Copertina_1:Copertina_1 11/12/08 19:34 Pagina 1 CAMPANELLA IL NOVELLINO POLIZIANO MACHIAVELLI LORENZO DE’ MEDICI RUZANTE BRUNO TASSO CAMPANELLA GALILEI ARETINO Editori Laterza CELLINI ARIOSTO CELLINI ARETINO BRUNO IL NOVELLINO Origini_Seicento LEONARDO DA VINCI LORENZO DE’ MEDICI ARIOSTO MARCO SANTAGATA | LAURA CAROTTI | ALBERTO CASADEI | MIRKO TAVONI MARINO MACHIAVELLI BOCCACCIO BOCCACCIO CAVALCANTI POLIZIANO MARCO SANTAGATA | LAURA CAROTTI | ALBERTO CASADEI | MIRKO TAVONI MARINO RUZANTE LEONARDO DA VINCI GALILEI Editori Laterza I TRE LIBRI DI LETTERATURA Origini_Seicento CAVALCANTI DANTE i tre libri letteratura diDANTE TASSO PETRARCA PETRARCA Tre volumi non vendibili separatamente Progettazione e produzione di testi scolastici secondo il Sistema di gestione qualità ISO 9001:2000 1 Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 432 11 Le coordinate storiche e culturali TENDENZA ALL’AGGREGAZIONE POLITICA E STATALE Stati nazionali in Francia, Spagna, Inghilterra Stati regionali in Italia Ducato di Milano (prima Visconti, poi Sforza) Repubblica di Venezia (oligarchia mercantile) Repubblica di Firenze (oligarchia mercantile, poi potere effettivo dei Medici) in lotta per il predominio sull’Italia centro-settentrionale trattato di Lodi: inizia periodo di equilibrio e pace (1454) Este a Ferrara Gonzaga a Mantova Montefeltro a Urbino discesa di Carlo VIII di Francia: rottura dell’equilibrio (1494) Patrimonio di San Pietro Regno di Napoli (dagli Angioini agli Aragonesi) Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 433 433 11. Le coordinate storiche e culturali Le coordinate storiche 1 La situazione europea Il tratto saliente della storia europea del XV secolo è la tendenza all’aggregazione politica e statale. Tra la fine del Trecento e per tutto il Quattrocento i regimi monarchici formatisi nei secoli precedenti in Francia, Inghilterra e Spagna si rafforzano e cominciano ad acquisire la fisionomia di Stati nazionali. Li caratterizzano un territorio definito e unitario, il consolidamento del potere regio e la creazione di strutture centralizzate di governo, amministrazione e difesa. In Italia e in Germania, paesi formalmente sottoposti all’autorità imperiale, le spinte Guida allo studio unitarie non possono dare vita a Stati nazionali, ma 1. Qual è il tratto peculiare della storia europea del Quattrocento? 2. Quali paesi europei possono essere defini- si esplicano nella formazione di entità statali di ambiti Stati nazionali? 3. In che modo differiscono le sorti to regionale e perciò di dimensioni territoriali mediadell’Italia e della Germania dal resto dell’Europa? mente superiori a quelle delle signorie trecentesche. Paolo Uccello, La battaglia di San Romano, 1456 ca. [Uffizi, Firenze] Il dipinto di Paolo Uccello (1397-1475) fa parte di un ciclo di tre tele dedicate alla battaglia di San Romano, uno scontro avvenuto il 1° giugno del 1432 tra fiorentini e senesi, al termine del quale i primi posero definitivamente sotto la propria influenza il Castello di Montopoli (un piccolo borgo in Val d’Arno, oggi in provincia di Pisa). Nella tavola degli Uffizi sono fissati il momento più intenso dello scontro e la sua conclusione: sulla sinistra i fiorentini con lance in resta atterrano i nemici; al centro Niccolò da Tolentino (capitano dei fiorentini) disarciona Bernardino della Ciarda (capitano dei senesi); a destra i senesi in fuga; in aperta campagna, in secondo piano, una squadra di fanti esce allo scoperto per inseguire i nemici che si stanno ritirando. La battaglia di San Romano, forse l’unico episodio degno di nota in una guerra altrimenti povera di successi per i fiorentini, fu un soggetto commissionato a Paolo Uccello da Cosimo il Vecchio, che volle così celebrare il prestigio politico acquisito con il finanziamento dell’impresa. Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 434 434 Quattrocento 2 La situazione italiana nella prima metà del secolo Il panorama politico dell’Italia nella prima metà del Quattrocento non diverge sostanzialmente da quello della seconda metà del secolo precedente. Nella Valle Padana, in Romagna e nelle Marche è presente un sistema di principati e signorie. Per peso politico e dimensione territoriale spicca il Ducato di Milano dei Visconti, ma vanno ricordati anche il Marchesato degli Este a Ferrara, la Contea dei Gonzaga a Mantova e le Signorie dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro a Urbino. Principati e signorie sono governati da famiglie che si tramandano il potere per via dinastica e che si appoggiano al “patriziato” locale, cioè al blocco sociale composto dalla parte più ricca della borghesia mercantile e da una parte dell’antica nobiltà feudale. Nell’Italia settentrionale l’altro Stato eminente è quello della Repubblica di Venezia, che ha esteso il suo dominio su gran parte del Veneto. Venezia non è retta da ordinamenti di tipo signorile, ma è anch’essa dominata da una potente oligarchia economica. Analoga è la situazione di Firenze, a lungo in guerra con il Ducato di Milano e con la Repubblica di Venezia per il predominio nell’Italia centro-settentrionale. Con Milano, Firenze e Venezia siamo già in presenza di Stati tendenzialmente regionali o addirittura sovraregionali. La spinta all’aggregazione fino alla metà del secolo non interessa ancora l’insieme di piccoli territori e di città-Stato, di fatto autonomi, in cui è frammentato il cosiddetto Patrimonio di San Pietro, germe del futuro Stato del- IL PUNTO SU... L’architettura Filippo Brunelleschi, Sagrestia Vecchia, interno e particolare delle cupole, 1422-28 ca. [Basilica di S. Lorenzo, Firenze] Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 435 435 11. Le coordinate storiche e culturali la Chiesa. L’Italia meridionale mantiene la sua natura di Regno, con Napoli come capitale, e una forte impronta feudale. Cambia, però, la dinastia al potere, perché, dopo un lungo periodo di crisi e di decadenza, nel 1442 agli Angioini subentrano gli Aragonesi. Sono gli Stati che abbiamo nominato a determinare in gran parte gli equilibri politici della penisola nel Quattrocento, in modo particolare dopo che, verso la metà del secolo, alla fine di un lungo periodo di guerre espansionistiche, hanno raggiunto un assetto equilibrato che ha consentito un lungo periodo di pace. Guida allo studio 1. Su cosa fondano il proprio potere le famiglie che governano principati e signorie? 2. Che tipo di governo vige a Venezia? 3. Possiamo considerare Firenze una signoria? 4. Quale situazione politica caratterizza nella prima metà del Quattrocento l’Italia meridionale? 3 La seconda metà del secolo: la svolta del 1454 Il 9 aprile 1454, dopo oltre vent’anni di guerre, i maggiori Stati italiani firmarono il trattato di Lodi (passato alla storia come “pace di Lodi”): promotori dell’iniziativa furono Mila- Già sul finire del Trecento si avvertono in Toscana i primi segni di un rinnovamento stilistico che matura appieno nei primi decenni del secolo successivo, in particolare a Firenze, dando avvio a quella straordinaria fioritura delle arti definita Rinascimento. Da Firenze, poi, le novità del nuovo stile si diffondono progressivamente nelle altre città italiane, con esiti molto diversi, anche in considerazione delle differenti situazioni politiche e culturali locali e delle diverse tradizioni artistiche. La coscienza di una “rinascita” investe sia gli studi filosofico-letterari, sia le arti figurative e l’architettura. Proprio come i letterati e gli storici, anche gli architetti, i pittori e gli scultori si dedicano allo studio delle opere e dei monumenti antichi. Al rinnovato interesse per il mondo classico si accompagna un intenso sviluppo dell’interesse scientifico. L’approfondimento della teoria delle proporzioni (la ricerca di una cor- rispondenza di misura fra due o più parti in stretta relazione fra di loro) e l’elaborazione del metodo della prospettiva [uil punto su, p. 449] sono le basi tecniche sulle quali poggia la rivoluzione del linguaggio artistico, rivoluzione nella quale l’architettura svolge un ruolo di primaria importanza. Gli architetti medievali costruivano gli edifici basandosi sull’esperienza tramandata dai maestri precedenti, senza un fondamento teorico preciso. Nell’architettura del Rinascimento, invece, l’ideazione, il disegno del progetto, la definizione della struttura dell’edificio costituiscono la fase più importante della costruzione. Artefice del rinnovamento in architettura, e non solo, è Filippo Brunelleschi (1377-1446), al quale si deve la codifica di un linguaggio architettonico fondato sull’impiego di forme geometriche semplici, sullo studio delle proporzioni che devono determinare i rapporti fra le parti, sulla ripresa della sintassi classica basata sull’ordine architettonico e sull’arco a tutto sesto. Un linguaggio a cui faranno riferimento tutti i successivi architetti rinascimentali. Fra i numerosi edifici progettati dall’architetto fiorentino, la Sagrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze esemplifica bene il suo stile. Lo spazio interno è un ambiente pressoché cubico, coperto con una cupola a ombrello, da cui si accede a una piccola àbside, che riproduce in scala minore le forme e le decorazioni del vano più grande. Esso è strutturato su un sistema metrico proporzionale che ripete, ricorrendo a multipli di 2, una misura base che determina tutto lo sviluppo dell’edificio. Agli elementi plastici delle pareti in pietra serena (grigia) – paraste, trabeazioni e archi a tutto sesto desunti dall’architettura romana – è affidato il compito di evidenziare la semplicità e il rigore geometrico dello spazio dominato dalle figure del quadrato e del cerchio. Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 436 436 Quattrocento La scultura Donatello, San Giorgio e San Giorgio e il drago (rilievo del basamento), 1416-20 [Museo Nazionale del Bargello, Firenze] IL PUNTO SU... Nell’opera di rinnovamento avvenuta nell’arte nel corso del Quattrocento anche la scultura svolge una parte di primo piano. Proseguendo un processo intrapreso già nel Trecento, la scultura riacquista un valore autonomo, svincolato dalla funzione decorativa e simbolica dell’edificio. Lo studio dei monumenti antichi porta a una migliore comprensione, e quin- di a una migliore resa, della figura umana, delle sue giuste proporzioni, della sua anatomia, della sua posizione nello spazio. Ne risulta un’arte maggiormente naturalistica, più simile al vero. Il primo artista a superare le maniere del Gotico riallacciandosi alla tradizione scultorea greco-romana fu Donatello (1386-1466), che, insieme a Brunelleschi e Masaccio, può dirsi il fondatore dell’arte rinascimentale e che, fin dalle prime opere, esprime tutte le novità del nuovo linguaggio figurativo. Il San Giorgio, realizzato nel 1416 da Donatello per una nicchia esterna della chiesa fiorentina di Orsanmichele, pur conservando un gusto ancora gotico nel sinuoso panneggio del mantello, mostra appieno la capacità dell’autore di infondere ai suoi personaggi un’umanità e una dignità tutta rinascimentale. Il santo esprime orgoglio e fermezza: il volto è sereno e consapevole, lo sguardo fissa un punto lontano; il corpo, composto entro schemi geometrici ben definiti, è un solido ben piantato grazie alle gambe leggermente divaricate e allo scudo che serve da punto di appoggio; i piedi, il destro di poco arretrato rispetto al sinistro, e una leggera torsione del busto suggeriscono il movimento appena compiuto per assumere la postura nonché l’idea dello spazio circostante. Nel basamento della statua Donatello raffigura San Giorgio e il drago mostrando di aver appreso appieno la tecnica brunelleschiana della rappresentazione prospettica [u11.9]. L’episodio, infatti, è inserito in un paesaggio costruito con una prospettiva digradante verso il fondo. Sulla destra, dietro la principessa, il portico classico-rinascimentale, da un lato, evidenzia le linee prospettiche che corrono verso il punto di fuga posto in alto al centro della lastra, alle spalle del santo guerriero, dall’altro, introduce il passaggio dai personaggi in bassorilievo alle forme del paesaggio appena percepibile sullo sfondo. Colto questa volta in movimento, l’eroe è ancora ritratto naturalisticamente, nel pieno della lotta contro il drago, con il mantello svolazzante e il piede sinistro che serra la pancia del cavallo per evitare di essere disarcionato. Santagata_11:11 29/12/08 11:38 Pagina 437 437 11. Le coordinate storiche e culturali Il quadro politico italiano intorno al 1454 CONFEDERAZIONE SVIZZERA B I L DUCATO DI N C. NA DI FERRARA D P. GenovaOV DUODE M Firenze A REP. DI LUCC REP. DI FIRENZE STATO Siena DELLA REP. DI CHIESA SIENA ELBA CORSICA (a Genova) Roma C A D A RE DOMINIO ASBURGICO B SALUZZO Venezia U CH. MAR I ASTI D RRATO FE N O MARCH. DI M I GE P R E NO I LA DI M TO CA Milano MA MA RCH. NT DI OV A DU DUCATO DI SAVOIA Torino I V EN E Z I A M AR AD IMPERO OTTOMANO RI AT I CO Benevento (Stato pont.) Napoli SARDEGNA (alla Spagna) MAR TIRRENO REGNO DI NAPOLI MAR IONIO Palermo REGNO DI SICILIA no e Venezia, ai quali si unirono poi il Papato, Firenze e Napoli. Nasceva così la “Lega italica”, un’alleanza che si impegnava a mantenere gli equilibri politici esistenti e a impedire qualsiasi tentativo di aggressione ai danni degli Stati membri della Lega. Il trattato avrà per l’Italia un’importanza fondamentale perché garantirà per quarant’anni un equilibrio delle forze, che, per quanto precario e costantemente insidiato, consentirà un significativo sviluppo politico e culturale del paese. Due soli eventi lo misero seriamente a repentaglio: la guerra di Ferrara (1482-84), che vide Venezia minacciare pericolosamente la libertà del piccolo Ducato di Ferrara, e la “congiura dei Baroni” (1484-86), ordita dai grandi feudatari del Sud ai danni della monarchia aragonese di Napoli. Guida allo studio 1. Quali Stati hanno stipulato la pace di Lodi? 2. Quali conseguenze ha avuto quell’accordo sulla situazione della penisola italiana? 4 La discesa di Carlo VIII A quarant’anni di distanza dalla pace di Lodi, l’Italia fu teatro di un evento che, di lì a poco, avrebbe scardinato per sempre l’assetto politico sancito da quel trattato: la discesa in armi del re di Francia Carlo VIII nell’estate del 1494. L’obiettivo di Carlo VIII era conquistare il Regno di Napoli. I francesi, attraversata tutta l’Italia senza incontrare resistenza, raggiunsero Napoli e la occuparono nel febbraio del 1495. Ma fu una conquista effimera: battuto a Fornovo sul Taro nel luglio dello stesso anno da una lega antifrancese alla quale avevano aderito l’Impero e la Spagna, Carlo VIII dovette rientrare in Francia. Benché di breve durata, l’intervento francese mise a nudo la fragilità di un’Italia politicamente divisa nei confronti delle monarchie nazionali. Sei anni dopo la penisola diventerà il teatro delle guerre (le cosiddette “guerre d’Italia”) tra spagnoli e francesi, guerre che termineranno con la conquista da parte delle potenze straniere di gran parte del territorio italiano. Guida allo studio 1. In quale anno Carlo VIII invade l’Italia? 2. Qual era lo scopo dell’invasione? 3. Come si conclude la discesa di Carlo VIII in Italia? Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 438 438 Quattrocento 5 Consolidamento degli Stati regionali e cambiamento della classe politica Il 1454, anno della pace di Lodi, è una data simbolica. Durante il lungo periodo di stabilità politica da essa inaugurato giunge a maturazione quel consolidamento degli Stati regionali cominciato negli anni Quaranta. Insomma, molte signorie si trasformano in veri e propri principati. Nel 1442, abbiamo detto, nuovi sovrani provenienti dall’Aragona si erano installati nel Regno di Napoli [u11.2]; la pace di Lodi sancisce a Milano il passaggio dinastico dai Visconti agli Sforza; intorno alla metà del secolo perfino il Papato getta le basi per trasformare il caotico dominio di San Pietro in quello che sarà lo Stato della Chiesa; pressappoco negli stessi anni comincia il periodo di effettivo dominio dei Medici in Firenze. Altre date simboliche danno l’idea di quanto il processo di consolidamento sia esteso e diffuso in tutta la penisola: gli Este riescono a trasformare il Marchesato di Ferrara in Ducato (1450, 1471); nel 1433 erano stati i Gonzaga di Mantova a diventare da conti marchesi; nel 1443 i Montefeltro di Urbino avevano ottenuto il loro primo effimero titolo ducale, reso stabile nel ’74. Gli Stati si consolidano ma in molti casi cambiano anche i massimi dirigenti. Il dato interessante è che alcune delle nuove dinastie, anche delle più importanti, non hanno una illustre nobiltà da esibire. È facile immaginare che cosa avrebbe potuto scrivere Dante Alighieri, così ostile all’emergente potere della finanza, di un banchiere senza passato come Lorenzo de’ Medici. Rispetto alla grande nobiltà dei Visconti gli Sforza, capitani di Pedro Berruguete, Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, 1476-77 ca. [Galleria Nazionale delle Marche, Urbino] Succeduto al fratello nella guida della Signoria di Urbino, Federico da Montefeltro fu nominato duca dal papa Sisto IV nel 1474. Abile politico e valido condottiero, fu anche appassionato studioso delle lettere e grande mecenate. Il ritratto del principe illustra con estrema chiarezza il connubio tra il suo ruolo di condottiero e quello di intellettuale e di patrono delle arti. Federico da Montefeltro, infatti, da un lato indossa una pesante armatura ed esibisce ai suoi piedi un elmo, simboli del potere militare e politico, dall’altro, è raffigurato mentre legge un libro, a sottolineare anche la sua figura di umanista. Il ritratto è ambientato nel famoso Studiolo del Palazzo Ducale, una stanza dalle dimensioni assai ridotte commissionata dal duca stesso e destinata ai suoi studi, le cui pareti sono riccamente decorate da una serie di ritratti di “Uomini illustri” e da un rivestimento a tarsie lignee particolarmente prezioso. Santagata_11:11 19/12/08 16:49 Pagina 439 439 11. Le coordinate storiche e culturali ventura, sono poco più che dei parvenus. A Napoli il mutamento è ancora più traumatico: agli Angiò, stranieri ma acclimatati nel Regno fin dalla seconda metà del Duecento, subentra una dinastia sicuramente illustre, ma estranea. Così estranea, che per decenni la lingua della cancelleria e della corte è stata il catalano. Guida allo studio 1. Quali famiglie si avvicendano al potere a Milano? 2. Come cambia l’assetto politico all’interno degli altri pic- coli Stati italiani? 3. E nell’Italia meridionale cosa avviene? Le coordinate culturali La situazione sociale, politica e culturale del Quattrocento è determinata in gran parte da due grandi fenomeni, molto diversi tra loro ma capaci entrambi di trasformare profondamente il modo di vivere e di concepire la cultura: l’Umanesimo e la corte come istituzione politico-sociale. 6 L’Umanesimo IL CULTO DELL’ANTICO Nel Quattrocento giunge al culmine quel movimento di ritorno all’antico e di recupero del latino classico, iniziato da Petrarca [u9.3] e Boccaccio [u10.1] e sviluppatosi negli ultimi decenni del Trecento, che va sotto il nome di Umanesimo. La parola si è imposta in ambito storiografico soltanto nel Novecento: all’origine dei termini “umanesimo” e “umanista” è l’espressione ciceroniana studia humanitatis, letteralmente: ‘studi relativi all’uomo’. Secondo gli umanisti, infatti, lo scopo della cultura è di formare l’uomo nella sua interezza, sviluppandone armonicamente le facoltà morali e intellettuali. Gli studia humanitatis, intesi come studio delle discipline letterarie e, in particolare, delle letterature latina e greca, sono il cardine di questa educazione integrale. Gli autori antichi, infatti, oltre che di stile letterario sono anche modelli di virtù civili e morali: le loro opere trasmettono un ideale di humanitas nel quale si fondono amore per la conoscenza, senso del valore e della dignità dell’uomo, tensione alla gloria e alla realizzazione mondana, apprezzamento del bello, esercizio della vita attiva. Il culto dell’antico, dunque, è il comune denominatore dell’Umanesimo, quale che sia la configurazione che esso assume. La riscoperta della civiltà classica gradualmente matura una nuova consapevolezza della distanza storica che separa gli uomini moderni da quelli vissuti nell’antichità, e ciò si allarga alla consapevolezza della specificità di ogni epoca. Nasce così una visione prospettica della storia, un embrione di storicismo del tutto assente dalla cultura medievale che, al contrario, tendeva a collocare ogni manifestazione umana sullo stesso piano. È anche grazie a questo nuovo modo di concepire la storia che il richiamo all’antichità si proietta sul presente, che il dialogo con il passato può tradursi in un insegnamento per l’oggi. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 440 440 Quattrocento ASPETTI CENTRALI DEL QUATTROCENTO L’UMANESIMO LA SOCIETÀ DI CORTE idea centrale: dignità dell’uomo artefice del proprio destino novità rispetto alle corti feudali e trecentesche educazione integrale dell’uomo incentrata sugli studia humanitatis, con alla base le letterature classiche grande egemonia culturale autori antichi come modelli di lingua, di stile, di valori elaborazione di un nuovo codice comportamentale di lunghissima durata studio del latino, del greco, dell’ebraico nuova figura sociale: il gentiluomo scoperta di testi antichi che si sposta da una corte all’altra nascita della filologia bisogno di coesione nel sistema delle varie corti umanista: intellettuale impegnato con ruoli importanti nell’educazione e in politica Salutati Bruni Bracciolini notevole sviluppo nella seconda metà del Quattrocento della letteratura in volgare condivisione di un vocabolario, di un costume e di un sistema di valori due innovazioni fondamentali stampa a caratteri mobili la prospettiva velocizzazione del processo di produzione del libro e abbattimento dei costi ampliamento del pubblico dei lettori Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 441 441 11. Le coordinate storiche e culturali LO STUDIO DELLE LINGUE CLASSICHE Alla base del culto umanistico per l’antico c’è l’esaltazione delle lingue della classicità: in un primo tempo, del latino, poi anche del greco. Per gli umanisti il latino non era una lingua come le altre, era la lingua della civiltà: era attraverso il latino, infatti, che i Romani avevano diffuso la cultura, le arti e i valori dell’uomo libero in tutto il mondo. Pertanto è una concezione ideologica a far sì che il latino sia per gli umanisti una lingua di dignità molto superiore a quella del volgare; per molti di loro, addirittura, l’unica lingua che possa essere usata nella scrittura. Gli umanisti cominciano anche a studiare il greco, ignoto a Dante e di cui Petrarca e Boccaccio avevano conosciuto solo pochi rudimenti grammaticali. Nella seconda metà del Quattrocento emerge pure l’esigenza di comprendere più a fondo la Bibbia, e così nasce l’interesse per l’ebraico. LA RISCOPERTA DELLE OPERE CLASSICHE Il movimento umanista era animato, dunque, dal bisogno di conoscere i testi degli antichi, ma questi, in larga parte, giacevano chiusi e dimenticati nelle biblioteche dei conventi, delle cattedrali e delle grandi abbazie europee. Il Medioevo aveva tramandato solo un piccolo numero di opere latine e greche: molte erano conosciute attraverso compendi, riassunti o citazioni; di alcune si era addirittura persa memoria. I pionieri delle ricerche bibliografiche erano stati Petrarca e Boccaccio. Nel nuovo secolo il più attivo nel portare alla luce grandi testi della latinità è Poggio Bracciolini (1380-1459), che nel corso dei suoi frequenti viaggi nell’Europa settentrionale, tra il 1415 e il 1417, scopre opere di Cicerone, Quintiliano [uD10] e Lucrezio. Dopo la caduta di Costantinopoli (1453) cominciano a circolare anche importanti opere greche; sullo scorcio del Quattrocento riemerge la Poetica di Aristotele, che sarà fondamentale per gli ulteriori sviluppi della cultura europea. Antonello da Messina, San Gerolamo nello studio, 1460-75 [National Gallery, Londra] Formatosi sulla cultura fiamminga importata a Napoli da Renato d’Angiò e da Alfonso d’Aragona, Antonello da Messina (1430 ca.-1479) può definirsi uno dei più grandi pittori del Quattrocento. In questa sua famosa opera si avverte pienamente lo spirito della cultura umanistica. Antonello rinnova l’iconografia di san Gerolamo, raffigurandolo non più nelle vesti di eremita ma in quelle di studioso, posto al centro di uno spazio profondo, articolato e misurabile. Anche il riferimento alla leggenda del santo, che cavò una spina dalla zampa di un leone, passa in secondo piano con la figura del leone divenuta poco più di un’ombra scura (sotto gli archi, a destra). L’artista messinese non è interessato al racconto: ciò che gli preme è sottolineare la dignità intellettuale e morale del personaggio, ponendolo al centro di un fascio luminoso che, entrando dalle ampie aperture, investe gli oggetti e le figure. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 442 442 Quattrocento D10 La “liberazione” dei classici Poggio Bracciolini, Epistolario, I, 5; trad. di Eugenio Garin Nel passo di una lettera indirizzata il 15 dicembre 1416 da Costanza (in Germania) a Guarino Veronese, il più grande pedagogista dell’Umanesimo, Poggio Bracciolini racconta con grande emozione il ritrovamento dei libri di Quintiliano. Molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi nell’arte di perfezionare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano1, il quale così chiaramente e compiutamente, con diligenza somma, espone le doti necessarie a formare un oratore perfetto, che non mi sembra gli manchi cosa alcuna, a mio giudizio, per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquenza. [...] Ma egli presso di noi italiani era così lacerato, così mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si riconosceva più aspetto alcuno, abito2 alcuno d’uomo. Finora avevamo dinanzi un uomo «con la bocca crudelmente dilacerata, il volto e le mani devastati, le orecchie strappate, le nari sfregiate da orrende ferite3». Era penoso, e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì 1. M. Fabio Quintiliano: scrittore latino (35-95 d.C.), autore dell’Institutio oratoria (‘L’istituzione oratoria’), opera dedicata alla formazione grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. [...] E [...], per Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai necessariamente vicino al giorno della morte. Poiché non c’è dubbio che quell’uomo splendido, accurato, elegante, pieno di qualità, pieno di arguzia, non avrebbe più potuto sopportare quel turpe carcere, lo squallore del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido come solevano essere i condannati a morte, con la barba squallida4 e i capelli pieni di polvere, sicché con l’aspetto medesimo e con l’abito mostrava di essere destinato a un’ingiusta condanna. dell’oratore, dalla prima infanzia all’ingresso nella vita politica come cittadino. 