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Alimentazione complementare
istruzioni per l’uso
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Solido, cremoso, schiacciato, frullato, freddo, caldo, buono,
cattivo… sicuramente diverso dal latte di mamma. Nella vita di
ogni bambino arriva il momento di scoprire il nuovo mondo del
cibo. I grandi lo chiamano svezzamento e più che un momento
è un percorso, che può durare mesi.
Per capire meglio che cosa rappresenti lo svezzamento per il
lattante e la sua famiglia, ma anche per la società, la medicina e
il mercato, ne abbiamo discusso con Dante Baronciani (medico
con specializzazione in pediatria preventiva e sociale a indirizzo
neonatologico), Carla Barzanò (esperta di educazione alimentare), Gioachino Legnante (ex primario di pediatria, attualmente
esercita la libera professione a Pavia) e Silvia Scaglioni (pediatra,
ricercatrice presso la Clinica pediatrica dell’ospedale San Paolo,
Università di Milano, conduce ricerche cliniche ed epidemiologiche sulle abitudini nutrizionali in età pediatrica e i fattori di
rischio per l’obesità).
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Slowfood
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«Con il termine divezzamento o svezzamento o weaning» spiega
Silvia Scaglioni «si indica il passaggio per il lattante dall’alimentazione esclusiva con latte materno o in formula all’assunzione
di alimenti solidi e liquidi diversi dal latte. Le strategie di divezzamento nel mondo sono differenti, dettate da tradizione,
cultura e disponibilità di alimenti. La funzione del divezzamento
è quella di integrare i fabbisogni nutrizionali del lattante nel
secondo semestre di vita. Dopo il sesto mese, infatti, l’alimentazione esclusiva con latte materno può determinare un rallentamento della curva di crescita e non è più sufficiente a soddisfare
adeguatamente i fabbisogni del lattante per quanto riguarda
ferro, zinco, proteine e vitamine. Al sesto mese, inoltre, il bambino ha uno sviluppo psicomotorio e immunitario adeguati per
l’inizio di un’alimentazione con cibi diversi dal latte. L’assunzione di latte materno o adattato dopo i sei mesi deve però
continuare a rappresentare la base dell’alimentazione con una
Per le foto di queste pagine si ringrazia Il Girotondo
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Nella Strategia globale
per l’alimentazione dei neonati
e dei bambini, messa a punto da Oms
e Unicef e approvata nel 2002,
si consigliano «largo impiego
di alimenti non importati», «alimenti
complementari a basso costo,
utilizzando ingredienti disponibili
sul posto e trattati con tecnologie
di piccola scala a livello di comunità»,
«cibi locali»
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Colloquio con Dante Baronciani,
Carla Barzanò, Gioachino Legnante, Silvia Scaglioni
a cura di Simona Luparia
Foto Marcello Marengo
quantità non inferiore a 500 ml al giorno, ma non è più sufficiente da sola ad assicurare tutti i fabbisogni. Il comitato di nutrizione dell’Espghan (European Society for Paediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition, www.espghan.med.up.pt)
ha pubblicato nel dicembre 2007 un documento in cui fornisce
direttive per i paesi europei. Gli autori consigliano di svezzare
non prima della 17a settimana e non dopo la 26a. Le Linee guida
per l’alimentazione complementare del lattante allattato al seno
formulate dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2003 (p.
66) suggeriscono di iniziare il divezzamento, per il bambino allattato con latte materno, al sesto mese di vita, raccomandando
la prosecuzione dell’allattamento al seno». Utilizzano, le Linee,
una terminologia diversa per fare riferimento allo svezzamento:
parlano di alimentazione complementare, definita come il passaggio dall’allattamento al seno esclusivo ai cibi familiari che
copre il periodo dai 6 ai 18-24 mesi di età del bambino. Etimo-
logicamente un bel salto: dal “togliere il vezzo” (del succhiare
al seno) all’affiancarsi al latte materno di altri cibi, per rendere
complete le sostanze nutritive fornite dal latte stesso. Cambia,
allora, la prospettiva con cui guardare a una fase cruciale della
vita di un bimbo e della sua famiglia, fase che può rivelarsi anche molto critica, come molti genitori ben sanno. Non si tratta
più di interrompere, ma di cominciare a proporre anche qualcosa di diverso. Limitare tale passaggio a un atto puramente
nutrizionale, però, lo spoglierebbe di importanti valenze. Avere
a che fare con un nuovo tipo di alimentazione rappresenta infatti
un’essenziale tappa nella crescita del bambino, una “spinta” nel
suo cammino verso l’autonomia.
