astrolabio
i no global e il controllo delle nascite
paolo sylos labini
1. Marx e Malthus
l controllo delle nascite ha due nemiI
ci: il primo è religioso e proviene
principalmente, ma non solo, dalla Chiesa cattolica, il secondo è laico e proviene da Marx e
riguarda sia i seguaci sia quelli che non l’hanno letto, ma ne hanno subito indirettamente
l’influenza. Comincerò con brani tratti da una
citazione di Marx che illustra efficacemente la
sua avversione viscerale per Malthus (pagine
64-66 del volume 3 del libro primo del
Capitale, Edizioni Rinascita, Roma, 1953):
«Sir F.M. Eden è l’unico seguace di
Smith che nel secolo XVIII abbia fatto qualche cosa d’importante». Poi prosegue, in una
lunghissima nota: «Se il lettore dovesse ricordarmi Malthus, il cui Essay on population uscì
nel 1798, io gli ricorderò che questo scritto
nella sua prima forma non è che un plagio
superficiale da scolaretto, declamatorio in
maniera pretesca di scritti di De Foe, sir James
Steuart, Townsend, Franklin, Wallace ed altri,
e non contiene nemmeno una proposizione
originale. Il grande scalpore destato da questo
opuscolo fu dovuto unicamente a interessi
politici. La rivoluzione francese aveva trovato
nel regno britannico degli appassionati difensori; il ‘principio della popolazione’, elaborato
lentamente nel secolo XVIII, annunciato poi a
suon di tromba nel bel mezzo di una grande
crisi sociale come antidoto infallibile contro le
dottrine del Condorcet e di altri, fu salutato
entusiasticamente dall’oligarchia inglese come
il grande sterminatore di tutte le voglie di progresso umano. Malthus, altamente stupito del
proprio successo, si mise poi a riempire il vecchio schema di materiale compilato superficialmente e di materiale nuovo, che si era semplicemente annesso senza averlo scoperto. [...]
Ad eccezione del monaco veneziano Ortes,
scrittore originale e intelligente, la maggior
parte dei maestri del principio della popolazione sono preti protestanti. Così Brukner,
Théorie du système animal, in cui è esaurita
tutta la moderna teoria della popolazione [...],
poi il prete Wallace, il prete Townsend, il prete
Malthus e il suo scolaro, il pretissimo Thomas
Chalmers, per non parlare di parecchi scribacchini preteschi in this line. [...] Insomma, col
‘principio della popolazione’ venne l’ora dei
preti protestanti. [...] Chalmers sospetta che
Smith abbia inventato la categoria dei ‘lavoratori improduttivi’ per pura malizia proprio per
i preti protestanti, malgrado la loro opera benedetta nella vigna del Signore».
La critica di Marx è valida quando, per
spiegare il successo del saggio di Malthus, fa
riferimento agli entusiasmi dell’oligarchia
inglese nella crisi sociale originata dalla rivoluzione francese. Per il resto si trasforma in
un’invettiva che in certi punti sarebbe perfino
esilarante se la materia non fosse tragica.
Ammesso che Malthus fosse un plagiario,
privo di qualsiasi originalità, restava il problema: ciò che scrive è giusto o sbagliato? Malthus ed altri aderenti al ‘principio della popolazione’ sono preti e particolarmente preti protestanti; ma anche i preti possono affermare
tesi utili e importanti: perché no?
In forme diverse le idee di Marx hanno
influenzato tanti intellettuali e politici e tuttora
la sua influenza non è affatto scomparsa. In
due Conferenze internazionali della popolazione tenute in questo dopoguerra per circoscrivere al massimo la politica del controllo delle
nascite abbiamo assistito all’alleanza fra
Chiesa cattolica e chiese marxiste di vari
paesi. Il Vaticano avversa tutti i metodi per il
controllo delle nascite e specialmente l’aborto
terapeutico; salva solo il metodo, estremamente incerto, dei giorni fertili.
