L’occhio del regime sulla Grande guerra:
l’Istituto Luce tra informazione,
memoria e propaganda
di Antonia Liguori

Considerazioni preliminari
È ormai un’acquisizione condivisa dalla migliore storiografia contemporanea la necessità di individuare nella Prima guerra mondiale le
premesse che hanno consentito l’affermazione del movimento fascista in
Italia. Tale consapevolezza è palese sia in quegli storici che interpretano
l’evento bellico come momento catalizzatore delle trasformazioni già in
atto dal punto di vista sociale, economico e politico, sia in quegli studiosi
che hanno focalizzato la loro ricerca su una tematica specifica – carica
di notevoli implicazioni di natura antropologica e sociologica – come
quella della connessione tra la mobilitazione del popolo per la guerra e il
contemporaneo avvio di quel processo definito come «nazionalizzazione
delle masse». Una prospettiva di questo tipo rende indispensabile una
maggior attenzione a tutto ciò che ruota attorno al concetto di “partecipazione”, inteso non soltanto come effettiva integrazione del popolo
nella vita dello Stato durante e soprattutto dopo l’evento bellico, ma
anche come una sorta di atto di accusa mosso prima – e cioè alla vigilia
dell’intervento – dagli intellettuali al ceto dirigente e, successivamente,
dai gerarchi del regime fascista all’élite culturale.
Si tratta, in realtà, di una tematica che consente numerosi riferimenti a quel dibattito che si protrasse per l’intero arco del Ventennio
e che culminò con la pubblicazione del veemente articolo di Bottai
sull’«interventismo della cultura». L’immagine che del popolo avevano
fornito gli intellettuali negli anni compresi tra il «piccolo dopoguerra
libico» e l’intervento italiano del  maggio del  era in un certo senso
sintomatica del fallimento di un approccio che, comunque, rimase di natura elitaria e che, perciò, rese evidente la scarsa percezione – da parte di
quella cultura che «se ne stava alla finestra» – delle implicazioni connesse
all’avvento della società di massa. E l’insuccesso dell’élite intellettuale,
che, alla vigilia della Grande guerra, si arrogava il diritto di presentarsi
Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

ANTONIA LIGUORI
come «voce della coscienza nazionale», sarebbe divenuto ancor più palese
– a posteriori – a confronto con la straordinaria efficacia dell’organizzazione del consenso attuata in pieno regime.
Quanti si proponessero di individuare i moventi ideologici che hanno
indotto il «fascismo-movimento» a cercare nella Grande guerra – e, più
in particolare, nel perdurare del suo mito – la legittimazione storica e la
propria ragion d’essere, troverebbero nel patrimonio filmico conservato
presso l’Archivio storico dell’Istituto Luce una fonte indispensabile per
l’individuazione di quelle componenti emotive che possono sfuggire
alla consultazione dei documenti e delle memorie. È opportuno, infatti,
verificare la possibilità e la relativa validità dell’uso delle immagini come
fonte storica, in un ambito nel quale non si ha come scopo la ricerca di
una presunta oggettività – come vorrebbe uno scolastico neopositivismo
– quanto piuttosto il tentativo di ribadire la necessaria priorità della norma
storiografica della contestualizzazione.
Per valutare a tutto tondo il panorama nel quale ha preso forza il mito
della Grande guerra, così come il fascismo-regime lo ha poi consegnato al
popolo italiano, è tuttavia necessario ampliare il concetto di produzione
culturale, sia per considerare la sua effettiva incidenza sulle masse – cosa
che non sarebbe possibile qualora si prendesse in considerazione soltanto
il dibattito culturale qual è stato vissuto dagli addetti ai lavori – sia per
verificare l’impatto che la “favola” della «quarta guerra d’indipendenza»
ha avuto negli ambienti più disparati, dalle aule scolastiche alle piazze,
dalle sale di proiezione cinematografica alle terre d’oltremare.
Proprio dopo la recente pubblicazione del testo di Norberto Bobbio
sulla cultura a Torino tra le due guerre, si è nuovamente ravvivato un
dibattito storiografico che sembrava ormai sopito. Si tratta della “vecchia” querelle relativa all’esistenza di una “cultura fascista”, questione
preliminare per chi si accinge a verificare proprio nell’organizzazione del
consenso le tracce della cultura di massa. Il filosofo torinese ripropone
quella coincidenza tra fascismo e incultura che fu fornita come chiave
interpretativa di base dalla storiografia di sinistra, che, sul finire degli
anni Sessanta, partendo da presupposti crociani, salveminiani o gramsciani, dava sostegno alla fortunata definizione coniata da Venturi. In
una delle sue lezioni, infatti, egli condannava il fascismo delle origini – e
con maggiore acredine il regime – senza alcuna possibilità di replica,
stigmatizzando con il marchio della “retorica” la produzione culturale
del Ventennio, alla quale affiancava la definizione onnicomprensiva di
«regno della parola che si muove in un mondo di fenomeni che finisce
per credere reali». Una concezione, quella di Venturi, che lascia poco
spazio al momento creativo e perciò ratifica l’inesistenza stessa di una
cultura propriamente detta.

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
Già prima della pubblicazione del più recente volume di Bobbio – che
in realtà è stato concepito dall’autore alla fine degli anni Settanta – Angelo
D’Orsi, dalle colonne de “Il Foglio”, aveva dato il “la” a una polemica,
che, sia per le dimensioni che per la durata, in alcuni casi è apparsa fine
a se stessa e priva di quei riferimenti a una più ampia interpretazione del
fenomeno fascista che imporrebbero al dibattito una diversa sede e un
maggiore sostegno scientifico.
Proprio i tempi e i modi del rapido ravvivarsi e diffondersi del vecchio
“dilemma” – in un certo senso già risolto dallo stesso Bobbio nel suo
volume diffuso in sordina all’inizio degli anni Novanta – impongono
una rapida riflessione sulle implicazioni relative all’uso pubblico della
storia.
Con la chiusura del Novecento si sono moltiplicati i tentativi di sintesi
degli eventi del secolo scorso, per lo più accompagnati dall’elaborazione
di teorie generali su quelli che vengono connotati come momenti chiave. Tentativi encomiabili, se affrontati da “professionisti” della ricerca,
soprattutto per ciò che riguarda la ricostruzione delle vicende italiane
tra le due guerre, perché – come sosteneva Rosario Romeo – «un paese
idealmente separato dal proprio passato è un paese in crisi di identità e
dunque potenzialmente disponibile, senza valori da cui trarre ispirazione
e senza quel sentimento di fiducia in se stesso che nasce dalla coscienza
di uno svolgimento coerente in cui il passato si pone come premessa e
garanzia del futuro». Ma si tratta spesso di sintesi storiche il cui meritorio intento di uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori implica,
però, il rischio d letture distorte da parte dei nostalgici testimoni degli
eventi narrati. O – cosa ancor più dannosa per la corretta interpretazione del passato – sono il frutto di “compilazioni” dal taglio giornalistico
puramente divulgative. C’è chi tra gli storici ha dunque puntualizzato i
rischi di questo indiscriminato uso pubblico della storia, notando però
che le ricostruzioni congetturali del passato per certi versi fanno parte
della tradizione italiana e in particolare proprio di quel periodo che oggi
maggiormente è vittima delle interpretazioni dei “dilettanti”, considerando con tale termine sia alcuni autori che un buon numero di lettori.
Era in virtù del principio dell’“uso pubblico” della storia, infatti, che
il regime attuò una vera e propria riscrittura del passato, con l’intento
sempre più palese nel corso del Ventennio di cementare il consenso delle
masse attorno a quello che allora era il più vivo evento suscitatore di miti,
la Grande guerra.


ANTONIA LIGUORI
La Grande guerra come evento costitutivo della memoria
L’immagine del tapis roulant, descritta da Mario Isnenghi per visualizzare
i meccanismi attraverso i quali avviene il viaggio delle memorie, sembra
quella ideale per dare avvio a un percorso che, attraverso l’analisi delle
pellicole di cinegiornali, documentari propagandistici e cortometraggi,
si propone di ricostruire e porre l’una di fianco all’altra le innumerevoli
tracce che hanno reso possibile il perpetuarsi del mito della Grande
guerra negli anni del “Regime realizzato”. Come se si muovessero su
una serie infinita di nastri trasportatori che si snodano tra brevi tunnel
e curve improvvise, i percorsi delle memorie collettive sono talvolta
ardui da rintracciare e difficili da seguire nella loro evoluzione, a volta
di breve e a volte di lungo periodo. Ciò che può aiutare a ricostruirne
l’origine è la convinzione che qualsiasi memoria che coinvolga un ampio
raggio della popolazione è generata da eventi che hanno richiesto una
partecipazione collettiva e che hanno la forza di rendersi memorabili. Il
problema della durata dei contenuti di una memoria è, invece, strettamente connesso all’efficacia di quei mezzi di diffusione che provvedono
in maniera sistematica a intrecciare storia e mito; primo fra tutti, nell’era
della comunicazione di massa, la pellicola.
La Grande guerra, la prima guerra tecnologica del XX secolo, offre innumerevoli spunti di riflessione in merito ai rapporti tra evento e memoria,
con particolare riferimento al drammatico dilemma tra memoria e oblio.
Appare ancora oggi forte e stridente la contraddizione in chi avvertiva il
«bisogno di rimuovere» e, al contempo, «la coazione a testimoniare»,
posto in bilico tra l’orrore dei ricordi e la grandezza degli eventi, ed era
costretto a scegliere tra la rappresentazione di se stesso come vittima o
come nuovo protagonista della vita del Paese.
Il fatto che la Grande guerra abbia costituito un evento epocale,
una vera e propria frattura del corso storico, prima che come riflessione
storiografica o come manipolazione propagandistica, compariva nell’esperienza stessa dei protagonisti. Una cosa va però puntualizzata prima di
esaminare le fonti dirette, e cioè che, laddove si parli della Prima guerra
mondiale come evento costitutivo della memoria collettiva, non bisogna
pensare ad essa come «somma delle memorie private», poiché se si
bada alle profonde differenze sociali e culturali del nostro paese, come
ai più svariati livelli di “nazionalizzazione” – intesa in questo caso come
partecipazione – si incorre nell’errore di chi non riconosce l’esistenza di
una serie di forme di inquadramento sociale della memoria, che si concretizzavano attraverso la scelta di spazi celebrativi comuni e l’adesione
del popolo agli appuntamenti collettivi.
La Prima guerra mondiale, dunque, si presentava soprattutto agli

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
occhi dei reduci come evento catastrofico, che, aprendo un baratro tra
passato e futuro, diveniva momento di accelerazione anche in tema di
esperienza della morte. Tale cambiamento è assai evidente soprattutto in
quella che alcuni hanno definito la «proiezione iperbolica dei culti postumi», che andava oltre la retorica d’occasione e dimostrava al contrario
la necessità di evocare piuttosto che nascondere la morte di massa, quasi
a volerla neutralizzare, dando ai caduti una fissa dimora, che impedisse
loro di «vagare […] disturbando indefinitamente l’immaginario».
La guerra moderna pose il combattente di fronte alla inevitabilità
dell’incontro con la morte di massa e tale esperienza “aiutò” il fascismo
in una maniera forse indiretta, ma di sicuro determinante. I soldati di
prima linea si erano adattati a tal punto agli orrori vissuti al fronte da
integrarli nel proprio patrimonio emotivo come motori di una lotta che
non finiva con l’esperienza bellica e che andava oltre la realizzazione
personale: il reduce, colui che aveva affrontato con spirito di sacrificio
un’esperienza ineguagliabile, doveva trovare nel ricordo del compagno
morto, nel culto dei caduti, un ulteriore stimolo ad arricchire il proprio
patrimonio morale.
L’esaltazione del soldato eroe – così come avveniva già nei primi
anni dopo la marcia su Roma – fu il principale tentativo di giustificare ed
esaltare l’esperienza della guerra, trasformando in mito la sua memoria,
anche attraverso l’organizzazione delle onoranze ai caduti.
Buona parte dell’adesione al mito va attribuita ai retaggi del cameratismo e al conseguente bisogno di rigenerazione collettiva. La guerra
come esperienza comunitaria fu, infatti, «l’ingrediente più seducente del
Mito dell’esperienza della guerra», proprio perché rendeva possibile
trascendere la tragicità quotidiana attraverso l’elogio del compagno,
del soldato semplice, visto come autentico rappresentante del popolo,
oltre che esempio dell’uomo nuovo, l’atteso redentore dei destini della
patria. È scontato dire che, in nazioni come la Germania sconfitta o
l’Italia vittima del «complotto internazionale» postbellico, la memoria
del cameratismo e della sacralità del martirio vanificarono inevitabilmente
qualsiasi proposito di non fare più guerre, purché i moventi fossero in
linea con lo scopo primario della resurrezione della patria. Ci volle la fine
della Seconda guerra mondiale perché l’intera cultura europea rifiutasse
il principio dell’eticità della guerra, per cui il soldato che sacrificava la
propria vita per la patria non era più il prototipo della massima realizzazione della virtù civica. E la mutazione antropologica che fu alla base di
questo nuovo atteggiamento intellettuale comportò anche – dopo il ’
e soprattutto in seguito allo sbarco americano – un’ulteriore e forse più
determinante mutazione all’interno del “quadro morale” europeo: nei
paesi conquistati o liberati dagli Alleati, la disfatta delle ideologie tota-

ANTONIA LIGUORI
litarie e il contatto con le truppe statunitensi restaurarono in parte quei
valori della morale borghese – quali l’individualismo, l’utilitarismo e lo
spirito di tolleranza – che, dopo la Grande guerra, vennero sopravanzati
dall’affermarsi dell’ideale del cittadino-soldato.
In Italia la partecipazione del paese al primo conflitto mondiale veniva
giustificata come grande sforzo collettivo, volto non tanto a completare
sul piano territoriale l’unificazione, quanto a dare sfogo alle aspirazioni
alla «grande prova», ad aprire un nuovo «cammino». Qui è inevitabile
accennare a quelle allusioni di Giovanni Gentile – a proposito della necessità di una riforma morale – che tanto condizionarono la successiva
rilettura degli eventi fornita dal fascismo. Gentile definiva il Risorgimento
una rivoluzione incompiuta, poiché aveva curato soltanto l’aspetto esteriore, cioè quello della formazione dello Stato unitario, senza badare a
costituire una coscienza nazionale. E la Grande guerra – a quanto poi
sostenne la propaganda di regime – sembrò dare l’occasione per forgiare
questa coscienza, attraverso l’impegno di tutti gli italiani per uno scopo
comune.
Prima di verificare – anche attraverso l’analisi dei quindici filmati
selezionati – come il fascismo tentò di risolvere il problema della partecipazione dell’italiano nuovo alla vita nazionale – e cioè facendo ricorso
all’analisi della guerra come punto di incontro e sovrapposizione tra
l’esperienza individuale e quella collettiva – è bene valutare un ulteriore
aspetto che potrà tornare utile soprattutto per comprendere la forte
carica emotiva di alcuni fotogrammi. Si tratta della nuova dimensione
tecnologica del conflitto, che condizionò non poco la sua percezione e
l’immagine che di essa trassero le generazioni future. I nuovi mezzi di
comunicazione stimolarono l’immaginazione dei giovani in maniera assai
più efficace dei semplici racconti diffusi in forma epistolare o narrati dai
reduci. La tecnologia si prestava, infatti, all’inevitabile trasformazione
delle esperienze visive e sonore, potenziando le possibilità di percepire
il mondo sia per intensità che per diffusione. È suggestivo pensare a
una sequenza di fotogrammi privi di audio come all’estremo tentativo
di bilanciare l’ossessiva predominanza dell’elemento sonoro subita sui
campi di battaglia, quasi a voler creare a posteriori una sorta di “anestesia
acustica”.