Alimentarsi con cibo solido significa lasciare – man mano – la
mamma e non si esaurisce in un esercizio di deglutizione: ci vogliono nuove competenze neuromuscolari e di espressione per
far capire la fame, la sazietà e il piacere prodotto da un certo
aprile 2008
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Henri & C.
Il procedimento per conservare il latte vaccino prodotto in eccesso fu inventato dall’industria chimica tedesca nella seconda metà dell’Ottocento: lo si trasformava in latte in polvere,
che all’inizio era utilizzato soltanto come integratore dei mangimi per vacche. Fra il 1860 e il 1870 si pensò di utilizzarlo
per i bambini e fu in quegli anni che furono messe a punto le
farine lattee: Henri Nestlé usò la sua prima farina lattea per
un neonato prematuro per il quale non era disponibile latte
materno e la brevettò nel 1867. Nel giro di pochi anni il prodotto si diffuse in tutta Europa, poi in Australia, nell’America
del Sud, in Messico e in Indonesia. Agli inizi del Novecento, a
partire dalla stessa materia prima, si misero invece a punto le
formule lattee.
Insieme al nuovo secolo si affacciò l’industria: nel 1901 in
Olanda nacque la Nutricia che produceva inizialmente latte in
polvere, l’anno successivo fu la volta della Plasmon che lanciò sul mercato italiano l’omonimo, «nuovissimo» concentrato
proteico. Negli stessi anni si sviluppò la Mellin. Stava per chiudersi il 1928, quando comparvero le lattine dei passati di piselli, carote e spinaci e della zuppa di manzo e verdure dell’americana Gerber. Nel 1930 Emil Pauly, un noto produttore di fette
biscottate tedesco, fondò la Milupa-Pauly e cinque anni più
tardi era pronto per il pubblico il Paulys Nährspeise (alimento
nutritivo). Lo svezzamento come pratica si stava diffondendo
e si registrava un relativo abbandono dell’allattamento al seno.
Si stava anche sviluppando l’idea di un’alimentazione specifica per l’infanzia. Negli stessi anni, i medici operanti nei paesi
poveri iniziarono a lanciare i loro allarmi sulle conseguenze
mortali dell’abbandono dell’allattamento materno.
Nel nostro paese, la politica demografica fascista certo contribuì alla diffusione di cibi che potevano aiutare le donne ad
avere e accudire più figli.
Durante la seconda guerra mondiale, a partire dal 1943, il governo britannico produsse e distribuì quasi gratuitamente latte
in polvere per “liberare” le donne dall’incombenza dell’allattamento e farle partecipare allo sforzo bellico (la Gran Bretagna
è ancora oggi uno dei paesi europei con i più bassi tassi di
allattamento al seno…). Il baby boom della fine degli anni Cinquanta fece il resto: diffusione di massa del latte in polvere, e,
nel giro di pochi anni, comparsa di omogeneizzati (nel 1961
quelli della Plasmon) e liofilizzati.