2. Smith, Malthus, Ricardo e i rendimenti decrescenti in agricoltura.
Contrariamente a quanto molti economisti ritengono, Smith pensa che anche in
agricoltura, come nelle manifatture, la divisione del lavoro e quindi il progresso tecnico
abbiano luogo, ossia che i rendimenti siano
crescenti, solo che, considerate le caratteristiche di questa attività, i rendimenti tendono a
crescere più lentamente, anche se non esclude
che possano crescere alla stessa velocità.
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sylos labini
Quanto alla zootecnia, per Smith rappresenta
un caso particolare: fino a quando ci sono terreni incolti, accessibili a tutti, il bestiame può
essere lasciato allo stato brado e il costo è solo
quello della cattura: quando questi terreni non
sono più disponibili subentrano i costi dell’allevamento, che tendono a crescere.
Malthus prima e Ricardo poi sono invece convinti che i rendimenti in agricoltura
siano decrescenti e la produttività tenda non ad
aumentare ma a diminuire: Malthus e poi
Ricardo non negano che il progresso tecnico di
tanto in tanto possa aver luogo anche in agricoltura, ma escludono che nel lungo periodo
sia in grado annullare i compensi decrescenti:
estendendo le aree coltivate, perciò, e mettendo
a cultura terre via via meno fertili, la produttività media in agricoltura tende a diminuire.
Non è facile comprendere perché
Malthus e Ricardo, entrambi discepoli di
Smith, si allontanino così nettamente e con
tanta sicurezza dall’insegnamento del maestro.
Presumibilmente in quel tempo il progresso
tecnico in agricoltura aveva un ruolo modesto;
tuttavia un certo peso già lo aveva nei paesi
avanzati, come appare dalle osservazioni di
Smith. Forse conviene riflettere su alcune
importanti vicende storiche. Dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni, che è del
1776, in Francia, paese da cui l’Inghilterra
importava grandi quantità di derrate agricole,
cominciano ad aver luogo, anche nelle campagne, quelle tensioni e quei conflitti sociali che
alla fine sboccano nella Rivoluzione. C’è poi
Napoleone che, attraverso il blocco continentale, interrompe i traffici dell’Inghilterra con
tutto il continente europeo. Il risultato è un
aumento dapprima lento poi molto rapido nei
prezzi dei cereali; al tempo di Smith il grano
cresce da circa 45 scellini per barile a 60 e poi
a 70, con punte, anche per cattivi raccolti, di
118 e 106 scellini; dopo le guerre napoleoniche
il prezzo scende a livelli poco superiori a quelli
del tempo di Smith e negli ultimi 25 anni del
secolo XIX cade a circa 25 scellini – una caduta imputabile ai grandi guadagni di produttività
agraria e alle e alle innovazioni nei mezzi di
trasporto, navi e ferrovie. Nel secolo XVII
diviene sempre più chiaro che la popolazione
inglese tende a crescere ad una velocità sostenuta – allora si avevano solo stime poiché il
primo censimento è del 1801. Sempre nel
secolo XVII in Inghilterra crescono i “poveri”,
che si addensano nelle “parrocchie”. In un’altra parte del mondo, il Nord America, dove
c’era abbondanza di terre libere e fertili, la
popolazione cresce rapidamente. Tutti questi
fatti persuadono Malthus, ed altri prima di lui,
36 • critica liberale
dei gravi pericoli impliciti nelle potenzialità
della crescita demografica. In tutto ciò Ricardo
segue Malthus, benché se ne differenzi in
modo netto per la teoria della rendita agraria.
Quando si fa riferimento ai paesi più
avanzati, con livelli d’istruzione in sistematico
aumento, oggi appare chiaro che l’errore di
Malthus e di Ricardo è di aver trascurato il progresso tecnico in agricoltura; nei paesi in cui le
condizioni culturali restavano e restano basse
la produttività in agricoltura non aumenta o
aumenta lentamente, mentre tende ad espandersi rapidamente la popolazione, che è appunto il quadro prospettato da Malthus e con le sue
famose progressioni tendenziali – aritmetica,
nel caso delle produzioni agrarie, geometrica,
nel caso della popolazione. Sono progressioni
solo tendenziali perché di tanto in tanto l’equilibrio viene ristabilito attraverso eventi drammatici e violenti, come le carestie, le epidemie
e le guerre, tragedie che potrebbero essere largamente evitate se l’uomo esercitasse in via
preventiva i freni morali nella procreazione.