Lo sviluppo metodico del rituale
La somma delle grida di dolore di chi negli occhi aveva ancora le immagini delle scene di guerra e nella memoria i racconti strazianti dei
protagonisti del grande evento trovò sfogo nella coazione al silenzio,

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
imposto in maniera diffusa nella gestione del culto dei caduti attuata
durante il Ventennio.
Seppellire e ricordare i morti in guerra aveva, secondo il regime, una
funzione simile a quella che avrebbe assunto la costruzione di una chiesa
per la religione nazionale. E, come dimostra con estremo rigore logico
lo storico tedesco George L. Mosse, fu proprio negli spazi destinati alla
commemorazione dei caduti che trovò la sua maggior giustificazione
il mito dell’esperienza della guerra, reso tale in quanto distinto dalla
brutale realtà della trincea. Quello che si trasformò presto in un vero e
proprio culto trovava il suo effettivo valore nella necessità di orientare
per altre vie la memoria del conflitto: chiunque poteva dire di aver patito
direttamente le conseguenze della guerra, che, alla prova dei fatti, si era
rivelata assai lontana dall’entusiasmo provato alla vigilia del conflitto
da quei giovani che avrebbero voluto viverlo come avventura o come
possibilità di autorealizzazione personale. La liturgia dei caduti doveva
annientare l’orrore vissuto e rievocare i motivi di una gloria perpetuata
dai monumenti. Ciò che colpisce è quella sorta di conservatorismo che
caratterizzava la natura di religione civica del culto dei caduti – come è
ovvio che accada per qualsiasi forma liturgica – quasi che anche il più
impercettibile mutamento potesse mettere in crisi le certezze di una fede
che non ammetteva discussioni.
È proprio con il culto dei morti in guerra che la nazione “eleggeva”
i propri martiri, i quali, anche in tempo di pace, dovevano servire da
monito alle generazioni successive sia per la forza e la virilità che avevano dimostrato nel loro farsi carico delle responsabilità di guerra, sia per
la totale dedizione alla patria, culminata con l’estremo sacrificio della
propria giovane vita.
Si potrebbe dire che alle origini di quella propaganda che traeva
stimolo dalle emozioni suscitate dal ricordo del paese belligerante c’era
il mito dell’eroe anonimo, del soldato senza nome, del “milite ignoto”,
che fa pensare alla tipologia che il fascismo attribuì alla guerra del ’’, al «prototipo di una guerra plebea», dove è il fante che combatte a
rimanere impresso nella memoria.
La forma di elaborazione del lutto personale e collettivo che nel
tempo riscontrò maggiori consensi per la straordinaria capacità di coinvolgimento – dato questo evidente già nell’immediato dopoguerra sia in
Italia che negli altri paesi europei – fu quella della religione civica del
Milite ignoto. La guerra di massa aveva individuato il suo nuovo eroe nel
“non eroe”, il figlio del popolo sul quale ognuno potesse convogliare la
propria pietà. All’estero o sul proprio fronte, i cimiteri militari erano
poco adatti a servire da centro del culto dei caduti, nonostante, ciascuno
di essi – singolarmente esaminato – potesse svolgere la funzione di tem-

ANTONIA LIGUORI
pio nazionale. Per rafforzare il culto dei combattenti morti al fronte, le
singole nazioni avevano bisogno di un luogo in cui raccogliere le folle,
per sensibilizzarle ancora una volta – in memoria dei caduti – in funzione
della missione nazionale. Il fascismo trovò nel repertorio dannunziano la
motivazione ideale alla quale fare appello: essa consisteva nel particolare
rilievo a quel mito del popolo concepito come unità spirituale grazie alla
funzione mediatrice degli “eroi”. Il rapporto reciproco tra popolo ed
eroi – riproposto durante il ventennio nelle adunate di fronte ai luoghi
destinati al culto dei caduti – non implicava la subordinazione di quelli
a questi, ma una comunione di spirito e volontà che il Poeta definì «eucaristica». La tomba del Milite ignoto ebbe questo fine, come luogo del
culto nazionale che simboleggiava tutti i cimiteri militari dispersi lungo
quelle che pochi anni prima erano state le linee del fronte.
Con gli anni Trenta si andarono affiancando ai luoghi di culto a loro
modo “consolanti e gentili” – come potevano essere, ad esempio, i parchi
della Rimembranza – concepiti un decennio prima, gli sconfinati piazzali
di cemento dei grandi ossari, che andarono a costituire ulteriori spazi
«deputati ai colloqui dimostrativi tra i vivi e i morti».
L’altare della morte più praticato e venerabile fra le due guerre non
poteva che essere quello del Carso, posto nel cuore della regione più
tragica, mirabilmente descritta, nella sua natura aspra e selvatica che la
poneva agli estremi confini della civiltà urbana, nel “diario lirico” di Scipio
Slataper titolato Il mio Carso. In un opuscolo celebrativo del  dedicato
all’allestimento del cimitero militare di Redipuglia – oggi in provincia di
Gorizia – leggiamo tutta la commozione ispirata da una retorica pubblica
che doveva fare i conti con le imponenti dimensioni quantitative della
morte, presenza talvolta pletorica anche per chi si proponeva di gestire
l’immaginario collettivo:
Salme di eroi, caduti nell’impeto dell’assalto e rimasti insepolti sulla terra squarciata, perché il furor della mischia aveva precluso la via della pietà; salme di
fratelli in giorni avversi dovute lasciare con immenso dolore nelle linee nemiche;
salme giacenti sotto ai rottami delle opere di difesa infrante; salme affondate nelle
caverne dove più lenta è l’agonia; […] poveri corpi smembrati dalle granate;
innumerevoli ossa scongiunte e sparse in ogni luogo.
C’è chi ha definito il grande complesso monumentale di Redipuglia
«l’opera forse più compiuta di appropriazione del culto della Grande
guerra ad opera del fascismo», che, nel completamento di un progetto
architettonico già in parte delineato prima ancora della fine del conflitto,
trovò l’occasione per creare un luogo di culto dei caduti che, per numero
di salme raccolte – più di . – superava anche gli ossari monumentali
della Somme.

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
È interessante notare la cura con cui il fascismo riuscì ad affiancare
tale progetto di rivalutazione degli spazi dedicati alla memoria collettiva
al tentativo di ottenere un ulteriore sostegno da parte dei Savoia. L’occasione fu quella dell’interramento del duca Amedeo d’Aosta – avvenuta
l’ luglio del  – il cui testamento spirituale venne scolpito nella cripta
della sua tomba a suggellare il binomio Savoia-Mussolini, che, in realtà,
costituiva il tarlo roditore di quello che alla lunga si rivelò un «totalitarismo imperfetto».

La “pupilla” del regime: l’immagine del mito
I quindici documenti selezionati presso l’Archivio storico dell’Istituto
Luce contribuiscono, nel complesso, a chiarire il rapporto tra informazione, memoria e propaganda, oltre a ribadire, in maniera inequivocabile,
la necessità avvertita dal regime di raccogliere la nazione intera attorno
all’ideale della «nuova Italia».
Ciò che preme sottolineare è l’utilità delle fotografie e, ancor più, dei
filmati sia per l’analisi sia per la sintesi storiografica, tenendo presente che
un’applicazione su scala più vasta dello strumento filmico può avvenire
soprattutto su quei documenti realizzati a partire dall’introduzione del
sonoro, che, attraverso l’integrazione tra sequenze di immagini e suoni,
costituiscono «l’optimum in senso documentario».
In Italia l’attività di informazione cinematografica, oltre che di
divulgazione scientifica, ha avuto una sua “fioritura” già ai primi del
Novecento, tant’è che, prima del Luce, esisteva il Sindacato di istruzione
cinematografica – il SIC – che aveva avuto come scopo specifico quello
di soddisfare le esigenze dell’Italia liberale quanto a produzione di film
documentaristici di ispirazione governativa.
Nel ’ tra i più accaniti fautori delle iniziative del SIC c’erano il giornalista Luciano De Feo e il generale della milizia Civelli, che, neanche
due anni dopo, prospettarono a Mussolini, in un’occasione apparentemente fortuita, le potenzialità di sviluppo delle «pellicole educative». Era
l’estate del ’ quando avvenne il primo contatto tra Mussolini e De Feo,
all’interno della Mostra dell’emigrazione di Napoli, dove era stata inserita
nella programmazione serale la proiezione di una serie di documentari.
Tra questi c’era un reportage, girato il  luglio da Albertelli, dedicato
all’attività di Mussolini a Palazzo Chigi.
Da un incontro “forzatamente” casuale di lì a poco avveniva la conversione del SIC e la nascita de L’Unione Cinematografica Educativa – il
L.U.C.E. appunto – immediatamente posta sotto le dirette dipendenze del
capo del Governo e del suo ufficio stampa. In meno di due anni veni-

ANTONIA LIGUORI
vano costituite otto cinemateche, da quella agricola a quella di cultura
nazionale, da quella igienica a quella di propaganda e cultura all’estero,
alle quali si aggiungevano la divisione fotografica e, dal ’, la redazione
del cinegiornale.
Era in quegli anni che si riprendeva a parlare di «uso extraestetico
del mezzo cinematografico», alla maniera dello studioso britannico di
scienze sociologiche John Grierson – un allievo di Walter Lippmann – che
individuava nel cinema non più «una fonte di ricreazione», ma un potente
mezzo educativo. Così scriveva a proposito dell’uso sociale del cinema, in
relazione al problema del coinvolgimento delle masse: «il nuovo linguaggio dell’assimilazione, dal quale deve scaturire il senso collettivo della vita
sociale, ha da essere un linguaggio più emotivo che razionale». Lezione
questa sapientemente messa in pratica dalla “pupilla” del regime, che,
durante tutto il ventennio, proiettò le proprie immagini in modo che il
popolo non potesse vedere la realtà del paese con altri occhi che con
quelli del Luce, trascinato da un’ondata emotiva assai forte.
L’evidente prevalere della funzione politica nella produzione dei
filmati trasformò rapidamente il Luce in strumento della più ampia «fabbrica del consenso» – interamente gestita dal Pnf, «grande pedagogo»
dello Stato – verificabile nella sua efficacia a guardare dall’operosità
con la quale l’apparato culturale del regime si mosse per la ricerca di
locali idonei alla proiezione dei filmati. A Roma, ad esempio, veniva
restaurata l’antica aula Minerva all’interno delle Terme di Diocleziano
e il  ottobre del  veniva inaugurato il Planetario, che, in un anno,
ospitò oltre cinquecentomila visitatori. Per il resto del Paese, ai locali nei
quali si proiettavano i filmati una volta a settimana, venivano affiancati,
a partire dal , venticinque autocinema. Non è un caso che questa
maggior attenzione alla diffusione delle pellicole avvenisse proprio nel
, anno d’esordio del cinegiornale, destinato subito a manifestare il
suo forte tasso di politicizzazione, che, nel tempo, ne avrebbe determinato sia i contenuti che la forma, distinguendolo anche dalla tipologia
delle trasmissioni giornalistiche radiofoniche. Il “limite” più evidente
era senz’altro determinato dalla schematicità della struttura, in base alla
quale, ad esempio, gli avvenimenti riguardanti l’Italia introducevano e
chiudevano le cineattualità, per lo stesso motivo per cui le immagini del
duce dovevano essere nettamente predominanti rispetto a quelle del re.
Tutto doveva contribuire a rafforzare il mito della nuova Italia, scandito
dalla ritualità dei suoi anniversari, rigorosamente filmati e riproposti al
pubblico secondo il nuovo calendario eroico della Nazione, che contava
tra le sue “feste di precetto”, oltre all’anniversario della marcia su Roma,
quello dell’entrata in guerra nel ’ e della vittoria trionfale a Vittorio Veneto. Un mito, quello della nuova Italia, che, vista la ricorrente affermazione

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
dell’identità tra Stato e fascismo, non poteva risparmiarsi il vincolo con
l’altrettanto decantato mito mussoliniano, accresciuto dalla varietà di
versioni che esso consentiva, tanto da rendere il duce «il protagonista
superdivistico della comunicazione audiovisiva!».
Possiamo immaginare quanto il carattere ufficiale dell’informazione
– sia quella fornita attraverso i cinegiornali, sia quella offerta sotto forma di
documentari propagandistici – abbia influito sulla fantasia o sulla capacità
stessa degli operatori, che le condizioni andavano via via trasformando
in veri e propri «burocrati della cinepresa». E non si può dire che l’avvento del sonoro cambiò qualcosa quanto a necessità d’aggiornamento
che esulasse dalla sola riorganizzazione tecnica. Anzi, dopo il ’, quando
nei cinegiornali si iniziavano ad ascoltare le prime musiche di sottofondo
o i primi rumori in presa diretta – visto che il commento dello speaker fu
possibile soltanto dal ’ – i primi e clamorosi inciampi finanziari portarono a galla le rimostranze dei fascisti più ortodossi, che imputavano
al deputato abruzzese Alessandro Sardi di non aver sfruttato a dovere,
nei quattro anni della sua direzione, le potenzialità propagandistiche del
mezzo cinematografico. La gravità delle sue presunte inadempienze – più
ideologiche che amministrative – era giudicata in maniera proporzionale
agli indici di diffusione delle cineattualità, che, nel ventennio, erano di
gran lunga superiori rispetto a quelli della radio o, in maniera ancor
più evidente, rispetto ai quotidiani.
Una maggiore enfasi investì il dato oggettivo dei filmati proprio con
l’avvento del commento degli speaker, che, con la loro ridondanza, oltre
che per la monotona ripetitività dei contenuti, accrebbero il senso ideologico dell’informazione. E, a proposito di enfasi e di facile manipolazione
della realtà, basti pensare anche alla scelta degli argomenti, che assolutamente non lasciavano alcuno spazio né alla cronaca nera – che avrebbe
agito come un tarlo roditore nelle coscienze del popolo – né alle futilità,
ritenute poco idonee ad un pubblico impegnato nell’austero progetto di
«innalzare i destini» della propria Patria.
Sono queste probabilmente le caratteristiche che nota a una prima
osservazione chi si accosta oggi ai cinegiornali del ventennio con l’intento
di scorgere in essi le tracce di un percorso ideologico e propagandistico
di più ampia portata. Nella selezione dei quindici filmati che in questa
sede si propongono come testimonianze chiave delle notevoli implicazioni
connesse alla rilettura degli eventi della Grande guerra fornita dal regime
fascista, è sembrato opportuno far riferimento immediato a una serie di
“cineattualità”. Si tratta, infatti, di alcune tra le testimonianze più efficaci
proprio perché l’estrema sintesi nella trattazione delle singole tematiche
rendeva con immediatezza il senso di un “discorso” che si basava più
su “enunciati minimi” che su articolate costruzioni. E la semplificazione