cibo. Nuovi comportamenti che i genitori devono imparare a
osservare, ascoltare e ai quali devono rispondere in modo adeguato. Si stabilisce in questi mesi un rapporto tra bambino e
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adulti che favorisce lo sviluppo di componenti psicologiche e
relazionali nel piccolo, ma anche nei grandi. «In un certo senso è
uno svezzamento, una formazione, anche per la mamma» spiega Carla Barzanò «la quale non basta più a suo figlio, ma deve
continuare a comunicargli affetto, attenzione, cura, attraverso
azioni e offerte diverse. Scegliere i primi cibi del bimbo significa
iniziare a trasmettere la cultura alimentare del mondo familiare
con un linguaggio semplificato perché gli ingredienti sono pochi. È un inizio graduale, poiché non servono piatti complessi,
ma intanto si mettono a fuoco le procedure riguardanti la selezione e la preparazione dei cibi, le fonti di approvvigionamento,
inizia a porsi il problema della qualità – legata in questo caso
in particolare a sicurezza, origine e stagionalità – che magari i genitori non hanno affrontato con molta attenzione fino a
quel momento. Può essere l’occasione buona per cominciare,
per orientare la dieta di tutta la famiglia in modo più sano, non
è detto che la qualità debba riservarsi al piccolo di casa. Lungi
dal colpevolizzare i genitori che non hanno tempo per dedicarsi
alla preparazione delle prime pappe, si può piuttosto invitarli a
riflettere sul fatto che la pappa, in ogni caso, non si fa da sola,
e che il tempo comunque impiegato si può almeno riempire di
ingredienti e procedure il più possibile vari».
Non sempre chi si occupa della salute dei più piccoli riesce invece a considerare lo svezzamento per ciò che veramente rappresenta e implica nella vita del bambino, a capire l’incidenza sulla
futura persona che possono avere l’esercizio del gusto e più
in generale la sperimentazione sensoriale legata al cibo. «Sono
mesi fondamentali nella formazione del gusto» sostiene Legnante «e bastano per rovinare o mettere a rischio un percorso futuro: quante esperienze funzionali possono essere inibite da una
scelta alimentare ridotta, povera di stimoli, anche per un periodo così breve. Perfino le carie dipendono da mancate esperienze
funzionali – i bambini non sono più abituati a masticare – forse
più che da un eccessivo consumo di zucchero». «È ormai risaputo che le percezioni provenienti dagli stimoli sensoriali, presenti
già nella vita intrauterina, rappresentano il punto di passaggio
obbligato per lo sviluppo del sistema nervoso, delle emozioni e
della coscienza. Quanto più sono vari gli stimoli, tanto più ampio
risulterà l’universo sensoriale dei bambini» aggiunge Barzanò.
Le tendenze della pappa
È difficile tracciare una storia dello svezzamento, ma proviamo
a individuarne l’evoluzione nei suoi anni cruciali con Gioachino
Legnante. «Lo svezzamento nacque negli anni Sessanta come
pratica codificata perché è in tale periodo che si moltiplicarono
le cattedre di puericultura che si diedero fra i compiti quello di
codificare e irrigidire la disciplina e monopolizzare la norma.
Certo la cosa ebbe dei vantaggi: i bambini potevano finalmente
godere di un’alimentazione più ricca, ma ciò accadeva anche
perché le condizioni economiche erano in generale migliorate. Il ramo della disciplina si ipertrofizzò e con esso il mercato.
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«La pediatria è stata troppo sollecita
nel criticare le usanze delle nonne,
la tradizione. Ha preteso di instaurare
norme assolute, con un atteggiamento
più pressorio che consapevole.
E le norme le ha stabilite in base
a quei parametri che erano più
facilmente misurabili, tralasciandone
però molti altri. L’ideologia alla fine è
quella dell’omogeneizzato»
Poco più tardi si iniziò ad anticipare sempre di più l’età dello
svezzamento con quel ricorso all’industria che contemporaneamente interessava tutti gli ambiti della vita adulta, compreso
quello alimentare. Entro la fine del decennio gli omogeneizzati
divennero una pietra miliare dell’alimentazione infantile. Intanto,
però, si cominciava a capire che a causa dell’anticipazione del
divezzamento erano aumentate le allergie alimentari. La mucosa intestinale dei bambini così piccoli era incapace di selezionare e filtrare le molecole proteiche, il che rendeva anche più
pericolose le reazioni allergiche. Per tutti gli anni Settanta lo
svezzamento al terzo mese fu pratica abituale, intesa, fra l’altro,
come sostitutiva, molto lontana dall’idea di complementarietà.