3. Malthus e i paesi della fame
Una crescita della popolazione tendenzialmente più rapida di quella degli alimenti,
osservabile oggi in molti paesi arretrati, è esattamente il quadro descritto da Malthus. In certi
paesi, anzi, il quadro è perfino peggiore, nel
senso che l’aumento della popolazione è
accompagnato addirittura da una diminuzione
delle produzioni agrarie. All’origine della situazione di tipo maltusiano e della situazione perfino peggiore di quella descritta da Malthus troviamo principalmente due fattori: la pressione
demografica e l’ignoranza totale di coloro che
coltivano la terra. La schiera di queste persone
tende ad aumentare, ma non essendo capaci di
far crescere la produttività agraria sono costrette a mettere a coltura terre via via meno fertili.
Se le trovano disponibili, emerge una situazione di tipo maltusiano (e ricardiano); se non le
trovano, tendono a trasformare in terre coltivabili quelle coperte da arbusti e da alberi; ma in
tal modo provocano una deforestazione – che
tuttavia può avere anche altre cause. La deforestazione altera il regime delle acque ed apre la
porta alla desertificazione, cosicché il sollievo
dovuto all’allargamento delle aree coltivabili è
temporaneo e a lungo andare la produttività o
cresce ad un saggio nettamente decrescente o
addirittura diminuisce. La deforestazione
aggrava il problema dell’acqua sia per usi agricoli sia per usi civili cosicché i paesi della fame
sono anche i paesi della sete. (Il problema dell’acqua sta diventano grave, per motivi diversi,
astrolabio
anche in molti paesi avanzati: Sylos Labini
2001, Sottosviluppo, p. 44).
Usando i dati della Banca mondiale e
dei rapporti sullo sviluppo umano si può tracciare un quadro dei paesi della fame delle due
categorie – situazione di tipo maltusiano e
situazione anche peggiore. Come si comprende, le statistiche agrarie sono incomplete e
frammentarie, soprattutto nei paesi arretrati,
cosicché si può presumere che i paesi della
fame delle due categorie siano anche più
numerosi di quanto appaia dai dati più sotto
elencati. Se si ammette però che alcuni dei
paesi considerati possono supplire alle carenze
nella produzione di beni alimentari con prodotti spontanei, con la produzione per l’autoconsumo e con la produzione di altri beni, che poi
cedono in cambio di quelli, il numero dei paesi
della fame può essere rivisto in basso; non
sembra però che tale revisione possa avere particolare rilievo. C’è poi da tener conto che l’andamento avverso delle produzioni di beni alimentari può dipendere anche da sconvolgimenti sociali, da conflitti etnici e da guerre. C’è
infine da considerare che la deforestazione può
essere determinata anche da lunghi periodi di
siccità o da spinte speculative – taglio di alberi
per il legname. D’altra parte la deforestazione
può aver luogo non solo perché i contadini
poveri si sforzano di allargare le aree coltivabili, ma anche perché vogliono fare legna da
ardere. Data la totale ignoranza è difficile che
coloro che coltivano la terra siano in grado
d’invertire la tendenza all’impoverimento delle
terre o di mettersi in condizioni di accrescere la
produttività, salvo che non abbia luogo o un
vigoroso intervento di sostegno da parte dei
paesi evoluti, come dirò poi, o qualche trauma.
