoca sua.
Dell’Umanesimo, e poi dello sviluppo di questo nel Rinascimento,
conserva un nucleo di utopica, a volte eccessiva, contraddittoria e un
po’ troppo meccanica fiducia nelle possibilità umane di modificare il
mondo: non si possono, perciò, comprendere pienamente le sue
opere (Principe in testa), senza considerare bene quel clima culturale
della prima metà del Cinquecento in Italia.
Sul piano filosofico e culturale, già gli umanisti, ma poi gli uomini
del Rinascimento soprattutto, concepivano il Medioevo cristiano, col
suo dogmatismo scolastico-religioso, un regresso, quanto meno
un’interruzione, rispetto al pensiero del mondo classico; di cui essi si
sentivano i restauratori.
Per questo la diffusa aspirazione verso un ritorno al mondo classico
precristiano è avvertita, nel Rinascimento italiano, come una
condizione indispensabile, più o meno apertamente dichiarata, per la
ripresa di un effettivo cammino di progresso dell’umanità.
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