ANTONIA LIGUORI
diveniva d’obbligo per una capillare diffusione di un messaggio che fosse
inequivocabile e che, al contempo, facesse appello a una fede dogmatica,
che – come tale – non ammetteva repliche. Entrava, dunque, in causa il
“sentimento”, o meglio, la suggestione, cioè quella qualità delle masse
che si fondeva con il loro incessante bisogno di credere in qualcosa di
ben definito e di creare un proprio “patrimonio intellettuale” che non le
emarginasse – almeno formalmente – dallo spazio e dal tempo nel quale
vivevano. Un sentimento più volte chiamato in causa e posto «di fronte a
una galleria di immagini […] che tocchino acutamente le sue capacità di
azione e di rivalsa». La propaganda – e ci riferiamo in particolare a quella
attuata dal regime in virtù della creazione del mito della Grande guerra
– consisteva, infatti, in una vera e propria tecnica, che aveva come suo
scopo essenziale quello di condurre verso la conformizzazione di massa e
come suoi mezzi più efficaci “l’annichilimento dell’avversario” e la quasi
totale assenza di riferimenti razionali. Per “avversario” dobbiamo intendere anche chiunque non mostrasse un consenso integrale e che, a causa
di una seppur parziale difformità di pensiero, nelle adunate o nelle varie
ricorrenze evocative, veniva quasi indotto a vergognarsi. Il dissenziente
agli occhi del regime non era poi tanto diverso dall’oppositore, che veniva
a priori bollato come un traditore, «un abietto da schiacciare». Si trattava, in fin dei conti, di un controllo delle masse che non poneva in essere
un vero e proprio processo di convinzione, ma che riteneva opportuno
portarsi più sul fronte suggestivo e psicologico che su quello ideologico,
tenendo ben presente la reciprocità dichiarata tra forza e consenso,
laddove il processo “educativo” di massa imponesse un intervento più
concreto. Ciò comportava un’adesione collettiva al concetto di libertà
che qualsiasi totalitarismo impone e che consiste – volendo semplificare
– nella subordinazione della volontà dell’individuo al bene comune.

Quattro cinegiornali come sintesi del “continuum storico”
Nei quattro cinegiornali presi in esame – due del ’, uno del ’ e uno
del ’ – soltanto l’ultimo è provvisto di musica di sottofondo, una serie
di spezzoni di inni della patria e della rivoluzione cantati dai giovani
della GIL, alternata con le consuete acclamazioni della folla e con il
commento del cronista. Le immagini sono, comunque, esplicative in tutti
i documenti, poiché rimarcano quelli che sono i quattro punti cardine
da considerare all’inizio di un percorso visivo attraverso il quale si voglia
rivisitare l’interpretazione della Grande guerra così come venne ricostruita
dall’apparato di propaganda fascista.
Nel Giornale Luce archiviato con il codice B , il concetto attorno

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
al quale ruota l’intera sintesi è quello della continuità storica della quale il
fascismo si fece portavoce. Si tratta, infatti, di una serie di riprese effettuate
in occasione dell’inaugurazione sul Gianicolo, a Roma, di un monumento
dedicato ad Anita Garibaldi, raffigurata dallo scultore come amazzone al
galoppo, con una rivoltella in una mano e un lattante nell’altra. Un’abile
regia mostra di saper sfruttare al meglio l’occasione per amplificare, tra
l’altro, l’ovvia allusione alla duplice funzione della donna sia rispetto alla
patria sia verso la famiglia: la figura femminile viene, infatti, rappresentata
simbolicamente dalla statua equestre di Rutelli come «guerriero che segue
il nemico e madre che protegge il figlio».
Su un cartello in sovrimpressione compaiono i punti cardine del discorso commemorativo pronunciato dal duce, la cui presenza è di molto
privilegiata rispetto a quella del re e di sua moglie. Inevitabile il riferimento celebrativo alle glorie garibaldine, messe in stretta relazione con
le virtù del popolo belligerante e, in particolare, con gli arditi di Vittorio
Veneto e con le camicie nere. Il messaggio giungeva chiaro dal colle di
Roma: sia l’antico “duce” – Garibaldi – che quello nuovo possedevano
una straordinaria coerenza strategica e, magari, nonostante le accuse dei
malevoli, la presunta superiorità storica del fascismo consisteva proprio
nell’aver saputo animare «masse di combattimento» e non «nuclei rari».
La missione del regime – come «erede» del «protofascismo», che, secondo la versione ufficiale ideata dallo stesso Mussolini, consisteva nella
spinta attivistica dell’interventismo – veniva, dunque, presentata come
compimento della migliore tradizione morale italiana, la cui memoria
veniva tutelata e salvata dal rischio di cadere nell’oblio al quale era stata
condannata dai “politicanti” liberali.
Nel secondo Giornale Luce del ’ – marcato dal codice A  – lo
spunto di riflessione sul passato dell’Italia belligerante è offerto, invece,
dalle riprese effettuate in occasione della “Mostra della Rivoluzione
fascista”, nata come idea celebrativa del decennale del regime. Il nucleo
ideologico attorno al quale ruota l’intero montaggio delle immagini è
quello della definizione dell’intervento nella Grande guerra come inizio
del cammino per la «rivoluzione fascista». I primi piani e le dissolvenze
sono tutti per le prime pagine de “Il Popolo d’Italia”, del quale si tende
a sottolineare il ruolo centrale all’interno della corrente interventista,
presentata come frazione minoritaria che, all’alba della Grande guerra,
interpretò la presunta volontà di riscatto morale avvertita da un Paese
ancora inconsapevole del proprio destino. Si intuisce il grosso successo
di pubblico della mostra – c’è chi parla di due milioni di visitatori in due
anni – che non si spiega solo con l’impegno, che pure fu cospicuo da
parte del regime, di promuovere gite e visite organizzate, ma che si collega
soprattutto con la vera e propria liturgia connessa alla mostra stessa, che

ANTONIA LIGUORI
negli anni – più volte prolungata – si trasformò in uno stabile Museo della
rivoluzione. Fugaci le immagini dei numerosi pannelli fotografici presenti
in una delle sale all’interno della mostra: evidente, però, la ricorrente
presenza dei soldati feriti – eletti come primi «martiri della rivoluzione
fascista» – e del giovane Mussolini sui campi di battaglia.
Secondo la rilettura ufficiale degli eventi bellici, aveva avuto ragione
Gioacchino Volpe nell’annunciare, a posteriori, l’eredità storica mutuata
dalla Grande guerra, che consisteva, in sintesi, nel «patrimonio morale»
acquisito da ogni singola nazione, inteso come nuovo modo di gestire i
rapporti tra Stato e individuo. A dimostrazione della volontà di strumentalizzare l’intervento per giustificare l’affermazione del fascismo e la
sua necessità storica, oltre che per dare una più salda base teorica a una
dottrina che può essere definita come volutamente «anti-ideologica»,
leggiamo qualche stralcio tratto da alcune tra le pagine più rappresentative
del pensiero di Francesco Ercole:
Là nelle colonne del Popolo d’Italia, sin dal febbraio del ’, gli interventisti di
tutte le origini e di tutti i Partiti cercavano quasi istintivamente la bussola più
sicura del proprio orientamento e la ragion d’essere più persuasiva del proprio
improvviso riconoscersi, al di là dei dissensi e delle antitesi, fratelli nella spontanea disciplina verso una causa comune. Specialmente rapido, quasi direi insieme
istintivo e intuitivo, fu il riconoscimento di un’intima fraternità spirituale fra
l’interventismo, che potremmo dire di marca immediatamente mussoliniana,
e l’interventismo dei nazionalisti, nonché il reciproco agire e influire dell’uno
sull’altro, quasi a inconscio presentimento del prossimo inserirsi e risolversi dell’uno nell’altro. […] Nei mesi di passione intercorsi tra lo scoppio della guerra
mondiale e il nostro intervento, Mussolini fu, di fatto, di fronte agli interventismi
di sinistra e di destra, per riconoscimento tacito e implicito, quasi direi per una
specie di investitura naturale, il Capo. […] La storia dirà che risolvendosi la
Rivoluzione fascista nella instaurazione del governo della Patria dello spirito,
in virtù del quale il popolo italiano volle la guerra, essa non poteva avere altro
Capo, se non Colui, che aveva guidato il popolo italiano a imporre la propria
volontà di guerra al governo della Patria.
Questa pagina sintetizza in maniera esemplare i punti essenziali sui quali
il regime fondò la propria interpretazione ufficiale degli eventi immediatamente precedenti l’intervento italiano in guerra. Il ruolo trainante
attribuito a posteriori al “Popolo d’Italia” in seno all’interventismo non
deve far sottovalutare due aspetti tipici del fenomeno: innanzi tutto,
l’eclettismo della realtà italiana come sintomo di debolezza delle basi
teoriche dell’interventismo – in modo particolare di quello di sinistra,
che non poteva rendere credibile il mito della guerra democratica e
rivoluzionaria, senza l’adesione delle grandi masse cattoliche e socialiste
–; in secondo luogo, il fatto che si trattava pur sempre di una corrente

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
minoritaria, appoggiata però da elementi fondamentali, sicuramente più
efficaci della semplice forza propagandistica. Ci riferiamo sia al sostegno
fornito dal governo da un certo momento in poi – al contrario di quanto
farebbe credere quel carattere “eversivo” attribuito in seguito dal fascismo
– sia al non indifferente appoggio di alcuni gruppi capitalistici e anche
al peso di tutta – o quasi – la cultura impegnata e militante, alla ricerca
di un radicale rinnovamento culturale e politico.
Ciò che, in sostanza, volevano ribadire filmati con una simile impostazione era che la storia della «nuova Italia» cominciava dal «maggio
radioso», perché allora – a più di cinquant’anni dall’unificazione – erano
finalmente prevalsi i motivi ideali sulle ragioni politiche, a conferma
dell’idea che il successo di una nazione poteva scaturire soltanto da un
atteggiamento morale che comprendesse la sofferenza e l’abnegazione
dell’individuo.
Nel terzo cinegiornale preso in esame, abbiamo la testimonianza
diretta della ritualità divenuta di routine durante le celebrazioni degli
anniversari tratti dal calendario eroico della nazione. Ci troviamo, infatti,
a Nervesa, in occasione del quindicesimo anniversario della battaglia
del Piave, definita da Luigi Federzoni «eroico preludio della vittoria di
Vittorio Veneto». Inutile ribadire quanto l’intera sequenza delle immagini
miri a rafforzare il mito della vittoria trionfale, del quale si fanno portavoce, non a caso, i mutilati e gli ex combattenti. L’imponente presenza
di insegne e stendardi sollevati durante la sfilata degli artiglieri fa da
sfondo alla «parola rievocatrice» di Federzoni, sintetizzata a chiusura
del servizio da uno striscione con la celebre frase: «Il Piave mormorò:
non passa lo straniero».
Qualche anno prima della realizzazione di queste immagini si era
sollevata sulle pagine di “Gerarchia” una pungente e significativa polemica in merito agli eccessi di memorialismo, che faceva appello a una
maggior esigenza di pudore – da intendere forse più come “ortodossia”
– nel ricordo della partecipazione del popolo combattente alla Grande
guerra. Comparve, infatti, un articolo di Paolo Monelli che accusava
apertamente la condotta di chi si ostinava alla raccolta di cimeli bellici
quasi a voler confinare le esperienze vissute al fronte in quegli oggetti,
in un passato chiuso per sempre, che condannava all’inazione i reduci,
mortificati nel loro spirito combattivo. Monelli scriveva, infatti:
Leggo ai cantoni delle vie di Milano un manifesto che invita i combattenti a
mandare cimeli ad un già esistente Museo della Guerra; e quali rabbrividenti
cimeli sono indicati come quelli maggiormente desiderati. Cartoline, fotografie,
indumenti, parti di corredo del povero caduto. […] La stessa roba che vedemmo
da ragazzi nei vari musei del Risorgimento dove ci conducevano a schiera (uno
ce n’era e c’è ancora di sicuro nella mia Bologna, che ricordo come la più triste

ANTONIA LIGUORI
rigatteria del genere). […] Ah no, signor conservatore del Museo di Milano. Io
non ho cimeli, ma ne avessi, non li manderei al vostro Museo; li terrei ben nascosti
in casa, da vedermeli io stesso assai di rado, che non me ne venisse un’inerzia
sterile, un pigro compiacimento che mi confinasse per sempre, prigioniero del
morto passato.
La polemica sollevata sulla rivista politica diretta da Mussolini fa pensare
all’interpretazione di chi, riscrivendo l’epopea della Grande guerra, ha
voluto individuare nel mito postumo assunto come elemento trainante
della politica culturale di regime non un semplice aggancio al passato,
bensì una molla per il futuro che implicasse anche una concreta integrazione dei reduci, quali principali artefici – seppur all’alba del «maggio
radioso» inconsapevoli del loro destino – della palingenesi nazionale. Il
richiamo di Monelli fornì anche lo spunto per affrontare ancora una volta
il problema della spontaneità nelle manifestazioni celebrative, come si
può leggere nella replica che seguì nel numero di novembre, per mettere
a tacere eventuali equivoci sulla validità della memoria e sulle competenze
della dirigenza centrale:
L’articolo di Paolo Monelli […] non era certo un incoraggiamento a dimenticare
la guerra e la vittoria, e men che meno voleva deprimere i valori morali od offendere i reduci! […] Sì bene era un monito a circondare queste cose sacre – la
guerra, la vittoria, lo spirito combattivo e l’amor di patria – di quel verecondo
e sobrio pudore, per il quale esse meglio conservano il loro carattere di santità.
Non bisogna ad ogni momento sventolare la bandiera dei grandi ricordi né tirar
fuori le parole grosse; se no la retorica se ne impadronisce e le snatura avvilendole,
come avviene dei conii logori per troppo uso. Per lo stesso ordine di ragioni il
Duce ha limitato le parate e ha persino proibito che si suonino Marcia Reale e
Giovinezza fuori che in determinate solenni occasioni.
La gestione della memoria, dunque, doveva essere unica e inequivocabile, se si voleva evitare che l’abuso delle ricorrenze svilisse il significato
profondo del messaggio gestito dal regime, autentico artefice del proprio
culto politico.
Il quarto tassello, che contribuisce a rendere chiara la base sulla quale
poggiava la rilettura dei principali eventi della Prima guerra mondiale, è
costituito dall’ultimo cinegiornale selezionato, datato  novembre .
Ci troviamo di fronte alla celebrazione dell’annuale della vittoria, che
avveniva, come di consueto, nel luogo-culto per eccellenza, il Vittoriano.
In quella sede, il rituale celebrativo volto alla glorificazione degli eventi
emblematici della Grande guerra acquisì nel primo decennio una sua
forma specifica. Si pensi, ad esempio, alla cerimonia del  novembre,
che si ripeteva negli anni secondo la stessa “liturgia”: la “scaletta” – così