Un esempio di trauma, alla fine benefico, è
illustrato dal Rapporto 1998 sullo sviluppo
umano a pagina 86 e riguarda un distretto del
Kenya, oggi abitato da 1,4 milioni di persone,
il cui territorio fino ad alcuni fa era caratterizzato da un progressivo degrado del suolo, in
parte imputabile a cause naturali, in parte alla
pressione demografica (allargamento delle aree
coltivabili e legna). L’angoscia per il degrado e
l’erosione del suolo indusse la popolazione a
moltiplicare gli sforzi che già compiva, ma
molto gradualmente, costruendo banchine di
terra per la conservazione del suolo; ad un
certo punto riuscì ad attuare un vero e proprio
salto di qualità attuando un’opera di conservazione su larga scala che ha salvato la situazione
ed ha consentito un profondo cambiamento nei
sistemi di produzione ed un aumento non effimero della produttività agraria. La routine che
implica la miseria nera non è dunque inelutta-
bile, anche se la strada maestra per uscire dalla
routine è il progresso delle conoscenze.
Un elenco delle due categorie di paesi,
di quelli che si dibattono in una situazione di
tipo maltusiano – crescita delle produzioni
agrarie più lenta della popolazione – e di quelli
che si trovano in una situazione anche peggiore – produzioni agrarie in diminuzione – è
riportato nel libro sul sottosviluppo (p. 110).
Qui mi limito a indicare i paesi che nel
periodo 1980-1996 mostrano una diminuzione di
oltre il 5% della produzione alimentare pro capite, comunque originata. La fonte è il Rapporto
1998 sullo sviluppo umano (pp. 176-7 e 192-3);
accanto al nome del paese indico la popolazione
del 1995, in milioni; la popolazione totale di
quei paesi oggi si aggira sul mezzo miliardo di
persone – una cifra certo impressionante.
Camerun 13, Lesotho 2, Kenya 27,
Congo 46, Mauritania 2,5, Tanzania 3, Yemen
15, Madagascar 15, Bhutan 2, Angola 11,
Sudan 27, Malawi 10, Chad 6,5 Gambia 1,1,
Mozambico 17, Guinea 1,1, Burundi 6,1, Mali
11, Niger 9, Sierra Leone 4, Etiopia 56, Oman
2, Sud Africa 42, Sri Lanka 18, Sudan 27,
Mongolia 3, Angola 11, Namibia 2, Honduras
6, Gabon 1,1, Iraq 20, Nicaragua 4, Papua 4,
Zimbawe 11. In questo elenco sono omessi i
paesi con una popolazione inferiore al milione.
4. La produttività agraria nei paesi
avanzati. Gli Stati Uniti
Del tutto diverso è il quadro nei paesi
culturalmente ed economicamente avanzati,
nei quali la produttività in agricoltura è cresciuta in modo sistematico. Come esempio
molto rilevante di un tale paese possiamo considerare gli Stati Uniti.
Andando indietro nel tempo le difficoltà di trovare statistiche attendibili sono
gravi anche negli Stati Uniti, Usando dati
frammentari , ricavabili dai volumi Historical
Statistics of the United States – Colonial Times
to 1970 (vol. I, pp. 139 e 239) sembra che
nella seconda metà del secolo XIX la produttività per lavoratore in agricoltura sia cresciuta,
in media, ad un saggio di circa l’1% l’anno,
mentre nel tempo recente è cresciuta molto di
più – e qui i dati sono attendibili: dal 1950 al
1970 è cresciuta del 5,4% l’anno e dal 1970 al
2000 del 5,5%. Le cifre corrispondenti per
l’industria manifatturiera sono l’1,6% nella
seconda metà del secolo XIX, del 3,4% dal
1950 al 1970 e del 5,3% dal 1970 al 2000 – mi
riferisco non alla produttività oraria ma a quella per lavoratore per rendere possibile il confronto con l’agricoltura. Da notare che nella
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sylos labini
seconda metà del secolo XIX gli andamenti
sono conformi alle aspettative di Smith – la
produttività cresce di più nelle manifatture che
in agricoltura – nel nostro tempo invece in
agricoltura è cresciuta addirittura di più.
