Machiavelli. L’invenzione della letteratura politica
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Per un corretto approccio a Machiavelli, come per pochi altri autori, è necessaria la
conoscenza degli avvenimenti biografici; la sua carriera letteraria, infatti, è un porto
al quale l’autore ritorna, quasi come a una consolazione, nei momenti in cui la
carriera politica, fortemente condizionata dalla sua attività in seno alla Repubblica,
si arena per i cambi istituzionali del governo cittadino.
Carriera politica e produzione letteraria
Nato nel 1469, Machiavelli comincia a svolgere incarichi politici per la Repubblica
fiorentina nel 1498, forte di una formazione umanistica tradizionale e di solide
letture classiche, che resteranno una delle grandi passioni della sua vita. Tra questi
incarichi sono presenti numerose ambascerie, che lo portano in giro per l’Italia – quasi
a farsi un’idea ‘sul campo’ della situazione politica di grande frammentazione che
caratterizzava la penisola centro-settentrionale di quel periodo – e presso le principali
corti europee. Si reca in tante città italiane, in Francia, in Germania… E invia a Firenze
relazioni dettagliate e lucide, che lasciano ben presto intravedere le capacità di
osservazione e la lungimiranza del loro autore.
Nel 1512, con il ritorno dei Medici a Firenze, Machiavelli viene allontanato da
tutti gli incarichi e condannato a un anno di confino, presso l’Albergaccio, in Val
di Pesa, poco lontano da Firenze. Spera di essere preso in considerazione per qualche
incarico pubblico, in nome del bene della sua città. Nella famosa lettera al Vettori
del 10 dicembre 1513 afferma:
“Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se
dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso […]”.
Ma nessun incarico arriva per lui che, sospettato di una congiura antimedicea, è
di nuovo condannato al confino per l’anno successivo. In questa condizione si
avvicina alla produzione letteraria, in compagnia di quei classici per i quali scrive,
nella appena citata lettera al Vettori, una sorta di dichiarazione di amore:
“Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio
quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e
rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro
ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per
lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro
azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte; tutto mi trasferisco in loro”.
Nonostante i tentativi di mantenere vivi i legami con il mondo della politica,
Machiavelli otterrà nuovi incarichi pubblici solo nel 1525, con la nuova cacciata
dei Medici e la restaurazione della Repubblica. In essa l’autore spera di ottenere i
vecchi incarichi, ma la sua recente collaborazione con il regime mediceo lo rende
sospetto; sarà nuovamente allontanato da ogni carica pubblica nel 1527 e
morirà in quello stesso anno, senza aver ripreso alcuna attività politica pratica.
Non a caso, sono proprio gli anni tra il ’12 e il ’25 quelli durante i quali vedono
la luce le sue opere letterarie e politiche: il Principe (1513-14, ma pubblicato
postumo, seppure molto diffuso già in manoscritto); i Discorsi sopra la prima Deca
di Tito Livio (1515-17); la Mandragola (1518, rappresentata alle nozze di un
Lorenzo dei Medici, duca di Urbino, nipote del Magnifico); le Istorie fiorentine
(completate nel 1525).
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Il Principe
La citata lettera al Vettori contiene la prima indicazione dell’avvenuta stesura
del Principe. Machiavelli scrive all’amico di aver completato un opuscolo De
Principatibus, del quale annuncia in modo estremamente sommario e schematico il
contenuto, specificando che vi tratta di cosa sia un principato e quali ne siano le
tipologie, come si possa ottenere e in che modo perdere. L’opera fu composta
probabilmente di getto e l’ultimo capitolo, il XXVI, che consiste in un’appassionata
Esortazione a liberare l’Italia dalle mani dei barbari vi fu aggiunto quasi
certamente in seguito.
Se pure inserito, dal punto di vista dell’argomento, nella tradizione, già medioevale,
degli specula principis – dissertazioni scritte per istruzione ed edificazione dei
principi e dei condottieri cristiani – il trattato di Machiavelli costituisce una novità
assoluta nella letteratura italiana e può essere considerata l’atto di nascita della
letteratura politica. L’autore, infatti, non descrive il principe ideale, fondando il
suo ritratto sulla disciplina morale, ma il principe adatto a uno specifico tipo, a
ogni specifico tipo, di contingenza storica, rendendo, di fatto, per la prima volta la
politica autonoma rispetto ai dettami della morale, soprattutto religiosa.
L’opera è scritta in prosa, in volgare, presenta i titoli dei capitoli in latino ed è
sostanzialmente divisibile in due parti.
1. I capitoli I-IX descrivono i tipi di principato che sono sostanzialmente due:
ereditario e nuovo; il nuovo a sua volta può essere aggiunto a un
principato pre-esistente o nuovo del tutto. I principati del tutto nuovi
possono essere acquistati con la virtù o con la fortuna; quelli acquistati con
la fortuna possono essere stati presi grazie alle armi proprie o a eserciti
mercenari. Il capitolo VII vede come esempio la figura del duca
Valentino, Cesare Borgia, ed è una delle pagine più celebri dell’opera. Nei
capitoli VIII e IX Machiavelli affronta rispettivamente la questione del
principato conquistato con la crudeltà (che a suo avviso può essere usata
bene o male, e che quindi non è un male di per sé) e del principato civile,
ricevuto direttamente dai cittadini.
2. Dal capitolo X in poi il discorso procede in modo meno simmetrico, anche se la
logica è ugualmente incalzante ed è possibile individuare dei nuclei tematici
principali: il discorso sul principato ecclesiastico, quello sulle milizie e il
loro ruolo nel governo del principato, le modalità di comportamento del
principe con i sudditi, le cause che hanno portato i principi italiani a
perdere i loro principati (la più grave delle quali è individuata dall’autore
nell’ignavia) e, nel capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna. Questo è
uno dei capitoli più famosi e contiene dichiarazioni di una certa spregiudicatezza
morale il cui tono definitivo conferma l’ipotesi secondo la quale il capitolo
XXVI sarebbe un’aggiunta successiva. L’esortazione finale è rivolta a un
principe nuovo, che abbia fatto tesoro della lettura del trattato e che sappia
strappare l’Italia dalle mani dei barbari.
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