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
lasciano intendere anche le fugaci sequenze riportate nel cinegiornale
– prevedeva in apertura una funzione religiosa in Santa Maria degli
Angeli, alla quale prendeva parte l’intera rappresentanza delle autorità;
successivamente la folla attendeva Mussolini e i membri del governo in
piazza Venezia, dove avveniva il consueto e commosso omaggio al Milite
ignoto, di fronte al quale le autorità rimanevano in ginocchio per pochi
istanti, quasi a suggellare l’ossequio della nazione intera al sacrificio
dell’eroico simbolo dell’epopea bellica. Di solito ogni celebrazione si
svolgeva, secondo le disposizioni del partito, in due tempi, il rito e la
festa, che rappresentavano le due sfere della consuetudine liturgica, il
sacro e il profano. Al rito si attribuiva una solennità degna delle maggiori
cerimonie religiose: alla messa in ricordo dei caduti seguiva, infatti, la
sfilata delle organizzazioni di regime, talvolta precedute dalle autorità
civili e militari, tra le quali spiccavano i rappresentanti delle associazioni
di reduci; il momento culminante consisteva nel discorso del duce, la
cui voce si stagliava nel silenzio delle piazze colme di folla. La festa, al
contrario, aveva una funzione prettamente ricreativa e si svolgeva nelle
prime ore pomeridiane, accompagnata da danze e canti, quando non
comprendeva anche gite in campagna.
Il culto della vittoria, oltre che glorificare le gesta dei protomartiri
fascisti, doveva stimolare le generazioni più giovani – quelle che avrebbero
dovuto dare il proprio sostegno all’affermazione dello Stato totalitario
– ad apprendere, anche attraverso l’esempio dei «gloriosi mutilati», «la
gioia del dovere e la bellezza del sacrificio».
Il tassello mancante, tuttavia, non consiste nella celebrazione dell’anniversario, quanto in un’affermazione del cronista che le acclamazioni
della folla inneggiante al duce non possono mettere in sordina. Questi
uomini nuovi parlavano un linguaggio che era anch’esso nuovo, un linguaggio che irrigidiva i modi espressivi tradizionali e li integrava in una
visione del mondo manichea, fatta soltanto di amici e nemici. Durante la
suggestiva panoramica sull’ormai abituale adunata oceanica, il commentatore definiva Mussolini «potenziatore della vittoria», lasciando intendere
che, senza l’affermazione del regime fascista, il sacrificio compiuto dal
popolo-truppa durante la Grande guerra sarebbe stato vanificato dalla
condotta dei «politicanti italiani».
Ecco emergere, sotto un’altra veste, quel carattere “rivoluzionario”
attribuito dalla cultura fascista alla dittatura, che consisteva nel fatto
che la nuova organizzazione nasceva sotto l’egida di una nuova parola
d’ordine, “combattere”, anch’essa pronunciata in tempi non sospetti e
proprio per questo ancor più utile per legittimare successivamente la
trasformazione del fascismo da movimento in regime. Già il  febbraio
del ’, infatti, Mussolini, nell’articolo pubblicato sul “Popolo d’Italia”

ANTONIA LIGUORI
dal titolo Contro la bestia trionfante, affermava: «Noi siamo disposti a
convertire le piazze delle città d’Italia in tante trincee munite di reticolati,
per vincere la nostra battaglia». E si trattava di una battaglia che si muoveva sotto l’impulso della «grande voltata nella storia italiana», quella
che – a quanto sosteneva lo stesso Mussolini – aveva visto «per la prima
volta la maggioranza della Nazione [prendere] una decisione attiva, in
contrasto ai parlamentari e ai politicanti».

“Camicia nera”, il kolossal del Luce per il decennale
I quattro “pilastri” che danno sostegno all’interpretazione della Grande
guerra fornita dal regime nei cinegiornali selezionati sono presenti in
maniera più articolata in quello che alcuni hanno definito il «kolossal del
Luce», Camicia nera, film con intento documentaristico realizzato nel ’
da Gioacchino Forzano. Si tratta del frutto di un concorso indetto per un
soggetto che commemorasse l’avvento del fascismo, girato parzialmente
a Roma, presso gli stabilimenti della Farnesina, e costato una cifra forse
eccessiva rispetto alle aspettative degli incassi e al rimborso previsto come
premio. Il soggetto prende spunto da un film sovietico del ’, Frammenti
di un impero, di Emler, a dimostrazione del fatto che all’Unione Sovietica
spettava una sorta di primato nell’uso del cinema all’interno di un più
vasto progetto di trasformazione socio-politica che mirasse a sfruttare le
forme di comunicazione audiovisiva per la conquista del consenso. La
sceneggiatura di Emler ha come protagonista un soldato russo in preda
a un grave stato di shock che gli impedisce di ricordare il proprio paese
d’origine e che lo consegna nelle mani dei tedeschi. Tornato in patria, il
reduce avrà gravi difficoltà di integrazione soprattutto a causa dei mutamenti interni sopraggiunti con la Rivoluzione d’ottobre.
Anche Forzano ha il suo combattente, vittima di un totale vuoto
mnemonico che sarà colmato dagli psichiatri di una clinica tedesca solo
al suono delle note del “Piave” e alla notizia della vittoria italiana. Al
contrario della vicenda sovietica, è «inevitabile» per il fabbro-reduce
l’immediato riconoscimento nel fascismo della sola via possibile per
prolungare la vittoria e non vanificare gli sforzi compiuti fino ad allora.
Protagonista della vicenda, che comprende i principali eventi italiani dal
’ al ’, è quel proletariato che, nell’immediato dopoguerra, si sentiva
tradito tanto dai socialisti – il cui fallimento era stato decretato dalla scarsa
razionalità della propaganda internazionalista e antibellicista – quanto
dalla classe dirigente liberale, alla quale fa da contraltare la tanto decantata “sincerità” di Mussolini. Il mito mussoliniano è rafforzato anche dal
tentativo del futuro duce di prendere atto delle sorti dei reduci e delle loro

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
difficoltà di integrazione una volta abbandonato il fronte. Sullo sfondo
fa sentire la sua imponente presenza il mito della “vittoria mutilata”, sul
quale s’innesta l’idea di un presunto complotto internazionale ai danni
dell’Italia. È interessante osservare come la vicenda del protagonista di
Camicia nera rappresenti la comoda occasione per innestare una storia
comune su quel gran canovaccio costituito dalla progressiva affermazione
del fascismo e dal più immediato e genuino consenso di massa. A tale
scopo servono i continui cambi di scena che sovrappongono l’immagine
del fabbro in ospedale a quella dell’organizzazione dei fasci di combattimento o all’espressione ispirata del figlio del protagonista di fronte agli
scritti giovanili di Mussolini. L’ultima parte del filmato ritrae il popolo
di fronte alle realizzazioni del regime, che suggeriscono ancora una volta
la necessità di riversare la propria più assoluta “fede” nei confronti di
chi ha definito le bonifiche «la guerra che noi preferiamo». La bonifica,
soprattutto dopo la fondazione di Littoria, aveva ormai assunto nella
pubblicistica corrente, come nella stampa e addirittura nella letteratura
tecnica, la veste metaforica della guerra. Veniva dipinta sia come scontro
destinato a vedere sconfitto il nemico che aveva per troppo tempo tenuto
d’assedio alcune zone della penisola, sia come forma di esercizio bellico,
applicato sul “fronte” civile e destinato a preparare le nuove generazioni
alle guerre vere.
Proseguendo con l’analisi dei fotogrammi si scorge, all’interno della
Mostra della Rivoluzione fascista, un’inquadratura che si sofferma su una
scritta alla parete fortemente esplicativa: «Nel nome di Dio e dell’Italia,
giuro di eseguire senza discutere gli ordini del duce e di servire con tutte
le mie forze e se è necessario con il mio sangue la causa della rivoluzione
fascista». Il montaggio prevede un repentino stacco sull’immagine di un
sacrario, una stanza circolare alle cui pareti compare ripetuta la scritta
«presente». La “guerra” non era ancora finita: la mobilitazione generale
consisteva questa volta nella totale remissività dell’individuo nei confronti
delle priorità dello Stato. Le ultime immagini scorrono sulla fondazione
della città di Littoria e sul richiamo evocativo alle «grandi nostalgie»
della Grande guerra attraverso l’attribuzione dei nomi ai borghi della
nuova città. È opportuno segnalare la presenza di numerose sequenze
nelle quali prendono la parola alcuni preti fascisti, a dimostrazione del
successo della politica di regime anche nella gestione dei rapporti con
la Chiesa. L’atteggiamento che alla lunga prevalse fu quello del realismo
politico, per cui apparve fallimentare rivaleggiare con le autorità ecclesiastiche per il controllo e la formazione delle coscienze. La soluzione
vincente fu quella di applicare una «strategia di convivenza sincretica»,
che mirasse ad associare il cattolicesimo e la Chiesa nel proprio progetto
totalitario, attraverso il frequente uso della religione tradizionale come

ANTONIA LIGUORI
«instrumentum regni». Leggiamo, ad esempio, un intervento comparso
nel numero di gennaio del  di “Gerarchia” per commemorare – attraverso la pubblicazione del suo ultimo scritto – la figura emblematica
di padre Pistelli, definito «prezioso collaboratore» per la sua straordinaria capacità di forgiare le anime all’insegna degli ideali proposti già dai
protofascisti interventisti, attribuendo il suo suggello di sacralità anche
al sacrificio estremo: «Interventista e fascista di innanzi alla prima ora e
sino all’estrema, nella buona e nell’avversa fortuna senza incertezze; fece
la rivoluzione tra i più accaniti con i manipoli sovversivi accesi, nel maggio , primavera d’Italia. I ragazzi d’Italia oggi tutti piangono il papà
scomparso. Essere maestri così è una maniera quasi divina di paternità e
dei suoi figlioli spirituali pianse egli i migliori».

La “marcia trionfale” del popolo combattente
nella produzione propagandistica
I temi proposti da Camicia nera, anche se prospettati con chiaro intento
propagandistico, vengono avvolti nella trama sotterranea delle vicende
degli abitanti delle lestre, testimoni e attori della trasformazione del fascismo da movimento in regime. Non hanno, infatti, quella stessa enfasi – e,
forse, perciò hanno un maggior peso sulle coscienze – dei veri e propri
documentari, nei quali ogni sequenza è studiata per rendere inequivocabile il messaggio da consegnare nelle mani del popolo.
«Il compito della propaganda non sta nell’educazione critica (Wissenschaftlich) del singolo, ma nel far rivolgere la massa verso determinati fatti,
processi, necessità, la cui importanza solo a questo modo verrà portata
nell’orizzonte visuale della massa stessa»; nessuno meglio dell’autore
del Mein Kampf avrebbe mai potuto sintetizzare in maniera così efficace
il significato e lo scopo della tecnica sulla quale le dittature del Novecento
hanno fondato la loro ricerca di consenso. Quel “compito” dell’attività
propagandistica andava a priori definito e individuato in determinati
nuclei tematici che garantissero tanto la loro facile comprensione, quanto
la loro assoluta necessità. Non bisognava lasciare, infatti, nessuno spazio
alla replica, puntando solo a palesare l’ineluttabilità di un determinato
fatto o di una particolare interpretazione, generando la convinzione
diffusa della veridicità e della realtà del fatto stesso. Fautori e fruitori
della propaganda venivano posti l’uno accanto all’altro, con lo sguardo
rivolto verso la stessa direzione, accomunati dallo stesso repertorio di
grandi e piccoli miti, che andavano recepiti ed assimilati con il massimo
dell’entusiasmo, ma in maniera del tutto acritica.
Se si confronta il film di Forzano con una produzione propagandi-

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
stica dell’Istituto Luce che sintetizza i medesimi concetti, la diversità è
facilmente palpabile. Questo piccolo “esperimento” può riuscire bene
prendendo in esame un documentario del ’ dal titolo Il duce nelle
trionfali giornate del decennale. Anche qui si esalta l’interventismo e
l’attività dei combattenti, si accenna al fallimento di Versailles e al mito
della «vittoria mutilata», ma tutto in maniera estremamente sintetica e
per nulla allusiva; anzi, a nostro dire, in un modo così carico di enfasi da
toccare i limiti della credibilità. Le adunate oceaniche fanno da sfondo
a due importanti discorsi di Mussolini, quello di Torino del  ottobre del
’ e quello di Ancona del  novembre dello stesso anno. Caratteristiche
comuni sono la mimica e la gestualità forzata all’inverosimile, oltre che
l’uso di quel gergo cameratesco ereditato dal protofascismo combattente,
del quale gli stessi fascisti andavano fieri, come del resto appare evidente
in una recensione a un testo di Eugenio Adami pubblicata qualche anno
più tardi su “Gerarchia”: «L’oratoria del Duce è l’espressione dell’epoca
che intensamente viviamo, è la precisazione della realtà considerata da
un cuore saldo e affrontata da una volontà inflessibile. È l’imperativo
richiamo al combattimento inteso come necessità etica».
Nei discorsi pronunciati in occasione delle celebrazioni del decennale
della marcia su Roma, il  viene ribattezzato come anno di nascita della
«vera nazione italiana» e più volte i caduti della Grande guerra vengono
chiamati in causa, «perché se fossero vivi avrebbero voluto un’Italia
fascista». Quella alla quale si fa riferimento è l’epica liberatoria di una
guerra vittoriosa, due volte intrapresa come insurrezione di avanguardie
interventiste e due volte coralmente conclusa come guerra combattuta
da un popolo disciplinato e gregario.
Un approccio commemorativo più vicino a quello di Camicia nera
– ma anche in questo caso meno allusivo e strutturato con fini essenzialmente autocelebrativi – può essere rintracciato in una produzione
del ’, Gloria, che ripercorre le vicende della Grande guerra ritenute
più significative. Un chiaro imbarazzo si fa, però, palese nel momento
in cui la sequenza cronologica avrebbe previsto un accenno alla disfatta
di Caporetto. Le immagini del ’ scorrono rapidamente e la sconfitta
italiana è rivissuta soltanto attraverso le prime pagine di una serie di
quotidiani. I fotogrammi staccano su un’animazione di una scena di
propaganda ricostruita in teatro – compare un alpino che chiede aiuto
al fronte interno – alla quale segue una breve “sequenza a soggetto” sulla
reazione di un possente soldato italiano di fronte al tentativo di aggressione di un gruppo di austriaci. Le scene di morte e distruzione relative
alle principali offensive attuate dall’esercito italiano lasciano spazio alla
puntuale descrizione della scelta del milite ignoto – nella cattedrale di
Aquileia il  ottobre del ’ – e della sua successiva deposizione presso