Tuttavia, nel considerare la lenta crescita della
produttività agraria nel secolo XIX occorre
tener conto di vari fattori. In primo luogo di
quello citato da Smith: in quel tempo la diffusione di tecnologie relativamente nuove in
agricoltura era probabilmente più difficile che
nelle manifatture. Negli Stati Uniti in direzione ovest c’erano inoltre terre libere relativamente fertili da mettere a coltura; la fertilità
delle terre libere non faceva crescere la produttività dei lavoratori, ma consentiva a questa di
restare alta anche senza nuove tecnologie.
Infine in quell’epoca si riversarono in America
fiumane di emigranti provenienti dall’Europa:
non erano ignoranti come sono tuttora gli abitanti dei paesi della fame, ma indubbiamente il
loro grado d’istruzione era basso. In ogni
modo anche nel secolo XIX la produttività
individuale è aumentata, sia pure lentamente,
ciò che ha consentito un miglioramento nel
tenore di vita di una popolazione in rapida crescita. I motivi della lentezza nell’aumento
della produttività agraria sono venuti meno nel
secolo XX e nel nostro.
Ha avuto luogo anche un fenomeno
imprevisto. Negli anni precedenti la seconda
guerra mondiale Roosevelt nel New Deal
introdusse un sistema per sostenere i prezzi
agricoli, che nella grande depressione erano
precipitati a bassi livelli: il governo assicurava
l’acquisto a prezzi remunerativi, alla condizione però che gli agricoltori s’impegnassero a
non coltivare più di determinate aree: l’idea
era di contenere la produzione ponendo limiti
alle aree coltivate. Il risultato paradossale fu
che gli agricoltori, stimolati dai prezzi garantiti, introdussero ogni sorta di miglioramenti –
rotazioni, sementi, concimi, macchinari – per
accrescere la produttività per unità di superficie e quindi indirettamente anche quella per
lavoratore allo scopo di aumentare la produzione pur rispettando il limite dell’area.
Durante la guerra la politica di sostegno dei
prezzi agricoli risultò provvidenziale. Per
gl’interessi in gioco, quella politica è resistita
nel tempo e tuttora è in vigore, sia pure con
modifiche radicali.
Questo richiamo può essere utile a comprendere quante forze possano originare gli
aumenti di produttività e quanto efficace possa
essere l’azione dell’uomo, nei modi più diversi.
Negli Stati Uniti l’aumento della produttività agraria, lento o rapido che fosse, è
risultato tendenzialmente maggiore e non
38 • critica liberale
minore della crescita demografica, nonostante
le immigrazioni. È che i sistematici miglioramenti del reddito individuale dovuti agli
aumenti di produttività in tutti i settori inducevano le famiglie, per consolidarli, a frenare la
prolificità, in contrasto con quanto ritenevano
Malthus e Ricardo.
5. Controllo delle nascite, fame e Aids
Torniamo ai paesi della fame, che sono
anche i paesi delle tremende malattie, fra cui è
l’Aids. C’informa Massimo Livi Bacci (“Repubblica”, 28 febbraio 2003) che l’Aids ha
ridotto drasticamente la crescita demografica
di vari paesi del Terzo mondo – agendo in
forme particolari come uno dei freni di cui
parla Malthus.
Da parte sua Vittorio Agnoletto (“Critica liberale”, gennaio 2003, p. 10) sostiene
che nell’Africa sub-sahariana «la produzione
agricola è minacciata principalmente da un
virus che, a fronte di 40 milioni di sieropositivi
nel mondo, ha contagiato 28 milioni di persone nella regione. [...] Se non si controlla l’epidemia da Hiv non potrà sicuramente esserci
sviluppo». La soluzione c’è; si deve però superare l’ostacolo dell’analfabetismo e si debbono
affrontare, da un lato, il problema organizzativo e, dall’altro, i tabù di carattere religioso.
Per l’analfabetismo dirò fra breve. Il problema
organizzativo si supera attraverso una rete di
consultori che distribuiscano gratis profilattici
e siano in grado di fornire istruzioni. Una tale
via non comporta imposizioni e, per di più, ha
il grande vantaggio di combattere la diffusione
dell’Aids – perfino nel periodo fascista i profilattici erano ammessi, non per frenare le nascite, che anzi il fascismo voleva far aumentare,
ma proprio come protezione, in quel tempo,
contro la lue e la blenorragia. Quanto al tabù
religioso, oramai in tutto il mondo, compresi
molti paesi islamici, si riconosce che ha fatto il
suo tempo.