2. abito: ‘aspetto’. 3. con la bocca... ferite: citazione da Virgilio, Eneide, VI, vv. 496-498. 4. squallida: ‘incolta’. LA FILOLOGIA Il ritrovamento delle opere della classicità costituì solo il primo passo ver- so il recupero della civiltà antica. A esso seguì, ancora sulla scia di quanto aveva fatto Petrarca, il tentativo di ricostruire la loro veste originale. Gli umanisti, infatti, erano consapevoli che i testi usciti dall’oblio di secoli erano stati alterati da errori, aggiunte, modifiche, omissioni di cui si erano resi responsabili copisti e traduttori. La disciplina che essi fondarono, la filologia, cercava per l’appunto di porre rimedio ai guasti della tradizione e di avvicinarsi il più possibile alla lezione genuina di un testo. LA FIGURA INTELLETTUALE DELL’UMANISTA L’umanista non è solo un ricercatore e uno studioso, è una compiuta figura di intellettuale immerso nel dibattito culturale e politico del suo tempo. Già a partire dalla fine del Trecento questo intellettuale di professione, anticipato da Petrarca e Boccaccio, entra stabilmente nel panorama della cultura italiana. Gli umanisti occupano ruoli importanti nel sistema dell’insegnamento a tutti i livelli ed esercitano funzioni anche di notevole importanza all’interno dei governi sia repubblicani, sia principeschi. Il potere, infatti, si accorge ben presto di quanto questi nuovi intellettuali possano essere determinanti per la sua politica culturale. Se con gli scritti essi sono Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 443 443 11. Le coordinate storiche e culturali in grado di elaborare mitologie a sostegno di specifiche scelte politiche o, più genericamente, di dinastie bisognose di consenso, grazie alle competenze retoriche e alla cultura storica formate sugli studia humanitatis possono svolgere incarichi delicati di tipo amministrativo e diplomatico. Alcuni esempi: il cancelliere della Repubblica fiorentina Coluccio Salutati (1331-1406) elabora il mito della ‘libertà fiorentina’ (florentina libertas) contro la “tirannide” della nemica tradizionale, la Milano dei Visconti [uD11]. Più tardi Leonardo Bruni (1370 ca.-1444), cancelliere come Salutati, nel momento in cui torna a farsi pressante la minaccia viscontea celebra la città di Firenze come novella Roma e novella Atene, e ne scrive una storia (Historiae florentini populi, ‘Storie fiorentine’) che è un monumento grandioso alla virtù repubblicana. Ancora: a Napoli Alfonso d’Aragona, durante la guerra condotta per assicurarsi il trono di Napoli, fra i vari modi esperiti per conferire legittimazione al suo diritto contestato dal pontefice ricorre anche al contributo dei due più grandi umanisti del tempo: lo stesso Leonardo Bruni e Lorenzo Valla (1405-1457). Quest’ultimo, su commissione di Alfonso, scrive nel 1440 il trattato De falso credita et ementita Constantini donatione (‘La donazione di Costantino creduta e asserita con falsità’), nel quale dimostra la falsità della donazione della parte occidentale dell’Impero romano, Roma inclusa, fatta da Costantino a papa Silvestro I, donazione sulla quale il Papato fondava la legittimazione del suo potere temporale [u12.4]. D11 Inno alla libertà fiorentina Coluccio Salutati, Invettiva contro Antonio Loschi da Vicenza Coluccio Salutati, cancelliere del Comune di Firenze dal 1375 al 1406, unì costantemente l’impegno politico all’amore per gli studi umanistici. Di lui riportiamo un’appassionata difesa della città di Firenze, tratta dalla risposta (scritta in latino nel 1403) al cancelliere del Ducato di Milano, Antonio Loschi, sostenitore della politica espansionistica dei Visconti. Salutati esalta le origini romane della sua città, identificando la libertà repubblicana con l’autentica tradizione del popolo romano. Che cosa significa infatti essere fiorentino, se non essere per natura e per legge cittadino romano, e per conseguenza libero e non schiavo? È infatti proprio della nazione e del sangue romano quel dono divino che si chiama libertà; ed è tanto sua proprietà che chi smette di essere libero non può più ragionevolmente essere chiamato cittadino romano e neppur fiorentino. Tal dono, tal nome glorioso, chi vorrà mai perdere, fatta eccezione per coloro cui non importa diventare da liberi schiavi? Credimi: noi siamo molto più pronti ad affermare e a difendere la nostra libertà di quanto voi 1. ignavia e pusillanimità: ‘pigrizia morale e viltà’. Qui Salutati si rivolge ai cittadini milanesi. 2. nascosto sentire: ‘sentimenti nascosti’. 3. precordi: ‘parti più profonde dell’animo non siate abituati a sopportare una turpe servitù con la vostra ignavia e pusillanimità1, di cui al mondo non ve n’è maggiore. Ho detto abituati e non disposti, per non sembrar giudice temerario, quale tu sei, del nascosto sentire2 degli altri. Forse, poiché talora ritorna nei precordi3 l’antico valore, potrà un giorno tornare anche in voi lo spirito italico, se non siete davvero sangue e stirpe di Vinili, ossia di Longobardi4; forse potrete ancora riscuotere in voi il vigore dell’animo, e chiamarvi giustamente liberi e cittadini romani; potrete, se Dio vuole, scuotere il turpe giogo e ricordare la Gallia Ci- umano’. 4. se non siete... Longobardi: l’affermazione è evidentemente provocatoria; Salutati insinua il dubbio che gli abitanti di Milano discendano non dall’antico popolo romano ma dai Longobardi (o Vinili, ossia ‘guerrieri’ nella lingua longobarda) che invasero l’Italia nel VI secolo d.C. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 444 444 Quattrocento salpina5, e la gloriosissima stirpe gallica di cui è proprio il godere di una libertà regia, e odiare i tiranni, e abbominare come qualcosa di orrendo anche il più lieve servaggio. Ma per tornare a noi, se l’animo regge, se soccorran le forze, se ci assista il valore, confidiamo senza esitazione di difendere la nostra terra. Tu soggiungi di non vedere in noi forze bastevoli per opporci a quattro legioni di cavalieri che, come dici, vengono armate contro di noi; ben le vediamo e le sentiamo noi, consapevoli che in guerra il coraggio vale le mura; consapevoli che la vittoria non è nella moltitudine dei soldati ma nelle mani di Dio; consapevoli che per noi combatte la giustizia. Noi ricordiamo quel che tu neghi, di essere di stirpe romana; noi leggiamo che i nostri maggiori6 hanno spesso resistito contro forze soverchianti di nemici, e con piccole schiere non solo hanno difeso le cose loro, ma hanno anche ottenuto insperata vittoria. [...] 5. Gallia Cisalpina: con Gallia Cisalpina si intendeva anticamente l’Italia del Nord, che i Non posso credere che il mio Antonio Loschi, che ha visto Firenze, o alcun altro, chiunque l’abbia vista, a meno che non sia del tutto folle, possa negare che essa sia davvero il fiore d’Italia e la sua parte più bella. Qual città, non soltanto in Italia ma in tutto il mondo, è più salda nella cinta delle sue mura, più superba di palazzi, più adorna di templi, più bella di edifizi, più splendida di porticati, più ricca di piazze, più lieta di ampie strade, più grande di popolo, più gloriosa di cittadini, più inesauribile di ricchezze, più feconda nei campi? [...] Qual città, priva di porto, ha tanto traffico di merci? Dove maggiore il commercio, più ricco per varietà di scambi, più abile per sottili accorgimenti? Dove uomini più illustri, e per tacer degl’infiniti che sarebbe fastidioso ricordare, così insigni per imprese, valenti nelle armi, potenti per giusti domini, e famosi? dove Dante, dove Petrarca, dove Boccaccio? Celti occuparono verso il V secolo a.C. costituendo una minaccia per Roma fino alla fine del III secolo a.C. 6. maggiori: ‘antenati’. CENTRALITÀ DELL’UOMO Quello umanistico è stato un movimento “totale”. Nato dal contatto con i testi dei classici, nel corso del tempo elabora una visione del lavoro intellettuale e, più in generale, del ruolo dell’uomo nella società e della sua collocazione nel mondo che si riverbera su tutti i settori della vita, dalla politica alla storia, dalla morale alla filosofia, alla pedagogia e, naturalmente, alla letteratura. Non esiste un sistema di valori nel quale tutti gli umanisti si possano riconoscere, perché il movimento è molto variegato al suo interno. Esistono però alcuni concetti basilari comuni a gran parte di loro: in primo luogo, l’idea della dignità dell’uomo che, grazie al libero arbitrio e alle facoltà intellettuali di cui Dio lo ha dotato, può essere artefice del proprio destino e, pertanto, orientare la storia e trasformare il mondo intorno a lui. Da questa idea discendono alcune conseguenze anche di ordine pratico, quali l’impegno nella vita attiva e una nuova idea di otium, cioè del tempo dedicato allo studio e alla riflessione. A differenza dell’ascetismo monastico, l’otium umanistico si iscrive in un orizzonte mondano. Guida allo studio 1. Quando si è imposto il termine “umanesimo”, e in quale accezione? 2. Quali valori sono compresi nell’ideale di humanitas? 3. Per quali ragioni lo studio delle lingue classiche assume così grande importanza nella cultura umanistica? 4. In che modo la riscoperta autentica della civiltà classica favorisce la nascita di un embrione di storicismo? 5. In quale modo viene incrementata la conoscenza dei te- sti latini antichi? 6. Chi è Poggio Bracciolini? 7. Di cosa si occupa la filologia? 8. Quali ruoli svolge l’intellettuale umanista nel panorama culturale italiano del Quattrocento? 9. Quale contributo fornisce l’intellettuale umanista al consolidamento dell’autorità politica dei principali Stati italiani nel Quattrocento? Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 445 445 11. Le coordinate storiche e culturali 7 La corte LA NUOVA CORTE QUATTROCENTESCA Nella seconda metà del Quattrocento il consoli- darsi degli Stati regionali provoca profondi cambiamenti nella composizione e nel ruolo dell’antico istituto della corte. Intorno alla metà del secolo nasce quella civiltà delle corti che, passando attraverso varie trasformazioni, eserciterà in tutta Europa un’influenza determinante sulla formazione dei ceti dirigenti e degli strati elevati della società. Un’influenza che sarà decisiva in epoca rinascimentale, ma che resterà attiva ancora per molto tempo, perfino dopo la Rivoluzione francese. Il codice delle buone maniere, cioè del modo di vivere in società, formatosi tra Quattro e Cinquecento si è mantenuto per secoli e su di esso si è fondata in gran parte anche la buona educazione della classe borghese. La corte principesca del secondo Quattrocento è diversa non solo dalle corti feudali del Medioevo, ma anche da quelle signorili che l’hanno immediatamente preceduta. Essa, infatti, è il luogo centrale di governo dello Stato, cioè è il centro effettivo del potere, ma è anche, nello Andrea Mantegna, La corte di Ludovico Gonzaga, 1467-74 ca. [Camera degli Sposi, Palazzo Ducale, Mantova] La corte, nella quale risiedono il signore e i suoi familiari, insieme con diverse centinaia di ufficiali, funzionari, servitori, ha un carattere ibrido, fra il pubblico e il privato: è una residenza privata, ma anche il luogo in cui si mette in scena il teatro del potere reale e in cui si esercita la sovranità. Tanto lo spazio fisico che la ospita quanto le persone che la frequentano devono testimoniare la natura eccezionale della corte stessa; per questo motivo i grandi signori del Rinascimento chiamano, accolgono e stipendiano i più grandi artisti perché costruiscano o adornino gli edifici riservati all’esercizio del potere. Andrea Mantegna (14311506), pittore di corte della famiglia Gonzaga dal 1459, esegue e dirige i lavori di decorazione di molte residenze dei signori di Mantova. Fra i suoi lavori il più noto è la decorazione della Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova, dominata dal grande affresco che ritrae Ludovico III Gonzaga e sua moglie Barbara di Brandeburgo con la famiglia e la corte. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 446 446 Quattrocento stesso tempo, il teatro della vita mondana e, quindi, il luogo dove si producono e si consumano gli eventi culturali. LA SOCIETÀ DI CORTE La società di corte produce una cultura che rispecchia il suo modo di vivere e che, insieme, esprime la consapevolezza che essa ha di sé e del suo ruolo. Siccome quanto è prodotto a corte nei campi della cultura, dell’arte e del comportamento sociale si riverbera, grazie al prestigio di cui la corte gode, anche sugli strati sociali che non gravitano direttamente intorno a essa, la corte principesca finisce per esercitare una egemonia culturale che va molto al di là del ristretto mondo cortigiano [uD12]. La società che si riunisce in una corte, comunque, è assai meno ristretta di quanto si possa pensare. In essa si ritrovano il patriziato cittadino, l’antica nobiltà feudale, la nuova nobiltà delle magistrature, i funzionari, i militari, gli amministratori, i giocolieri, i buffoni, senza dimenticare gli artisti, i letterati e gli uomini di cultura. Un insieme eterogeneo, dunque, che però tende sempre più a uniformarsi in una nuova figura sociale, quella del “gentiluomo”, cioè del nobile o del nobilitato che dalla corte dipende economicamente e socialmente. Ma il gentiluomo non dipende tanto – ed è questa la novità – da una singola e determinata corte, quanto dal sistema delle corti. In effetti le varie corti italiane, per composizione sociale, struttura gerarchica, comportamenti culturali e gusti artistici, sono omogenee fra loro al di là delle differenze territoriali. I gentiluomi cortigiani, dunque, possono passare da una all’altra senza avvertire differenze sostanziali. Un insieme tanto eterogeneo, ovviamente, aveva problemi di fusione: necessitava di un costume e di un vocabolario comuni e, soprattutto, necessitava di un sistema di valori che potesse essere condiviso da tutti. Si aggiunga che i signori e i sovrani, o perché stranieri o perché di dubbia nobiltà, dovevano legittimare il potere loro e quello dei ceti che con loro erano cresciuti. A ciò provvide soprattutto la letteratura in volgare. Ecco perché nella seconda metà del secolo alGuida allo studio l’interno del mondo delle corti assistiamo a un impetuo1. Che cosa rappresenta la corte principesca nel secondo Quattrocento? 2. Da chi è composta la corte? 3. Chi so sviluppo di quella letteratura in volgare che, nella è il gentiluomo? 4. Quale ruolo svolge la letteratura in prima metà del secolo, il movimento umanistico aveva volgare nel quadro culturale della società di corte? fatto così gravemente deperire. D12 Un aneddoto di corte Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri Il libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci è testimone di un curioso caso accaduto alla corte di Napoli e relativo al cambiamento della moda e del gusto presso la società nobiliare. Nella seconda metà del Quattrocento si affermano gusti austeri e raffinati, per cui passano di moda le stoffe dorate e di tinte vivaci in favore dei tessuti neri. Ma nella provinciale Siena non se ne erano ancora accorti. Il povero ambasciatore senese è vittima di uno scherzo di gusto abbastanza dubbio. Era a Napoli uno ambasciadore sanese, della loro natura, molto borioso1. La Maestà del re il più delle volte vestiva di nero, con qualche fer1. della loro... borioso: ‘molto vanitoso, come sono per indole i senesi’. maglio nel cappello, o qualche catena d’oro al collo: i broccati e vestiti di seta poco gli usava. Questo ambasciadore vestiva di broccato d’oro Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 447 447 11. Le coordinate storiche e culturali molto ricco, e sempre quando veniva al re aveva questo broccato d’oro. Il re più volte con quegli sua domestici2 se ne rideva di questo vestire di broccato. Un dì, ridendo disse a uno de’ sua; per certo che io voglio che noi facciamo che questo broccato muti colore; e per questo ordinò una mattina di dare udienza in uno luogo molto misero3; e fece chiamare tutti gli ambasciadori, e ordinò con alcuno de’ sua4, che la mattina in quella calca ognuno si stropicciasse addosso allo ambasciadore sanese, e stropiciassino quello broccato. La mattina, non solo dagli amba2. quegli sua domestici: ‘gli amici più intimi’. 3. misero: ‘povero, squallido’. 4. con alcuno de’ sua: ‘per mezzo di qualcuno dei suoi intimi’. sciadori, ma dalla Maestà del re era pinto e stropicciato5 in modo quello broccato, che uscendo da corte, non era uomo che potesse tenere le risa, vedendo quello broccato, ch’era di chermisi6, col pelo allucignolato7, e cascatone l’oro, e rimasta la seta gialla, che pareva la cosa più brutta del mondo. A vederlo la Maestà del re uscir dalla sala, col broccato tutto avviluppato e guasto8, non poteva tenere le risa; e stette parecchi dì, che mai fece altro che ridere di questa novella di questo ambasciadore sanese; e lui mai s’avvide quello che gli era suto9 fatto. 5. pinto e stropicciato: ‘urtato e sgualcito’. 6. chermisi: ‘colore rosso vivo’. 7. allucignolato: ‘attorcigliato come stoppini di candele’. 8. avviluppato e guasto: ‘aggrovigliato e sciupato’. 9. suto: ‘stato’. 8 L’invenzione della stampa L’invenzione della stampa a caratteri mobili rappresenta nella storia della cultura una rivoluzione paragonabile soltanto a quella prodotta nel XX secolo dal computer e dalle nuove tecnologie telematiche. Nel 1454, a Magonza, l’orefice tedesco Johann Gutenberg stampa con i caratteri mobili una Bibbia latina. È la prima volta che questa tecnologia viene impiegata. Un carattere mobile è un supporto di metallo o di legno su cui è impressa una lettera dell’alfabeto. Accostati fra di loro, i caratteri possono comporre qualunque parola e qualunque pagina, ma, soprattutto, possono essere riutilizzati senza limiti. La pagina di FOCUS Le biblioteche umanistiche Nel Quattrocento la biblioteca è non solo il luogo dove si conservano i libri, ma è anche un luogo di produzione e di scambio culturale. I dotti, infatti, in ossequio anche a precise direttive dei signori, si dedicano alla ricerca di nuovi libri e alla loro copiatura (e ciò anche dopo l’avvento della stampa). Inoltre è frequente l’interscambio sotto forma di prestito di libri manoscritti da un centro all’altro. Nel corso del XV secolo per la prima volta la biblioteca si dota di funzionari (dal bibliotecario al contabile) e mantie- ne un rapporto stabile con le botteghe dei copisti e, più tardi, con le stamperie. Tra le biblioteche più celebri del tempo va innanzitutto ricordata quella fiorentina del convento di S. Marco voluta da Niccolò Niccoli (1364-1437), instancabile ricercatore e trascrittore di testi greci e latini. Nel 1444, adempiendo alle sue volontà testamentarie, Cosimo de’ Medici ne aveva trasferito la cospicua biblioteca privata in S. Marco e l’aveva aperta a tutti i cittadini amanti degli studi anche attraverso il prestito esterno. Come ampliamento di questa, sempre a Firenze, nasce la biblioteca Laurenziana, voluta da Lorenzo il Magnifico; in seguito fu collocata in un edificio progettato da Michelangelo Buonarroti. La biblioteca Marciana venne costituita a Venezia nel 1468 per iniziativa del cardinale e umanista greco Giovanni Bessarione (1403-1472). Infine, la biblioteca Vaticana fu istituita da papa Niccolò V (1447-55) e aperta al pubblico da papa Sisto IV (1471-84). Si tratta di istituzioni prestigiose ancora oggi operanti. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 448 448 Quattrocento L’interno di una stamperia, XV sec. Nell’immagine si riconoscono, da sinistra a destra, un tipografo che prepara i tamponi con i quali inchiostrare la forma di stampa, l’impressore, che aziona il torchio, l’addetto alla lettura delle bozze, il compositore dietro alla cassetta dei caratteri, che allinea le lettere nel compositoio (l’oggetto che regge nella mano sinistra), e, in primo piano a destra, il proprietario della bottega che verifica i fogli stampati. caratteri così composta viene inchiostrata e poi, per mezzo di un torchio, impressa sul foglio. Questo sistema rende obsoleto il lento, faticoso e costosissimo lavoro di copiatura a mano in vigore fin dalle origini della scrittura. I vantaggi sono evidenti: in tempi rapidi è possibile stampare un numero elevatissimo di copie di uno stesso testo e, quel che più conta, abbattendo i costi di produzione. La possibilità di acquistare a prezzi ragionevoli (rispetto a quelli astronomici di un codice manoscritto) ogni tipo di libro determina un cambiamento profondo nel rapporto fra i lettori e i libri, tanto che, nell’arco di circa un cinquantennio, si forma un pubblico di lettori molto diverso per ampiezza e per qualità sociale e culturale da quello, ristretto ed elitario, che aveva avuto accesso ai libri fino ad allora. L’invenzione di Gutenberg dilaga rapidamente in tutta Europa. In Italia la prima officina tipografica è allestita a Subiaco nel 1465. In un breve giro di anni nasce un numero elevatissimo di stamperie un po’ in tutta la penisola. E parallelamente decadono le botteghe dei copisti (scriptoria), alcune anche di grandi dimensioni, come quella organizzata a Firenze dal libraio e letterato Vespasiano da Bisticci (1421-1498). L’editoria a stampa dispiegherà tutte le sue potenzialità a partire dai primi decenni del Cinquecento. A cavallo fra i due secoli, a Venezia, opera l’umanista e tipografo Aldo Manuzio (1450-1515), che può essere considerato il primo editore nel senso moderno della parola: a lui, fra l’altro, si deve l’invenzione del libro di piccolo formato e quella dei caratteri in corsivo. Ancora nella seconda metà del Quattrocento, però, l’industria tipografica si rivolge soprattutto a un pubblico medio-basso, quando non addirittura “popolare”: per questo pubblico di scarse pretese culturali stampa testi didattici, devozionali, manuali di uso pratico e qualche opera di intrattenimento. Gli umanisti e i rappresentanti delle classi più elevate guardano con distacco il nuovo strumento di diffusione della cultura e seguitano ad affidare al manoscritto le opere colte o ritenute di livello superiore. È sintomatico di tale atteggiamento che il signore di Urbino Federico da Montefeltro proibisca formalmente che nella sua nutritissima e selezionatissima biblioteca entrino testi a stampa. Guida allo studio 1. Come funziona la stampa a caratteri mobili? 2. Qual è il primo libro a essere stampato? E dove? 3. Quali conseguenze produce la diffusione del metodo della stampa sul piano socio-culturale? 4. Chi è Aldo Manuzio? 5. Quale atteggiamento assumono gli umanisti nei confronti della nuova invenzione? Santagata_11:11 29/12/08 11:38 Pagina 449 449 11. Le coordinate storiche e culturali La pittura Masaccio, La Trinità, schema prospettico Masaccio, La Trinità, 1426-27 ca. [S. Maria Novella, Firenze] IL PUNTO SU... Nel campo della pittura il passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale è leggermente più tardivo rispetto alle altre arti: nei primi decenni del Quattrocento è il pittore fiorentino Masaccio che opera un cambiamento cruciale dando inizio alla “maniera moderna” della pittura. L’affermazione del nuovo linguaggio non è tuttavia così semplice e immediata; per lungo tempo molti artisti del Quattrocento preferiscono adottare uno stile più mediato, in cui elementi stilistici nuovi si mescolano agli influssi della cultura tardogotica. Sulla scia di una lenta rivoluzione avviata nel secolo precedente da Giotto, Masaccio (1401-1428) abbandona i contenuti astratti e simbolici dell’arte gotica per fare della rap- presentazione “verosimile” del corpo umano e della natura un principio fondamentale a cui ispirarsi. La figura umana, di cui studia a fondo l’anatomia e le espressioni del volto, acquista nelle sue opere una posizione predominante e la sua collocazione nello spazio è eseguita con estrema coerenza. Fondamentale risulta l’uso della prospettiva unicentrica [u11.9], grazie alla quale si stabilisce un preciso rapporto tra i soggetti e gli oggetti rappresentati e lo spazio della narrazione: all’interno della scena, figure e cose, dotate di una consistenza plastica concreta, vengono a occupare uno spazio geometricamente definito e immediatamente comprensibile. La Trinità, l’ultima opera realizzata da Masaccio prima della prematura scomparsa, riassume in sé tutti i caratteri innovativi dell’arte del maestro fiorentino, che qui opera una sintesi perfetta fra il realismo scultoreo donatelliano e le regole prospettiche di Brunelleschi. In una finta cappella Masaccio raffigura l’immagine della Trinità, con il Cristo crocifisso sorretto dalla figura di Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo colta nell’atto di scendere verso terra. Maria e Giovanni sono disposti simmetricamente ai due lati della croce, men- tre sui gradini della cappella sono rappresentati gli anonimi committenti dell’opera. Nella parte più bassa della composizione si trova un sarcofago dipinto su cui giace uno scheletro. Un preciso sistema metrico regola il rapporto proporzionale e le distanze tra le figure, sottolineandone l’impostazione piramidale che scala in profondità secondo gli assi prospettici della composizione convergenti sulla figura del Cristo, fulcro drammatico della scena. Inserendo perfettamente le figure in uno spazio costruito prospetticamente, profondo e misurabile, il maestro raffigura la Trinità non simbolicamente, come avrebbe fatto un pittore medievale, ma razionalmente, attraverso forme chiare e concrete. La figura di Dio sorregge la croce poggiando i piedi su una solida mensola di legno, occupando uno spazio reale e i due committenti, ritratti con grande precisione fisionomica, diversamente da quanto avveniva nel Medioevo, hanno la stessa dimensione delle figure sacre (a parte il maestoso Dio Padre). Il dogma perde così il suo alone di mistero, per divenire qualcosa che l’uomo con la propria intelligenza può comprendere. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 450 450 Quattrocento 9 La prospettiva Anche nel settore della raffigurazione pittorica si produce una innovazione destinata a cambiarne il corso, l’invenzione della prospettiva. La prospettiva è un complesso di regole e di calcoli che consente di rappresentare oggetti a tre dimensioni su una superficie piana, cioè bidimensionale, facendone scaturire un effetto di realtà. Essa si fonda sulle leggi elementari dell’ottica e, in particolare, sul fatto che gli oggetti distanti appaiono all’occhio più piccoli e meno definiti rispetto a quelli vicini. Le leggi geometriche della prospettiva sono messe a punto tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento. È il grande architetto Filippo Brunelleschi (1377-1446), famoso per aver progettato la cupola del Duomo di Santa Maria del Fiore a Firenze, che ne codifica le regole in alcune “tavolette prospettiche” andate perdute, ma delle quali rimangono precise descrizioni. Nel 1435 l’umanista e architetto Leon Battista Alberti nel trattato latino De pictura [u12.6] riprende le acquisizioni di Brunelleschi e fissa le regole fondamentali della rappresentazione prospettica, regole che saranno applicate dai grandi pittori del secolo, primi fra tutti Masaccio (1401-1428), Paolo Uccello (13971475), Piero della Francesca (1415/20-1492) e Andrea Mantegna (1431-1506). La prospettiva è un nuovo modo di interpretare la realtà fondato sui rapporti proporzionali e armonici che la regolerebbero. È dunque una tecnica che vuole far apparire come naturale un punto di vista parziale e costruito. Per impostare un’immagine in prospettiva, infatti, è necessario stabilire il punto di vista dal quale l’osservatore deve guardare il dipinto; l’immagine raffigurata è quella visibile solo da quel determinato punto e gli oggetti e le figure in essa contenuti sono disegnati in proporzione alla minore o maggiore distanza da esso. Quanto non ricade nello spazio così delimitato è escluso dalla rappresentazione. Grazie alla prospettiva l’uomo è in grado di riprodurre un’immagine simile al vero ma ordinata secondo la ragione. Guida allo studio SINTESI 1. Che cosa è la prospettiva in ambito pittorico? 2. Quale importante merito viene riconosciuto all’architetto Filippo Brunelleschi? 3. In quale trattato vengono rigorosamen- La situazione europea Nel XV secolo la tendenza all’aggregazione politica e statale porta le monarchie formatesi nei secoli precedenti in Francia, Inghilterra e Spagna ad acquisire la fisionomia di Stati nazionali. In Italia e in Germania si formano invece entità statali di ambito regionale. La situazione italiana nella prima metà del secolo Nell’Italia centro-settentrionale spiccano il Ducato di Milano, retto dai Visconti, e le Repubbliche di Venezia e di Firenze, governate da potenti oligarchie. Questi Stati regionali o sovraregionali sono a lungo in guerra tra loro per il te codificate le regole della prospettiva e per opera di chi? 4. In che senso la prospettiva può essere considerata un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà? predominio territoriale. Importanti sono poi il Marchesato degli Este a Ferrara, la Contea dei Gonzaga a Mantova, le Signorie dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro a Urbino. Nel Centro Italia il cosiddetto Patrimonio di San Pietro, germe del futuro Stato della Chiesa, è frammentato in piccoli territori di fatto autonomi. Il Regno di Napoli, che ha ancora una forte impronta feudale, nel 1442 passa dagli Angioini agli Aragonesi. La seconda metà del secolo: la svolta del 1454 Nel 1454, dopo un lungo periodo di guerre espansionistiche, i maggiori Stati italiani firmano il trattato di Lodi, dando così origine alla “Lega italica”, alleanza di fondamentale importanza perché garantirà per quarant’anni un equilibrio delle forze e consentirà un significativo sviluppo politico e culturale del paese. La discesa di Carlo VIII Questo equilibrato assetto politico è scardinato per sempre nel 1494: il re di Francia Carlo VIII scende in Italia per conquistare il Regno di Napoli, occupato nel 1495 senza alcuna difficoltà e abbandonato nello stesso anno. L’evento mostra la fragilità dell’Italia che, politicamente divisa, diventerà nei decenni successivi teatro di uno scontro che porterà alla conquista straniera di gran parte del suo territorio. Santagata_11:11 19/12/08 16:50 Pagina 451 451 11. Le coordinate storiche e culturali L’Umanesimo Uno dei grandi fenomeni che caratterizzano il Quattrocento è la diffusione dell’Umanesimo, movimento di ritorno all’antico e di recupero del latino classico, iniziato nel Trecento con Petrarca e Boccaccio. Il termine deriva dall’espressione ciceroniana studia humanitatis (‘studi relativi all’uomo’): scopo della cultura diventa la formazione integrale dell’uomo, di cui si afferma la dignità in quanto artefice del proprio destino. Cardine di questa educazione sono le letterature classiche: lo studio del latino e del greco diventa centrale e gli autori dell’antichità sono assunti a modello non solo di stile letterario, ma anche di virtù civili e morali. Continua anche la Poggio Bracciolini, Epistolario, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin, Ricciardi, MilanoNapoli 1952. La corte La corte del secondo Quattrocento è diversa dalle precedenti: è il luogo centrale di governo dello Stato, ma è anche il luogo dove si producono e si consumano gli eventi culturali. Nasce in questo periodo quella civiltà delle corti che eserciterà per secoli un’influenza decisiva sulla formazione degli strati alti della società. La corte, per il suo prestigio, esercita una notevole egemonia culturale anche sugli strati sociali a essa esterni. Al suo interno emerge una nuova figura sociale, quella del “gentiluomo”: il nobile o nobilitato che dipende dalla corte e che può passare da una corte all’altra, data la sostanziale omogeneità socioculturale del sistema. Un importante strumento di coesione è dato dalla letteratura in volgare, che nella seconda metà del secolo conosce un impetuoso Coluccio Salutati, Inno alla libertà fiorentina, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin, Ricciardi, Milano-Napoli 1952. Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini sviluppo dopo la crisi del periodo umanistico e contribuisce così a creare un costume e un vocabolario comuni e, soprattutto, un sistema di valori condiviso. L’invenzione della stampa Nel 1454, a Magonza, stampando una Bibbia latina, Gutenberg utilizza per la prima volta i caratteri mobili. Questa tecnologia rappresenta nella storia della cultura una rivoluzione che ha tra i vantaggi più evidenti la velocità e l’abbattimento dei costi di produzione dei libri, ponendo le basi per la formazione di un pubblico molto più ampio. L’invenzione si diffonde rapidamente in Europa e in Italia, dove la prima officina tipografica è allestita a Subiaco nel 1465 e dove riveste un ruolo decisivo, a cavallo fra Quattro e Cinquecento, l’officina veneziana di Aldo Manuzio. L’industria tipografica dispiegherà tutte le sue potenzialità dai primi decenni del Cinquecento. La prospettiva Anche nel settore della raffigurazione pittorica si produce un’innovazione decisiva: l’applicazione della prospettiva. La prospettiva è un complesso di regole e di calcoli che consente di rappresentare oggetti a tre dimensioni su una superficie piana, cioè bidimensionale, facendone scaturire un effetto di realtà. Le leggi della prospettiva sono codificate dall’architetto Filippo Brunelleschi e riprese e rielaborate nel De pictura dall’umanista e architetto Leon Battista Alberti. Le regole fissate dall’Alberti saranno applicate dai grandi pittori del secolo (Masaccio, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Andrea Mantegna). illustri, a cura di Paolo d’Ancona e Erhard Aeschlimann, Hoepli, Milano 1951, citato in Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1978. BIBLIOGRAFIA Fonti riscoperta di manoscritti antichi e nasce una nuova disciplina: la filologia, che mira a ricostruire la lezione originale dei testi eliminando le modifiche effettuate dai copisti medievali. L’umanista non è solo uno studioso, è un intellettuale immerso nel dibattito culturale e politico del suo tempo che spesso occupa ruoli importanti nel sistema dell’insegnamento e nelle pratiche di governo. Salutati e Bruni ricoprono l’incarico di cancelliere della Repubblica fiorentina; Valla scrive il trattato De falso credita et ementita Constantini donatione (‘La donazione di Costantino creduta e asserita con falsità’) su commissione di Alfonso d’Aragona, per legittimare il diritto di questi contro le pretese papali. SINTESI Consolidamento degli Stati regionali e cambiamento della classe politica Durante il periodo di stabilità politica inaugurato dal trattato di Lodi, il sistema degli Stati regionali si consolida. Il processo di consolidamento interessa: il Ducato di Milano, che passa dai Visconti agli Sforza, in origine capitani di ventura; la Repubblica di Firenze, in cui i Medici, in origine banchieri, cominciano a esercitare un effettivo dominio; il Regno di Napoli, dal 1442 governato dagli Aragonesi. Si assiste dunque anche al cambiamento della classe politica, i cui rappresentanti sono in alcuni casi esponenti di famiglie di origine tutt’altro che illustre. Con il conferimento di nuovi titoli nobiliari, si rafforzano anche i domìni degli Este a Ferrara, dei Gonzaga a Mantova, dei Montefeltro a Urbino. Anche il caotico dominio di San Pietro si avvia a diventare il futuro Stato della Chiesa. Santagata_12:12 29/12/08 11:40 Pagina 452 12 La letteratura della prima metà del Quattrocento LETTERATURA DELLA PRIMA METÀ DEL QUATTROCENTO predominio della crisi della LETTERATURA IN LATINO LETTERATURA IN VOLGARE Alberti Firenze Roma autore in latino: De pictura; De re aedificatoria; Intercoenales Salutati, Bruni, Bracciolini Italia settentrionale Firenze lirica in forme analoghe a quelle trecentesche lirica con inserti realistici e giochi linguistici Giusto de’ Conti di Valmontone (La bella mano) Burchiello (sonetti) modello petrarchesco sperimentalismo linguistico promotore del volgare: Certame coronario; autore della prima grammatica del volgare Valla autore in volgare: Libri della famiglia grande filologo (De falso credita et ementita Constantini donatione; Annotazioni al Nuovo Testamento) grande conoscitore del latino (Elegantie latine lingue) Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 453 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 453 Caratteri fondamentali della letteratura del Quattrocento 1 Il bilinguismo Il bilinguismo latino-volgare è il fenomeno che più di ogni altro modella il panorama culturale e letterario del Quattrocento. Anche i due secoli precedenti erano stati bilingui: l’alta cultura considerava il latino la sua lingua naturale e nessuno ne contestava veramente il primato. D’altra parte, gli esponenti della cultura più elevata non solo non polemizzavano contro l’impiego del volgare, ma, addirittura, potevano essi stessi ricorrere a questa lingua per le scritture di invenzione. Si pensi ai giuristi universitari del Duecento dediti alla composizione di poesie amorose in volgare e, nel Trecento, ai casi clamorosi di Petrarca e Boccaccio. Il fatto nuovo che peserà sullo sviluppo della letteratura in volgare per tutto il Quattrocento è che, tranne pochissime eccezioni e già a partire dagli ultimi decenni del Trecento, gli umanisti considerano il latino l’unica lingua praticabile e guardano alla letteratura in volgare con sufficienza, quando non con disprezzo. Colpita dall’ostracismo del movimento umanistico, tutta la letteratura in volgare finisce per scivolare ai piani più bassi del sistema culturale. Ben inteso, nella prima metà del Quattrocento la letteratura in volgare non scompare, ma è come relegata in un angolo, incapace di tenere testa al grande prestigio del latino. Uno dei tratti più singolari della storia della nostra letteratura è che, dopo aver prodotto capolavori come la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio, dopo cioè essersi rafforzata ed espansa come nessun’altra letteratura in volgare in Europa, essa, in tempi rapidi, quasi si inabissa, incapace di produrre autori e opere di rilievo. Un bell’esempio di quanto l’ostilità degli umanisti abbia pesato è fornito dalle vicende del cosiddetto “Certame coronario”. Nel 1441 Leon Battista Alberti, un umanista sensibile allo sviluppo del volgare, approfittando della presenza a Firenze della Curia papale in occasione di un concilio, aveva promosso una gara (certame) per rimatori in volgare, il cui premio sarebbe stato una simbolica corona di alloro in argento (coronario). La giuria era costituita dagli umanisti della Curia papale. Scopo dell’Alberti era di promuovere il volgare attraverso un’autorevole certificazione rilasciata da esponenti della cultura latina. Ebbene, i giudici non asseGuida allo studio gnarono il premio e Alberti perse clamorosamente la 1. Quale atteggiamento assumono gli umanisti nei consua scommessa. Ancora nel 1441, dunque, i tempi fronti della letteratura in volgare? 2. Con quale scopo viene organizzato il “Certame coronario”, da chi, e con non erano maturi perché la cultura umanistica ricoquale esito? noscesse la dignità di quella volgare. 2 La rinascita della letteratura in volgare nella seconda metà del Quattrocento Il latino seguiterà a essere egemone per tutto il secolo e oltre. Tuttavia nella seconda metà del Quattrocento la letteratura in volgare rifiorisce con un vigore che i decenni pre- Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 454 454 Quattrocento cedenti non lasciavano sospettare. Per la letteratura italiana è quasi una seconda nascita. La culla è rappresentata dal sistema delle corti. Sono i nuovi gentiluomini che, come autori o come lettori, fanno della letteratura in volgare il loro principale strumento culturale. Ciò accade soprattutto perché la letteratura volgare è in grado di fornire quel vocabolario comune e di insegnare quei codici di comportamento dei quali il variegato mondo delle corti aveva bisogno. Non è un caso che il genere letterario più importante ritorni a essere quello lirico, cioè proprio quel genere che già dai primi decenni del Trecento era scaduto ai livelli più bassi nella scala delle dignità letterarie (Petrarca è un caso a sé). Ed è ancor meno casuale che la lirica rinasca come lirica d’amore. Come in epoca medievale la lirica cortese aveva forgiato l’ideologia delle classi nobiliari, in questo periodo la Guida allo studio 1. In quale ambiente rinasce la letteratura in volgare? 2. lirica delle corti, che possiamo chiamare “cortigiaQuali generi in volgare vengono praticati? 3. Quali valo- na”, modella i codici comportamentali della nuori trasmettono le opere in volgare? va nobiltà. 3 Lo spirito classicista della nuova letteratura volgare La lirica d’amore del secondo Quattrocento si differenzia notevolmente da quella dominante nei centocinquant’anni precedenti perché alla varietà tematica e alla libertà formale ha sostituito un punto di ispirazione quasi unico, Petrarca, tanto che, per la prima volta, possiamo parlare di petrarchismo [u9.3]. Anche gli altri generi letterari coevi tendono ad adeguarsi a dei modelli, classici o volgari. Ad adeguarsi, non a replicare in modo stretto: nel Quattrocento non esiste ancora, infatti, un concetto chiaro di classicismo come imitazione e replica di modelli letterari del passato. Questa prassi sarà teorizzata solo nei primi decenni del Cinquecento. Esiste tuttavia un movimento spontaneo, non guidato da regola alcuna, verso l’imitazione, col risultato di produrre testi letterari che tendono ad assomigliarsi tra loro e ad assomigliare, complessivamente, a qualche grande testo del passato (il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio, le Bucoliche di Virgilio). Ciò succede perché la letteratura in volgare, sebbene si sforzi di svincolarsi dall’ipoteca del sovrastante Umanesimo, non può non risentire dell’impostazione classicista tipica della produzione umanistica in latino. In questo secolo, dunque, non troviamo più i grandi monumenti realistici come la Commedia e il Decameron, e nemmeno il realismo psicologico del Canzoniere di Petrarca, ma una letteratura che progressivamente si slega dal rapporto con la vita per privilegiare quello con altri testi letterari. Guida allo studio 1. Quali tratti differenziano la produzione lirica in volgare del Quattrocento da quella precedente? 2. In che modo lo spirito umanista condiziona la produzione in volgare? 3. Quale spazio occupa la dimensione realistica nella produzione letteraria del Quattrocento? Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 455 455 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento Caratteri della letteratura del Quattrocento il BILINGUISMO è il tratto dominante nel panorama culturale e letterario del Quattrocento nella seconda metà del Quattrocento la letteratura volgare rinasce nella prima metà del Quattrocento la letteratura volgare è incapace di fronteggiare il prestigio del latino spirito classicista della nuova letteratura in volgare si caratterizza per un movimento spontaneo verso l’imitazione codifica linguaggio e comportamenti fa del volgare il principale strumento di comunicazione tra i “gentiluomini” lirica “cortigiana” La letteratura della prima metà del Quattrocento 4 La letteratura in latino I CANCELLIERI FIORENTINI Nella prima metà del Quattrocento – ma il fenomeno era cominciato già negli ultimi decenni del Trecento – prevale nettamente la produzione in latino. I centri più importanti della cultura umanistica sono Firenze, dove aveva operato Giovanni Boccaccio, e Roma, sede della Curia papale. A Firenze vivono alcune delle personalità più eminenti del primo Umanesimo: Coluccio Salutati (1331-1406), Leonardo Bruni (1370 ca.-1444) e, dopo un lungo periodo romano, Poggio Bracciolini (1380-1459). Tutti e tre ricoprono in successione la carica di cancelliere della Repubblica fiorentina, a dimostrazione di quanto fossero rilevanti i ruoli pubblici che i nuovi intellettuali umanisti potevano ricoprire. Il loro legame con la città è talmente stretto che sia Bruni, sia Bracciolini scrivono, oltre a numerose altre opere, una storia di Firenze. LORENZO VALLA Una delle figure di maggiore spicco di tutto il movimento umanistico è Lorenzo Valla (1405-1457), attivo soprattutto a Roma, ma anche nella Napoli di Alfonso d’Aragona, detto il Magnanimo. Valla è, insieme a Poliziano, il più grande filologo dell’Umanesimo e, nello stesso tempo, uno dei maggiori conoscitori della lingua latina. Sua caratteristica principale è quella di non concepire la filologia come una scienza fine a sé stessa e chiusa dentro il recinto della letteratura, ma di metterla al servizio di obiettivi politici o ideologici. Abbiamo già ricordato come, su richiesta del re di Napoli, egli abbia provato la falsità della donazione di Costantino al papa [u11.6]. Il De falso credita et ementita Constantini donatione (‘La donazione di Costantino creduta e asserita con falsità’) costi- Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 456 456 Quattrocento La “donazione di Costantino”, XIII sec. [Chiesa dei Quattro Santi Coronati, Roma] Nella cosiddetta “donazione di Costantino” l’imperatore romano concedeva al papa: il primato sulle Chiese d’Oriente; le chiese del Laterano, di S. Pietro e S. Paolo Fuori le Mura, oltre a beni in varie province; le insegne imperiali; il privilegio di promuovere i senatori al clericato; ogni potere sul Laterano, la Chiesa di Roma, l’Italia. Redatto negli ambienti della Curia romana nell’VIII secolo, questo documento costituì dall’XI secolo in poi l’argomento principale a sostegno della supremazia del papa, fino alla dimostrazione della sua falsità a opera di Lorenzo Valla nel 1440 nel suo De falso credita et ementita Constantini donatione. ANTOLOGIA tuisce la prima grande applicazione della filologia ai documenti storici e pertanto può essere considerato il testo fondatore della diplomatica, cioè della scienza che studia i documenti storici tramandati in forma scritta. Non meno significativo della grande libertà mentale con la quale Valla si pone nei confronti della tradizione è il fatto che egli applichi gli strumenti dell’analisi filologica alla stessa Sacra Scrittura. Nelle Annotazioni al Nuovo Testamento sottopone a verifica il testo latino corrente, la Vulgata, confrontandolo con l’antica traduzione di san Gerolamo. Il suo capolavoro, comunque, sono i dodici libri delle Elegantie latine lingue (‘Le eleganze della lingua latina’, redazione definitiva del 1449), un testo fondamentale sia per la definizione del classicismo umanistico, sia per il ruolo avuto nel diffondere una Guida allo studio nuova sensibilità nei confronti della lingua latina 1. Quali sono i centri più attivi della cultura umanistica e [uT74]. Il latino di Valla, infatti, si forma sul rapporperché? 2. In che modo la filologia diventa anche strumento per obiettivi politici o ideologici? 3. Che cosa è to diretto con i grandi scrittori della classicità e in la diplomatica? 4. Quali ragioni rendono importante il polemica con quello, ancora medievaleggiante, dei trattato Elegantie latine lingue di Lorenzo Valla? primi umanisti, Petrarca compreso. Lorenzo Valla LA VITA Lorenzo Valla è il più eminente rappresentante della seconda generazione degli umanisti italiani, quelli che portarono la cultura umanistica alla sua affermazione definitiva. La vita e la carriera di Valla sono state quelle tipiche di un intellettuale umanista del Quattrocento: le caratterizzano sia gli spostamenti per tutta l’Italia presso diversi signori, sia la varietà delle professioni svolte. Valla nasce nel 1405 a Roma da una ricca famiglia piacentina e lì compie i primi studi; nel 1419 si trasferisce a Firenze dove studia greco e latino sotto la guida di Giovanni Aurispa (1376-1459). Dal 1431 al 1435 vive in vari luoghi dell’Italia centro-settentrionale (fra l’altro, ricopre la cattedra di Retorica allo Studio di Pavia); dal 1435 al Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 457 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 457 LE ELEGANTIE Valla comincia a scrivere le Elegantie latine lingue (‘Le eleganze della lin- gua latina’) nel 1433, poco dopo aver lasciato l’insegnamento a Pavia. Nel 1439 sono già completi i primi sei libri, che costituiscono il nucleo fondamentale dell’opera. Nonostante Valla non la consideri finita, essa comincia subito a circolare fra gli umanisti. Nei successivi dieci anni le Elegantie sono ampliate fino a raggiungere i dodici libri della redazione definitiva del 1449. Il continuo accrescimento delle Elegantie era reso possibile dalla loro struttura “modulare”, cioè dall’essere costruite come una serie di schede linguistiche raccolte in capitoli dedicati a questioni grammaticali, lessicali e sintattiche. Alle prefazioni ai singoli libri è affidato il compito di esporre i princìpi generali ai quali l’opera si ispira, in sintesi l’identificazione della lingua latina con la cultura della classicità. Le Elegantie sono un grandioso trattato sul latino classico costruito su esempi di autori, di epoche diverse e attivi in generi letterari diversi, nessuno dei quali costituisce una auctoritas. Ciò distingue il classicismo di Valla da quello che si andrà affermando nei decenni successivi, basato in larga parte sul solo modello ciceroniano. Gli esempi illustrati e discussi hanno lo scopo di individuare i princìpi di “eleganza” del latino classico e mettere all’indice ciò che a quei princìpi non è rispondente (in sostanza, il latino del Medioevo e quello dei primi umanisti). Per Valla l’“eleganza”, più che un significato estetico, ha un significato logicosemantico. L’eleganza di una lingua, infatti, risiede nella sua chiarezza, logicità, economia, in sintesi nella capacità di comunicare in modo univoco, razionale, sintetico. Qualità funzionali alla comunicazione retorico-scientifica più che a quella letteraria. T74 La lingua latina fondamento della civiltà antica e dell’Europa moderna Elegantie, I, Proemio; trad. di Mariangela Regoliosi, con alcune modifiche Nei paragrafi iniziali del proemio al primo libro delle Elegantie latine lingue Valla enuncia una delle idee centrali dell’opera, e cioè che il grande merito dell’Impero romano è stato di aver fatto della lingua latina uno strumento di unificazione culturale e civile dei popoli. È su quella eredità che l’Europa moderna può ancora costruire la sua identità culturale. 5 10 Quando, come mi avviene spesso, rifletto sulle imprese dei nostri padri e su quelle degli altri popoli e re, ritengo che i nostri padri sono stati superiori a tutti gli altri non solo per l’estensione del dominio, ma anche per la diffusione della lingua. È noto infatti che i Persiani, i Medi, gli Assiri, i Greci1 e molti altri popoli hanno fatto conquiste in lungo e in largo, e che gli imperi di alcuni fra questi, anche se inferiori per estensione a quello romano, furono molto più duraturi. Ma nessuno di quei popoli diffuse la propria lingua come hanno fatto i Romani, che in poco tempo – per tacere delle coste dell’Italia chiamate Magna Grecia, della Sicilia che fu anch’essa greca, e di tutta l’Italia – in quasi tutto l’Occidente, e in gran parte del settentrione e dell’Africa resero la lingua di Roma famosa e quasi regina, quella lingua che si definisce latina 1. Persiani... Greci: popoli che dominarono anticamente l’area del Mediterraneo o del vicino Oriente. ANTOLOGIA 1448 è al servizio del re di Napoli Alfonso d’Aragona (di cui è storiografo ufficiale) e, infine, dal 1448 alla morte torna definitivamente a Roma, come impiegato presso la Curia papale e poi nuovamente come insegnante di Retorica. Muore a Roma nel 1457. Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 458 ANTOLOGIA 458 Quattrocento 15 20 25 30 35 40 45 50 dal Lazio, dove si trova Roma, e, per quanto riguarda le province, la offrirono agli uomini come un’ottima messe2 per farne una semina: un’opera di certo molto più illustre e molto più preziosa della propagazione dell’impero. Infatti gli uomini che estendono il loro impero sono di solito molto onorati e sono definiti imperatori; ma coloro che hanno fatto del bene all’umanità, essi sono celebrati con una lode degna non degli uomini ma degli dèi, perché non hanno provveduto all’allargamento e alla gloria della loro città, ma anche al bene e alla salvezza dell’umanità intera. È per questo che i nostri padri furono superiori agli altri popoli nei fatti di guerra e per molti altri meriti; tuttavia, nella diffusione della loro lingua furono superiori a loro stessi, come se avessero abbandonato l’impero sulla terra, avessero ottenuto nei cieli la compagnia degli dèi. O diremo forse che, mentre Cerere per aver trovato il grano, Bacco il vino, Minerva l’olio3, e molti altri sono stati collocati tra gli dèi per dei benefici del genere, sarà considerato un merito minore avere distribuito ai popoli la lingua latina, una messe meravigliosa e anzi divina, un nutrimento non del corpo ma dell’anima? Fu infatti la lingua latina ad educare quelle genti e tutti i popoli in tutte le arti liberali4; fu essa ad insegnare le leggi più giuste; fu essa ad aprire loro la strada ad ogni sapienza; fu essa infine a far sì che quei popoli non fossero più dei barbari. Per queste ragioni, quale giusto esaminatore non preferirà coloro che furono famosi per il culto delle lettere a coloro che lo furono combattendo delle guerre spaventose? Questi5 si potrebbero definire uomini regali, ma si potrebbero definire, e con piena giustezza, divini coloro che non solo come uomini accrebbero lo Stato e la maestà del popolo romano, ma provvidero anche, come dèi, alla salvezza del mondo. Tanto più che i popoli sottomessi al nostro dominio pensavano, e forse non a torto, di perdere il proprio, e, perdita ancora più dolorosa, di essere privati della libertà; invece capivano che la lingua latina non mortificava la loro, ma per così dire la insaporiva, così come il vino, introdotto successivamente, non eliminò l’uso dell’acqua, e la seta non eliminò la lana e il lino, e l’oro non cacciò via gli altri metalli, ma aggiunse un arricchimento agli altri beni. E come un gioiello incastonato su un anello d’oro non lo imbruttisce ma lo adorna, così la nostra lingua, aggiungendosi alle lingue locali di quei popoli, aggiunse splendore non lo tolse. [...] E questo basti a proposito del paragone tra la lingua latina e l’impero romano. Quell’impero, già da tempo genti e popoli lo scrollarono via da loro come un peso insostenibile; questa lingua, essi la considerarono più dolce di ogni nettare, più lucente di ogni tessuto di seta, più preziosa di ogni oro o di ogni gemma, e la custodirono presso di sé come un dio disceso dal cielo. Grande è dunque il mistero sacro della lingua latina, grande è di certo la sua divina potenza. E questa lingua presso gli stranieri, presso i barbari stessi, presso i nemici viene custodita piamente e religiosamente da tanti secoli che noi Romani non dobbiamo dolerci ma rallegrarci e gloriarci davanti al mondo intero che ci ascolta. Romani, abbiamo perso, è vero, il regno e il potere, anche se non per colpa nostra ma a causa dei tempi; eppure con questo più splendido dominio noi continuiamo a regnare in tanta parte del mondo. Nostra è l’Italia, nostra la Gallia, nostra la Spagna, la Germania, la Pannonia, la Dalmazia, l’Illirico e molte altre nazioni, poiché l’impero romano è ovunque regna la lingua di Roma. 2. messe: ‘raccolto’, ‘frutto’. 3. mentre Cerere... olio: alle tre divinità era attribuita l’introduzione delle risorse fonda- mentali dell’agricoltura mediterranea. 4. arti liberali: le discipline e le attività non asservite a scopi pratici, quelle che richiedono una libera applicazione intellettuale. 5. Questi: cioè quelli che combatterono le guerre. Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 459 459 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento IL MANIFESTO DELL’UMANESIMO EUROPEO I proemi alle Elegantie hanno uno straordinario valore storico-culturale: essi, infatti, sono ritenuti concordemente dagli studiosi una sorta di dichiarazione dei princìpi dell’Umanesimo. Valla vi sostiene che il latino ha svolto una missione civilizzatrice che è passata in eredità dagli antichi Romani all’Europa moderna. IL LATINO COME FATTORE DI CIVILIZZAZIONE DEL MONDO ANTICO Nel passo antologizzato del primo proemio Valla afferma che l’espansione della lingua latina in tutto il mondo conquistato dalle armi romane, cioè a dire la latinizzazione linguistica e culturale di gran parte dell’Europa e del Mediterraneo antichi, costituisce la differenza essenziale tra l’Impero romano e gli altri Imperi dell’antichità. Egli esalta, pertanto, la lingua latina come veicolo di civiltà e come fattore primario di unificazione culturale dell’Europa antica: è stato attraverso il latino, infatti, che essa ha potuto accedere al patrimonio culturale della civiltà greco-latina. Riproponendo motivi tradizionali della cultura classica, come l’antitesi tra il valore delle armi e il valore della parola, Valla afferma inoltre la superiorità dei valori civili e cultura- li sulla politica di potenza e di conquista e conclude che la benemerenza eterna, “divina”, di Roma non è stata la conquista di un Impero, ma la latinizzazione del mondo. Non a caso questa è sopravvissuta alla fine del dominio politico-militare. LA NASCITA DELLA VISIONE UMANISTICA DEL MONDO ANTICO Nell’ultimo paragrafo Valla rove- scia il lamento per la perduta grandezza passata nella celebrazione dell’attualità e della vitalità dell’eredità culturale latina. Il dominio romano sui popoli è finito, ma continua la missione civilizzatrice della lingua latina, la lingua universale dell’Europa moderna. In questa posizione di Valla, che ne fa uno dei maestri dell’Umanesimo, si fondono una nuova coscienza storica, quella della discontinuità, a livello geopolitico e istituzionale, dell’Europa moderna rispetto a quella antica e, nello stesso tempo, la consapevolezza della continuità culturale assicurata dal latino. È questa nuova sensibilità che spinge ad abbandonare le nostalgie tardomedievali per un Impero politico come ideale continuatore di quello romano e a operare affinché possa diffondersi una visione della cultura funzionale alla rinascita civile e culturale dell’Europa. Si può dunque sostenere che l’umanista Lorenzo Valla è uno dei padri dell’idea moderna di Europa. Esercizi analisi 1. Il primo proemio alle Elegantie è costruito come un elogio del protagonista dell’opera, il latino classico. Cerca di ricostruire, eventualmente anche in forma schematica (distinguendo, per esempio, con dei numeri le tesi fondamentali e con delle lettere le affermazioni e gli argomenti a loro sostegno) la struttura argomentativa del passo antologizzato, “traducendo” il linguaggio di Valla, ricco di immagini e di figure retoriche, in un discorso semplice e neutro che metta in rilievo le idee chiave e i nessi logici del ragionamento. 2. Le idee enunciate in questo passo sono espresse da Valla in un linguaggio ricco di figure retoriche: ricostrui- scine le caratteristiche distinguendo, con una schedatura il più possibile sistematica (per esempio attraverso una tabella a due colonne), le figure retoriche e i campi lessicali e di immagini utilizzati e citando tra parentesi la parole o i passi relativi. interpretazione e contestualizzazione 3. Per quali ragioni Lorenzo Valla può essere considerato uno dei padri fondatori dell’idea moderna di Europa? Trovi spunti di attualità nelle sue parole? Facendo riferimento al testo che hai letto e al contesto socio-culturale in cui opera l’autore, esponi le tue considerazioni in un elaborato di circa 300 parole. 5 La letteratura in volgare ITALIA SETTENTRIONALE: LA LIRICA Nei primi decenni del Quattrocento la letteratura in volgare non si differenzia sostanzialmente da quella del secolo precedente. Nell’Italia setten- ANTOLOGIA Lettura guidata Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 460 460 Quattrocento trionale continua il predominio del genere lirico in forme analoghe a quelle trecentesche: varietà tematica, occasionalità, sperimentalismi metrici al limite del capriccio, dispersione dei singoli testi. Petrarca non ha fatto scuola, con una sola ma rilevantissima eccezione, quella del rimatore Giusto de’ Conti di Valmontone. Della sua biografia si sa molto poco: nacque probabilmente a Roma intorno al 1390 e visse a lungo a Rimini, presso la corte di Pandolfo Malatesta, dove morì nel 1449. Giusto è autore di un canzoniere lirico, intitolato La bella mano, che narra la storia del suo amore per una certa Isabetta. Ultimato nel 1440 a Bologna, vi fu stampato per la prima volta nel 1472. Giusto è rilevante perché è il primo fedele imitatore di Petrarca e perché, essendo il suo canzoniere uno dei libri più letti e diffusi di tutto il secolo, svolge un ruolo fondamentale affinché la lirica amorosa della seconda metà del Quattrocento faccia suoi il vocabolario, i temi e le immagini di Petrarca [uT76]. LA TOSCANA La Toscana, e in modo particolare Firenze, sono i luoghi dove la letteratura in volgare manifesta la maggiore vitalità. Qui è viva, perfino negli ambienti umanistici, la lezione di Dante, rilanciata nel secolo precedente da Boccaccio; una lezione che si innesta sulla tendenza tipica dei poeti fiorentini a introdurre nei loro componimenti inserti realistici e tonalità popolareggianti e a compiacersi di giochi linguistici che sfruttano la particolare ricchezza lessicale ed espressiva del volgare di Firenze. Il caso più emblematico è rappresentato da Domenico di Giovanni detto il Burchiello (1404-1449), sotto il cui nome circolano un numero molto elevato di sonetti, di cui solo in parte egli è stato autore, che si sono diffusi singolarmente in tutta Italia. Si tratta di poesie del tutto particolari nelle quali la sintassi è integralmente rispettata, ma i nessi logici tra le parole sono del tutto aboliti [uT75]. Guida allo studio ANTOLOGIA 1. Chi è Giusto de’ Conti di Valmontone? 2. In quale regione opera il Burchiello? 3. Cosa accade dal punto di vista letterario nel Regno di Napoli? IL REGNO DI NAPOLI Ben poco si potrebbe dire del Regno di Napoli, perché fino all’avvento degli Aragonesi la letteratura in volgare è qui ridotta ai minimi termini. Burchiello (Domenico di Giovanni) LA VITA Figlio di artigiani di media condizione economica, Domenico, nato a Firenze nel 1404, non compie studi regolari, ma è subito avviato al mestiere di barbiere (all’epoca i barbieri svolgevano anche elementari funzioni mediche). Nel 1432 si iscrive all’Arte (cioè all’associazione professionale) dei medici e degli speziali. Politicamente avverso ai Medici, che stanno diventando la famiglia più eminente di Firenze, al momento del loro avvento al potere è esiliato da Firenze (1434). Si rifugia a Siena e, poi, a Roma, dove vive in miseria fino alla morte, avvenuta nel 1449. I SONETTI A Burchiello sono stati attribuiti numerosi sonetti, molti dei quali, però, pro- babilmente non sono suoi. I sonetti possono essere distinti in tre gruppi: quelli comicorealistici, aventi per oggetto le miserie della vita quotidiana e le persecuzioni politiche; quelli di satira letteraria, contro i petrarchisti e la letteratura alta; e, infine, quelli “alla burchia” (‘barca’), che affastellano parole alla rinfusa come merci in fondo a un battello [uT75]. In questi sonetti, pur nell’organizzazione apparentemente casuale, sono presenti alcune costanti. Per esempio, l’enumerazione di oggetti, accostati senza una logica evidente, ha l’effetto di creare una sorta di realtà “altra”, surreale, addirittura opposta a Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 461 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 461 T75 Nominativi fritti e mappamondi Sonetti Questo è forse il più noto dei sonetti di Burchiello, un esempio emblematico di pura arbitrarietà linguistica. Molti interpreti, tuttavia, nel corso dei secoli hanno cercato di interpretarlo attribuendogli significati satirici di volta in volta differenti. Metro: sonetto caudato (cioè chiuso da una “coda” costituita da un settenario e due endecasillabi) con schema ABBA, ABBA; CDC, DCD; dEE. 4 8 11 14 17 Nominativi fritti e mappamondi, e l’arca di Noè fra duo colonne cantavan tutti «Kyrieleisonne», per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi. La Luna mi dicea «Ché non rispondi?» et io risposi «I’ temo di Giansonne, però ch’i’ odo che ’l dïaquilonne è buona cosa a fare i cape’ biondi». Et però le testuggine e ’ tartufi m’hanno posto l’assedio alle calcagne dicendo «Noi vogliàn che tu ti stufi», e questo sanno tutte le castagne: perché al dì d’oggi son sì grassi e gufi, c’ognun non vuol mostrar le suo magagne. E vidi le lasagne andare a Prato a vedere il sudario, e ciascuna portava lo ’nventario. 1. Nominativi fritti: ‘Invitati unti’, oppure, secondo altri, ‘nomi citati e ricitati’, o, alla lettera, ‘nominativi’, il caso del soggetto nella lingua latina. – mappamondi: letteralmente: ‘mappe di navigazione’, ma forse, con un audace traslato, potrebbero significare ‘vecchioni’, dal naso deformato e percorso da vene come quelle disegnate sulle mappe. 3. Kyrieleisonne: deformazione del liturgico kyrie eleison, che significa: ‘Signore, abbi pietà’. 4. per... tondi: ‘per la fame’, intendendo i taglier mal tondi come ‘piatti poco pieni’. Altri, invece, interpretano taglier mal tondi come corpi celesti irregolari e quindi fonte di cattivi influssi, opposti alla luna, che sarebbe, al contrario, perfettamente tonda. Sempre che Luna sia il pianeta e non il nome di una donna. 5. Ché non rispondi?: ‘Perché non ti unisci alla preghiera?’. 6. Giansonne: Giasone, eroe mitologico, capo della spedizione degli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro (da cui i cape’ biondi). 7. dïaquilonne: deformazione di ‘diàchilo’, impiastro farmaceutico. 8. è buona cosa: ‘è una cosa adatta’. 9-10. Et però... calcagne: ‘E per questa ragione calli e vesciche (testuggine e’ tartufi) mi hanno assalito i talloni (calcagne)’; ma testuggine potrebbero essere anche le ‘macchine da guerra’. 10. m’hanno... calcagne: ‘mi inseguono’, letteralmente: ‘mi stanno alle calcagna’. 11. vogliàn... stufi: ‘vogliamo che tu non ne possa più’, ‘che tu prenda a noia tutte queste cose’. 13. gufi: ‘babbei’, ma per altri interpreti sareb- bero i ‘canonici’, cioè degli ecclesiastici. 14. c’ognun... magagne: ‘che nessuno vuol mostrare i suoi difetti’. 16. sudario: letteralmente sarebbe una reliquia sacra, cioè il velo su cui è impresso il volto di Gesù sanguinante, che è, però, conservato a Roma. A Prato si conservava un’altra reliquia, il “Sacro Cingolo”, una cintura appartenuta alla Madonna. Ma su tutti prevale il gioco fra le lasagne, e il loro sugo, e il sudore dei pellegrini. 17. ’nventario: ‘elenco’, forse delle magagne del v. 14, oppure il registro delle entrate e delle uscite che però presupporrebbe un ‘vendere’ al posto di vedere (v. 16) e, di conseguenza, una polemica contro la compravendita di oggetti sacri. ANTOLOGIA quella vera. Il medesimo effetto straniante è prodotto dall’accostamento di riferimenti dotti, mitologici e biblici, a notazioni prese dalla vita quotidiana dei mercanti e degli artigiani di Firenze. Insomma Burchiello smonta la realtà nei suoi elementi costitutivi e la rimonta cambiando di posto ai tasselli in modo da costruirne una nuova, non dotata di senso in sé stessa, ma illuminata dalla luce surreale che scaturisce dai traslati, dagli accostamenti inusuali, dagli ossimori. Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 462 ANTOLOGIA 462 Quattrocento Lettura guidata NONSENSE E PLURILINGUISMO Del sonetto è impossibile fare una parafrasi. In nota ci siamo limitati a riportare le spiegazioni più plausibili; adesso cerchiamo di esaminarne il suo aspetto più evidente, cioè il disordinato affastellamento di parole. In tanto apparente disordine è possibile individuare alcuni criteri a cui il poeta si è ispirato nella scelta e nella distribuzione delle parole. Innanzitutto ha operato tramite accostamenti fonici (allitterazioni, omoteleuti) e richiami semantici di tipo analogico (è possibile individuare la filiera “gastronomica”: fritti, v. 1; taglier, v. 4; tartufi, v. 9; castagne, v. 12; lasagne, v. 15); e poi per mezzo di slittamenti semantici, come quello, blasfemo, che possiamo ipotizzare fra il “sugo” delle lasagne, o il “sudore” dei pellegrini, e il sudario (v. 16) che è meta di pellegrinaggio in quel di Prato. Pur nell’ambiguità complessiva, ne scaturisce un quadro di particolare ricchezza semantica, al quale fa riscontro una gamma di registri stilistici altrettanto variegata: modi di dire popolari («m’hanno posto l’assedio alle calcagne», v. 10) convivono con citazioni di nomi biblici e mitologici (Noè, al v. 2, e Giansonne, al v. 6) e con sintagmi attestati nella lirica alta («cape’ biondi», v. 8). IPOTESI INTERPRETATIVE I lettori, però, non si sono accontentati del puro divertimento linguistico, ma hanno cercato di individuare i significati che possono nascondersi sotto la veste giocosa. Si tratta, naturalmente, di significati che non esulano dall’ambi- to scherzoso. C’è chi propone un’interpretazione basata sulla linea “culinario-gastronomica”, attribuendo, per esempio, il significato di invitati e ghiottoni ai «Nominativi fritti» (v. 1) e quello di spiedo gigante all’«arca di Noè fra duo colonne» (v. 2): il sonetto, allora, sarebbe la descrizione di un’“epica mangiata”. Altri, invece, vi hanno scorto un intento satirico contro la cultura alta e il mondo ecclesiastico. Secondo questa interpretazione la prima strofa conterrebbe un elenco di oggetti “culturali” di tradizione umanistica e cristiana degradati, per esempio, attraverso l’aggettivo fritti (v. 1), inteso nel senso di “triti e ritriti”; la seconda conterrebbe, insieme al riferimento mitologico (Giansonne, v. 6), una satira dell’immagine dei capelli biondi tipici delle donne cantate dalla lirica amorosa (si pensi alla Laura petrarchesca). Nel deformato Kyrieleisonne (v. 3) e nei gufi (v. 13), forse identificabili con gli ecclesiastici, si nasconderebbero allusioni anticlericali, che proseguirebbero con la processione di lasagne in visita a una specie di “volto santo” (sudario, v. 16) pratese. Non manca neppure chi del sonetto ha dato un’interpretazione in chiave oscena: i riferimenti alla sessualità si dipanerebbero a partire dal significato di ‘posteriori’ popolarmente attribuito ai mappamondi (v. 1) e si dispiegherebbero pienamente nella seconda quartina, dove i capelli biondi starebbero a indicare la riduzione dell’uomo allo “stato di femmina” e alluderebbero, quindi, a un rapporto omosessuale maschile. Su questa linea non mancano altre interpretazioni basate, invece, su alcuni traslati che potrebbero essere riferiti agli organi sessuali femminili. Esercizi comprensione e analisi 1. Rifletti sul significato delle parole del sonetto, e riporta sul tuo quaderno quelle che appartengono all’italiano contemporaneo in un’accezione diversa da quella utilizzata dal poeta. interpretazione 2. Quale lettura preferisci fra quelle proposte? Lascian- do libera la tua fantasia riesci a costruire un’altra ipotesi interpretativa? contestualizzazione 3. Sapresti fare altri esempi di nonsense e giochi di parole, tratti dalla poesia contemporanea o da canzoni che conosci? A quale scopo ti sembra che gli autori ne facciano uso? Giusto de’ Conti di Valmontone LA VITA Delle vicende biografiche di Giusto de’ Conti si conosce poco: nasce probabilmen- te a Roma alla fine del Trecento o nei primi anni del secolo successivo, compie studi di Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 463 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 463 LA BELLA MANO Giusto è autore di una raccolta poetica di imitazione petrarchesca, un vero e proprio “canzoniere”, intitolata La bella mano [uT76]. Narra la storia del suo amore per la bolognese Isabetta, identificata con una certa Isabetta Bentivoglio, che andò sposa a Guido de’ Pepoli, dottore in Legge. Ultimato nel 1440, e subito diffuso manoscritto con grande successo, il libro fu pubblicato a stampa, postumo, a Bologna nel 1472. È composto da 135 sonetti, 5 canzoni, 3 sestine, 3 ballate e 4 capitoli in terzine. Nel Quattrocento La bella mano conobbe una grandissima fortuna, documentata dall’elevato numero di manoscritti che ce la tramandano e dall’influenza che essa esercitò su autori importanti quali Boiardo e Sannazaro. Gran parte della sua fortuna è dovuta al fatto che Giusto è imitatore attento e fedele di Petrarca, sia nella scelta delle immagini che in quella dei motivi e delle situazioni. Anche il vocabolario e la metrica tendono ad avvicinarsi al modello. Giusto è un petrarchista fuori stagione: ai suoi tempi, infatti, Petrarca non aveva ancora fatto scuola. Se quest’ultimo, nella seconda metà del Quattrocento, si imporrà come punto di riferimento principale della lirica d’amore, lo si deve anche, se non soprattutto, alla mediazione di Giusto. T76 Rimena il villanel fiaccato et stanco La bella mano, 120 Questo sonetto è intessuto di reminiscenze petrarchesche sia nelle immagini, sia nel lessico; ed è, a sua volta, la probabile fonte di poeti più moderni, come Leopardi. Si osservi infatti che le parole posa, squille, cale riecheggeranno spesso nei versi leopardiani. Metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE. Rimena il villanel fiaccato et stanco le schiere sue, donde il mattin partille, vedendo di lontan fumar le ville 4 e il giorno a poco a poco venir manco. Et poi si posa. Et io pur non mi stanco al tardo sospirar, come alle squille. Io me ne ingegno che ognior più sfaville 8 il foco et l’esca nel mio acceso fianco; e sogni tristi infin che l’alba nasce, e il giorno disïar sempre il mio male, 11 col fiero rimembrar di mille offese. 1-4. Rimena... manco: ‘Il pastorello (villanel) affaticato e stanco riconduce (Rimena) il suo gregge (le schiere sue) là da dove l’aveva fatto partire il mattino, quando vede di lontano fumare i casolari (le ville) e il giorno venir meno a poco a poco’. 5-6. Et poi... squille: ‘E poi trova riposo (posa). Io invece (Et) non mi stanco mai (pur) di sospirare, a tarda ora (al tardo), cioè di notte, come durante il giorno (come alle squille)’; cioè quando le campane segnano le ore. 7-11. Io... offese: ‘Io mi impegno in ogni modo affinché il fuoco e il combustibile (esca) che ardono nel mio petto avvampino (sfaville) sempre più; e (faccio) sogni tristi fino al sorgere dell’alba, e durante il giorno desidero continuamente la mia infelicità, mentre ricordo crudelmente le tante offese ricevute’. ANTOLOGIA giurisprudenza a Padova ed è impiegato come cameriere privato (cubiculario) presso il papa Eugenio IV; compie soggiorni a Firenze, Ferrara e Bologna. Nel 1447 si trasferisce a Rimini presso la corte di Pandolfo Malatesta, al servizio del quale è apprezzato consigliere segreto e giudice. A Rimini muore nel 1449. Coltivò amicizie con molti rimatori, letterati e umanisti, in modo particolare con Leon Battista Alberti [u12.6]. Santagata_12:12 19/12/08 16:51 Pagina 464 ANTOLOGIA 464 Quattrocento Così dì et notte piango, et così pasce la fragil vita questa, a cui non cale 14 vedermi dentro al foco, ch’ella accese. 12-14. Così... accese: ‘Così piango giorno e notte, e in questo modo nutre (pasce) la mia fragile vita questa donna, alla quale non importa vedermi ardere dentro il fuoco (d’amore) che Lettura guidata UNA SIMILITUDINE LETTERARIA Il sonetto è costruito su una similitudine. Il poeta si paragona a un pastore che alla sera riporta dal pascolo il gregge e trova riposo dalle fatiche quotidiane. Ma è un paragone al contrario: lui, a differenza del pastorello, non trova la pace serale, ma alimenta continuamente il fuoco d’amore che lo brucia. Anzi, fa di tutto per aumentare la propria pena, attizzando il suo desiderio frustrato con il ricordo delle repulse dell’amata (le «mille offese», v. 11). La terzina finale riprende, con il verbo pasce (v. 12), l’immagine del pastore, capovolgendola con una metafora ardita: è la donna, infatti, incurante delle pene che gli infligge, a essere padrona della vita dell’innamorato, a guidarla al pascolo e a nutrirla. IL TESSUTO FORMALE La poesia è completamen- te intessuta di reminiscenze letterarie. L’immagine del villanello che torna dalla campagna mentre scendono le prime ombre della sera fonde due luoghi petrarcheschi della canzone 50 del Canzoniere: lei stessa ha acceso’. il primo ha per protagonista lo «zappador» (v. 18) che rincasa quando «discende / dagli altissimi monti maggior l’ombra» (vv. 16-17); il secondo ha per protagonista il «pastor» (v. 29) che rientra anche lui, al tramonto, nella sua casetta. Petrarca, a sua volta, traduceva quasi alla lettera il v. 83 della prima Bucolica di Virgilio: «Maioresque cadunt de montibus umbrae» (‘E più grandi scendono dai monti le ombre’). I sospiri, il pianto, le mille offese, la metafora del fuoco amoroso provengono dalla tradizione della lirica d’amore e, più specificamente, di quella petrarchesca. Petrarchesco è, naturalmente, anche il lessico, del quale facciamo solo qualche esempio: Rimena al v. 1, che ricorda: «Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena» (Canzoniere, 310, v. 1); le parole-rima stanco: fianco, che sono già in Canzoniere, 16, v. 1: «Movesi il vecchierel canuto et biancho», sonetto che ha appunto per protagonista un «vecchierel» foneticamente parente stretto del villanel (v. 1) di Giusto; per non parlare, infine, della rima squille: sfaville, che rimanda a Canzoniere, 109, v. 1: «Lasso, quante fïate Amor m’assale», sonetto in cui si ritrovano le stesse parole in rima. Esercizi comprensione 1. Contrapponi in una tabella a due colonne gli aspetti che caratterizzano la condizione del pastore e quella del poeta. interpretazione 2. Giusto parla in questo sonetto della sua pena d’amore. Come la connota? È una condizione passiva o attiva? Esprimi la tua opinione sulla base dei rilievi fatti sul testo. contestualizzazione 3. Confronta il sonetto di Giusto con una lirica trecentesca scelta tra quelle che hai studiato sulla base di un’analogia o di un contrasto nella condizione del poeta-amante, quindi argomenta in un testo di circa 300 parole le ragioni della tua scelta. 