ANTONIA LIGUORI
l’Altare della Patria. Come nota a margine, è da segnalare la presenza in
questo filmato di un fotogramma assai ricorrente nei documentari relativi
alla Grande guerra: si tratta dell’immagine di una casa semidistrutta con
la scritta «Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!», presente in Gloria
ben due volte, quasi a dare il ritmo all’incedere delle trionfali giornate
della vittoria. Un altro appunto che appare significativo è quello relativo
al particolare interesse per le novità della tecnologia bellica, puntualmente riprese laddove si voglia stigmatizzare il valore e il coraggio dei
corpi d’armata più rappresentativi della guerra di tipo tradizionale, quali
i fanti e gli alpini.
Tra i documenti filmici selezionati, quello che meno risente delle
finalità propagandistiche e della conseguente ideologizzazione è anche
il più “precoce”. Si tratta, infatti, di una produzione del ’, periodo nel
quale si è ancora lontani dalla piena consapevolezza delle prospettive
di utilizzo dei mezzi audiovisivi e dalla ottimizzazione della “struttura”
recentemente mutuata dal SIC. La scelta dell’argomento e della relativa
ambientazione è comunque significativa, anche se il mito puramente
“patriottico” della Grande guerra risente ancora poco della sua successiva
investitura “nazionalista”. I tratti del conflitto mondiale ridisegnati nel
documentario Dal Grappa al mare sono quelli ereditati dalla propaganda
bellicista diffusa al fronte, con qualche leggerissima, ma già indicativa,
variante. In occasione del decimo anno dalla dichiarazione di guerra,
i reduci ripercorrono il tratto dal Monte Grappa a Trieste in un ideale
cammino verso la redenzione. Frequente la sovrapposizione di immagini
di repertorio, nelle quali si tende a sottolineare l’ardore della truppa,
l’incitamento dei comandanti e il cameratismo vissuto quotidianamente
in trincea. Puntuale la visita degli ex combattenti ai sacrari, dove le spoglie dei soldati e quelle degli ufficiali riposano l’una accanto all’altra, a
testimoniare come il conflitto possa rappresentare – da un punto di vista
sociale – una sorta di riscatto per le persone più umili.
Un filmato, invece, fortemente allusivo, grazie anche a una serie
di piccoli artifici tecnici – quali la sequenza di immagini accelerate, le
sovrimpressioni e le dissolvenze – è Il segreto del chicco di grano. L’apertura è dedicata alla visita di Mussolini a una comunità agricola durante
la «battaglia del grano», «la prima grande campagna agricola dello stato
fascista» lanciata nell’estate del  e poi ripresa con forza nel  in
occasione della proclamazione ufficiale della politica autarchica del regime. L’intento del documentario – che una nota a margine definisce «favola
vera» – è palesemente propagandistico: l’impegno dei contadini nella
produzione dei cereali è messo, infatti, in relazione con il contributo dei
soldati italiani in guerra, come sintetizza e chiarisce una fugace didascalia
frapposta tra gli ultimi fotogrammi: «Con questa battaglia il governo ha

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
impegnato ricchezze che sono di tutti, e di tutti sarà l’esito della vittoria.
Come un giorno gli italiani dettero il sangue per difendere la Patria dal
nemico». L’immagine del germoglio che fiorisce lascia spazio a una serie
di sequenze che ritraggono scene di guerra: soldati che si sollevano dalle
trincee, feriti trasportati sulle barelle; i boati delle esplosioni si alternano
al religioso silenzio di un sacrario sorto su un’altura. La regia stacca di
nuovo su un campo con le spighe al vento: è la vita che nasce dall’operosità dell’uomo, temprato anche dall’esperienza della guerra, rigenerato e
motivato dal ricordo del sacrificio compiuto per la patria.
Assimilazioni un po’ “azzardate” non sono certamente prerogativa
unica di questa suggestiva e breve animazione, che suggerisce il confronto
con un frammento di un’altra produzione propagandistica, titolata Sulle
orme dei nostri pionieri. All’interno del documentario, che si propone di
mobilitare l’opinione pubblica in favore della politica coloniale fascista in
Africa orientale, la prima sequenza di immagini – abbastanza prevedibile
per la scelta dei soggetti – stacca repentinamente su un mappamondo in
sovrimpressione che ruota sulle immagini della battaglia di Vittorio Veneto e su quelle di una nave di emigranti. Poco dopo compare una roulette,
che pone evidentemente in relazione la volontà espansionistica dell’Italia
con il gioco d’azzardo. Qui la lettura è un po’ più complessa rispetto al
Segreto del chicco di grano, dove il messaggio non consentiva letture diverse da quelle proposte nelle didascalie. In Sulle orme dei nostri pionieri,
invece, le componenti sono molteplici e la brevissima animazione non
contribuisce a chiarirle; tuttavia, sono esplicite le pretese coloniali fasciste
e la necessità di “poggiarle” su una base salda come soltanto il mito della
vittoria trionfale – quella di Vittorio Veneto – poteva fornire. Per giunta
l’attivismo del regime andava correlato alla presunta passività dei governi
liberali, corresponsabili anche dell’imponente ondata di emigrazione
d’inizio secolo. L’elemento del rischio nell’impresa coloniale va cercato
invece nel presunto complotto internazionale del quale sarebbe stata
vittima l’Italia, tradita a Versailles rispetto agli accordi previsti dal Patto
di Londra, anche a causa dell’incapacità della classe politica coinvolta in
quella delicata vicenda internazionale. Mentre una didascalia propone
alcuni passaggi del Patto di Londra, il mappamondo in sovrimpressione
riprende a girare: al centro del disegno di animazione compare una nuova
carta geografica con la suddivisione delle terre d’oltremare prevista dalla
politica coloniale fascista. La successiva scansione di alcune sequenze che
propongono pagine dei trattati firmati tra Italia, Francia e Inghilterra
dal  al  ha l’esplicito intento di ribadire la presunta legittimità da
parte del regime dello sfruttamento minerario del nord dell’Etiopia e la
possibilità di costruire la contestata strada tra Assad e Dessié.
Il mito dell’Impero nel fascismo non era un’improvvisazione pro-

ANTONIA LIGUORI
pagandistica collegata alla conquista dell’Etiopia, ma era un mito già
presente, che emerse sempre di più attraverso la valorizzazione della
funzione rivoluzionaria del fascismo come movimento universale e non
solo italiano, come nazionalismo che aspirava – più che all’espansione
territoriale – a porsi nel mondo come centro irradiatore di una nuova
civiltà universale.
Nella rilettura ufficiale delle singole fasi della Grande guerra – come
dei suoi “naturali prolungamenti” – sapientemente diffusa dal regime
fascista, il passo dalla «vittoria trionfale» alla «vittoria mutilata» era
breve, almeno da quanto chiarisce un filmato interamente dedicato a
L’impresa di Fiume. Qui è determinante il commento dello speaker, per
verificare come il ruolo da protagonista di D’Annunzio nella marcia di
Ronchi fosse finalizzato alla rappresentazione di determinati aspetti che
furono poi acquisiti come propri dal regime. Era stato il poeta a coniare
la fortunata espressione della «vittoria mutilata», ma fu il duce a farne la
ragione del suo mandato.
Fiume – nei sette minuti del documentario – non è celebrata per la
vicenda dannunziana, bensì come luogo nel quale maturò il piano della
marcia su Roma e dove per la prima volta si sperimentarono rituali collettivi, quali le adunate e i dialoghi tra il “capo” e la folla. La marcia di
Ronchi, dunque, era presentata come una sorta di prova generale della
marcia su Roma, dove forte compariva il nesso tra l’avventura dei più
audaci, capaci di violare la legge per puntare verso una meta ben definita
attraverso i loro slogan, e il balcone del palazzo civico dal quale si affacciava il capo di quell’ardita milizia. Significativo è anche il risalto dato
dalla regia alla presenza della popolazione civile a sostegno delle azioni
dei volontari, proprio a testimoniare l’esigenza del regime di mobilitare
e invitare alla partecipazione una nazione intera.
L’opera intrapresa sull’Adriatico nel ’ non poteva essere consegnata
in altre mani che in quelle di Mussolini, come si legge in queste poche
righe tratte da un articolo di Arrigo Solmi comparso su “Gerarchia” in
occasione del diciannovesimo anniversario della marcia di Ronchi: «La
luce di questa impresa, durata fino al Natale di sangue del dicembre ,
è la premessa sicura della prossima resurrezione della patria; è il preannuncio dei bagliori del Fascio Littorio, che condurrà l’Italia, in meno di
quindici anni, alla potenza e all’Impero».
Verrebbe da dire «nessuna impresa che tenda a glorificare l’Italia è
ardua», prendendo in prestito le parole con le quali Angelo De Vito, in
un cortometraggio prodotto a New York, osannava ogni atto compiuto
dal duce del fascismo. De Vito era il direttore della Cinema Productions,
che trovò – probabilmente nel ’ – in Giovambattista Cincotta il suo
regista per un breve film che fosse l’omaggio dei fascisti italoamericani

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
a Mussolini. Si tratta di una produzione – questa volta giunta dagli Stati
Uniti – che aiuta a comprendere con maggiore chiarezza la forte carica
emotiva che il più delle volte trascinava l’opinione pubblica verso la
realizzazione del mito mussoliniano. L’artefice della nuova Italia si
proponeva di ripercorrere le vicende comprese tra l’inizio della Prima
guerra mondiale fino all’avvento del fascismo, secondo l’angolo di visuale
offerto dal cronista, influenzato anche nella mimica dalla sua straordinaria
ammirazione per il duce, definito «campione incomparabile […] davanti
a tutti gli ostacoli della vita».
Significative le prime immagini che propongono Mussolini combattente, favorito dal destino anche nel suo ferimento, che rappresenta il
momento in cui la sorte lo risparmia per consentirgli in futuro di dare
un «nuovo tono spirituale alla Nazione». Il fascismo, attraverso lo stereotipo dell’“uomo nuovo”, rappresentava se stesso come modello per
l’affermazione di una società maschile che proseguiva in tempo di pace
il cameratismo nato nelle trincee. Le caratteristiche del cittadino-soldato
erano precisate con chiarezza: atletico, perseverante, pronto al sacrificio,
l’italiano nuovo doveva incarnare una virilità forte e invulnerabile. Il
sentimento dominante nel filmato di De Vito è la nostalgia dell’italoamericano nei confronti della «nuova Italia», assai diversa da quella che
consentì il disperato tentativo di cercar fortuna oltremare. Era quella
l’Italia dei liberali «confusionari, chiacchieroni e cerebrali», e cioè dei
già stanchi rappresentanti del vecchio ordine.
Bisogno estremo di certezze, di ordine apparente, di efficienza e forza
dell’apparato governativo, stanchezza per una libertà mal gestita, seguita
allo scollamento successivo alla prima conflagrazione universale: questa è
la situazione “morale” che aveva favorito la diffusione di quella che Volpe
ha definito una sorta di «religione antropomorfica»: «Carattere di tutti i
movimenti di masse: esse si raccolgono attorno a un uomo, si danno, si
abbandonano a lui. La loro religione è antropomorfica: togli l’uomo e la
religione si stempera e svanisce».
E in quel caso si trattava di un uomo che, giocando sulle astuzie
oratorie e sulla più totale mistificazione di ogni evento, doveva pensare
a “ricostruire” tutta una serie di circostanze storiche, politiche e persino
morali, che potessero giustificare la sua ascesa al potere. È interessante
notare nel documentario americano la sequenza degli anni scelti per
ricostruire il percorso mussoliniano – il , il , il ’, il ’, il ’ e il
’ – posto continuamente in relazione con le vicende internazionali. A
quanto scrisse D’Annunzio nel ’, il duce sembrava proprio aver raggiunto il suo obiettivo; anzi, sembrava quasi averlo superato: «Dopo tante
battaglie, dopo tante vittorie, dopo tanti contrasti, dopo tanta volontà,
tu hai veramente compiuto quel che nelle storie dei grandi uomini non

ANTONIA LIGUORI
è quasi mai compiuto. Tu hai creato il tuo mito». E i contenuti del discorso di De Vito ne sono un’ulteriore conferma: ogni commento riferito
all’attività di Mussolini – dall’interventismo in poi – sembra testimoniare
una «superiorità morale che non conosce ostacoli», messa alla prova e
fortificata giorno per giorno proprio a partire dall’esperienza bellica.
Il passaggio del fascismo da movimento a regime è riscritto in maniera del tutto unica in uno di quei filmati che risente particolarmente del
periodo di realizzazione. Si tratta di una produzione “Dolomiti film” del
 dal titolo Il covo, che ricostruisce la storia de “Il Popolo d’Italia”,
proponendolo come chiave di lettura per gli eventi compresi tra il ’ e
il ’. Forte è il contrasto con quelle pellicole autocelebrative – elaborate
tra la fine degli anni Venti e tutto il decennio successivo – nelle quali il
quotidiano di Mussolini godeva del privilegio di essere presentato come
il traino di tutto l’interventismo italiano e – durante la guerra – il solo
organo di stampa capace di sollevare il morale della truppa. Il termine
“ante quem” della narrazione è anche qui l’intervento in guerra, definito
ormai in maniera indiscutibile come momento decisivo per le future sorti
italiane. La novità consiste nell’ambientazione, che potremmo definire
quasi funerea, particolarmente evocativa anche se strutturata su pochi
elementi: la sede del “covo” – e cioè la redazione de “Il Popolo d’Italia”
– la scrivania del duce, i gagliardetti affissi alle pareti, lo scantinato dell’edificio. Tutto scandito dall’incessante alternarsi di carrellate in ambienti
più simili a musei, di dissolvenze e di interferenze di foto e cineattualità
che alludono al succedersi degli eventi: i trascorsi interventisti di Mussolini, la fondazione dei fasci di combattimento e, infine, l’ascesa al potere,
non descritta, ma suggerita da una “soggettiva” in movimento sulle pietre
romane della via Appia Antica.