Nei decenni successivi si tornò a ritardare, inizialmente almeno
fino al quarto mese, per arrivare al sesto mese purtroppo solo
ai giorni nostri».
In controtendenza con quanto avvenuto nel secolo scorso, ormai
da qualche tempo Organizzazione mondiale della sanità, Unione Europea e società pediatriche promuovono un’alimentazione
complementare il più possibile semplificata e composta di cibi
familiari. L’opuscolo del Ministero della Salute Quando nasce un
bambino consegnato già un paio d’anni fa alle madri dimesse
dall’ospedale dopo il parto, dice espressamente che «la maggiore novità negli orientamenti pediatrici in campo nutrizionale per
il primo anno di vita è proprio quella di una generale semplificazione, tralasciando l’apporto matematico nell’indicazione della
dieta infantile e considerando il latte materno come il riferimento
nutrizionale centrale e ideale. L’ordine con cui gli alimenti semisolidi e solidi sono introdotti nella fase dello svezzamento non
riveste più l’importanza che un tempo veniva attribuita e può
variare in base alla preferenza del bambino e alla cultura gastronomica della famiglia e del pediatra che fornisce i consigli».
Anche le raccomandazioni dell’American Academy of Pediatrics
non danno indicazioni dettagliate, invitando piuttosto a porre
attenzione al grado di sviluppo del bambino: potrà ampliare la
sua dieta quando sarà capace di stare seduto senza aiuto, avrà
perso il riflesso di estrusione che gli fa spingere con la lingua il
cucchiaio fuori dalla bocca, dimostrerà interesse per il cibo degli
adulti e saprà mostrare di avere fame ed essere sazio. Lo stesso
vale per le Linee guida dell’Oms riassunte da Silvia Scaglioni a
p. 66. Persino nelle più particolareggiate Raccomandazioni stanaprile 2008
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Foto D. Ghirardi
Il menù dell’Oms…
dard per l’Unione Europea (p. 71), il periodo di inserimento di
un alimento può estendersi dal 7° al 12° mese.
Qual è la ragione di tanta cautela? Il fatto è che l’indicazione
sull’introduzione dei diversi alimenti si è dimostrata negli anni
estremamente variabile e, soprattutto, in nessuna sua declinazione validata dalla letteratura scientifica. Lo conferma Baronciani: «Non vi sono studi seri sul rapporto tra le diverse modalità
di svezzamento e le rispettive ricadute sul piano nutrizionale e
psicologico. Non si fanno ricerche perché la questione non interessa e perché la multifattorialità che un simile lavoro dovrebbe tenere presente lo renderebbe estremamente complesso. Gli
studi, anche i più recenti, si indirizzano perlopiù al ruolo di singoli componenti dell’alimentazione», in particolare allergeni o
cibi fortificati.
La questione non interessa, forse, prima di tutto i produttori di
cibi per l’infanzia industriali, finanziatori di buona parte delle
ricerche che riguardano l’alimentazione infantile, che di conseguenza privilegiano ambiti più circoscritti quali i benefici di un
latte di proseguimento arricchito con ferro o vitamina D piuttosto che l’importanza di una dieta il più varia possibile quanto a
densità, consistenza, ingredienti, sapori eccetera. Una dieta che
può tranquillamente non contemplare gli omogeneizzati.
L’alternativa si ribalta
Sarebbe molto riduttivo limitare una riflessione sullo svezzamento al dibattito omogeneizzato sì o no, ma nemmeno si può
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Le Linee guida per l’alimentazione complementare del lattante allattato al seno sono state formulate dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2003. Riassumono le evidenze
scientifiche nel campo dell’alimentazione complementare e
dovrebbero indirizzare politiche e azioni programmatiche a livello mondiale, nazionale e comunitario. Eccone una sintesi.
Allattamento materno esclusivo dalla nascita ai 6 mesi di età
e introduzione di alimenti al sesto mese con prosecuzione dell’allattamento materno.
Allattamento materno a richiesta, senza un’età limite definita.