6 Leon Battista Alberti tra latino e volgare LE VICENDE BIOGRAFICHE Nel panorama dell’Umanesimo della prima metà del Quattro- cento Leon Battista Alberti occupa un posto particolare e di grande rilievo. Nato a Geno- Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 465 465 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento Chiesa di S. Maria Novella, facciata e disegno con i tracciati proporzionali, Firenze Attorno al 1458-60 Leon Battista Alberti (1404-1472) progettò la facciata di S. Maria Novella, su commissione di Giovanni Rucellai, per il quale lo stesso Alberti aveva già progettato anche il Palazzo di famiglia. Per organizzare la decorazione della facciata e inglobare anche i preesistenti elementi trecenteschi presenti nell’ordine inferiore che non potevano essere rimossi, Alberti seguì i suoi stessi dettami in materia di proporzioni (di cui si era ampiamente occupato nel trattato De re aedificatoria) e fece ricorso a un modulo proporzionale quadrato che regola tutta la facciata, in un’armonica corrispondenza tra le parti. va nel 1404 da una famiglia di grandi banchieri esiliata da Firenze, compie studi umanistici e scientifici, soprattutto di matematica e di fisica, fra Padova e Bologna. Si lega alla Curia papale e soggiorna in varie città italiane fino a quando, nel 1438, si trasferisce a Firenze, dove la famiglia Alberti era potuta rientrare a seguito della revoca del bando. Anche negli anni successivi, comunque, si allontana più volte da Firenze per soggiornare in molte città d’Italia, nelle quali progetta edifici privati e chiese di grande valore architettonico. Muore a Roma il 20 aprile 1472. LA FIGURA ARTISTICA E INTELLETTUALE La particolarità della figura intellettuale di Alberti consiste nel suo muoversi su più campi: è un umanista formato sugli studi classici, ma, nello stesso tempo, è anche un sostenitore della dignità del volgare; scrive testi di carattere letterario, ma anche trattati di impostazione tecnica e scientifica; alla produzione letteraria in latino e volgare affianca una importante attività di architetto e di ingegnere. Le sue realizzazioni architettoniche, quali il Tempio Malatestiano a Rimini, la facciata di Santa Maria Novella e Palazzo Rucellai a Firenze, le chiese di Sant’Andrea e di San Sebastiano a Mantova, sono improntate a quei princìpi di ordine e misura propri del classicismo di ispirazione umanistica. OPERE LATINE Nell’ampia produzione di Alberti, caratterizzata da un grande eclettismoe dal- la ricerca di varietà, spicca un filone di carattere tecnico-scientifico incentrato sulla pittura e l’architettura. Molto importante è il De pictura (‘La pittura’), scritto fra il ’34 e il ’35 e dedicato a Filippo Brunelleschi, da considerarsi il primo trattato sulla pittura della nostra tradizione; importantissimo il De re aedificatoria (‘L’architettura’), scritto fra il ’43 e il ’52, un trattato in dieci libri nel quale Alberti fornisce le coordinate tecnico-scientifiche per la costruzione di un edificio, dalla progettazione alla messa in opera delle fondamenta, alla sua decorazione finale, e do- Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 466 466 Quattrocento ve afferma la funzione sociale dell’architetto, capace di progettare razionalmente e di realizzare «opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo». Vanno ricordati inoltre gli scritti di cartografia, di agrimensura e perfino di crittografia. ALBERTI E IL VOLGARE La finalità pratica, quasi da manuale, di queste opere è eviden- ziata dal fatto che lo stesso Alberti traduce in volgare il trattato sulla pittura. Ad Alberti, infatti, interessava che le regole della rappresentazione prospettica fissate nel suo libro potessero essere apprese dai pittori, i quali, nella loro maggioranza, non conoscevano il latino. Alberti, del resto, era molto sensibile alla diffusione della cultura e pertanto anche alla diffusione del volgare. Si deve a lui la composizione, fra il 1437 e il 1442, della prima grammatica del volgare, nella quale egli intende dimostrare che anche questa lingua, come il latino, possiede una sua struttura grammaticale e perciò non è regolata soltanto dall’uso, come ritenevano gli umanisti. I LIBRI DELLA FAMIGLIA Rientra nella stessa linea di promozione del volgare quella gara poetica di cui abbiamo già parlato, il “Certame coronario” del 1441 [u12.1]. Non è dunque casuale che l’opera più celebre di Alberti siano i Libri della famiglia, un dialogo in volgare, scritto probabilmente tra il 1433 e il 1443, che affronta il tema della gestione di una famiglia dai punti di vista dell’economia, dei legami interni al gruppo familiare e dei rapporti con l’esterno. In quest’opera i temi più tipici della riflessione umanistica sulla storia e la società, come quelli della virtù e della fortuna [uT77], si mescolano in maniera significativa con un’attenzione precisa alle questioni di ordine pratico, a dimostrazione che nella concezione albertiana gli studi umanistici non separano dalla vita, ma, al contrario, sono un efficace strumento di interpretazione e di governo della realtà. INTERCOENALES Un altro modo di collegarsi alla realtà sociale è quello della pittura d’ambiente, condotta con levità e ironia, che Alberti compie in brevi prose latine (molte in forma di dialogo) raccolte sotto il titolo di Intercoenales (‘Intercenali’), perché «da ascoltare o leggere seduti comodamente a cena». Quest’opera, portata a termine intorno al 1439, viene considerata il capolavoro letterario dell’Alberti latino. Al 1450 circa risale una delle sue opere più enigmatiche e irriverenti, il dialogo Momus, una satira sulle ingiustizie e sul disordine che regnano nel mondo. Guida allo studio ANTOLOGIA 1. In quali ambiti spazia l’attività di Leon Battista Alberti? 2. Quali princìpi sottendono le sue realizzazioni architettoniche? 3. Quale valore attribuisce Leon Battista Alberti alla figura dell’architetto? 4. Quale atteggia- mento assume Leon Battista Alberti nei confronti del volgare e perché? 5. Qual è l’opera più celebre di Alberti? 6. Che cosa sono le Intercoenales? Leon Battista Alberti LA VITA Leon Battista Alberti nasce a Genova il 14 febbraio 1404, figlio naturale di Lorenzo, appartenente a una ricca e potente famiglia di mercanti fiorentini in esilio. Dopo aver trascorso la fanciullezza a Venezia, a circa quattordici anni si trasferisce a Padova, dove compie studi umanistici, imparando anche il greco. Intraprende poi studi universitari di diritto a Bologna. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1421, entra in conflitto con la Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 467 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 467 ANTOLOGIA famiglia per questioni di eredità. Superata una serie di difficoltà legate a ragioni di salute ed economiche, nel 1428 si laurea in Diritto canonico, ma nel frattempo ha seguìto anche studi scientifici (di matematica e di fisica) e ha coltivato interessi letterari, scrivendo sia in latino, sia in volgare. Dal 1431 entra come abbreviatore apostolico (redattore delle lettere ufficiali) nella Curia pontificia, alla quale rimarrà legato per tutta la vita. Nel 1432 prende gli ordini ecclesiastici, ottenendo così i benefici di una piccola pieve nel contado fiorentino. Dal 1431 al 1434 vive stabilmente a Roma, dove frequenta gli ambienti umanistici. Compie anche molti viaggi al seguito della Curia: a Bologna, a Ferrara, a Perugia, a Venezia. Dal 1438 al 1441 vive stabilmente a Firenze e qui stringe amicizia con i più importanti artisti e letterati dell’epoca: Filippo Brunelleschi, Donatello, Leonardo Bruni, Cristoforo Landino. A Firenze organizza nel 1441 il Certame coronario, gara di poesia in volgare. Nel 1443 fa ritorno a Roma, ma continua a viaggiare per l’Italia, spostandosi da Firenze a Rimini e a Mantova. In queste città realizza le sue più importanti opere di architetto. Muore a Roma il 20 aprile 1472. I LIBRI DELLA FAMIGLIA I Libri della famiglia sono un trattato in forma di dialogo com- ANTOLOGIA posto da quattro libri e scritto fra il 1433 e il 1440-43. Il dialogo, ambientato a Padova nel 1421, si svolge tra i familiari che si raccolgono intorno al letto di morte di Lorenzo Alberti, padre di Leon Battista. Fra questi spiccano le figure di Adovardo, il teorico che fonda sui libri gran parte della sua esperienza, e Giannozzo, il pratico per eccellenza, che meglio di ogni altro impersona la figura del tradizionale padre di famiglia. L’opera si apre con un Prologo nel quale Alberti dedica il trattato ai giovani della sua famiglia e discute sul ruolo giocato nella storia dalla virtù e dalla fortuna (cioè dal valore e dalla saggezza degli individui e dal caso: uT77). Il primo libro tratta del rapporto tra padri e figli; il secondo del matrimonio e dell’unità della famiglia. Il terzo è preceduto da un proemio e porta la dedica a un altro esponente della famiglia Alberti, Francesco d’Altobianco: se l’intento dei primi due libri era di descrivere come rendere «la famiglia populosa [numerosa] e avviata a diventar fortunata» (III, Proemio), questo terzo ha come argomento l’economia domestica in senso stretto, e perciò tratta della «masserizia», cioè dell’arte di amministrare oculatamente i beni al fine di garantire alla famiglia una vita serena. Il quarto libro (il cui sottotitolo latino è De amicitia [‘L’amicizia’]) ha come argomento i rapporti che la famiglia intrattiene con il mondo esterno: parla pertanto dell’amicizia in generale e, in particolare, di come si possa guadagnare la benevolenza dei potenti. Alberti sostiene che la prosperità di una famiglia può nascere solo dall’operosità intelligente e dalla sollecitudine del padre di famiglia, il massaio: tali virtù sono il contrario dell’ozio e dello sperpero. Intorno a questi contenuti Alberti costruisce una «filosofia del concreto ragionare» che dà ampio spazio al sapere acquisito con l’esperienza e all’autorità del pratico massaio. Nel leggere i Libri della famiglia occorre sempre tener presente che Alberti non politicizza e non socializza la sua tesi. La famiglia è il cuore, la cellula della civitas, cioè della società e della vita civile; ma della civitas Alberti non parla mai. Egli limita le sue considerazioni alle dinamiche interne alla famiglia, alla dimensione autarchica, alle norme comportamentali e morali che valgono per la famiglia e per essa sola. Nelle sue pagine non s’incontrano, pertanto, proposte che riguardino la società e gli Stati: e non è casuale che il dialogo si chiuda con un libro dedicato all’amicizia, cioè a quella forma di rapporto particolarissima, individualistica e tutt’altro che politica, che lega un essere umano a un altro essere umano. Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 468 ANTOLOGIA 468 Quattrocento T77 Fortuna e virtù Libri della famiglia, Prologo Il passo che segue fa parte del Prologo. Alberti vi affronta il dilemma se la fortuna abbia tanto potere nella vita dell’uomo da mandare in rovina grandissime e potentissime famiglie. Nel formulare la risposta estende la propria analisi alla storia in generale, definendo la sfera d’azione della virtù. 5 10 15 20 25 Da molti veggo la fortuna più volte essere sanza vera cagione inculpata, e scorgo molti per loro stultizia scorsi ne’ casi sinistri, biasimarsi della fortuna e dolersi d’essere agitati da quelle fluttuosissime sue unde, nelle quali stolti sé stessi precipitorono1. E così molti inetti de’ suoi errati dicono altrui forza furne cagione2. Ma se alcuno con diligenza qui vorrà investigare qual cosa molto estolla e accresca le famiglie, qual anche le mantenga in sublime grado d’onore e di felicità, costui apertamente vederà gli uomini le più volte aversi d’ogni suo bene cagione e d’ogni suo male, né certo ad alcuna cosa tanto attribuirà imperio, che mai giudichi ad acquistare laude, amplitudine e fama non più valere la virtù che la fortuna3. Vero, e cerchisi le republice, ponghisi mente a tutti e’ passati principati: troverassi che ad acquistare e multiplicare, mantenere e conservare la maiestate e gloria già conseguita, in alcuna mai più valse la fortuna che le buone e sante discipline del vivere4. E chi dubita? Le giuste leggi, e’ virtuosi princìpi, e’ prudenti consigli, e’ forti e constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenza, le gastigatissime e lodatissime osservanze de’ cittadini sempre poterono o senza fortuna guadagnare e apprendere fama, o colla fortuna molto estendersi e propagarsi a gloria, e sé stessi molto commendarsi alla posterità e alla immortalità5. Co’ Macedoni fu seconda la fortuna e prospera quanto tempo in loro stette l’uso dell’armi coniunto con amor di virtù e studio di laude6. Vero, doppo la morte d’Allessandro Grande, subito ch’e’ prìncipi macedoni cominciarono ciascuno a procurare e’ suoi propri beni, e aversi solliciti non al publico imperio, ma curiosi a’ privati regni, fra loro subito nacquero discordie, e fra essi cuocentissime fiamme d’odio s’incesoro, e arsero e’ loro animi di face di cupiditate e furore, ora d’ingiuriare, mo di vendicarsi7: e quelle medesime armi e mani trionfali, le quali aveano occupato e suggette la libertà e forze d’innumerabili populi, le quali aveano compreso tanto imperio, colle quali già era il nome e fama de’ Macedoni per 1. Da molti... precipitorono: ‘Noto che la fortuna è spesso accusata ingiustamente da molti uomini e vedo molti uomini, che sono incorsi (scorsi) in disgrazie a causa della loro poca intelligenza, lamentarsi della fortuna e dolersi di essere sballottati dalle sue onde tempestose (fluttuosissime) nelle quali si sono stoltamente gettati (sé stessi precipitorono)’. 2. E così... cagione: ‘E così molti incapaci attribuiscono la causa dei loro errori (errati) a una forza esterna’. 3. Ma se... fortuna: ‘Ma se qualcuno vorrà indagare accuratamente che cosa innalzi molto e faccia prosperare (accresca) le famiglie, che cosa le mantenga in un altissimo grado di onore e di felicità, costui vedrà con chiarezza che nella maggior parte dei casi gli uomini sono la causa prima (aversi... cagione) di ogni loro bene e di ogni loro male, e non riconoscerà mai ad alcuna cosa tanto potere da esse- re indotto a ritenere che la virtù conti meno della fortuna nell’acquistare lode, grandezza e fama’. 4. Vero... vivere: ‘Così è, e si esaminino le repubbliche, si considerino tutti i principati del passato: si scoprirà che in nessuna repubblica o principato la fortuna ha mai avuto più potere delle regole di una retta e onesta convivenza civile’. 5. E chi... immortalità: ‘E chi potrebbe dubitarne? Le leggi giuste, i buoni princìpi morali, le decisioni prudenti, i comportamenti decisi e costanti, l’amore verso la patria, la lealtà, la diligenza, lo strettissimo e lodevole rispetto delle regole da parte dei cittadini hanno sempre fatto sì che le repubbliche o i principati guadagnassero e acquistassero fama, anche senza l’aiuto della fortuna, oppure, con l’aiuto di quella, che si estendessero e incrementassero la loro gloria e si consegnassero all’immortalità presso i posteri’. 6. Co’ Macedoni... laude: ‘Con i Macedoni la fortuna fu favorevole e propizia finché mantennero unito l’uso delle armi con l’amore per la virtù e la ricerca dell’onore’. 7. Vero... vendicarsi: ‘Ma (Vero), dopo la morte di Alessandro Magno, non appena ciascuno dei principi macedoni iniziò a procacciarsi beni personali e, invece di preoccuparsi dell’Impero comune, a occuparsi dei regni personali, subito tra loro nacquero discordie e divamparono ardenti fiamme d’odio, e i loro animi si accesero (arsero... di face) del desiderio di ricchezza e della smania ora di offendere, ora di vendicarsi’. Alberti ripercorre qui in sintesi i fatti che seguirono la morte di Alessandro Magno, re di Macedonia (356-323 a.C.). Con la sua scomparsa, il grande Impero che egli aveva fondato si dissolse, frammentandosi in tanti piccoli sottoregni, guidati da luogotenenti e successori (il cui nome era “Diadochi”) con- Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 469 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 35 40 45 50 tutto el mondo celebratissima, queste armi medesime invittissime, sottoposte a’ privati appetiti di pochi rimasi ereditarii tiranni, furono quelle le quali discissero e disperderono ogni loro legge, ogni loro equità e bontà, e persegorono ogni nervo delle sue prima temute forze8. Così adunque finirono non la fortuna, ma loro stultizia e’ Macedoni la conseguita sua felicità9, e trovoronsi in poco tempo senza imperio e senza gloria. Ebbe ancora seco la Grecia vittoria, gloria e imperio, mentre ch’ella fu affezionata e officiosa non meno a reggere, regolare e contenere gli animi de’ suoi cittadini, che in adornar sé con delizie e sopra dell’altre con pompa nobilitarsi10. E della nostra Italia non è egli manifesto el simile?11 Mentre che da noi furono le ottime e santissime nostre vetustissime discipline osservate, mentre che noi fummo studiosi porgere noi simili a’ nostri maggiori e con virtù demmo opera di vincere le lode de’ passati, e mentre ch’e’ nostri essistimorono ogni loro opera, industria e arte, e al tutto ogni sua cosa essere debita e obligata alla patria, al ben publico, allo emolumento e utilità di tutti e’ cittadini, mentre che si esponeva l’avere, il sangue, la vita, per mantenere l’autorità, maiestate e gloria del nome latino, trovoss’egli alcun popolo, fu egli nazione alcuna barbara ferocissima, la quale non temesse e ubidisse nostri editti e legge?12 Quello imperio maraviglioso sanza termini, quel dominio di tutte le genti con nostre latine forze acquistato, con nostra industria ottenuto, con nostre armi latine amplificato, dirass’egli ci fusse largito dalla fortuna?13 Quel che a noi vendicò la nostra virtù, confesseremo noi esserne alla fortuna obligati?14 Statuiremo noi in la temerità della fortuna l’imperio, quale e’ maggiori nostri più con virtù che con ventura edificorono?15 Stimeremo noi suggetto alla volubilità e alla volontà della fortuna quel che gli uomini con maturissimo consiglio, con fortissime e strenuissime opere a sé prescrivono?16 E come diremo noi la fortuna con sue ambiguità e inconstanze potere disperdere e dissipare quel che noi vorremo sia più sotto nostra cura e ragione che sotto altrui temerità?17 Come confesseremo noi non essere più nostro che della fortuna quel che noi con sollicitudine e diligenza delibereremo mantenere e conservare?18 Non è potere della fortuna, non è, come alcuni sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto. Tiene gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette19. tinuamente in guerra tra loro. 8. e quelle... forze: ‘e quelle medesime mani armate (armi e mani è un’endiadi) che avevano trionfato, che avevano sopraffatto e sottomesso la libertà e le forze di numerosissimi popoli, che avevano riunito un Impero tanto grande, grazie alle quali la fama e la gloria dei Macedoni era già celebrata in tutto il mondo, questi medesimi eserciti (armi) mai vinti prima (invittissime), obbedendo alle brame personali di pochi che si erano fatti tiranni ereditari, furono loro che fecero a brani e annullarono (discissero e disperderono) ogni legge, ogni senso di giustizia e di clemenza, e recisero (persegorono) ogni nervo delle forze prima tanto temute’. 9. Così... felicità: ‘così, dunque, fu la stoltezza e non la fortuna a far perdere ai Macedoni la felicità che avevano conseguito’. 10. Ebbe... nobilitarsi: ‘La Grecia riuscì ancora ad avere vittoria, gloria e potenza finché fu intenta e dedita più a reggere e a moderare gli animi dei suoi concittadini che ad abbellirsi e a imporsi col fasto sulle altre popolazioni’. 11. non è... el simile?: ‘non è evidente che è accaduta la stessa cosa?’. 12. Mentre... legge?: ‘Finché presso di noi sono state osservate le antichissime regole di convivenza civile, finché abbiamo cercato di mostrarci (porgere noi) simili ai nostri antenati e abbiamo operato con la virtù per superare la fama dei nostri predecessori, e finché i nostri concittadini stimarono che ogni loro azione, attività e abilità e ogni loro cosa dovesse essere interamente dedicata e dovuta (debita e obligata) al bene pubblico, al vantaggio e all’utilità di tutti i cittadini, finché si rischiavano gli averi, il sangue, la vita per mantenere l’autorità, la maestà e la gloria del popolo romano, si trovò un popolo, vi fu una nazione barbara e ferocissima, che non avesse timore e non obbedisse ai nostri decreti e alla nostra legge?’. 13. Quello... fortuna?: ‘Quello stupefacente Impero senza confini, quel dominio di tutti i popoli acquistato con il nostro coraggio romano (latine forze), mantenuto con la nostra intelligente operosità, ampliato con i nostri eserciti romani, si potrà forse dire che ci è stato regalato dalla fortuna?’. 14. Quel che... obligati?: ‘Di ciò che a noi procurò la nostra virtù, affermeremo di essere debitori alla fortuna?’. 15. Statuiremo... edificorono?: ‘Fonderemo noi sulla casualità (temerità) della sorte quell’Impero che i nostri antenati edificarono più con il valore che con la fortuna?’. 16. Stimeremo... prescrivono?: ‘Giudicheremo soggetto alla volubile volontà della fortuna ciò che gli uomini stabiliscono per sé con ben ponderata decisione e con azioni forti e valorose?’. 17. E come... temerità?: ‘E come potremo dire che la fortuna, con i suoi alti e bassi e la sua incostanza, può disperdere e dissipare quel che vorremmo che fosse sotto il nostro controllo razionale piuttosto che soggetto all’irragionevole casualità (temerità) d’altri?’. 18. Come confesseremo... conservare?: ‘Come potremo ammettere che dipenda più dalla fortuna che da noi ciò che decidiamo di mantenere e conservare con diligenza e premura?’. 19. Non... sottomette: ‘La fortuna non ha il potere, come alcuni sciocchi credono, di vincere chi non voglia essere vinto, cosa che non è così facile. La fortuna domina solo chi le si assoggetta’. ANTOLOGIA 30 469 Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 470 ANTOLOGIA 470 Lettura guidata VIRTÙ E FORTUNA SI EQUIVALGONO? La tesi sostenuta da Alberti è che virtù e fortuna rappresentano i due motori della storia. Alberti sottolinea innanzitutto la stoltezza e l’inettitudine di quegli uomini che attribuiscono la responsabilità delle proprie disgrazie alla fortuna, paragonata a un fiume in piena («fluttuosissime... unde», r. 3), con un’immagine che sarà spesso ripresa nella letteratura quattro-cinquecentesca sull’argomento. A tali uomini contrappone quelli che, animati da volontà investigativa, concepiscono l’uomo come dotato di virtù, cioè di capacità e valore individuale, che lo rendono artefice della propria storia. L’equipollenza di virtù e fortuna è, dunque, progressivamente attenuata nel corso dell’argomentazione: secondo Alberti, infatti, la fortuna può, sì, ritardare e ostacolare con le sue «ambiguità e inconstanze» (r. 49) le azioni guidate dalla virtù, ma non annullarle o vanificarle, ed è dunque inevitabile («E chi dubita?», rr. 12-13) che sia destinata a perdere la sfida. LA STORIA TESTIMONIA IL POTERE DELLA VIRTÙ La tesi è argomentata con esempi tratti Quattrocento dalla storia antica: i Macedoni, dopo la morte di Alessando Magno, furono vittime non dell’ostilità della sorte, bensì della loro incapacità politica e della loro avidità; allo stesso modo la Grecia conobbe l’umiliazione nel momento in cui abdicò alle tradizionali virtù civili (le «ottime e santissime nostre vetustissime discipline osservate»). Anche l’Italia, che Alberti sembra collocare in continuità con quell’Impero romano che era nato dallo spirito di iniziativa e dalla rettitudine morale, e non certo «largito dalla fortuna» (r. 44), rimase indenne da ogni sventura finché i suoi uomini furono: «studiosi... con virtù demmo opera di vincere le lode de’ passati» (rr. 36-37). Con la menzione dell’Italia inizia una serie di domande retoriche tese a ribadire che alla violenza e alla volubilità della fortuna l’uomo può opporsi facendo ricorso alle virtù di giustizia, intelligenza, temperanza, ragione, prudenza. Quelle domande sostengono e preparano i due enunciati marcatamente sentenziosi che dei casi della storia chiamati in causa sono postilla e commento: 1) «Solo è sanza virtù chi nolla vuole»; 2) «Tiene gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette» (r. 54). Esercizi comprensione e analisi 1. Il concetto di fortuna è uguale o diverso rispetto a quello dell’italiano contemporaneo? Hai ritrovato in qualche altro autore (tra quelli studiati finora) un uso analogo? 2. Dividi in sequenze il testo, quindi riproduci in forma di scaletta le argomentazioni e gli esempi addotti dall’autore, evidenziando l’idea centrale intorno alla quale la trattazione verte. 