La fine della retorica come parabola della morte
Abbiamo lasciato in ultimo l’analisi di due filmati interamente dedicati
al duce del fascismo, perché, visto il loro più recente periodo di produzione, aiutano a verificare il progressivo mutare dell’approccio rispetto
agli eventi fin qui analizzati. Si tratta di Benito Mussolini – per la regia
di Pasquale Prunas – e dell’assai simile Benito Mussolini, anatomia di
un dittatore, realizzato con materiale di repertorio nel . In entrambi
vengono proposti episodi ovviamente mai accennati nei documentari
con dichiarato intento propagandistico e, per di più, il ruolo attribuito
agli eventi relativi alla partecipazione di Mussolini alla Grande guerra è
pressoché nullo.
Addirittura, nell’ultimo filmato preso in considerazione, la vicenda del

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
Duce è presentata come una sorta di parabola della morte, che si apre e
si chiude sulle immagini del cimitero di Predappio, quasi a stigmatizzare
un destino ormai privato di qualsiasi retaggio retorico.
Non tradisce emozioni neanche uno degli ultimi fotogrammi nel
quale compare l’immagine capovolta di una cancellata chiusa, quella
dove, forse, fu ucciso Mussolini. Immediato è il salto dell’immaginazione
alla clamorosa espressione di dissenso che si consumò in piazzale Loreto,
dove «lo spettatore non si identifica più con l’attore e anzi smania di
mostrargli la propria dissociazione». E altrettanto evidente – quasi a
voler “segnare” la parabola discendente del consenso della nazione verso
il regime – è l’intento di rappresentare il fallimento di quella carrellata
di miti, ai quali si è già fatto cenno, nella pavida fine di Mussolini, che,
dopo aver cresciuto l’Italia al suono del motto «se avanzo seguitemi,
se indietreggio uccidetemi», lasciò come ultima immagine di sé quella
dell’uomo in fuga travestito da tedesco.
Su questa gelida chiusura, attuata da una regia libera dagli obblighi
dell’ideologia, ma forse ingabbiata dall’altrettanto vincolante scelta
di manifestarsi “estranea” rispetto alle vicende rivissute nel filmato,
termina un percorso con il quale si è tentato di suggerire alcune tracce
di quel “debito” del fascismo nei confronti della straordinaria cesura
storica rappresentata dalla Grande guerra. La lezione che si può trarre
dal contatto con le fonti dirette consiste nella consapevolezza che ogni
tipo di manifestazione culturale – ancor più se “viziata” dal proprio
tempo di produzione – fornisce spunti ulteriori per l’analisi e lo studio
del contesto nel quale si sviluppano i “codici culturali” di un’epoca.
Riconoscere la diversità dei punti di osservazione – anche attraverso il
confronto con quelli “investiti” dall’ideologia – può risultare utile per
percepire con maggior consapevolezza la complessità degli eventi e della
loro interpretazione.
A tal proposito viene in mente una riflessione di Henri Pirenne – da
lui elaborata qualche anno dopo la fine della Prima guerra mondiale
– relativa alla perfettibilità dell’opera storica. Egli, partendo dal presupposto che anche i pregiudizi degli autori possano contribuire a migliorare
le nostre conoscenze sul passato, afferma che un’opera storica – e nel
nostro caso l’affermazione può essere trasferita anche all’interpretazione
degli eventi fornita dal regime sia nella sua globalità che nelle sue singole
manifestazioni – è sempre incompleta in quanto consiste in una «ricostruzione congetturale del passato», nella quale ciascun autore «mette
in luce una parte, fa risaltare certi tratti, considera certi aspetti», che,
se possono viziarne l’interpretazione, letti con cura, non perdono la loro
utilità. Anzi – si potrebbe aggiungere – offrono un ulteriore stimolo alla
conoscenza.

ANTONIA LIGUORI
Note
. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari , p. .
. L’elemento sul quale la politica culturale successiva al ’ fondò le proprie radici era,
da una parte, l’aspetto “dinamico” che, nel periodo prebellico, trovò eco soprattutto nelle
provocazioni futuriste, dall’altra, quello che potremmo definire “etico”, che comprendeva
orientamenti che andavano dall’apologia della vita nazionale compiuta da Corradini sulle
colonne de “Il Regno” all’invocazione a quei “sentimenti virili” ai quali alludeva Pareto. Un
afflato etico che permise al fascismo di tracciare una propria storia spirituale, il cui richiamo
divenne quasi un rito in ogni momento della vita della Nazione nella quale si rendesse
necessario gonfiare di elementi “rivoluzionari” una struttura fortemente reazionaria o dare
credibilità alle più ricorrenti interpretazioni del passato, caricandole di un forte senso della
profezia. Ecco allora ricomparire nel tessuto retorico del regime tutte quelle allusioni alla
forza che i «padri della rinascita borghese novecentesca» (si veda a tal proposito A. Asor
Rosa, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, vol. IV, t. II, La cultura, Einaudi, Torino , p. )
avevano fatte proprie per pervenire alla giustificazione teorica della guerra. Ci riferiamo
in particolare ai miti della violenza, diffusi come elementi di educazione rivoluzionaria,
dal pensatore francese George Sorel – principale teorico del sindacalismo rivoluzionario
– condivisi e ripresi anche dai nazionalisti; o all’immagine che Oriani fornì della guerra,
della quale evidenziava un valore quasi taumaturgico; o a quella che offrì D’Annunzio, che
dal conflitto attendeva la più efficace manifestazione dell’individualità eroica. E come non
pensare a Pareto, che mostrava la guerra come unico rimedio per arrestare l’avanzata del
socialismo o alle affermazioni dei futuristi – Marinetti in testa – che inneggiano alla guerra
«sola igiene del mondo», come momento massimo di «negazione dell’ordine», inteso sia
in senso psicologico e individuale che politico e collettivo.
. G. Bottai, L’interventismo della cultura, in “Primato”, ° giugno ; citato anche
in L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza,
Bari . Ecco allora rifarsi avanti nel  quell’idea dell’“interventismo della cultura”,
concetto già presente all’alba del Novecento, anche se ancora non ben definito, nelle menti
dei giovani fondatori di “Leonardo”, che non poterono fare a meno di puntare la loro
attenzione sulla priorità del pensiero rispetto all’arte, quale promotore di una immediata
«rivoluzione di valori» (si veda a tal proposito D. Frigessi (a cura di), La cultura italiana del
’ attraverso le riviste, vol. I, Leonardo, Hermes, Il Regno, Einaudi, Torino , pp. -).
Era il mese di agosto del  quando Gian Falco dalle colonne di “Leonardo” lanciava
la sua “Campagna per il forzato risveglio”, dando voce a un’esigenza ancora fumosa nei
dettagli, ma già indicativa quanto a espressione di una forte volontà di rottura, resa inderogabile dalle sue parole: «Voglio che una parte, anche piccola, dell’ultima generazione
italiana, si liberi da certe tendenze, da certi gusti, da certe debolezze e acquisti invece altri
caratteri, nuove passioni e preoccupazioni. Modificare uomini, amputare e ingrandire
anime, trasformare spiriti: ecco l’arte mia favorita”» (cfr. Gian Falco, La campagna per il
forzato risveglio, in “Leonardo”, , IV, agosto, citato in Frigessi (a cura di), La cultura
italiana del ’, cit., p. ). Ma esattamente un anno dopo, su quelle stesse pagine era l’ora
della resa, dichiarata in maniera sconsolata da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, che
nell’articolo La fine fanno parlare il loro rammarico per non essere riusciti in cinque anni
di presunta militanza a incidere minimamente sulle coscienze italiane: «Il Leonardo è stato
sempre da noi considerato come un apparecchio per eseguire determinate esperienze sull’anima vile italiana. Dopo cinque anni di queste esperienze, dopo aver cercato con questa
rivista e con altre opere, di scoprire uomini, di svegliare e trasformare anime, di trovare
giovani che fossero per noi compagni e schermidori e non pappagalli male ammaestrati,
ci siamo persuasi che non val la pena di continuare» (cfr. G. Papini, G. Prezzolini, La fine,
in “Leonardo”, , V, agosto). Trascorse ancora un anno prima che lo stesso Prezzolini

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
riprendesse il cammino precedente di denuncia della «mediocrità morale dominante»
(cfr. A. Asor Rosa, Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze , p. ),
questa volta dalle pagine de “La Voce”, la cui missione fu portata avanti fino al ’. Egli
si oppose con forza a chi – come Renato Serra – voleva delegare alla classe colta la sola
funzione di «depositario della tradizione» (cfr. Mangoni, L’interventismo della cultura,
cit., pp. -) senza neanche intravederne la potenziale forza dirompente all’interno di
una società che si sentiva ancora così lontana dai suoi rappresentanti. La rivista fiorentina
si faceva avanti come mediatrice tra il paese e la classe dirigente, ponendo come nodo
centrale del suo lavoro il concetto di «rigenerazione del sentimento morale» (Asor Rosa,
Storia della letteratura italiana, cit., p. ).
. F. Venturi, Corso di storia moderna, a. a. -, Cooperativa Libraria Universitaria
Torinese, Torino .
. A. D’Orsi in un’intervista pubblicata su “Il Foglio” il  maggio del , ha dichiarato: «Come oggi uno storico possa riproporre la doppia equazione bobbiana (fascismo =
incultura, cultura = antifascismo) costituisce per me davvero il quarto mistero di Fatima».
Si veda anche A. D’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino .
. N. Bobbio, Il dubbio e la scelta, Carocci, Roma . La raccolta di saggi sulla questione degli intellettuali è considerata dallo stesso autore uno dei suoi testi più importanti,
poco letto e discusso perché uscito in un momento in cui si facevano avanti tematiche più
pressanti (come la fine della guerra fredda, ad esempio).
. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari , p. .
. R. Romeo, Scritti politici -, Il Saggiatore, Milano , p. .
. Si veda ad esempio la lezione tenuta dal prof. Alberto Preti il  marzo  presso
il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Bologna a proposito delle interpretazioni del Novecento. Nel seminario rivolto ai dottorandi di “Storia e informatica”, Preti,
prendendo le mosse dal confronto di quattro testi che hanno ottenuto una straordinaria
risonanza anche sulle colonne dei quotidiani (Il secolo breve di Hobsbawm, l’intervento di
Mayer comparso nel  sulla rivista “Parolechiave”, La fine della storia di Fukuyama, Lo
scontro delle civiltà di Huntington), ha puntualizzato le implicazioni connesse al concetto
di uso pubblico della storia.
. M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita,
Laterza, Roma-Bari , p. VII.
. C’era chi, come Bottai, avvertiva la necessità di distinguere fra miti “falsi”, con fini
puramente strumentali, e miti “veri”, capaci di coinvolgere come oggetti di culto l’intera
collettività, in quanto rappresentazioni profonde di un’epoca – e questo è il caso del mito
della Grande guerra –; tuttavia, il successo del fascismo, nella gestione e nel recupero
dei miti, non consisteva nell’abolizione dei cosiddetti miti “falsi”, bensì nella capacità di
rendere labile il confine tra gli uni e gli altri, e allo stesso modo tra mito e storia.
. A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mondo
mentale, Bollati Boringhieri, Torino , p. .
. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, cit., p. .
. Gibelli, L’officina della guerra, cit., p. .
. La mitologia del fascismo poggiava a tal proposito sulla coincidenza tra l’adesione
alla guerra e il suo significato simbolico come atto costitutivo della «rinascita della stirpe»
(si veda D. Mack Smith, Mussolini. La vita del duce raccontata dal grande storico inglese,
Rizzoli, Milano , p. ), di quel popolo finalmente consapevole di dover affrontare
– trascinato dalle passioni suscitate dal duce – una vera e propria missione di civiltà nel
mondo moderno. In particolare, secondo i fascisti, la guerra aveva dato il suo determinante contributo per l’agognata unificazione delle classi sociali attraverso l’esperienza
del cameratismo dei soldati, basato su una «gerarchia del carattere» (E. Gentile, Storia
del partito fascista (-). Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari , p. ), ossia
sul valore di ognuno e sulla rispettiva adesione ai miti costitutivi della Grande guerra.
L’uomo nuovo fascista, moralmente forgiato dalla trincea, esempio di virtù militare e di

ANTONIA LIGUORI
totale dedizione alla patria, incarnava il mito della giovinezza, in netto contrasto con il
prodotto della democrazia parlamentare, «tollerante perché senza fede». Fino alla guerra,
la politica era ritenuta l’oggetto di quella rigenerazione intesa come rivoluzione spirituale
dalle avanguardie culturali. A conclusione del conflitto, è la politica a rivendicare la
funzione rigeneratrice della nazione, poiché assume il «monopolio nella definizione del
significato e del fine ultimo dell’esistenza» (E. Gentile, Un’apocalisse nella modernità.
La Grande guerra e il mito della Rigenerazione della politica, in “Storia contemporanea”,
ottobre , pp. -).
. Gibelli, L’officina della guerra, cit., p. .
. Il fascismo non può essere definito un’ideologia “di” masse, ma “per” le masse,
poiché, pur comprendendo il ruolo determinante dell’anima collettiva per la vita del paese,
non riconobbe alla folla né la possibilità di esprimere un’idea politica, né tanto meno la
capacità di autogovernarsi. Al contrario, il processo di partecipazione doveva coincidere
con l’integrazione dei singoli individui nelle organizzazioni dello Stato totalitario, attraverso
la diffusione della nuova tipologia del “cittadino soldato”. Tale modello – che doveva
distinguersi per qualità morali e non intellettuali – costituiva l’elemento propulsore di
una sorta di «rivoluzione antropologica» (E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino
del mito della nazione nel XX secolo, Mondadori, Milano , p. ): compito del regime
era quello di trasformare gli italiani in fascisti integrali, attraverso un progresso morale,
determinato dall’azione dello Stato, che avrebbe agito sull’innata ferinità dell’uomo. Solo
instillando il valore della vita come dovere e missione, la dedizione alla patria poteva avere
la meglio sul naturale egoismo dell’individuo. E tale concetto poteva trarre il suo sostegno
in un ulteriore richiamo al mito dell’esperienza della guerra, laddove si facesse appello al
conflitto come nuova forma di partecipazione.
. La Francia, invece, nazione vittoriosa e soddisfatta, vide sorgere potenti movimenti
di ex combattenti che proclamavano la fine di ogni guerra (si veda a tal proposito G. L.
Mosse, Il fascismo. Verso una teoria generale, Laterza, Roma-Bari , p. ).
. S. Romano, La cultura europea tra Ottocento e Novecento, in “Nuova Storia Contemporanea”, V, settembre-ottobre , pp. -.
. Come non ricordare l’immagine dell’«Italia in cammino» coniata da Gioacchino
Volpe nel  nella sua riflessione sulle vicende dell’ultimo cinquantennio? Immagine
“mitica” che testimonia in un certo senso l’adesione più “sentimentale” che politica dello storico italiano al regime fascista. Si tratta di una di quelle «immagini motrici» – per
appropriarsi della definizione fornita da Sorel a proposito de «la mystique» – che, d’altra
parte, fu facile bersaglio della visione critica di Benedetto Croce, il quale, in polemica con
Volpe dopo la pubblicazione della sua Storia d’Italia, non tardò ad affermare che «l’Italia
di Volpe cammina, ma non pensa».
. G. Gentile, Guerra e fede, De Alberti Editore, Roma . Nella prefazione a questa
raccolta di articoli, Giovanni Gentile affermava che per l’Italia «il problema della guerra
era un problema superiore alla guerra stessa e tale da impegnare tutto l’avvenire della
vita italiana». Rinnovava in questo modo l’impegno della politica postbellica, che doveva
valutare come priorità assoluta la necessaria riforma del carattere italiano. Ciò procedeva
inevitabilmente nella stessa direzione dell’abbandono di quella politica scettica di tipo
giolittiano, sulla quale pesò la secolare sfiducia nelle capacità degli italiani di porsi di fronte
a duri sacrifici e a prove impegnative. L’occhio, dunque, veniva puntato in primo luogo
sulla rigenerazione collettiva, intesa come esperienza che, attraverso la trasfigurazione
degli eventi vissuti dalla generazione dei combattenti, veniva abbracciata anche da chi
non fosse stato al fianco dei protagonisti della Grande guerra.
. Si veda anche a tal proposito, oltre all’atteggiamento di Marinetti e dei futuristi,
E. Jünger, L’operaio: dominio e forma, Guanda, Parma .
. Gibelli, L’officina della guerra, cit., p. .
. G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, RomaBari , p. .