Sarebbe sbagliato attribuire a certe religioni in quanto tali la piena responsabilità
delle barriere poste al controllo delle nascite:
spesso le religioni istituzionalizzano, richiamando regole trascendentali, comportamenti
tradizionalmente diffusi tra le popolazioni per
motivi che non hanno nulla di trascendentale.
Così, i demografi pongono in evidenza, tre
spinte spontanee a favore di un’alta prolificità:
quando la mortalità infantile è alta bisogna
mettere al mondo 5 figli per averne, per esempio, 2 o 3 che possano dare un aiuto nella vecchiaia; fra i contadini i figli anche bambini
possono contribuire ai lavori agricoli svolti
con tecniche primitive; l’ignoranza, special-
astrolabio
mente delle donne, favorisce l’alta natalità.
Combattendo l’ignoranza si favorisce in vari
modi una riduzione della natalità. Se poi è il
governo stesso che adotta una politica di controllo delle nascite, oggi, grazie al progresso
nei mezzi di trasporto e di comunicazione, si
possono ottenere risultati in tempi brevi. Come
ha messo in risalto Massimo Livi Bacci
(“Repubblica”, 5 giugno 2002), nel giro di due
o tre decenni molti importanti paesi islamici
che hanno adottato politiche di controllo delle
nascite sono riusciti ad avvicinarsi ad un livello di 2 figli per donna, che implica, a lungo
andare, popolazioni stazionarie. Allora – la
domanda è rivolta anche alla brava Oriana
Fallaci – dobbiamo concludere in questa materia, letteralmente vitale, c’è più fondamentalismo da noi che nell’Islam?
Oramai la Chiesa cattolica è rimasta
pressoché sola a difendere un tabù che giustamente è stato definito delittuoso. Le Chiese
protestanti nel secolo XIX erano intransigenti
nell’avversare i metodi di controllo delle
nascite, al punto che erano riuscite a farlo
considerare come un reato – John Stuart Mill,
giovanissimo, passò una notte in prigione perché aveva fatto propaganda di quei metodi in
certi quartieri poveri di Londra; in seguito
quelle Chiese sono diventate più indulgenti e
intorno al 1930 hanno tolto di mezzo il divieto. Paolo VI nel 1965 istituì una Commissione
col compito di studiare il problema; la conclusione – come ricorda Giovanni Sartori nel
libro, scritto insieme con Gianni Mazzoleni,
La terra scoppia - Sovrappopolazione e sviluppo – fu che da nessun testo sacro si poteva
ricavare il divieto di contraccezione (p. 42; v.
anche E. Chiavacci e M. Livi Bacci, Etica e
riproduzione - Un teologo e un demografo a
confronto, Le Lettere, Firenze, 1995). Nel
1969, tuttavia, lo stesso papa emanò un’enciclica, l’Humanae vitae, in cui ribadiva ed
aggravava il divieto, accogliendo i consigli
della parte più reazionaria della Curia. Poco
dopo, in un discorso alle ostetriche apriva la
porta al metodo dei giorni fertili proposto da
Ogino-Knaus, ciò che fu visto come l’anticamera dell’abolizione del divieto; l’argomento
era che si tratta di in metodo che non comporta strumenti esterni e quindi non è “contro
natura”. Ma allora farsi la barba, che comporta l’uso di un rasoio, è “contro natura”? Non
si rendono conto, in Vaticano, che avallare
queste infelici ipocrisie danneggia l’immagine
della Chiesa proprio sul piano morale?