3. Diviso in sequenze il testo, assegna a ciascuna un titoletto, quindi utilizza questi ultimi per produrre un riassunto nel minor numero di parole possibile. Le avversità sono materia1 della virtù. E chi è colui el quale di sua fermezza d’animo, di sua constanza di mente, di sua forza d’ingegno, di sua industria e arte vaglia di sé nelle seconde e quiete cose, nell’ozio e tranquillità della fortuna, tanto meritare e acquistare laude e nome quanto nella avversa e difficile?2 Però3 vincete la fortuna colla pazienza, vincete la iniquità4 degli uomini collo studio5 delle virtù, adattatevi alle necessitati e a’ tempi con ragione e prudenza, agiugnetevi all’uso e costume degli uomini6 con modestia, umanità e discrezione, e sopratutto con ogni vostro ingegno, arte, studio e opera, cercate molto in prima essere, e apresso parere virtuosi7. Né a voi sia più caro, né prima desiderata alcuna cosa che interpretazione 4. Nel passo del Prologo Alberti contrappone i termini stultizia e prudenza. Che cosa significano per lui? E in che senso possiamo intendere prudenza come sinonimo di virtù? Scrivi un breve saggio sull’argomento in un massimo di 300 parole. 5. All’interno del passo che segue (tratto dal I libro) individua i termini che si riferiscono ai concetti di “virtù” e di “fortuna” e spiega se e in che senso le considerazioni lì contenute rispecchiano il pensiero albertiano enunciato nel passo del Prologo: 1. materia: ‘campo di prova’. 2. E chi è... difficile?: ‘E chi è colui che con la sua determinazione, la sua costanza, la sua intelligenza, la sua operosa attività sia capace di acquistare merito, lode e fama tanto nelle circostanze tranquille e favorevoli (seconde e quiete cose), cioè nell’ozio e nella benevolenza della sorte, quanto in quelle sfortunate e difficili?’. 3. Però: ‘Perciò’. 4. iniquità: ‘malvagità’. 5. studio: ‘ricerca’. 6. agiugnetevi... uomini: ‘conformatevi alle abitudini di vita degli uomini’. 7. cercate molto... virtuosi: ‘impegnatevi fortemente in primo luogo (in prima) a essere virtuosi e, dopo (apresso), a sembrarlo’. Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 471 471 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento 8. e in voi... pregiato: ‘e se dentro di voi avrete deciso di posporre sempre ogni altra cosa alla sapienza e alla saggezza giudicherete da parte vostra (apresso di voi) di poco valore ogni vantaggio della fortuna’. – arete statuito: ‘avrete deciso’. T78 contestualizzazione 6. Confronta il valore attribuito alla virtù e alla fortuna da parte di Leon Battista Alberti con quanto dice Boccaccio a proposito della fortuna e dell’ingegno nelle sue novelle. Infine scrivi un testo di circa 300 parole in cui evidenzierai affinità e divergenze, motivate mediante riferimenti ai testi. La masserizia Libri della famiglia, III libro Il vecchio Giannozzo, l’uomo “pratico” della famiglia Alberti, l’interprete più fedele dei tradizionali princìpi di saggia gestione familiare, interviene per la prima volta nel terzo libro; nel passo che riportiamo parla della «masserizia», la virtù fondamentale del buon padre di famiglia. 5 10 15 Giannozzo [...] Quanto la prodigalità è cosa mala, così è buona, utile e lodevole la masserizia1. La masserizia nuoce a niuno, giova alla famiglia. E dicoti, conosco la masserizia sola essere sofficiente a mantenerti che mai arai bisogno d’alcuno2. Santa cosa la masserizia, e quante voglie lascive, e quanti disonesti appetiti ributta indrieto la masserizia!3 La gioventù prodiga e lasciva, Lionardo mio, non dubitare, sempre fu attissima a ruinare ogni famiglia4. I vecchi massari e modesti sono la salute della famiglia5. E’ si vuole essere massaio, non fosse questo per altro se none che a te stessi resta nell’animo una consolazione maravigliosa di viverti bellamente con quello che la fortuna a te concesse6. E chi vive contento di quello che possiede, a mio parere non merita essere riputato avaro7. Questi spendenti veramente sono avari, i quali perché e’ non sanno saziarsi di spendere, così mai si sentono pieni d’acquistare e da ogni parte predare questo e quello8. Non stimassi tu però essermi grata alcuna superchia strettezza9. Ben confesso questo; a me pare da dislodare troppo uno padre di famiglia se non vive più tosto massaio che godereccio10. Lionardo Se gli spenditori, Giannozzo, dispiaciono, chi non spenderà vi doverà piacere. L’avarizia, bench’ella stia, come dicono questi savi, in troppo desiderare, ella ancora sta in non spendere11. Giannozzo Bene dici il vero. Lionardo E l’avarizia dispiace? 1. Quanto... masserizia: ‘Quanto lo spendere eccessivamente (prodigalità) è cosa riprovevole, così è cosa utile e fonte di lode la saggia e moderata amministrazione dei beni’. 2. conosco... alcuno: ‘so che la masserizia basta da sola a mantenerti in modo da non dover ricorrere mai all’aiuto di alcuno’. 3. quante... masserizia!: ‘quanti desideri licenziosi e quante voglie immorali (disonesti appetiti) tiene a freno (ributta indrieto) la masserizia!’. 4. La gioventù... famiglia: ‘I giovani spendaccioni e dissoluti, non dubitare, Leonardo mio, sono sempre stati adattissimi a mandare in rovina ogni famiglia’. 5. I vecchi... famiglia: ‘ I vecchi economi (massari, aggettivo) e moderati (alieni dal lusso) sono la salvezza (salute) della famiglia’. 6. E’ si... concesse: ‘Si deve essere massaio se non altro perché (a esserlo) resta nell’animo la meravigliosa consolazione di vivere comodamente (bellamente) con quello che la fortuna ti ha concesso’. – none: ‘non’. 7. avaro: il termine è usato da Alberti nel doppio significato di ‘eccessivamente parco’ e di ‘avido’. 8. Questi... quello: ‘Sono veramente “avari” questi spendaccioni, i quali, poiché non si appagano (sanno saziarsi) mai di spendere, non sono mai sazi (pieni) di acquistare e di depredare da ogni parte l’uno o l’altro’. 9. Non stimassi... strettezza: ‘Non devi pensare però che mi piaccia una eccessiva economia’. 10. a me... godereccio: ‘io ritengo che deve essere molto biasimato (da dislodare) un padre di famiglia se non vive preferibilmente da massaio che da spendaccione (gaudente)’. 11. L’avarizia... spendere: ‘L’“avarizia”, benché consista, come dicono questi saggi, nel desiderare troppo, consiste anche nel non spendere’. ANTOLOGIA la virtù, e in voi stessi arete statuito sempre alla scienza e sapienza posporre ogni altra cosa, e indi ogni utile della fortuna apresso di voi riputerete da non molto essere pregiato8. Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 472 ANTOLOGIA 472 Quattrocento 20 25 30 35 40 Giannozzo Sì troppo12. Lionardo Adunque questa vostra masserizia che cosa sarà? Giannozzo Tu sai, Lionardo, che io non so lettere13. Io mi sono in vita ingegnato conoscere le cose più colla pruova mia che col dire d’altrui, e quello che io intendo più tosto lo compresi dalla verità che dall’argomentare d’altrui14. E perché uno di questi i quali leggono tutto il dì, a me dicesse «così sta», io non gli credo però se io già non veggo aperta ragione, la quale più tosto mi dimonstri così essere, che convinca a confessarlo15. E se uno altro non litterato mi adduce quella medesima ragione, così crederrò io a lui senza allegarvi autorità, come a chi mi dia testimonianza del libro, ché stimo chi scrisse pur fu come io uomo16. Sì che forse io testé17 non saprò così a te rispondere ordinato quanto faresti tu a me18, che tutto il dì stai col libro in mano. Ma vedi tu, Lionardo, quelli spenditori, de’ quali io ti dissi testé, dispiaciono a me, perché eglino spendono sanza ragione, e quelli avari ancora mi sono a noia, perché essi non usano le cose quando bisogna, e anche perché quelli medesimi desiderano troppo19. Sa’20 tu quali mi piaceranno? Quelli i quali a’ bisogni usano le cose quanto basta e non più; l’avanzo serbano; e questi chiamo io massai21. Lionardo Ben v’intendo, quelli che sanno tenere il mezzo tra il poco e il troppo22. Giannozzo Sì, sì. Lionardo Ma in che modo si conosce egli quale sia troppo, quale sia poco? Giannozzo Leggermente, colla misura in mano23. Lionardo Aspetto e desidero questa misura24. Giannozzo Cosa brevissima25 e utilissima, Lionardo, questa. In ogni spese prevedere ch’ella non sia maggiore, non pesi più, non sia di più numero che dimandi la necessità, né sia meno quanto richiede la onestà26. 12. troppo: ‘molto’. 13. io... lettere: ‘io non sono un uomo colto’. 14. Io... d’altrui: ‘Io durante la mia vita mi sono adoperato (ingegnato) per conoscere le cose più con la mia esperienza personale che con i discorsi degli altri, e quello che capisco l’ho compreso dalla verifica concreta più che dalle dimostrazioni astratte degli altri’. 15. E perché... confessarlo: ‘E per il fatto che uno di questi che stanno tutto il giorno a leggere i libri mi venisse a dire «la cosa sta così», non per questo (però) gli crederei, a meno che io non scorgessi un ragionamento limpido, il quale mi dimostri che così è, che mi convinca ad ammetterlo’. 16. così... uomo: ‘così gli crederò, senza che lui debba citare (senza allegarvi) alcuna autorità, come se mi portasse a testimonianza il libro, perché ritengo che anche chi lo ha scritto era un uomo come me’. 17. testé: ‘ora’. 18. ordinato... me: ‘con un ragionamento ordinato quanto lo sarebbe il tuo’. 19. Ma... troppo: ‘Ma vedi, Leonardo, quegli spendaccioni, dei quali ti dicevo poco fa (testé) non mi piacciono perché spendono senza ragione, e anche quegli “avari” mi danno fastidio, perché non usano le cose quando ce n’è bisogno, e anche perché desiderano troppo’. 20. Sa’: ‘Sai’. 21. Quelli... massai: ‘Quelli che al momento del bisogno usano le cose quanto basta e non di Lettura guidata TEORIA E PRATICA DELLA MASSERIZIA Alberti elegge a padre di famiglia esemplare il vecchio Giannozzo, riconoscendo suprema autorevolezza alla sua esperienza personale. A nessun altro che a Giannozzo, uomo di grandissima umanità e di costumi integerrimi, poteva essere affidato il compito di definire l’arte di rendere e mantenere felice la famiglia, l’arte del- più; quello che è avanzato lo mettono da parte; questi io li chiamo massai’. 22. Ben... troppo: ‘Vi capisco bene, quelli che sanno mantenersi a metà strada tra il poco e il troppo’. 23. Leggermente... mano: ‘Facilmente, con il metro in mano’. 24. Aspetto... misura: ‘Desidero con ansia di sapere che cos’è questo metro’. 25. brevissima: ‘che si può dire in poche parole’. 26. In ogni... onestà: ‘Per ogni spesa che si fa provvedere che non sia più grande, più gravosa, e di maggior entità di quanto esige la necessità e non sia minore di quanto richiede il decoro’. la masserizia. Di masserizia Alberti ha già fatto parlare nel secondo libro Adovardo (uomo di lettere): questi aveva enunciato la teoria, ma a declinarne la pratica è Giannozzo, che si proclama inesperto di lettere e favorevole ad accettare l’autorità della concreta esperienza piuttosto che quella della parola scritta. MASSERIZIA, GIUSTA MISURA Ma masserizia è qualcosa di più che buona amministrazione: è Santagata_12:12 29/12/08 11:40 Pagina 473 473 anche saggezza del giusto mezzo. Poiché si pone agli antipodi sia dell’avarizia, sia della prodigalità, e ha nella giusta misura il proprio criterio di base («tenere il mezzo tra il poco e il troppo», r. 36), Giannozzo può affermare, puntualizzando quanto ha detto poco prima, che «tutta la masserizia sta non tanto in serbare le cose quanto in usarle a’ bisogni». È dunque, a tutti gli effetti, una virtù sociale e una regola di vita. Depositario di questa virtù è il padre di famiglia, al quale spetta garantire prosperità, stabilità e decoro: non lesinare né sprecare i beni a disposizione. La masserizia diventa così sicurezza e garanzia del futuro, in quanto capitale di beni materiali e, nello stesso tempo, di solidarietà di affetti e di legami di sangue. Il governo oculato dei beni di famiglia è “virtù” che si oppone alla “fortuna” e, quindi, strada per il conseguimento della felicità. Il richiamo al giusto mezzo definisce un tipo di saggezza, legata alla buona amministrazione di sé e dei propri beni, che deriva, più che dall’autorità dei libri, dall’esempio degli antenati e dall’esperienza di vita. Esercizi comprensione zo a proposito dell’avarizia. 1. Elenca, riportando le citazioni dal testo, le qualità della masserizia che vengono vantate da Giannozzo in questo passo. 2. Qual è l’opposto della masserizia? 3. Riporta con parole tue le tesi sostenute da Giannoz- D13 interpretazione 4. Illustra in un testo di circa 300 parole la compresenza di aspetti economici e aspetti morali nel concetto di masserizia. Evadere le tasse agli inizi del Quattrocento Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, parte III Il mercante fiorentino Giovanni Morelli scrive i suoi Ricordi tra la fine del Trecento e il primo decennio del Quattrocento. Si tratta di una storia della famiglia Morelli che parte dalle origini nel Mugello e si sviluppa, poi, fra cronaca privata e cronaca degli eventi pubblici della città di Firenze. Nella terza parte Giovanni Morelli, traendo spunto dall’esperienza personale, si sofferma su una serie di consigli, sia nel campo della morale che in quello dell’economia, destinati ai giovani rimasti precocemente orfani. Nel passo che riportiamo consiglia quali comportamenti tenere per non pagare le tasse imposte dal Comune di Firenze che potrebbero danneggiare il patrimonio del mercante. Ora, conchiudendo, queste sopra dette cose sono utile a divenire isperto e ’ntendente al mondo1, a farsi bene volere e essere onorato e riguardato2; e ragionevolemente con queste cose vertudiose tu ti debbi difendere e dalle gravezze e da ogni torto che ti fusse voluto fare3. E dove elle non valessono e trovassiti pure nelle gravezze grandi, le 1. queste... mondo: ‘le cose dette sopra sono utili per farti diventare esperto e competente delle cose del mondo’. 2. riguardato: ‘rispettato’. 3. ragionevolemente... fare: ‘in giusta misura (ragionevolemente) grazie a queste tue virtuose qualità ti devi difendere dalle tasse (gravezze) e da ogni torto che ti si tenti di fare’. quai fussono sofficienti a disfarti, non le pagare4. Rubellati dal Comune, acconcia il tuo in forma non ti possa essere tolto: fallo difendere o per dote o per obbrighi fatti in cui ti fidassi; e se non puoi difendere, lascia istare: sì tosto non si vende5. Se hai danari contanti, acconciali per modo non si sappia sieno tuoi6: o tu ne gli porta, se se’ saputo 4. E dove... pagare: ‘E nel caso che le tue qualità non ti dessero autorità (valessono) e ti trovassi oberato da tasse molto gravose, che sarebbero in grado di mandarti in rovina (a disfarti), non le pagare’. 5. Rubellati... si vende: ‘Ribellati al comune, sistema il tuo patrimonio (acconcia il tuo) in modo che non ti possa essere confiscato: difendilo mostrando che è impegnato in doti o in prestiti già contratti con persone di cui ti fidi; e se non puoi difenderlo, lascia stare: non riusciranno a vendere tanto in fretta un patrimonio confiscato’. 6. acconciali... tuoi: ‘sistemali in modo tale che non si sappia che ti appartengono’. ANTOLOGIA 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento Santagata_12:12 29/12/08 11:40 Pagina 474 SINTESI ANTOLOGIA 474 Quattrocento a guardarli e trafficarli, o tu ne fa una investita di lana, dove istanno assai i danari, e di poi la vendi alla scritta in Vinegia o in Genova, o tu la fa venire in nome altrui: e ’n ciò piglia consiglio7. Ma non usare mai parole ingiuriose contra il Comune né contra persona8; ma, fatto la pace o fatto una ragunata di molte prestanze, fa d’avere un bullettino: ricorri a’ Signori, metti una petizione di pagare il terzo o due quinti a perdere, o che ’ Signori e ’ Collegi abbino a ricorreggere la tua prestanza, con informarli tutti della tua impoten- zia, e agli amici loro; e qui fa gran punga9. E se non puoi al tempo d’un priorato, aspettane tanti ti venga fatto, ché sono cose che chi dura di seguirle, vengono una volta fatte10; o, se non vengono fatte, dimostri a tutto il populo tu se’ gravato e non puoi pagare, e con questo ne se’ altra volta di più agevolato11. E sopra tutto, mai, e spezialmente per questa cagione, non torre danari a costo: innanzi vendi il meglio che tu hai, però che togliendo a costo tu ti disfaresti: pagheresti gl’interessi e la fine ti converrebbe vendere12. 7. o tu... consiglio: ‘(puoi) o portarli con te, se sei in grado di custodirli e di impegnarli negli affari, o investirli (fa una investita) nell’acquisto di lana, dove si impiegano molti capitali, e poi venderla con una lettera commerciale a Venezia o a Genova, oppure farla arrivare sotto il nome di un altro: e a questo proposito fatti consigliare (da persone di fiducia)’. 8. Ma... persona: ‘Ma non rivolgere mai attacchi offensivi al comune o a chicchessia’. 9. ma... punga: ‘ma, trovato un accordo o messe insieme diverse prestanze, cerca di avere una ricevuta che certifichi l’esonero dal pagamento (bullettino): ricorri ai Signori, fai la richiesta di pagare un terzo o due quinti del dovuto senza obbligo di restituzione (a perdere), oppure chiedi che i Signori e le Magistrature correggano al ribasso il tuo prestito, informandoli tutti della tua impossibilità di pagare, e chiedilo anche ai loro amici; e a questo proposito fai forti pressioni’. – prestanze: una sorta di prestito a interesse, che però difficilmente veniva rimborsato, imposto dal Comune di Firenze. Chi lo esibisce dimostra di essere creditore del comune. 10. E se... fatte: ‘E se non ti riesce mentre è in carica un priorato, aspettane tanti altri (di priorati) finché non riesci a ottenerlo; perché si tratta di cose che a chi è tenace nel perseguirle (chi dura di seguirle) alla fine riescono (ven- gono... fatte)’. 11. o... agevolato: ‘o, se non riesci a ottenerle, puoi dimostrare a tutta la cittadinanza che sei eccessivamente tassato e non sei in grado di pagare, e in questo modo potrai essere agevolato maggiormente in un’altra occasione’. 12. E sopra tutto... vendere: ‘E soprattutto non prendere mai, specialmente per questo motivo, denaro a prestito con interesse: piuttosto (innanzi) vendi i tuoi beni migliori, perché, prendendo i soldi in prestito, andresti in rovina; pagheresti gli interessi e alla fine saresti costretto a vendere’. Il bilinguismo Nel contesto del bilinguismo latino-volgare, che caratterizza il panorama del Quattrocento, il latino è per gli umanisti l’unica lingua degna di essere usata in letteratura e, di conseguenza, la letteratura in volgare nella prima metà del secolo scivola ai piani più bassi del sistema culturale. Esempio dell’ostilità degli umanisti è il fallimento del “Certame coronario” organizzato da Alberti nel 1441. comune e codici di comportamento condivisi. Il genere letterario più importante torna a essere la lirica d’amore. della cultura umanistica sono Firenze e Roma. A Firenze operano fra gli altri Salutati, Bruni e Bracciolini; tutti e tre ricoprono la carica di cancelliere della Repubblica e sia Bruni che Bracciolini compongono, tra le numerose opere, anche una storia di Firenze. Soprattutto a Roma, ma anche a Napoli, opera Lorenzo Valla, il più grande filologo dell’Umanesimo, insieme a Poliziano, e uno dei maggiori conoscitori della lingua latina. Le sue opere più importanti sono: il De falso credita et ementita Constantini donatione (‘La donazione di Costantino creduta e asserita con falsità’), in cui applica per la prima volta la filologia ai documenti storici mostrando la La rinascita della letteratura in volgare nella seconda metà del Quattrocento Nella seconda metà del Quattrocento la letteratura in volgare rifiorisce all’interno del sistema delle corti a cui può fornire un vocabolario Lo spirito classicista della nuova letteratura volgare Petrarca diviene fonte di ispirazione per i lirici; pur non esistendo ancora un concetto chiaro di classicismo, che sarà teorizzato nei primi decenni del Cinquecento, anche gli altri generi letterari tendono a imitare dei modelli. La letteratura si allontana dal rapporto con la realtà vissuta per privilegiare quello con altri testi letterari. La letteratura in latino Nella prima metà del Quattrocento prevale nettamente la produzione in latino. I centri più importanti Santagata_12:12 19/12/08 16:52 Pagina 475 12. La letteratura della prima metà del Quattrocento Leon Battista Alberti tra latino e volgare Nel panorama dell’Umanesimo della prima metà del Quattrocento occupa un posto di grande rilievo Leon Battista Alberti: scrittore in latino e in volgare, architetto e ingegnere, è attivo a Firenze e in altre città d’Italia, dove progetta edifici di grande valore. Scrive in latino fondamentali Fonti Torino 1997. Lorenzo Valla, Elegantie latine lingue, in Mariangela Regoliosi, Elaborazione e montaggio delle «Elegantie», con in appendice «Il primo proemio delle Elegantie», traduzione di Mariangela Regoliosi, Bulzoni, Roma 1993. Leon Battista Alberti, I Libri della famiglia, a cura di Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, nuova ed. a cura di Francesco Furlan, Einaudi, Torino 1994. Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori: ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Rusconi, Milano 1986. I sonetti del Burchiello, a cura di Michelangelo Zaccarello, Einaudi, Torino 2004. Studi Giusto de’ Conti di Valmontone, in Antologia della poesia italiana, diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola, Einaudi, Emilio Pasquini, Le botteghe della poesia. Studi sul Tre-Quattrocento italiano, il Mulino, Bologna 1991. trattati di impostazione tecnica e scientifica: il De pictura (‘La pittura’), primo trattato sulla pittura della nostra tradizione, poi tradotto da lui stesso in volgare, e il De re aedificatoria (‘L’architettura’). Il suo capolavoro latino sono le Intercoenales (‘Intercenali’), brevi prose latine per lo più in forma di dialogo. È anche un grande sostenitore della dignità del volgare, per promuovere il quale progetta nel 1441 un “Certame coronario” (una gara di poesia volgare), e compone la prima grammatica del volgare, con cui intende dimostrare che anche questa lingua, come il latino, possiede una struttura grammaticale e non è dunque regolata soltanto dall’uso. La sua opera più celebre sono i Libri della famiglia, un dialogo in volgare che affronta il tema della buona gestione di una famiglia, dei suoi beni e dei suoi componenti. Italo Pantani, L’amoroso Messer Giusto da Valmontone. Un protagonista della lirica italiana del XV secolo, Salerno Editrice, Roma 2006. BIBLIOGRAFIA La letteratura in volgare Nei primi decenni del Quattrocento la letteratura in volgare non si differenzia sostanzialmente da quella del secolo precedente. Nell’Italia settentrionale continua il predominio del genere lirico in forme analoghe a quelle trecentesche, con l’eccezione di Giusto de’ Conti di Valmontone, che, con il suo canzoniere La bella mano, svolge un ruolo fondamentale per la diffusione del vocabolario, dei temi e delle immagini di Petrarca nella lirica amorosa della seconda metà del Quattrocento. In Toscana, e soprattutto a Firenze, dove è molto viva la lezione di Dante e la tendenza a inserire nei testi letterari inserti realistici, tonalità popolareggianti e giochi linguistici, la letteratura in volgare manifesta la maggiore vitalità. Qui è attivo il Burchiello, sotto il cui nome circola un numero molto elevato di sonetti caratterizzati da un forte sperimentalismo linguistico. SINTESI falsità della donazione di Costantino e fondando la diplomatica; le Annotazioni al Nuovo Testamento, in cui applica l’analisi filologica alla Sacra Scrittura; le Elegantie latine lingue (‘Le eleganze della lingua latina’), che hanno un ruolo chiave per diffondere una nuova sensibilità nei confronti della lingua latina. 475 Carlo Dionisotti, Discorso sull’Umanesimo italiano, in Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967. Mirko Tavoni, Il Quattrocento, in Storia della lingua italiana, a cura di Francesco Bruni, il Mulino, Bologna 1992. Francisco Rico, Il sogno dell’umanesimo, Einaudi, Torino 1998. Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 554 14 Niccolò Machiavelli Vita e profilo intellettuale e letterario 1 Le radici della scrittura La vita di Niccolò Machiavelli appare nettamente divisa in due fasi: da una parte quindici anni di attività politica febbrile (1498-1512), che lo vedono protagonista di spicco sulla scena politica della Repubblica fiorentina; dall’altra gli anni di confino e di emarginazione, in seguito alla caduta della Repubblica e al ritorno al potere dei Medici, nel 1512. Questa netta partizione è senz’altro valida dal punto di vista biografico, ma lo è meno dal punto di vista della scrittura. Se infatti è vero che è negli anni di ozio forzato che Machiavelli compone i suoi capolavori, vero è anche che la sua attività letteraria si radica fortemente nel quindicennio di attività politica e, quindi, tra la fine del Quattrocento e il primo decennio del Cinquecento: in parte perché già in questi anni Machiavelli risulta essersi cimentato in vari tipi di scrittura (dispacci politici, ma anche opere in versi e di finzione); in parte, soprattutto, perché la riflessione sulla politica da parte di Machiavelli non si spiega senza la prassi coltivata in prima persona. Con Machiavelli nasce, infatti, un nuovo pensiero, che per la prima volta ambisce a rappresentare l’attività politica sulla base di quella che lo scrittore definisce la «verità effettuale»: il volto duro dell’agire umano; un volto terribile che può essere affrontato vittoriosamente solo da parte di chi sa prendere decisioni che prescindano dalla legge morale, obbedendo soltanto alle leggi proprie della sfera politica. La concretezza spassionata di questo nuovo sguardo informa anche le altre opere di Machiavelli, dai testi storiografici fino alle commedie di ispirazione classicista. Machiavelli, in questa luce, in un lettore odierno attento e disincantato può ancora accendere entusiasmo e nel contempo incutere, forse, paura. Lo scrittore fiorentino, infatti, ambisce a definire le costanLo studio di Niccolò Machiavelli all’Albergaccio di Sant’Andrea in Percussina ti di ogni azione pubblica, insegnando a distingueDal 1512 Machiavelli, caduto in disgrazia al rientro dei Medici in re fra l’uomo come dovrebbe essere e l’uomo come Firenze, visse confinato nel suo podere di Sant’Andrea in effettivamente è: un uomo sospeso fra l’energia bePercussina (San Casciano, Firenze), noto come l’Albergaccio. Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 555 555 14. Niccolò Machiavelli nefica e civilizzatrice di istituzioni politiche volte all’interesse comune e l’insopprimibile, ferina negatività che si cela dietro tali istituzioni. Guida allo studio 1. Quale evento divide in due parti la biografia di Machiavelli? 