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
. M. Isnenghi, Il mito della Grande guerra, il Mulino, Bologna , pp. -.
. E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari , p. .
. Fu questo il “capolavoro” del socialriformista Ivanoe Bonomi, che, il  novembre del , consegnò agli italiani quel nuovo simbolo che i fascisti non tardarono a
integrare nell’istituzione di una liturgia nazionale attorno al mito della Grande guerra e
alla resurrezione della patria. Si vedano a tal proposito B. Tobia, L’altare della Patria, il
Mulino, Bologna , e Id., Dal Milite ignoto al nazionalismo monumentale fascista, in
Storia d’italia, Annali , Guerra e pace, Einaudi, Torino .
. Furono Inghilterra e Francia le nazioni che inaugurarono la pratica di innalzare
una tomba al Milite ignoto come luogo del culto nazionale.
. Johan Huizinga scrisse nel  a proposito del ricorso al concetto di “eroe”
come sintomo di una diffusa crisi di valori: «C’è qualcosa di tragico nel fatto che l’odierna
degenerazione dell’ideale eroico sia partita dalla superficiale ondata di entusiasmo per la
filosofia nietzschiana, che intorno al  si diffuse in ambienti vasti. […] Tutti i mediocri
imbecilli della fine del secolo parlarono di superuomo, come se fosse stato il loro fratello
maggiore. Questo volgarizzamento intempestivo del pensiero nietzschiano è stato senza
dubbio l’inizio della tendenza spirituale che oggi pone l’eroismo come parola d’ordine e
come programma». J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino , (prima edizione
olandese, ; prima traduzione italiana, ).
. M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal  ai giorni nostri,
Mondadori, Milano , p. .
. G. Antona Traversi Gismondi, Il santuario della patria. Cimitero militare di Redipuglia, Ufficio centrale cure e onoranze salme caduti in guerra, Padova , p. .
. P. Dogliani, Redipuglia, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli
e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari , p. .
. Il progetto di ampliamento fu inserito all’interno di quell’ambiziosa politica avviata
dal regime con la legge del  giungo del  – volta alla definitiva sistemazione dei cimiteri
militari del territorio nazionale – alla quale seguì, nel ’, l’inaugurazione dei sacrari del
Monte Grappa, di Pocol e del Montello in prossimità del Piave, nel ’, l’apertura della “via
sacra” sul Pasubio e Castel Dante a Trento, e, nei due anni successivi, il completamento
– assieme a quello di Redipuglia – dei cimiteri monumentali di Oslavia e Caporetto.
. Queste sono le parole che il duca d’Aosta avrebbe lasciato come sua eredità
spirituale: «Muoio serenamente, sicuro che un magnifico avvenire si dischiuderà per la
patria nostra, sotto l’illuminata guida del re ed il sapiente governo del duce». Dogliani,
Redipuglia, cit., p. .
. G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, , Guerre e fascismo, Laterza,
Roma-Bari , p. XV.
. M. Pottino, Compiti e finalità del Luce, Tipografia STET, Roma , p. .
. R. D. n.  del  novembre . Per una sintesi dell’attività de L’Unione Cinematografica Educativa si veda la voce “Istituto Luce” curata da Gabriele D’Autilia in
Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, vol. I, Einaudi, Torino ,
pp. -.
. Questo è l’ordine di progressione con il quale vennero istituite le otto cinemateche:
agricola ( marzo ), industriale di propaganda e istruzione ( agosto ), per l’arte e
l’istruzione religiosa ( settembre ), di cultura nazionale ( dicembre ), militare
e d’istruzione e propaganda ( gennaio ), turistica e di propaganda marinara (
gennaio ), igienica e di prevenzione sociale ( gennaio ), di propaganda e cultura
all’estero ( giugno ). Cfr. G. D’Autilia, Istituto Luce, in Dizionario del fascismo, a cura
di V. De Grazia, S. Luzzatto, Einaudi, Torino , pp. -.
. J. Grierson, Documentario e realtà, Ed. Bianco e nero, Roma .
. Ibid.
. M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del
fascismo, Vallecchi, Firenze , p. .

ANTONIA LIGUORI
. Già ai primi del secolo la cultura aveva individuato nella “folla” il nuovo protagonista dell’età contemporanea, specificando, attraverso le conoscenze fornite dagli
esperti in psicologia collettiva, la nuova sfera di interessi che la politica doveva coltivare.
In particolare, si apriva un nuovo orizzonte allo studio della mentalità e del comportamento delle masse, per giungere all’individuazione dei fattori idonei alla formazione e al
controllo dell’anima collettiva. Scriveva, ad esempio, nel  Scipio Sighele: «Oggi è la
voce collettiva e grandiosa delle folle che guida il mondo; […] oggi si è compreso che
il protagonista vero della storia, quantunque non sempre visibile, è stato il popolo, vale
a dire la folla anonima su cui l’egoismo dei grandi lavorava come su un corpo vile per
costruire l’edificio della propria potenza». (Citato in E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo
dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari , p. ). L’organizzazione del consenso durante il ventennio fascista dimostrò di aver assimilato questa centralità del ruolo
della folla, imparando a incanalare e controllare l’irrazionalismo delle masse attraverso la
cultura dell’organizzazione, al fine di instillare valori come la disciplina e di giustificare il
comando di una minoranza. Autori come Le Bon, Michels, Sorel – ai quali Mussolini fece
spesso esplicito riferimento – avevano dimostrato che il predomino del sentimento nella
psicologia collettiva non andava interpretato come fattore negativo, bensì come spunto
di riflessione sul valore di una «svalutazione razionale della ragione» a fini politici (cfr.
Gentile, Il mito dello Stato nuovo, cit., p. ).
. P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari .
. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., p. .
. In dodici mesi il Planetario ospitò  proiezioni per ragazzi,  per istituti, enti e
scuole,  per il pubblico e  conferenze. [Dati tratti da Argentieri, L’occhio del regime,
cit.].
. Notevole anche l’incremento produttivo: dai . metri di negativo sommati
complessivamente nel  ai . del , dai . del  ai . del primo
semestre .
. Il duce era presentato in una infinita varietà di versioni, in qualità di presidente
del Consiglio, in famiglia, a cavallo nel parco di Villa Torlonia, a bordo dei trattori,
nuotatore, in motocicletta e, ovviamente, in qualità di arringatore di fronte alle ricorrenti
adunate oceaniche.
. Argentieri, L’occhio del regime, cit., p. .
. Ivi, p. .
. Per un quadro generale sull’attività propagandistica della radio italiana tra le due
guerre, si rimanda al testo di A. Monticone, Il fascismo al microfono. Radio e politica in
Italia (-), Ed. Studium, Roma .
. Per conoscere dall’interno le dinamiche relative alla gestione delle notizie da parte
del regime fascista può tornare utile consultare il recente lavoro di R. Canosa, La voce del
Duce. L’Agenzia Stefani: l’arma segreta di Mussolini, Mondadori, Milano .
. La scansione in sequenze e le caratteristiche tecniche di maggior rilievo sono
presenti sul sito internet dell’Istituto Luce nella sezione Archivio storico, all’indirizzo:
http://www.archivioluce.com. Si può risalire ai singoli documenti con una ricerca per
argomento, inserendo il titolo o il codice indicato come parola chiave.
. Asor Rosa, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., p. .
. Con una legge del  ottobre del , l’Opera Nazionale Balilla fu assorbita
dalla Gioventù Italiana del Littorio: la formazione delle più giovani generazioni passava
in questo modo sotto il controllo del Partito.
. Mussolini nella primavera del ’, in uno dei suoi colloqui con Emilio Ludwig,
affermava: «Noi festeggiamo il  maggio, giorno in cui la guerra si iniziò, non il trionfo
sul vinto. […] Noi consideriamo la decisione di entrare in guerra come data rivoluzionaria: fu il popolo che decise allora contro la volontà dei parlamentari. Con ciò cominciò
la Rivoluzione Fascista» (E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano , p.
; citato anche in F. Ercole, La Rivoluzione Fascista, F. Ciuni Libraio Editore, Palermo

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
, p. ).
. R. Moro, Religione e politica nell’età della secolarizzazione, in “Storia Contemporanea”, n. , aprile , pp. -.
. A tal proposito il retroterra culturale più ricco è senz’altro quello espresso dagli
ideologi del nazionalismo nostrano. Primo fra tutti Corradini, citato dal fascismo come
“profeta” per i contenuti che andò esprimendo già sulle colonne de “Il Regno”, con la
sua concezione spiritualistica della nazione, che, nel dopoguerra, non tardò a gettare tra
le braccia dei mussoliniani. Sintomatica la giustificazione della partecipazione alla guerra
come subordinazione della volontà individuale a quella collettiva, dalla quale risultava
evidente l’ammissione della negatività dell’evento bellico per l’individuo e, d’altro canto,
la tensione verso uno scopo di più ampio respiro che coinvolgesse non solo la nazione,
ma l’intera civiltà umana. «La guerra […] in stato d’animo individuale, veramente non si
comprende: i soldati quando dallo stato collettivo (esercito che combatte) tornano nello
stato individuale (timor panico), non la fanno più e fuggono, e tutta l’altra gente che non
è capace di passare dallo stato individuale a quello collettivo la condanna». Una definizione, questa, riscritta a posteriori da Francesco Ercole (cfr. F. Ercole, Pensatori e uomini
d’azione, Mondadori, Milano , p. ) e mutuata direttamente da quel nazionalismo
corradiniano, così carico di volontarismo e tutto proiettato verso l’attuazione di una
“missione” da far compiere all’intera nazione.
. Una simile affermazione può rafforzare a prima vista il paradosso che si fece sempre più palese nel consolidarsi del regime. Esso consisteva, infatti, nella contraddittorietà
di un movimento che, privilegiando l’azione sul pensiero, si poneva inizialmente come
antideologico, ma, nel suo progressivo consolidarsi, non rinunciava a forgiare una propria
ideologia, lavorando su un materiale ben caldo come poteva essere quello dell’attivismo
o dell’irrazionalismo. La particolarità del movimento fascista, soprattutto nei primi anni,
consisteva, dunque, non tanto nel costituirsi come movimento antideologico, quanto nel
porre come princìpi basilari ideologie negative, in netta antitesi con i valori tradizionali.
. Ercole, La rivoluzione fascista, cit., p. .
. Oltre ai nazionalisti e ai futuristi, troviamo tra gli interventisti i collaboratori della
“Voce” di Prezzolini e dell’“Unità” di Salvemini e così pure filosofi e pedagogisti idealisti,
come Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, critici come Renato Serra, storici
come Gioacchino Volpe.
. Siglato dal codice dell’Archivio dell’Istituto Luce B .
. La scelta di Luigi Federzoni non è stata sicuramente casuale: presidente del Senato,
acquista una straordinaria credibilità agli occhi degli ex combattenti perché, interventista
della prima ora, partito per il fronte come volontario, fu anche decorato con una medaglia
d’argento e due croci al valore militare.
. P. Monelli, Catenaccio alle celebrazioni belliche, in “Gerarchia”, giugno , pp.
-.
. “Gerarchia”, novembre , p. .
. Siglato dal codice B .
. Una vera e propria “storia” della liturgia politica fascista può cominciare a partire dal ’, attraverso la scansione di due fasi: il decennio -, nel quale è attuata la
sua istituzionalizzazione, e quello tra il  e il , che si esaurisce in una sostanziale
ripetizione meccanica che consolida il portato del decennio precedente.
. G. Lume, La celebrazione della vittoria, in “Gerarchia”, novembre , pp.
-.
. Ercole, La rivoluzione fascista, cit., p. .
. Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. .
. Argentieri, L’occhio del regime, cit., p. .
. Il costo di Camicia nera fu di .. lire, il premio previsto dal Ministero delle
Corporazioni di . lire e gli incassi nel ’ (comprese le vendite in Francia, Germania,
Turchia e Giappone) di .. lire. Cfr. Argentieri, L’occhio del regime, cit., p. .