Per minimizzare l’importanza di una
politica di controllo delle nascite si è detto che
è stata un fallimento in tutti i paesi in cui è
stata tentata. È falso. Una politica di controllo
delle nascite è stata adottata da tempo dai due
più popolosi paesi del mondo, dalla Cina, in
forme duramente coercitive, e dall’India, sulla
base d’incentivi; nel primo caso il successo è
stato grande, ben oltre le aspettative dei demografi; nel secondo più limitato, ma pur sempre
notevole (v. il mio libro sul sottosviluppo, p.
112). Impressionanti i successi, nel controllo
delle nascite, ottenuti da molti paesi islamici;
impressionanti per due ragioni: la prima, è che
quei paesi avevano la fama di essere perfino
più intransigenti della Chiesa cattolica; la
seconda è la rapidità con cui quei successi
sono stati ottenuti – pochi decenni.
Per minimizzare la responsabilità della
Chiesa cattolica è stato detto: l’influenza del
papa si limita ai paesi cattolici, anzi a quelli fra
i più poveri dei paesi cattolici (in quelli ricchi
il controllo delle nascite è ampiamente attuato
in modo spontaneo da molto tempo). Anche
questa affermazione è falsa, come mette in
rilievo Sartori, giacché per ragioni politiche
quell’influenza può aver luogo anche in paesi
non a maggioranza cattolica, come gli Stati
Uniti; di fatti, per ripagare l’appoggio dei cattolici alla sua elezione il presidente Bush ha
abolito il finanziamento al fondo per l’educazione contraccettiva nel mondo. Inoltre l’influenza del papa è grande nei principali organismi internazionali, come le Nazioni Unite e la
Fao. È stato anche detto che il problema dei
paesi poveri o poverissimi è un problema di
redistribuzione delle ricchezze, ossia si risolve
se i paesi ricchi (che rappresentano meno di un
quinto della popolazione mondiale e ottengono
i quattro quinti del reddito) fanno “un passo
indietro”: un’espressione metaforica che può
avere un senso se si fa riferimento ai soccorsi
alimentari inviati dai paesi ricchi ai paesi poveri in periodi di carestie o di altre calamità
oppure, ma qui la metafora è veramente forzata, ad aiuti finanziari, che tuttavia alimentano
corruzione e sprechi sia nei paesi donatori che
in quelli beneficiari. No: la via di uscita consiste nell’aiuto che i paesi ricchi possono fornire
a quelli poveri per produrre di più: è un problema di produzione, non di redistribuzione.
Infine, sempre per minimizzare la rilevanza
delle politiche di controllo delle nascite, è stato
detto che la vera cura della sovrappopolazione
sta nello sviluppo: più questo è sostenuto, più
rapida è la riduzione della fecondità e della
natalità. È vero, l’ho già ricordato, è però
anche vero che è proprio l’avvio di un processo
di sviluppo di questo tipo che è reso impossibile dalla pressione demografica. Ma insomma,
la questione della messa a cultura di terre via
via meno fertili, resa necessaria dal ristagno o
quasi ristagno della produttività in agricoltura,
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è una mera fantasia? Ed è una mera fantasia
l’allargamento delle terre coltivabili tagliando
arbusti ed alberi e contribuendo così ai disastrosi processi di deforestazione e di desertificazione? Vogliamo autoingannarci con interpretazioni opportunistiche o vogliamo invece
liberarci dai tabù e guardare in faccia la realtà?