2. La sua attività di scrittore e letterato coincide del tutto con il periodo di ozio forzato a cui lo costringe l’emarginazione politica, oppure no? 3. Quale duplicità individua Machiavelli nell’uomo politico? 2 La vita LA FORMAZIONE INTELLETTUALE E I PRIMI INCARICHI PUBBLICI Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 6 maggio 1469 da una famiglia borghese abbastanza agiata. Ricevette una solida educazione letteraria, senza però avere l’opportunità di approfondire gli studi umanistici (apprese il latino, ma non il greco). Durante la sua giovinezza, di cui poco sappiamo, assisté a episodi traumatici nella storia di Firenze e dell’Italia: la congiura antimedicea del 1478 nota come congiura dei Pazzi (si attentò alla vita di Lorenzo il Magnifico e fu ucciso il fratello di questi Giuliano); la discesa in Italia dell’esercito francese guidato dal re Carlo VIII (1494), l’episodio che diede inizio a una lunga contesa fra la Spagna e la Francia per l’egemonia nella penisola [u11.4]; la conseguente caduta del governo dei Medici a Firenze (il figlio di Lorenzo il Magnifico, Piero, fu costretto a fuggire); l’avvento di una Repubblica spirituale ispirata dal frate domenicano Girolamo Savonarola (1494-98). Al seguito di questi eventi, dopo la caduta di Savonarola (arso vivo in Piazza della Signo- Francesco di Lorenzo Rosselli, Il supplizio di Girolamo Savonarola in Piazza della Signoria, 1498 [Museo di S. Marco, Firenze] Fra i diversi episodi che segnarono la giovinezza di Machiavelli a Firenze, la condanna di Savonarola fu senz’altro uno dei più memorabili. Abile oratore e persona colta, il domenicano Girolamo Savonarola era stato chiamato a Firenze da Lorenzo il Magnifico come lettore nel convento di S. Marco. Con le sue prediche contro la corruzione dei costumi era riuscito a conquistare i fiorentini, orientandoli verso un modello di vita più austero. Nel periodo della Repubblica il domenicano continuò a predicare, scontrandosi così con il papa Alessandro VI. Nel 1495 gli fu proibito di continuare nella sua attività oratoria, ma Savonarola osò disubbidire all’ordine papale andando incontro alla scomunica. I suoi nemici ne approfittarono per seminare il malcontento tra i fiorentini. Catturato e torturato, venne sottoposto a ben tre processi, al termine dei quali fu condannato, per eresia e impostura, a essere impiccato a una croce e bruciato. La sentenza fu eseguita nel maggio del 1498 in Piazza della Signoria. Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 556 556 I Grandi Autori ria), la Repubblica fiorentina si riorganizzò attorno alla figura di Pier Soderini, il quale, eletto gonfaloniere, volle accanto a sé il giovane e promettente Niccolò in qualità di segretario di cancelleria. Inizia così, nel 1498, la carriera politica di Machiavelli, che sarebbe durata per 15 anni, fino al ritorno dei Medici in città. LE MISSIONI DIPLOMATICHE In questi quindici anni vissuti intensamente («né dormiti, né giocati», come scriverà all’amico Francesco Vettori), il segretario fiorentino riceverà incarichi di grande importanza e sarà spesso ambasciatore della Repubblica fiorentina. Da ricordare in particolare le missioni in Italia, presso la corte del papa a Roma e presso Cesare Borgia (1502), il quale, in quegli anni, attendeva a fondare uno Stato personale in Romagna ed era celebre con il soprannome di duca Valentino (epiteto ricavato dal feudo francese di Valentinois). Sulla formazione politica di Machiavelli influirono inoltre le successive missioni in Francia, presso il re Luigi XII e in Germania presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo. L’ALLONTANAMENTO DALL’ATTIVITÀ POLITICA La carriera politica di Machiavelli si arre- sta bruscamente quando, nel 1512, per un contraccolpo dovuto alla sconfitta a Ravenna dei francesi (con i quali la Repubblica era alleata), cade il governo di Soderini e i Medici tornano al potere. Per sua ulteriore disgrazia Machiavelli restò poi coinvolto in una congiura anti-medicea, alla quale era estraneo. Fu così costretto al confino, che scontò poco lontano da Firenze, nella tenuta di famiglia a San Casciano in Val di Pesa, nel podere noto come l’Albergaccio. Il seguito della vita di Machiavelli è povero di eventi, ma è in questi anni di inattività politica forzata, dal 1513 in poi, che egli produce le sue opere più importanti. Nel corso del nuovo principato mediceo, l’esilio fu via via mitigato (a partire dal 1515); e Machiavelli poté rientrare a Firenze, dove frequentò l’ambiente repubblicano degli Orti Oricellari, nel quale i giovani aristocratici della città si riunivano per discutere di letteratura e di politica. GLI ULTIMI ANNI Nei suoi ultimi anni l’ex segretario riuscì finalmente a conquistare un po’ di fiducia da parte dei Medici: nel 1520 ricevé il compito di redigere una storia di Firenze e dal 1525, quando fu revocata la sua interdizione dai pubblici uffici, ottenne qualche piccolo incarico pratico. Ma la fortuna ormai gli aveva voltato le spalle. Nel 1527, dopo il La vita di Niccolò Machiavelli Con la caduta della Repubbica fiorentina è privato di tutti gli incarichi e incarcerato in quanto ritenuto complice di una congiura anti-medicea 1512 Nasce a Firenze 1469 1498-1512 È segretario della Repubblica fiorentina 1513 Ha inizio il suo ritiro forzato all’Albergaccio Può far ritorno a Firenze, dove frequenta gli Orti Oricellari 1516 1525 Viene riammesso dai Medici a incarichi politici minori Con il ripristino della Repubblica viene nuovamente privato degli incarichi politici 1527 1527 Muore a Firenze Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 557 557 14. Niccolò Machiavelli Sacco di Roma, il potere dei Medici fu di nuovo abbattuto. Venne così restaurata la Repubblica e Machiavelli, che anni prima era stato esiliato in quanto filo-repubblicano, passò a quel punto per filo-mediceo. Morì poco dopo, del tutto emarginato, il 21 giugno 1527. Guida allo studio 1. In quali circostanze e da parte di chi Machiavelli riceve il primo incarico politico? 2. Quali circostanze costringono Machiavelli ad allontanarsi da Firenze? 3. Quali circostanze gli consentono di rientrare a Firenze? 4. In che modo cambia il suo rapporto con la famiglia Medici nel corso del tempo? 3 La figura intellettuale «L’ARTE DELLO STATO» In qualità di segretario, Machiavelli fu anzitutto un funzionario di spicco nella Repubblica fiorentina guidata da Pier Soderini: un funzionario di famiglia agiata che aveva ricevuto una buona, anche se non sistematica, educazione umanistica e che coltivava, quando gli impegni politici glielo consentivano, la scrittura in volgare come forma di analisi e come strumento di conoscenza: si spiegano così alcuni opuscoli storiografici, dove il segretario analizza il corso di avvenimenti coevi come l’omicidio a tradimento dei propri nemici organizzato a Senigallia dal duca Valentino (si ricordi almeno la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini). Fin dai suoi esordi Machiavelli mostra uno sguardo affilato tutt’altro che circoscritto alla situazione locale di Firenze: al contrario, dal suo punto d’osservazione privilegiato e grazie anche ai suoi continui spostamenti in Italia e oltre le Alpi, egli osserva con estrema attenzione la crisi del sistema delle signorie quattrocentesche e i nuovi assetti della penisola, attraversata da eserciti stranieri in contesa fra loro. Non senza orgoglio, scrivendo all’amico Francesco Vettori dal confino di San Casciano, Machiavelli definisce gli anni di segretariato come uno studio sul campo dell’«arte dello Stato». Ora, l’esilio del 1512 venne a modificare in modo traumatico il profilo intellettuale di Machiavelli. L’«arte dello Stato», che non poté più essere esercitata in prima persona, fu da Machiavelli elevata allo stato di vera e propria scienza autonoma, dotata di leggi proprie e universali. LA POLITICA COME SCIENZA AUTONOMA Gli scritti teorici di Machiavelli dopo il 1512 so- no l’opera di un emarginato in cerca di riscatto; di un umanista che, anziché sentirsi massimamente libero nel suo studiolo (secondo il modello di Petrarca), si sente invece massimamente frustrato e cerca nel dialogo con i classici l’unico conforto degno all’inattività forzata. Sembra difficile, tuttavia, classificare le opere che uscirono da quello studiolo come pura e semplice letteratura. In particolare, le due opere principali (Il Principe e i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio) sono trattati teorici che è impossibile non considerare letteratura (con tutte le ambiguità che il termine comporta) per le loro straordinarie qualità retoriche e stilistiche. Ma queste opere rientrano a tutti gli effetti non solo nella storia letteraria, ma anche nella storia del pensiero politico e, per certi aspetti (per la loro vocazione a definire le costanti del comportamento umano), nell’ambito della filosofia morale. È con Machiavelli infatti che nasce in Europa, e non solo in Italia, la politica come sapere autonomo, come vera Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 558 558 I Grandi Autori e propria scienza. Detto altrimenti, è nel Principe e nei Discorsi che viene drasticamente introdotto un nuovo punto di vista sulla realtà: il punto di vista del politico, il quale giudica i comportamenti non secondo la morale, bensì secondo l’utilità pubblica; valuta non secondo il dover essere, bensì secondo quella che Machiavelli chiama la «verità effettuale»: la capacità concreta di garantire il buon governo con il realismo politico. È vero sì che i due trattati, Il Principe e i Discorsi, si collocano su due piani tra loro ben differenti, dal momento che il primo esamina il potere monarchico e il secondo esalta l’ordinamento repubblicano. Tuttavia, entrambe le opere promuovono, da due angolazioni diverse, un’identica concezione della politica come sapere a sé stante, in grado di guidare le azioni degli uomini indipendentemente dalla morale. CLASSICISMO ED ESPERIENZA La riflessione teorica di Machiavelli si regge su una for- ma di classicismo politico, in base al quale l’interpretazione della realtà coeva non può prescindere dall’interpretazione (e dall’imitazione) delle realtà politiche vissute da ebrei, Greci e Romani, considerati depositari e modelli – in particolare questi ultimi – di ogni perfetto agire politico. Uno dei presupposti di tale concezione è che la natura umana sia sempre uguale a sé stessa e che, di conseguenza, sia possibile individuare alcune grandi leggi e costanti nella storia universale che rendano possibile l’analisi e la soluzione di ogni situazione politica. Nel contempo, le riflessioni di Machiavelli si nutrono di continuo della sua esperienza diretta di uomo politico nell’Italia del primo Cinquecento, facendo riferimento a una situazione complessa e inedita che ha bisogno di essere affrontata con gli strumenti dell’esperienza personale (basti pensare alla recente introduzione delle armi da fuoco nei campi di battaglia). Significativamente un altro versante nel quale Machiavelli impegna le sue energie intellettuali è l’arte militare. Oltre a vari passi del Principe, facciamo riferimento a un intero dialogo intitolato all’Arte della guerra, nel quale la tattica militare e la formazione degli eserciti – sulla base di milizie non mercenarie, ma di cittadini – viene proposta come una parente strettissima dell’«arte dello stato». MACHIAVELLI TRA FINZIONE E STORIA L’esperienza intellettuale di Machiavelli non si limita però alla riflessione sulla politica e sulla natura dell’uomo. Gli anni d’emarginazione politica permisero, infatti, all’ex segretario di coltivare anche quella letteratura di finzione che già l’aveva sedotto negli anni trascorsi al servizio della Repubblica. In particolare, risulta fondamentale il ruolo di Machiavelli nella storia del teatro comico: come Ludovico Ariosto alla corte estense di Ferrara, anche Machiavelli, nella speranza di acquistare favore presso i Medici, torna ai modelli del teatro comico greco e latino, proponendo una forma classicista di commedia in lingua volgare (Mandragola e Clizia). Il ritorno agli antichi si traduce, però, in un’azione comica del tutto moderna e quanto mai vitale nella costruzione dell’intreccio. Si tratta di un teatro che concilia l’attenzione ai caratteri psicologici propria dei drammaturghi greci (Menandro) e latini (Plauto e Terenzio), la spassionata riflessione sulla natura umana implicita nei trattati politici e, infine, il gusto per la beffa e per l’intrigo tipico di molte novelle del Decameron. Non a caso Machiavelli compone anche una novella singola (sciolta da ogni cornice di tipo boccacciano): Belfagor arcidiavolo. Parallelamente, un’altra forma di scrittura nella quale Machiavelli si cimenta con l’auspicio di trovare il favore dei Medici è quella storiografica: una scrittura che per gli antichi, e ancora per gli uomini del Rinascimento, era intesa come opera altamente letteraria. Anche in questo ambito Machiavelli porta la lucidità feroce del proprio sguardo, sovvertendo i model- Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 559 559 14. Niccolò Machiavelli li, in gran parte fastosi e celebrativi, della storiografia quattrocentesca e proponendo un nuovo tipo di racconto storico, basato sull’analisi spregiudicata delle cause e dei moventi posti alla radice dei fatti. Guida allo studio 1. A quale intento sono ispirati gli opuscoli storiografici che Machiavelli scrive nella prima fase della sua attività politica e letteraria? 2. Che cosa intende Machiavelli con l’espressione «arte dello Stato»? 3. A che titolo le opere maggiori di Machiavelli si possono definire opere letterarie? Quali altri ambiti del sapere coinvolgono? 4. Quale idea ha Machiavelli della politica? 5. Perché si può parlare di “classicismo politico” nella riflessione teorica di Machiavelli? 6. Quale importanza conferisce Machiavelli all’arte militare e quale rapporto individua tra questa e l’arte dello Stato? 7. Quali elementi caratterizzano il teatro di Machiavelli? 8. Quali innovazioni introduce Machiavelli nel genere storiografico? 4 I tratti salienti della produzione letteraria VARIETÀ E UNITÀ DEGLI SCRITTI DI MACHIAVELLI Nell’orizzonte classicista del Cinquecento il genere del trattato, del dialogo o del racconto storico rientrano nel campo della letteratura, non meno della novella o della commedia o di altre opere di finzione. Dentro questo orizzonte Machiavelli è scrittore quanto mai poliedrico e la sua opera sfugge a ogni sistemazione di comodo. Il Principe e i Discorsi appartengono in modo diverso al genere del trattato o – usando un termine più moderno – del saggio (letteralmente ‘tentativo’ di giungere a una verità condivisibile): mentre il primo, breve ed estremamente sintetico, si regge su una struttura argomentativa ferrea e perentoria, i secondi, concepiti in dialogo con l’opera storiografica dello scrittore latino Livio, molto devono al genere umanistico del commentarium, sequenza asistematica di osservazioni generate dalla lettura del testo in esame. Per trattare la materia militare, nell’Arte della guerra, Machiavelli sceglie, invece, la forma del dialogo, sfruttando un altro genere classicista molto diffuso fra Cinque e Seicento (si pensi alle coeve Prose della volgar lingua di Pietro Bembo [u16.3] e al Cortegiano di Baldassarre Castiglione [u16.4], fino ai dialoghi di Tasso [u19.9] nel secondo Cinquecento e al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo [u21.3] edito nel 1632). Esiste una strategia letteraria comune a questi diversi tipi di trattato, nonché alle opere storiografiche, fino ai testi teatrali? Probabilmente, se si vuole indicare una legge comune nella straordinaria varietà degli scritti di Machiavelli, essa consiste nella spregiudicata acutezza con la quale si indagano i rapporti reciproci (pubblici e privati) fra gli uomini. Da questo punto di vista la scrittura di Machiavelli assomiglia davvero a una sorta di bisturi che incide con precisione ogni aspetto della realtà cui si accosti, forte di una retorica argomentativa quanto mai duttile, in grado di distinguere accanitamente i diversi volti di un unico aspetto con quella che è stata definita una scrittura di tipo dilemmatico («o... o...»), ma al tempo stesso di trasferire la complessità di un nucleo concettuale in un grumo di metafore e similitudini di straordinaria evidenza. Per quanto riguarda, infine, la lingua, Machiavelli rifiuta di tornare al fiorentino del Trecento, secondo la proposta coeva di Bembo; ripudia ogni tipo di lingua cortigiana, ottenuta con gli apporti di varie regioni di Italia; e adotta invece il fiorentino contemporaneo, considerato lo strumento più duttile ed efficace per rappresentare le realtà oggetto di analisi. Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 560 560 I Grandi Autori LA RICEZIONE POSTUMA Machiavelli, consapevole del proprio talento, ambì senz’altro a essere riconosciuto come uno dei grandi scrittori del suo tempo. Intorno al 1516, quando lesse nel canto finale dell’Orlando furioso la galleria dei grandi contemporanei salutati da Ariosto alla fine del romanzo, l’ex segretario, in una lettera rivolta a un amico, lamentò con un’imprecazione oscena la propria assenza. Il fatto è che gli scritti di Machiavelli, a parte la Mandragola, non trovarono successo immediato. Machiavelli addirittura vide ben pochi dei propri testi mandati a stampa (il Decennale primo nel 1506; l’Arte della guerra e la Vita di Castruccio Castracani nel 1521). La maggioranza di essi – Principe e Discorsi compresi – ebbe dapprima una circolazione manoscritta, ma fu edita solo dopo la morte del suo autore. La fama di Machiavelli, a quel punto, divenne immediata; ma al tempo stesso si caricò di ombre sinistre. La dirompente novità del punto di vista politico introdotto nei suoi scritti teorici si impose, infatti, in tutta la sua evidenza, ma nel contempo si fece presto sensibile il bisogno di censurare gli aspetti più inquietanti connessi alla netta distinzione fra legge morale e legge politica imposta da Machiavelli. Non a caso nel 1559 gli scritti di Machiavelli furono in toto censurati e il nome del segretario fiorentino, anche fuori dall’Italia, divenne sinonimo di persona astuta, subdola, immorale. Non era, questo, il segretario fiorentino, bensì la sua deformazione cinica e opportunistica; non era il Machiavelli, per così dire, bensì il machiavellismo. Machiavelli, tuttavia, si poté leggere a lungo solo a queste condizioni e la sua ricezione – almeno fino alla riscoperta del suo pensiero fra Otto e Novecento – non poté scompagnarsi della sua censura. Con perfida ironia, nei Promessi sposi, Manzoni alluderà a questa anomala ricezione di Machiavelli servendosi del personaggio di don Ferrante, l’erudito pedante, appassionato lettore del Principe e dei Discorsi «del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo» (cap. XXVII). Guida allo studio 1. A quale genere letterario appartengono Il Principe e i Discorsi e come si differenziano fra loro? 2. Quale forma testuale presenta l’Arte della guerra? 3. Quale strategia letteraria accomuna gli scritti di Machiavelli? 4. Quale lingua sceglie Machiavelli per le sue opere? 5. Quale fortuna incontrano le opere di Machiavelli tra i contemporanei dell’autore? 6. Quando sarà censurata la produzione letteraria di Machiavelli e per quali ragioni? Le opere di Niccolò Machiavelli Scrive la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli Compone varie opere letterarie, fra cui il Decennale primo e la traduzione dell’Andria di Terenzio 1498-1512 Anni dell’impegno politico a Firenze Compone il Principe 1513 Scrive i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio 1513-19 Inizia il Decennale secondo 1514 Inizia l’Asino 151617 Scrive la Mandragola e Belfagor 1518 Lavora all’Arte della guerra 151920 Lavora forse al Lavora alle Discorso Istorie Scrive la o dialogo fiorentine Vita di della 1520-25 Castruccio nostra Castracani lingua 1520 1524 1513-25 Anni dell’esilio all’Albergaccio e dell’astensione forzata dalla politica Scrive la Clizia 1525 Santagata_14:14 19/12/08 16:56 Pagina 561 14. Niccolò Machiavelli 561 Le opere 5 Dalla politica all’ozio forzato: l’Epistolario Anche se la parte più importante degli scritti di Machiavelli risale al periodo successivo alla destituzione, la vocazione letteraria del segretario fiorentino trova già modo di esprimersi durante il frenetico quindicennio di incarichi politici (1498-1512). In questi anni Machiavelli redige una fitta corrispondenza diplomatica nella veste ufficiale di segretario (Legazioni, Commissarie, Scritti di governo). Analizza alcuni degli eventi contemporanei che più colpiscono la sua attenzione, come la feroce gestione del potere del duca Valentino, che Machiavelli considerò sempre esemplare (Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini). Scrive a Perugia, nel 1506, alcune riflessioni sul rapporto conflittuale tra fortuna e capacità politica individuale: i Ghiribizi indirizzati a Giovan Battista Soderini. È autore di una cronaca in versi della storia fiorentina recente, il Decennale (letteralmente, cronaca di dieci anni), oltre che di varie altre opere in versi (sonetti, ballate, canti carnascialeschi). Si interessa di teatro cercando di tornare ai modelli del teatro classico: volgarizza l’Andria, una commedia del poeta latino Terenzio. Inizia a comporre il poemetto in terzine L’Asino. Tuttavia è solo con l’emarginazione dalla vita pubblica, dopo l’annus terribilis 1512, che Machiavelli ha, suo malgrado, l’agio di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Ascoltiamo dalla voce dello Guida allo studio 1. Quali argomenti tratta Machiavelli nella sua corrispon- stesso Machiavelli la genesi della sua vocazione di denza diplomatica? 2. Fra quali generi spazia la produ- teorico, leggendo la lettera all’amico Francesco Vetzione letteraria di Machiavelli prima del 1512? tori del 10 dicembre 1513 [uT93]. L’epistolario di Machiavelli comprende un’ottantina di lettere. Non si tratta di un insieme organico, dal momento che l’autore non provvide mai, come aveva fatto Petrarca, a raccogliere i suoi testi per dare un’immagine ideale di sé. Le lettere del segretario fiorentino, al contrario, costituiscono un efficacissimo esempio di scrittura privata. In questi testi emerge una straordinaria varietà di registri espressivi e di temi: accanto a meditazioni sul potere della fortuna, si leggono rappresentazioni auto-ironiche e battute salaci; accanto a penetranti osservazioni di carattere politico, compaiono deformazioni comiche della realtà privata, nelle quali è facile riconoscere le affinità coi testi teatrali. T93 Le giornate all’Albergaccio e la composizione del Principe Epistolario, 216 Questa è la lettera forse più celebre della letteratura italiana. È l’epistola che Machiavelli scrisse il 10 dicembre 1513, per narrare all’amico Francesco Vettori il tenore della propria vita in seguito alla caduta della Repubblica e alla restaurazione del potere dei Medici (1512). Estromesso da ogni incarico e falsamente accusato di aver preso parte a una congiura anti-medicea, ANTOLOGIA Epistolario Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 562 562 ANTOLOGIA I Grandi Autori l’ex segretario vive ora confinato nel podere di famiglia noto come Albergaccio, nei pressi di San Casciano in Val di Pesa. Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma, ha appena narrato all’amico esule le sue splendide giornate presso la corte del papa. Machiavelli gli risponde narrando, per contrasto, lo squallore delle proprie. Nella prima parte della lettera (dopo un preambolo che si è scelto di non riportare) egli descrive con amarezza le proprie condizioni: di giorno è costretto a trattare con persone triviali, per tutelare i propri interessi, e a “ingaglioffirsi” (‘involgarirsi’) per non annoiarsi. La sera, invece, può finalmente dedicarsi allo studio dei classici latini e alla riflessione sulla storia e sul potere politico. Da questo studio – riferisce l’autore – è nato il trattatello De principatibus, ovvero Il Principe. 5 10 15 20 Io mi sto in villa, et poi che seguirno quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozarli tutti, venti dì a Firenze1. Ho fino a qui uccellato a’ tordi di mia mano2. Levavomi innanzi dì, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con e libri d’Amphitrione3; pigliavo el meno dua, el più sei tordi4. Et così stetti tutto settembre; dipoi questo badalucco, ancora che dispettoso et strano, è mancato con mio dispiacere5; et qual la vita mia vi dirò6. Io mi lievo la mattina con el sole et vommene7 in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l’opere del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mane8 o fra loro o co’ vicini. Et circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, et con Frosino da Panzano et con altri che voleano di queste legne9. Et Fruosino in spetie mandò per certe cataste senza dirmi nulla, et al pagamento mi voleva rattenere 10 lire, che dice haveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca in casa Antonio Guicciardini10. Io cominciai a fare el diavolo; volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro; tandem Giovanni Macchiavelli vi entrò di mezzo, et ci pose d’accordo11. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene et certi altri cittadini, quando quella tramontana12 soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; et manda’ne una a Tommaso, la quale tornò in Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, le fante, e figliuoli, che paréno el Gabburraquando el giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue13. Di modo che, veduto in chi era gua- 1. Io mi sto... Firenze: ‘Io me ne sto in campagna (villa) e, dopo le mie ultime vicende, non sono stato a Firenze, a contarli (accozarli) tutti, nemmeno venti giorni’. – quelli miei ultimi casi: si allude alla destituzione dalle cariche pubbliche, nonché al carcere e alla tortura dovuti all’accusa di aver preso parte a una congiura anti-medicea. 