Responsive feeding
–
nutrire il lattante directly ed essere presenti al pasto dei
bambini più grandi, facendo attenzione alle loro sensazioni di sazietà e fame;
–
nutrire con lentezza senza forzare;
–
se il bambino rifiuta molti alimenti, riprovare con diverse
combinazioni, sapori e metodi di incoraggiamento;
–
ridurre le occasioni di distrazione durante il pasto;
–
il pasto è un’occasione di apprendimento e di contatto
d’amore con lo sguardo.
Preparazione e conservazione degli alimenti: norme generali
di igiene personale e raccomandazione di servire il pasto subito dopo la preparazione.
Iniziare con piccole quantità.
Aumentare gradualmente la consistenza e la varietà adattandola alle richieste e capacità del lattante.
Frequenza dei pasti con alimenti diversi dal latte: l’appropriato numero di pasti dipende dalla densità energetica degli alimenti a disposizione.
Scegliere una varietà di alimenti per lo svezzamento che consenta di coprire i fabbisogni nutrizionali. Provvedere diete con
adeguato contenuto di lipidi. Fornire quotidianamente o carne
o pollame o pesce o uova e frutta e vegetali ricchi di vitamina
A. Si sconsiglia l’uso di bevande a basso valore nutrizionale
quali tè e bevande zuccherate. Limitare l’uso di succhi.
Vitamine e supplementazione con minerali o alimenti fortificati per mamma e bambino sono da valutare in rapporto alle
necessità.
Alimentazione durante e dopo la malattia: aumentare l’apporto di liquidi in corso di malattia, incluso l’aumento di frequenza
dei pasti al seno incoraggiando il bambino a mangiare.
A cura di Silvia Scaglioni
prescindere dal tema vasetto. Se è stato semplicissimo reperire
un’ampia comunicazione che ne illustrasse la sicurezza, l’igienicità, l’equilibrio nutrizionale eccetera, sembrava invece molto
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… e dell’Europa
Ai bambini che abbiano compiuto i sei mesi, secondo le Raccomandazioni standard per l’Unione Europea si può offrire
un’ampia gamma di cibi ad alto valore nutritivo. Eccone alcuni
esempi:
7-12 mesi: latte materno (che dovrebbe rimanere la fonte primaria di nutrienti per tutto il primo anno) più carne cotta e tritata; verdura e frutta cotta in purea o tagliata a pezzetti (per
esempio banana, melone, pomodoro); cereali (per esempio
grano e avena) e pane;
12-24 mesi: latte materno più qualsiasi cosa si mangi in famiglia, ammesso che la dieta familiare sia sana e bilanciata.
Gli autori sottolineano pure che svolge un ruolo fondamentale
il modo in cui chi si prende cura del bambino facilita i pasti e
incoraggia a mangiare.
più complicato raccogliere le opinioni e le ragioni di chi sceglie
altre vie per avvicinare i bambini al nuovo cibo. Pensavamo di
doverci confrontare con una linea, una scuola in qualche modo
alternativa; di dover cercare libri che raccontassero le esperienze di intrepidi genitori votati alla causa del cibo fatto in casa,
ché un manuale non c’era speranza di trovarlo. Invece è bastato
leggere la Strategia globale per l’alimentazione dei neonati e dei
bambini, messa a punto da Oms e Unicef e approvata nel 2002,
in cui si consigliano «largo impiego di alimenti non importati»,
«alimenti complementari a basso costo, utilizzando ingredienti
disponibili sul posto e trattati con tecnologie di piccola scala a
livello di comunità», «cibi locali». Quanto agli «alimenti prodotti
dalle industrie di trasformazione», «chi ne ha i mezzi e sa utilizzarli correttamente può sceglierli». Un’opzione per alcune madri
– meglio, forse, famiglie – che possono permetterselo. Ribaltata
la prospettiva: è la scelta dell’industriale che diventa un’alternativa, impossibile per almeno due terzi dei bambini del pianeta,
perché troppo onerosa, possibile dove le risorse economiche
lo permettono. Con il dubbio che sia migliore, visto che è per
privilegiati. Dubbio sciolto da due passaggi lapidari delle Raccomandazioni standard per l’Unione Europea: non solo «l’uso
di alimenti complementari di origine industriale può ritardare
l’accettazione della dieta familiare e costituisce un onere non
necessario per il bilancio familiare» ma soprattutto «i cibi di produzione industriale per l’infanzia sono in voga tra i genitori perché sono rapidi, facili e pratici da usare. Questi vantaggi devono
essere bilanciati contro i costi relativi, che possono essere proibitivi per le famiglie di basso reddito. Inoltre non offrono vantaggi nutrizionali sui cibi familiari ben preparati, eccetto quando
vi è un bisogno specifico di fortificazione con micronutrienti. Se
si decide di usare alimenti industriali, è necessario in ogni caso
dare al bambino cibi familiari preparati in casa, per abituarlo a
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una più vasta gamma di sapori e consistenze».