Rivolgo le domande a Vittorio Agnoletto, col quale ho avuto un’assai civile discussione sul movimento no global, pubblicata in
“Critica liberale” di gennaio 2003. Sulle politiche di controllo delle nascite Agnoletto dichiara che «personalmente non è contrario in via di
principio, purché siano autodeterminate e non
imposte alle popolazioni». Chiaramente, lui e
gli altri intellettuali che guidano i no global,
non dànno peso a quelle politiche, di cui non
parlano. Il motivo sta forse nella preoccupazione di non urtare i cattolici o i marxisti che li
seguono? Che un movimento che si vanta di
praticare una sorta di disobbedienza civile per
il bene dell’umanità, affrontando il rischio di
feroci pestaggi o magari di quale pallottola sparata dalla polizia durante le manifestazioni, pratichi comportamenti opportunistici a me sembra a dir poco paradossale. Può darsi invece
che si tratti di un atteggiamento dovuto a ignoranza. Chi vuol contribuire cambiare il mondo
l’ignoranza non se la può permettere. Quei leader debbono allora riflettere in modo serio e
critico sui fatti sinteticamente qui richiamati e
sulle misure qui riproposte: non basta “essere
d’accordo in via di principio”. Nell’ipotesi che
giochi l’opportunismo nei riguardi dei cattolici
– i marxisti contano sempre meno – l’influenza
dei divieti religiosi sulla contraccezione non va
esagerata, se si ammette che spesso quei divieti
istituzionalizzano comportamenti spontanei. Ed
è vero che la contraccezione non è affatto l’unica via per combattere la fame: non meno
importanti sono la lotta all’analfabetismo e la
sanità. È però una via molto importante, come
appare dagli straordinari successi dei paesi, fra
cui molti paesi islamici, dove quei divieti vigevano fino a tempi recenti.
6. Tre centri europei di coordinamento
per l’Africa sub-sahariana
Due considerazioni finali, espresse in
termini telegrafici, la prima riguardante l’ambiente, la seconda gli aiuti reali che i paesi
europei possono fornire ai paesi della fame
dell’Africa sub-sahariana.
L’ambiente. I problemi ambientali sono
strettamente legati a quelli della sovrappopolazione, come giustamente sostengono Sartori e
40 • critica liberale
Mazzoleni. Da un punto di vista diverso
anch’io sottolineo tali legami nel mio libro sul
sottosviluppo (pp. 152-5) e metto in rilievo che
i problemi non provengono solo o principalmente dai paesi sviluppati, ma anche da quelli
arretrati, che non sono in grado di sopportare i
costi per ridurre al minimo l’inquinamento e,
in agricoltura, a causa della loro miseria contribuiscono alla deforestazione, rovinosa per
l’ambiente del mondo intero. In larga misura i
problemi ambientali traggono origine dalle
fonti di energia, usate sia per usi fissi che per
usi mobili. Credo che la via di uscita consista
in un vigoroso sforzo imprenditoriale, coordinato al livello internazionale, per promuovere
un drastico risparmio energetico e la produzione di fonti non inquinanti.
Gli aiuti dei paesi europei ai paesi
dell’Africa sub-sahariana dovrebbero essere
forniti, in via sperimentale, da tre centri. Il
primo per avviare una campagna massiccia
contro l’analfabetismo, specialmente femminile, che in Africa è maggiore di quello, già alto,
maschile; ciò può dare un notevole contributo
all’accelerazione della diminuzione della natalità e può consentire una crescente partecipazione delle donne allo sviluppo produttivo. Il
secondo centro può dar vita alla continua formazione di esperti agrari e industriali, sulla
base di studi approfonditi delle comunità di
villaggio e tenendo presenti, come modelli di
larga massima, i distretti industriali europei. Il
terzo centro deve fondarsi sul potenziamento e
sulla crescita delle unità sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità, promovendo anche, d’intesa con le multinazionali dei
farmaci, la produzione di medicine volte a
combattere i tre grandi flagelli – l’Aids, la
tubercolosi e la malaria cerebrale. Le stesse
unità dovrebbero organizzare consultori per
distribuire gratuitamente profilattici e i farmaci
contro i grandi flagelli.
Discutere di problemi ambientali e del
Terzo mondo oggi può apparire addirittura
insensato, posto che il paese più potente del
mondo ha un presidente che ripudia l’accordo
internazionale sull’ambiente sottoscritto dal
governo precedente e che ha deciso di scatenare la guerra all’Iraq, con probabili conseguenze che i più, al mondo, giudicano disastrose,
specialmente sul piano politico. Purtroppo il
nostro sciagurato governo, pur barcamenandosi, si è schierato a favore della guerra. Nonostante tutto dobbiamo guardare al futuro e portare avanti queste discussioni per mantenere la
speranza facendo leva sulla ragione.
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