ANTONIA LIGUORI
. È interessante notare che il padre di Mussolini era stato fabbro.
. La cerimonia di fondazione della prima delle «città nuove» dell’Agro pontino
avvenne il  dicembre del , come emblematica chiusura delle celebrazioni del decennale. Seguirono la fondazione di Sabaudia ( aprile ), di Pontinia ( dicembre ),
di Aprilia ( ottobre ) e di Pomezia ( ottobre ).
. I borghi di servizio creati in prossimità di Littoria si chiamavano – e si chiamano ancora – infatti: Podgora, Carso, Piave, Bainsizza, Montello, Sabotino, Grappa, Ermada.
. E. Gentile, Il fascismo come religione politica, in “Storia contemporanea”, dicembre
, pp. -.
. “Gerarchia”, gennaio , p. .
. Mein Kampf, in D. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti (-), a
cura di L. Mangoni, Einaudi, Torino , pp. -. Prosegue, infatti, «il commissario dell’ipocrisia» (Hitler viene così definito nella lettera di D’Annunzio a Mussolini del  agosto
del , in R. De Felice, E. Mariano (a cura di), Carteggio D’Annunzio-Mussolini. -,
Mondadori, Milano , p. ): «Poiché il suo compito deve consistere, precisamente
come nel manifesto pubblicitario, nel rendere attenta la massa, e non nell’istruzione di chi è
del resto già esperimentato criticamente per conto suo, o di chi si sforzi di raggiungere una
educazione (bildung) e di farsi un giudizio, l’azione della propaganda deve essere sempre
diretta più al sentimento, e solo molto secondariamente al cosiddetto intelletto».
. Le feste della nazione, il culto dei caduti, la glorificazione degli eroi della Grande
guerra e della “rivoluzione”, le apparizioni del duce trasformarono durante il ventennio
le piazze d’Italia in uno straordinario scenario collettivo, nel quale le cerimonie d’occasione si andavano a inserire in un vero e proprio ciclo annuale della liturgia di regime.
La «piazza oceanica» dell’Italia fascista si presentava come erede di strumenti già assunti
durante l’esperienza della «riconquista della piazza», (cfr. Isnenghi [a cura di], I luoghi
della memoria, cit., p. ) attuata sia ad opera degli interventisti sia dei legionari fiumani.
Fu proprio D’Annunzio – come osserveremo più da vicino nell’analisi di un filmato interamente dedicato alla marcia di Ronchi – a riprendere nell’immediato dopoguerra quel
comizio dialogico che nella corrente interventista era particolarmente caro agli anarcosindacalisti (si pensi a Corridoni, annesso successivamente come protomartire fascista,
e a De Ambris, che partecipò all’impresa fiumana come luogotenente di D’Annunzio).
In Germania Hitler sceglieva gli stadi per i grandi raduni di folla, Mussolini, invece, per
rafforzare i princìpi di identità e di appartenenza al nuovo ideale di nazione – sorto con
la guerra e ribadito dal regime – preferiva le piazze cittadine. In particolare elesse piazza
Venezia – in vista dell’Altare della Patria e del Milite ignoto – come luogo simbolo per
eccellenza dell’incontro rigeneratore fra il capo e la folla. In base al criterio di adoperare
un’oratoria “ubiquitaria”, Mussolini moltiplicò negli anni la sua presenza sul territorio
nazionale, trasformando l’Italia attraverso i suoi viaggi – più che mai frequenti nelle ricorrenze di date significative per testimoniare la progressiva legittimazione del regime – in
una “piazza diffusa”. Le adunate, anche se la partecipazione non fosse stata obbligata,
non lasciavano alla gente accorsa nelle piazze nessuna alternativa. La psicologia collettiva,
infatti, ci suggerisce quanto in realtà abbia inciso nel nuovo universo immaginario – sapientemente gestito dai regimi totalitari – l’agglomerato della moltitudine, stretta gomito
a gomito, quasi materialmente compatta tanto da trasformarsi in un nuovo soggetto
collettivo. È nelle piazze oceaniche che gli individui smarrivano la rispettiva autonomia e
fornivano una palese rappresentazione del nuovo rapporto istituito tra popolo e potere.
L’uso del microfono permetteva l’ampia diffusione del messaggio del duce, che negli anni
– con lo sviluppo della radiofonia – giunse anche in quelle piccole piazze d’Italia dove
il popolo disciplinato acclamava un oratore che non era di fronte a loro e sollevavano
incitamenti a un “duce” che in quel momento non poteva sentirli, a dimostrazione della
loro comunione spirituale.
. Imponenti furono le manifestazioni in occasione del decennale della vittoria, nel
quale è particolarmente visibile quella che negli anni andò consolidandosi come peculiarità

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
della celebrazione: la festa del  novembre, vista la sua contiguità con l’anniversario della
marcia su Roma, era stata via via assimilata a questa nel senso di ulteriore tappa della
rivoluzione fascista. La rievocazione della vittoria, infatti, divenne il rito di una manifestazione collettiva di obbedienza al regime, nella quale il culto dei caduti per la patria si
sovrapponeva e si confondeva con quello dei caduti per la “rivoluzione” fascista.
. E. Adami, La lingua di Mussolini, Società Tipografica Modenese, Modena .
. “Gerarchia”, agosto , rubrica “Tra i libri”, p. .
. Laddove si consideri la Grande guerra come somma di eventi mitici, la rotta di
Caporetto rappresenta un momento di notevole rilievo, soprattutto se rivissuto attraverso
l’ottica del futuro duce del fascismo, che esula dall’immediato dibattito relativo alle cause
della disfatta e offre più di qualche spunto per giustificare la successiva rimozione dell’evento operata in pieno regime. Con il suo tipico fare esagerato, Mussolini scriveva che
il  ottobre  rappresentava «la più importante disfatta della storia mondiale» e che
niente in tutta la sua vita gli aveva mai provocato un’umiliazione maggiore. Com’è ovvio,
l’immediata responsabilità di Caporetto veniva da lui attribuita al “disfattismo” dei vecchi
compagni socialisti oltre che alla condotta del nuovo presidente del Consiglio Orlando.
. La natura essenzialmente emozionale di un simile approccio è una di quelle
caratteristiche che induce ad assimilare il fascismo alla categoria dei «movimenti situazionali» (cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista (-). Movimento e milizia, Laterza,
Roma-Bari , p. ). Come il futurismo, l’arditismo o il fiumanesimo, traeva la sua forza
dallo stato d’entusiasmo generato dal mito dell’esperienza della guerra, che caricava la
condotta politica, soprattutto nelle prime fasi, di un evidente impeto vitalistico. Tutti questi
movimenti hanno in comune la caratteristica di essere animati da persone che hanno partecipato direttamente al grande evento suscitatore di miti e propongono le idee, scaturite
da quella esperienza, come base per una repentina azione di cambiamento della società e
per l’incessante appello all’identità del gruppo.
. Queste le località toccate durante il percorso: Bassano del Grappa, Treviso,
Possagno, San Donà del Piave, Meolo, Vittorio Veneto, Cividale del Friuli, Caporetto,
Gorizia, Trieste, Fiume.
. A. Nützenadel, La battaglia del grano, in Dizionario del fascismo, cit., pp. -.
. Non c’era substrato ideologico migliore sul quale innestare la nuova “battaglia”
del patrimonio culturale ereditato dalla più recente esperienza bellica, chiamata in causa
per fortificare quegli spiriti che non potevano tradire i sacrifici della patria, affermando
quel carattere rinunciatario tanto caro alla politica liberale. Questa volta non bisognava
lasciarsi scappare l’occasione : c’era un “Impero” da costruire, per completare gli scopi
della Grande guerra e per dare sfogo alla “Rivoluzione”.
. Numerose erano le responsabilità attribuite al regime liberale per giustificare
l’“immaturità” del popolo italiano: in gran parte degli interventi dei “burocrati” della
carta stampata e nei discorsi pubblici del duce – nei quali si ricordava l’intervento nella
Prima guerra mondiale – era ricorrente, ad esempio, l’accenno al contrasto tra le virtù
definite innate nel popolo italiano e quella «strana ideologia [che] per lunghi decenni
aveva definita la preparazione militare come spesa improduttivaı» (A. Solmi, XXIV Maggio,
in “Gerarchia”, maggio , pp. -).
. Diviene facile ritrovare nella Grande guerra quella matrice ideale che poneva
in stretto legame l’intervento dell’Italia addirittura – ancor più sulla scia del mito della
vittoria trionfale – con la proclamazione dell’Impero nel ’, laddove si voglia sottolineare
l’interpretazione dell’evento bellico come fattore di unificazione di tutta la realtà italiana,
chiamata ad assimilare il superamento di qualsiasi conflittualità interna – intesa anche
come lotta di classe – e quindi «base di partenza del rovesciamento degli attriti e dei bisogni sociali verso l’esterno» (M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari.
Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino , p. ).
. L’Italia sapeva di soffrire, sin dai tempi di Crispi, di un incurabile “mal d’Africa”, tema sul quale si continuavano a creare evidenti confusioni ideologiche, animate

ANTONIA LIGUORI
dall’«illusione consueta del primato italiano», osannato per rafforzare ancora una volta
quel carattere unificante che ogni esperienza bellica doveva portare con sé. In particolare, erano i giovani a essere chiamati in causa, quella generazione alla quale si voleva
inculcare l’attivismo attribuito agli interventisti del “maggio radioso”. Leggiamo, infatti
in un editoriale apparso su “Critica Fascista”: «Le generazioni che sembrano destinate ad
essere allevate fra il ricordo lontano della guerra, quello più prossimo della rivoluzione
non vissuta e una inattuabile aspirazione ad agire, trovano ora nella guerra d’Africa, la
più immediata, concreta e viva fonte di esperienza e di azione cui potessero aspirare. Qui
appunto si avvera il fenomeno rivoluzionario per cui quei giovani che ieri sembravano
destinati ad essere i mal rassegnati epigoni di un eroismo già consegnato alla storia, ne
divengono oggi invece i continuatori» (“Critica Fascista”, cit. in Mangoni, L’interventismo
della cultura, cit., p. ).
. Tutto si muoveva spinto da una immane ondata emotiva, dove la storia d’Italia si
sovrapponeva alla leggenda del popolo italiano, votato quasi per necessità o per volontà
provvidenziale alla realizzazione dell’Impero fascista. L’occasione della guerra e della
vittoria – ancor di più perché “mutilata” – è un punto di partenza davvero unico per
esemplificare l’esigenza avvertita dall’alto di una nuova educazione e conformizzazione
collettiva. Il popolo italiano veniva addirittura riesaminato dal punto di vista antropologico,
anche se il risultato appare a posteriori alquanto contraddittorio: l’esaltazione dell’attivismo
guerriero – inteso come carica agonistica – sembra, infatti, contrastare con il ruolo che poi
venne riservato in ambito politico al nuovo prototipo di italiano, totalmente remissivo nei
confronti della volontà del regime.
. “Gerarchia”, settembre , pp. -.
. Nelle teorie politiche del XX secolo era più che palese il prevalere del pensiero
mitico su quello razionale, così come era sempre accaduto nei momenti critici della vita
sociale, a dimostrazione che il mito non costituisce un elemento transitorio, ma è parte
integrante della natura umana. Esso, però, nelle dottrine del ’ – ed in particolare
nel fascismo – non appariva come «un libero e spontaneo gioco dell’immaginazione»
(E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, Laterza, Roma-Bari , p.
), ma era regolato e adattato in virtù dei bisogni della politica. L’elemento innovativo
consisteva nel fatto che il mito – paradossalmente – veniva razionalizzato, trasformandosi
in strategia e tecnica. Da parte nostra sarebbe sciocco indagare sulla eventuale “verità”
dei miti politici, che, al contrario, vanno studiati per la loro efficacia, all’interno del più
ampio processo di coinvolgimento coatto delle masse e della necessaria ricerca di consenso messa in atto dai regimi totalitari. Facendo ricorso all’etimologia del termine, il
mito appare come una narrazione, che racchiude in sé un aspetto epico – che può essere
quello del ricordo delle imprese di una figura eroica – e uno drammatico, che richiama
in causa il confronto tra forze del bene e forze del male. L’analogia dei miti della politica
contemporanea con quelli sorti spontaneamente nelle società primitive va ricercata nel
loro modo di esprimere una singolare mescolanza di tendenze in conflitto: «essi sono al
medesimo titolo un frutto e della disperazione e della fiducia» (Cassirer, Simbolo, mito e
cultura, cit., p. ). Costituiscono, insomma, l’extrema ratio per affrontare uno straordinario sconvolgimento della società. La forte carica suggestiva che li contraddistingue si
riflette anche nella conseguente modificazione della funzione del linguaggio. Se, infatti,
in circostanze normali, le nostre parole devono assolvere allo stesso modo alla funzione
descrittiva come a quella emotiva, laddove si affermi il potere del pensiero mitico – e
perciò si rielabori razionalmente la svalutazione dell’elemento razionale – l’accento batte
in maniera più decisa sull’elemento emotivo, superando di gran lunga il livello “letterale”
della comunicazione sociale e della reciproca comprensione. «La parola descrittiva e la
parola logica si sono trasformate in parola magica» (E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura,
cit., p. ): ed è così che nel linguaggio introdotto dai miti politici l’equilibrio tra elemento soggettivo e oggettivo viene a turbarsi in profondità, quasi a voler dimostrare che
nell’era della folla il mito diviene un persuasore più efficace di qualsiasi analisi razionale

L’ISTITUTO LUCE TRA INFORMAZIONE, MEMORIA E PROPAGANDA
della realtà. Il fascismo, individuato il mito come motore primario del pensiero politico,
diveniva potere di simboli e si avvicinava molto, per la sua arte di governare le masse,
a quella che Serge Moscovici ha chiamato «l’arte di dirigere la loro immaginazione» (S.
Moscovici, L’age des foules, Fayard, Paris , p. ).
. Anche l’anonimato – cioè la qualità di «non essere nessuno» (A. Gibelli, L’officina
della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri,
Torino , p. ) – veniva posto come condizione centrale dell’uomo nella società di
massa, proprio come era accaduto per milioni di persone durante la guerra, soprattutto
nell’esperienza della morte. Ma non solo; si pensi anche alla mobilitazione di massa e
alla sua successiva interpretazione come spunto per giustificare la standardizzazione del
soldato. Le proporzioni della guerra resero indispensabile il contributo della massa, e il
fascismo dalla massa scelse il suo più autentico protagonista, invocando il soldato senza
qualità. Come in guerra la sua capacità di adattarsi ai tempi della trincea, la sua inerzia,
la sua passività ne favorirono la riduzione ad anonima componente del meccanismo bellico, così nella “nuova Italia” quelle stesse caratteristiche che resero eroiche le imprese
del soldato senza qualità venivano richieste come requisiti del cittadino soldato, pronto
ad essere mobilitato ancora una volta e ad essere incorporato nei meccanismi dello Stato
nuovo. C’è chi, a tal proposito, ha parlato di «catastrofe del soggetto», ponendo la guerra
come punto di svolta: «col suo impasto di massificazione e tecnicizzazione del massacro,
con la sua assoluta programmabilità, con il cieco scatenarsi delle dinamiche sistemiche
ingovernabili da qualsiasi volontà umana individuale, essa costituiva l’esempio più clamoroso – e inedito – di evento privo di soggetto» (M. Revelli, Storia e scienze sociali, in
“Movimento operaio e socialista”, n. -, a. X, , pp. -). Una simile esperienza,
rintracciabile nel patrimonio mentale della gente comune, procedeva nella stessa direzione
di quella ingestibile espropriazione del tempo e della vita – avvenuta durante il conflitto
– che il fascismo impugnò e accuratamente gestì in funzione del controllo delle masse, ben
consapevole dell’attitudine degli individui – nei momenti di crisi – a plasmare il proprio
modo di agire e di pensare verso modelli suggeriti dall’esterno. In questo ambito viene in
soccorso la psicologia sociale, secondo la quale, nella dialettica tra individuo e gruppo,
tende a prevalere «il conformismo piuttosto che l’indipendenza» (P. G. Zunino, L’ideologia
del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del Regime, il Mulino, Bologna
, p. ) secondo un’insaziabile sete di armonia per cui sarebbe preferibile «sbagliare
con gli altri piuttosto che avere ragione da soli» (G. De Montmollin, L’influence sociale,
Presse Universitaires de France, Paris ).
.  aprile , D’Annunzio a Mussolini, in De Felice, Mariano (a cura di), Carteggio
D’Annunzio-Mussolini, cit., p. .
. Ad esempio, in entrambi si puntualizza la reazione dell’opinione pubblica alla
vicenda Matteotti o, in occasione della guerra di Spagna, vengono proposte le immagini
delle manifestazioni antifasciste a Parigi accanto alle foto di Rosselli.
. M. Dondi, Piazzale Loreto, in Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria, cit.,
pp. -.
. H. Pirenne, La tache de l’historien, in “Le Flambeau”, XIV, , , p. , citato
anche in C. Violante, La fine della grande illusione. Uno storico europeo tra guerra e dopoguerra, Henri Pirenne (-). Per una rilettura dell’Histoire de l’Europe, il Mulino,
Bologna .
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ANTONIA LIGUORI
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