Ce n’è abbastanza perché spariscano le rigide ricette per brodini
e prime pappe che la maggioranza dei pediatri, non solo italiani,
fornisce al momento dello svezzamento? Pensate probabilmente
come uno strumento in grado di aiutare la famiglia nella preparazione dei primi pasti del bimbo, si sono di fatto trasformate in
testi sacri, anche con la complicità di madri e padri, che hanno
scelto di non scegliere e di affidarsi. Di farsi, passivamente o
addirittura con sollievo, espropriare di responsabilità e competenze rispetto a un ambito che non è detto il medico conosca
meglio di loro o abbia studiato in maniera approfondita. Secondo Baronciani «non c’è una corrente o scuola di pediatri che si
riconosce in una proposta alimentare, non se ne parla quasi ai
convegni. Si discute al limite di cosa mangiare ma non di come:
l’importanza del momento comunitario, l’abitudine a stimolare
ed educare il gusto, l’evitare di giocare con il cibo ovvero “se
mangi ti compro…”. Alla fine ogni pediatra tende a prescrivere
ciò che mangia. Credo che nei fatti prevalga un aspetto prescrittivo che espropria i genitori delle loro competenze».
Troppo spesso si assiste a questo passaggio – quando non vera e
propria sottrazione – di competenze dalle donne agli “esperti”.
È un fenomeno che rientra nel processo di medicalizzazione e
industrializzazione della gravidanza e del parto, da cui è conseguita la convinzione che la madre, ma forse addirittura la famiglia, non possiede, da sola, le capacità di accudire un figlio. Ma
insistere sulle incompetenze dei genitori è il più grosso favore
che si possa fare a tutto il mondo produttivo legato all’infanzia:
si inizia con la camicia da notte per il parto e si finisce con i caschetti di cuoio che i figli di americani à la page hanno dovuto
indossare – in culla! – per evitare l’appiattimento della nuca.
Quanti messaggi pubblicitari recitano, più o meno esplicitamente, «al tuo bambino ci pensa…»?. Sottinteso: perché tu, mamma
o genitore, non ne sei in grado.
Tornando alla questione alimentare, il dottor Legnante conferma
l’impressione che la pediatria non l’abbia mai affrontata con la
giusta attenzione e nella sua interezza, «per prepotenza, una
specie di necessità normativa. La pediatria è stata troppo sollecita nel criticare le usanze delle nonne, la tradizione. Ha preteso
di instaurare norme assolute, con un atteggiamento più pressorio che consapevole. E le norme le ha stabilite in base a quei
parametri che erano più facilmente misurabili, tralasciandone
però molti altri. L’ideologia alla fine è quella dell’omogeneizzato, che urta contro l’esperienza, la logica, il buon senso. È
un’omologazione uguale a tutte le altre. Con omogeneizzati e
prodotti industriali il gusto dei piccoli si modifica a tal punto che
questi non gradiscono più cibi naturalmente dolci quali miele,
marmellata, frutta. Persino pane e olio non mangiano più. Si sta
rivivendo la situazione degli anni Sessanta-Settanta, quando l’industria riuscì a imporre il latte artificiale».
Ci sono poi voluti 30 anni per accorgersi che non era stata una
grande idea. .
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