2. uccellato... mano: ‘sono andato a caccia di tordi da solo (di mia mano)’. 3. Levavomi... Amphitrione: ‘Mi alzavo da letto prima dell’alba, preparavo le gabbie disponendovi sopra la pania, proseguivo con un fascio di gabbie addosso, così che sembravo Geta quando tornava dal porto con i libri di Anfitrione’. – Levavomi... impaniavo, andavone: il verbo all’imperfetto serve per designare un’azione abituale per un certo tempo, poi non più praticata. – pania: materiale vischioso sul quale gli uccelli restano invischiati; ‘impaniare’ è termine tecnico proprio della caccia). – Geta: lo schiavo di Anfitrione nel racconto in ottave (tecnicamente detto cantare) intitolato Geta e Birria, ispirato alla celebre commedia del commediografo latino Plauto (259 ca.-184 ca. a.C.). Machiavelli dipinge sé stesso in modo grottesco, alludendo al brano in cui Geta, carico di libri, precede Anfitrione di ritorno da Atene dove era andato per studiare. 4. pigliavo... tordi: ‘pigliavo due tordi quando andava male (el meno), sei quando andava bene (el più)’. 5. dipoi... dispiacere: ‘dopo, questo divertimento (badalucco), per quanto (ancora che) fatto con rabbia e non usuale, non è stato più possibile con mio dispiacere’. 6. qual... dirò: ‘vi dirò quale (sottinteso: sia) la mia vita’ (dopo che non ho più potuto cacciare)’. 7. vommene: ‘me ne vado’. 8. sciagura alle mane: ‘lite in corso’. 9. Et circa... legne: ‘E a proposito di questo bosco io vi avrei a dire mille belle cose che mi sono capitate (intervenute), sia con Frosino da Panzano, sia con altri che volevano un poco di questo legname’. – Frosino da Panzano: possiamo immaginare che fosse un conoscente di Machiavelli e di Vettori. 10. Et Fruosino... Guicciardini: ‘E Frosino in particolare (in spetie) mandò a prendere (mandò) alcune cataste senza dirmi nulla e, al momento di pagarmi, voleva trattenere (rattenere) dieci lire che a suo dire doveva avere (haveva havere) ormai da quattro anni, da quando mi aveva battuto a cricca (un gioco di carte) in casa di Antonio Guicciardini’. – Antonio Guicciardini: è un’altra figura di cui nulla sappiamo, così come degli altri personaggi che appaiono nel seguito del racconto. 11. Io cominciai... d’accordo: ‘Io cominciai a fare una sfuriata (a fare el diavolo); volevo accusare come ladro il carrettiere (vetturale) che era venuto lì per prenderle (le cataste); poi finalmente (tandem, avverbio latino) Giovanni Macchiavelli fece da mediatore (vi entrò di mezzo) e ci mise d’accordo’. 12. quella tramontana: ‘quella famosa tramontana’. La tramontana è un vento gelido, il cui soffiare fa sì che aumenti il consumo di legna da ardere (che era ovviamente la prima fonte di riscaldamento). 13. et manda’ne... un bue: ‘e a Tommaso ne mandai una a Firenze: catasta che a Firenze risultò la metà di quella che era davvero, perché a caricarla sul carro (rizzarla) ci s’erano messi lui, la moglie, le serve (fante) e i figli, che Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 563 563 14. Niccolò Machiavelli 30 35 40 45 sembravano il macellaio Gaburra coi suoi aiutanti quando di giovedì bastona un bue’. Con questa immagine grottesca Machiavelli allude al fatto che Tommaso coi suoi aiutanti si era dato da fare per far sembrare la legna presa a San Casciano la metà di quello che era in effetti, percuotendo la catasta con una forza simile a quella di un macellaio che bastona il bue coi suoi garzoni. Gaburra era appunto un macellaio fiorentino celebre per la sua prestanza. 14. Di modo che... Prato: ‘In questo modo, avendo visto a chi veniva tutto il guadagno, ho detto agli altri che non avevo più legna; e tutti gli altri se ne sono avuti a male (hanno fatto capo grosso) e in particolare Battista, che numera questa fra le altre sciagure di Prato’; Prato fu saccheggiata dagli spagnoli nel 1512, l’anno in cui Battista Guicciardini era podestà della città. Machiavelli ironizza sulle reazioni eccessive dei suoi altri acquirenti. Tommaso e i suoi aiutanti avevano compattato la catasta per farla sembrare meno di quella che era e Machiavelli era stato truffato (la legna era venduta non a peso, ma a volume). 15. uccellare: ‘uccellatoio’ (un bosco dove sono collocate le trappole). 16. Ho un libro... pensiero: ‘Ho un libro sotto braccio (sotto), o di Dante o di Petrarca o di uno di questi poeti minori come Tibullo, Ovidio e altri simili: leggo quelle loro amorose passioni e quei loro amori, mi ricordo dei miei (de’ mia), godo a lungo di questi pensieri. – Tibullo, Ovvidio: Albio Tibullo (55-18 a.C.) e Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-18 d.C.) sono due poeti latini qui ricordati per le loro poesie elegiache, che hanno per tema l’amore. – poeti minori: probabilmente una definizione ironica, dovuta alla leggerezza del tema. 17. dimando... huomini: ‘chiedo notizie (nuove) dei loro paesi, ascolto (intendo) varie cose e noto la varietà dei gusti e dei caratteri degli uomini’. 18. Vienne... comporta: ‘Nel frattempo (in questo mentre) viene l’ora di pranzo, alla quale (dove) con la gente di casa (brigata) mangio quei cibi che consentono (comporta) questa povera dimora di campagna (villa) e il misero patrimonio’. – villa: il podere detto Albergaccio. – paululo: ‘piccolissimo’, latinismo. 19. quivi... fornaciai: ‘qui si trovano di solito (per l’ordinario) l’oste, un macellaio (beccaio), un mugnaio, due operai che lavorano in fornace (fornaciai)’. 20. Con questi... San Casciano: ‘Con questi individui mi involgarisco (m’ingaglioffo) tutto il giorno giocando a carte (criccha è un antico gioco di carte), a dadi (triche-trac), da cui poi (et poi dove) nascono mille litigi, infinite ripicche e offese ingiuriose, e il più delle volte si gioca per pochi soldi (un quattrino) e tuttavia (nondimanco) le nostre grida si sentono fino a San Casciano’. 21. Così rinvolto... vergognassi: ‘Così, dedito a queste misere occupazioni (pidocchi), evito che il cervello mi si ammuffisca (traggo el cervello di muffa) e sfogo la malignità della mia sorte, consentendo (sendo contento) che essa (la sorte) mi calpesti in questo modo (per questa via), per vedere se arriverà a vergognarsene’. 22. Venuta... curiali: ‘Venuta la sera, torno a casa ed entro nel mio studio (scrittoio) e sulla soglia mi tolgo l’abito quotidiano, pieno di fango e mota, e indosso gli abiti reali e degni di una corte (curia in latino significa corte)’. 23. et rivestito... actioni: ‘E dopo essermi rivestito in modo decoroso (condecentemente), entro nelle antiche corti degli uomini antichi, dove, da loro ricevuto con amore, mi nutro di quel cibo che è il solo che sento mio e per il quale io sono nato; dove non mi vergogno a parlare con loro (gli uomini antichi) e a interrogarli (domandarli) sulle ragioni delle loro azioni’. – solum: ‘soltanto’ (avverbio latino). 24. et quelli... in loro: ‘e quelli per la loro cortesia (humanità) mi rispondono, e io per quattro ore non provo alcun fastidio (noia), dimentico ogni affanno, non temo la povertà, la morte non mi incute timore (sbigottiscie): mi trasferisco completamente (tucto) fra di loro’. 25. non fa... inteso: «ché non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso», Paradiso, V, 41-42 (‘capire qualcosa, se poi non lo si ricorda, non equivale a conoscere’). ANTOLOGIA 25 dagno, ho detto agl’altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, et in spetie Batista, che connumera questa tra l’altre sciagure di Prato14. Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare15. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero16. Transferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie d’huomini17. Vienne in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa et paululo patrimonio comporta18. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai19. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a criccha, a triche-tach, et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano20. Così rinvolto entra questi pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi21. Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali22; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni23; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi transferisco in loro24. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso25, io ho notato quello di che per la loro con- Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 564 ANTOLOGIA 564 I Grandi Autori 50 55 60 65 70 versatione ho fatto capitale, et composto uno opusculo De principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono26. Et se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo27, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime28 a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano29. Filippo Casavecchia30 l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte et della cosa in sé, et de’ ragionamenti ho hauto seco, anchor che tuttavolta io l’ingrasso et ripulisco31. Voi vorresti, magnifico ambasciadore, che io lasciassi questa vita et venissi a godere con voi la vostra32. Io lo farò in ogni modo, ma quello che mi tenta hora è certe mia faccende che fra 6 settimane l’harò fatte33. Quello che mi fa stare dubbio è che sono costì quelli Soderini, e quali io sarei forzato, venendo costì, vicitarli et parlar loro34. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, et scavalcassi nel Bargiello, perché, ancora che questo stato habbi grandissimi fondamenti et gran sicurtà, tamen egli è nuovo, et per questo sospectoso, né ci manca de’ saccenti, che, per parere come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, et lascierebbono pensiero a me35. Pregovi mi solviate questa paura, et poi verrò infra el tempo detto a trovarvi a ogni modo36. Io ho ragionato con Filippo di questo mio opusculo, se gli era ben darlo o non lo dare; et, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi37. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non ch’altro, letto, et che questo Ardinghelli si facessi honore di questa ultima mia faticha38. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro et lungo tempo non posso star così che non diventi per povertà contennendo39. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso40; perché, se poi non me gli guadagnassi, io 26. io ho notato... perdono: ‘io ho annotato ciò di cui (di che), conversando con loro, ho fatto tesoro (capitale), e ho composto un libricino (opusculo) intitolato De principatibus, nel quale approfondisco più che posso le riflessioni (cogitationi) su questo tema (subbietto), discutendo (disputando) che cos’è il principato, di quali specie essi siano (sottinteso i principati), come si conquistano, come si conservano (si mantengono), per quali ragioni si perdano’. – De principatibus: titolo latino del Principe (letteralmente: ‘sulle monarchie’). 27. ghiribizo: ‘stravagante fantasia’, detto con modestia. 28. maxime: ‘soprattutto’ (latino). 29. Giuliano: figlio di Lorenzo il Magnifico, Giuliano de’ Medici sarebbe morto però molto presto, nel 1516. Forse in seguito a questa morte o forse in precedenza, Il Principe fu dedicato, invece, a Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino e figlio di Piero (primogenito di Lorenzo il Magnifico). 30. Filippo Casavecchia: l’amico comune menzionato all’inizio della lettera. 31. vi potrà... ripulisco: ‘vi potrà in parte dare informazioni (ragguagliare), sia (et) sul libro in sé, sia (et) sui discorsi che ho avuto con lui, sebbene io accresca il trattato e lo corregga continuamente (tuttavolta)’. Con questa specificazione Machiavelli intende dire che al Casavecchia sfuggono alcune delle idee che Machiavelli ha aggiunto nel frattempo. 32. a godere... vostra: nella lettera del 23 no- vembre Vettori aveva parlato all’amico della vita oziosa e piacevole che stava trascorrendo a Roma. 33. ma quello... fatte: ‘ma ciò che ora mi trattiene (tenta) sono certi miei affari (faccende) che avrò concluso fra sei settimane’. 34. Quello che... loro: ‘Quello che mi rende incerto (mi fa stare dubbio) è che lì a Roma (costì) si trovano i Soderini e, se io venissi lì, sarei costretto (forzato) a visitarli e a frequentarli’. In quel momento risiedeva a Roma Pier Soderini, col fratello cardinale. Prima del ritorno dei Medici, Pier Soderini era stato il gonfaloniere della Repubblica fiorentina. Machiavelli era stato uno dei suoi collaboratori più stretti, perciò teme che i Medici, dai quali vuole essere ora riabilitato, non vedano di buon occhio un suo eventuale contatto con l’ex gonfaloniere. 35. Dubiterei... a me: ‘Temerei che al mio ritorno, credendo di smontare da cavallo (scavalcare) a casa mia, dovessi invece smontare al Bargello (il carcere) perché, sebbene il principato mediceo di Firenze (questo stato) abbia fondamenta solidissime e grande sicurezza (sicurtà), tuttavia (tamen) è di recente formazione (nuovo) e per questo sospettoso (i Medici erano tornati padroni di Firenze solo un anno prima), e non mancano persone intriganti come Paolo Bertini (personaggio a noi ignoto) che, per mettersi in mostra (per parere), mi inviterebbero all’osteria (a scotto), e poi lascerebbero a me la cura di pagare’; fuor di metafora il passo significa: ‘mi manderebbero in prigione e lascerebbero a me la preoccupazione di togliermi dai guai’. – altri: è impersonale, ma qui va riferito al me specificato subito dopo. – scotto: è il prezzo che si paga all’osteria o alla locanda; per metonimia indica il pasto o l’ospitalità. 36. Pregovi... a ogni modo: ‘Vi prego che mi liberiate da questa paura, che poi verrò a trovarvi sicuramente entro (infra) il tempo detto’. 37. Io ho... mandassi: ‘io ho discusso con Filippo (Casavecchia) di questo mio libricino, se era il caso di offrirlo (sottinteso: a Giuliano de’ Medici) oppure no; e, posto che fosse bene offrirlo, se era il caso che io glielo portassi di persona o glielo spedissi’. 38. El non... faticha: ‘Mi faceva credere che fosse meglio non offrirlo il dubbio che Giuliano non l’avrebbe letto neppure (non ch’altro) e che l’Ardinghelli (il segretario del papa Leone X, fratello di Giuliano) si sarebbe preso il merito (si facessi honore) di questa mia ultima fatica’ (dicendo che l’opera fosse sua e non di Machiavelli). 39. El darlo... contennendo: ‘Mi spingeva a offrirlo la necessità (economica) che mi incalza (caccia), perché io mi consumo e non posso stare a lungo in questa condizione senza diventare un povero spregevole (per povertà contennendo: letteralmente: ‘spregevole a causa della povertà)’. 40. Appresso... sasso: ‘Oltre al desiderio che avrei che questi signori Medici cominciassero a servirsi di me (mi cominciassino adoperare), Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 565 565 14. Niccolò Machiavelli 80 Die x Decembris 151345. Niccolò Machiavelli in Firenze anche se (se) dovessero cominciare col farmi rotolare una pietra’, cioè ‘mi dessero un compito anche da poco, faticoso e inutile’. 41. perché... giuocati: ‘perché, se poi non li rendessi ben disposti verso di me (non me gli guadagnassi, i Medici), sarebbe solo colpa mia (e non della fortuna avversa); e grazie a questo (libricino, Il Principe), se venisse letto, si vedrebbe che i quindici anni che mi sono applicato all’arte della politica (sono stato a studio all’arte dello stato), non li ho trascorsi né dormendo, né giocando’. 42. et doverrebbe... experienzia: ‘e dovrebbero tutti apprezzare (haver caro) la possibilità di servirsi di qualcuno che si è riempito di esperienza al servizio di altri’, cioè ‘sotto un altro governo’. 43. Et della fede... povertà mia: ‘E della mia fedeltà (fede, latinismo) non si dovrebbe dubitare, perché, avendo io sempre rispettato la fedeltà, non imparerò certo ora a infrangerla; e colui che è stato fedele e onesto per 43 anni, che è la mia età, non potrà certo (non debbe potere) cambiare la sua natura; e testimonian- Lettura guidata AUTORITRATTO DI GIORNO Nel narrare le proprie giornate di esule all’Albergaccio, Machiavelli ribalta, con amara autoironia, quanto aveva riferito di sé il suo interlocutore Francesco Vettori. Mentre l’amico, ambasciatore a Roma, gode di prestigiosi incontri con le alte personalità della corte papale, Machiavelli è costretto invece a una vita avvilente. Dopo che anche un piccolo divertimento come la caccia ai tordi è venuto a mancare, la giornata standard dell’esule in campagna ci viene narrata come una serie di vicende degradanti. Il primo tempo della giornata è quello in cui Machiavelli si reca al bosco della propria tenuta, per difendere dai profittatori un bene prezioso come la legna: l’autoritratto è quello di un uomo pronto alla lite e alla zuffa (letteralmente a «fare el diavolo», r. 14) pur di tutelare i propri interessi. Questo degrado sembra interrompersi nel tempo successivo, quando, prima di pranzo, presso una fonte, l’autore ha l’agio di leggere un poco di poesia (Dante, Petrarca, Tibullo e Ovidio). Ma il terzo tempo della giornata fa sprofondare di nuovo l’autore za (stimonio) della mia fedeltà e della mia onestà è la mia povertà’. 44. Desidererei... felix: ‘Desidererei dunque che anche (ancora) voi mi scriveste la vostra opinione (quello che... vi paia) riguardo al dubbio se dedicare o no il Principe ai Medici (sopra questa materia). Sii felice’. – Sis felix: formula latina tipica dello stile epistolare. 45. Die x Decembris 1513: ‘il giorno 10 dicembre 1513’ (latino). nell’abbrutimento. All’osteria Machiavelli si autorappresenta in tutto e per tutto simile agli altri avventori: un macellaio, un mugnaio e due operai. Assieme a questa umile compagnia, con la quale litiga a squarciagola per pochi soldi, Machiavelli afferma di “ingaglioffirsi” volentieri, pur di non fare ammuffire il cervello. AUTORITRATTO DI SERA Questo autoritratto di giorno, così sarcastico e impietoso nei propri confronti, è in antitesi violenta e ben studiata con l’autoritratto di sera, il momento in cui Machiavelli può entrare nel proprio scrittoio e dedicarsi alla lettura dei classici antichi. La metafora che qui impiega Machiavelli è quella del cambio di abito: depone la veste diurna, piena di fango (la degradazione morale di cui si è detto); e indossa vesti pulite, pomposamente definite «panni reali et curiali» (rr. 39-40). Evidentemente, questo cambio d’abito è, sì, concreto, ma soprattutto è simbolico: indossando nuove vesti e ritraendosi nello studio, Machiavelli si astrae dalla umile realtà in cui è confinato e può dialogare liberamente con gli autori antichi. Si noti, fra l’altro, che ANTOLOGIA 75 mi dorrei di me; et per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gl’ho né dormiti né giuocati41; et doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi d’uno che alle spese d’altri fussi pieno di experienzia42. Et della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; et chi è stato fedele et buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; et della fede et della bontà mia ne è stimonio la povertà mia43. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia, et a voi mi raccomando. Sis felix44. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 566 ANTOLOGIA 566 tali autori vengono evocati come se fossero dei veri e propri interlocutori in carne e ossa, che Machiavelli può interrogare e ai quali può domandare le ragioni del loro operato politico. Questo dialogo nello scrittoio, che viene metaforicamente designato come un pasto spirituale («quel cibo, che solum è mio», r. 41), è il perfetto opposto del dialogo volgare all’osteria. Si badi però che entrambi i momenti della giornata costituiscono per Machiavelli occasione di conoscenza. Anche di giorno, sulla strada davanti all’osteria, egli aveva domandato ai passanti «nuove de’ paesi loro» (r. 27) per conoscere «varii gusti et diverse fantasie d’huomini» (r. 28). La vocazione di Machiavelli alla conoscenza dell’uomo e alle costanti del suo agire è identica, anche se ovviamente è solo di sera che può essere degnamente soddisfatta. DUE STILI DISTINTI Il contrasto fra i due autori- tratti, quello diurno e quello serale, si regge su una ben studiata differenza stilistica. Nel primo caso Machiavelli impiega un registro colloquiale, che non di rado sfocia nel comico, come quando, per evocare la truffa subìta da Tommaso del Bene, ricorre alla similitudine del macellaio Gaburra che il giovedì bastona il bue in piazza. Nella seconda metà della lettera, invece, lo stile si fa più sostenuto, ricco di termini latineggianti e di espressioni auliche: «panni reali et curiali» (rr. 39-40), «entro nelle antique corti degli I Grandi Autori antiqui huomini» (r. 40), «mi pasco di quel cibo» (r. 41). Con la rappresentazione grottesca della prima parte, Machiavelli si dipinge coscientemente come colui che è prostrato dalla fortuna, ma non teme di accettare le conseguenze della mala sorte («et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi», rr. 35-37). Raffigurandosi invece intento a nobili studi, Machiavelli esalta la propria sete di conoscenza e la propria ricerca di una “virtù” politica, vale a dire di una capacità di governare lo Stato: «arte dello stato» (r. 74). IL PRINCIPE A questa arte di governare lo Stato è dedicato il frutto degli studi serali: il trattatello teorico intitolato Il Principe (qui recante il titolo latino De principatibus). Con questa opera, che qui appare ancora destinata a Giuliano de’ Medici, ma che in seguito sarebbe stata dedicata a Lorenzo di Piero de’ Medici duca d’Urbino, Machiavelli intendeva mostrare ai nuovi padroni di Firenze tutta la sua competenza politica, con l’orgoglio di chi sapeva di aver messo a frutto come meglio non si poteva i quindici anni di esperienza: «si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gl’ho né dormiti né giocati» (rr. 7375). L’auspicio dunque è quello di ricevere nuovi incarichi, quand’anche fossero state fatiche inutili come «voltolare un sasso» (r. 72). Esercizi comprensione e analisi 1. Dividi la lettera in sequenze e isola i singoli momenti della giornata dell’autore. 2. Evidenzia i verbi che caratterizzano le azioni svolte nei diversi momenti della giornata. 3. Sottolinea i paragoni e le similitudini presenti nel testo. 4. Riassumi il testo nel minor numero di parole possibile, usando la terza persona. 5. Nel brano è utilizzata la parola scotto (r. 62). In quale accezione? Conosci qualche espressione dell’italiano contemporaneo in cui si usa ancora questa parola? interpretazione 6. Sottolinea tutti i riferimenti alla nuova opera che Machiavelli dichiara di aver composto presenti nella lettera. 7. Isola nel testo alcuni passi che rivelino le differenze stilistiche fra l’autoritratto diurno e quello serale. 8. Il trapasso dalla prima alla seconda parte della lettera viene simboleggiato con un cambio d’abito. Che significato attribuisci a questo trapasso? Spiegalo usando circa 100 parole. interpretazione e contestualizzazione 9. Nella scena all’osteria è implicita una ben precisa concezione antropologica. In quali altri passi hai visto Machiavelli insistere sull’attaccamento degli uomini al proprio interesse? 10. Dal testo affiora in modo chiaro la volontà da parte di Machiavelli di tornare a dedicarsi alla vita politica. Ripercorri, a partire dai riferimenti presenti nella lettera e sulla base delle tue conoscenze, le circostanze che lo hanno visto protagonista della politica fiorentina, i suoi incarichi, le vicende che lo hanno costretto ad allontanarsi da Firenze; scrivi sull’argomento un testo di circa 300 parole. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 567 14. Niccolò Machiavelli 567 6 Il Principe COMPOSIZIONE DEL TRATTATO E SCELTA DELL’ARGOMENTO La genesi del Principe è documentata dalla celebre lettera che Machiavelli scrisse all’amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 dall’Albergaccio [uT93]. Qui l’autore lamenta l’esilio al quale è costretto dopo la caduta della Repubblica fiorentina e la restaurazione del potere dei Medici. Trascorrendo nell’ozio le proprie giornate, l’ex segretario della Repubblica si dedica alla lettura degli storici antichi e alla riflessione sul potere politico. Da questa riflessione – ci viene narrato – è nato l’«opusculo» (libretto) intitolato De principatibus, titolo latino che significa letteralmente ‘i principati’ o ‘le monarchie’ (anche i singoli capitoli dell’opera recano tutti un’indicazione di argomento in latino). Il Principe è un breve trattato politico, di soli 26 capitoli, il cui oggetto è la forma politica della monarchia o, come spiega l’autore all’amico, «che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». La scelta del tema, la monarchia e le sue forme, è funzionale al desiderio di Machiavelli di essere riammesso agli incarichi politici. L’opera infatti era stata pensata per essere dedicata a un esponente di spicco fra i Medici. Da una parte, l’ex segretario scrive Il Principe per mostrare ai nuovi padroni di Firenze tutta la competenza politica maturata nei suoi quindici anni al servizio della Repubblica: non a caso il principato che viene più diffusamente analizzato è quello che viene definito «nuovo», vale a dire la monarchia di recente formazione, come era quella medicea a Firenze. D’altro canto, l’autore si rivolge ai signori di Firenze per spronarli a estendere la loro egemonia su tutta l’Italia, così da liberare la penisola dall’influenza delle potenze straniere, la Francia, la Spagna e l’Impero germanico. La forma politica del principato viene proposta in una luce eroica e ideale: essa risulta la risposta più efficace alle drammatiche condizioni dell’Italia contemporanea, nella quale il sistema delle signorie quattrocentesche era venuto meno con la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e la calata in Italia dell’esercito francese di Carlo VIII, nel 1494. Machiavelli scrisse Il Principe (o quantomeno il suo nucleo) in pochi mesi e con grande veemenza: per dedicarsi all’«opusculo», egli interruppe i più ampi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Non sappiamo tuttavia quanto del Principe fosse composto all’altezza della lettera al Vettori. Alcuni pensano che nel dicembre 1513 l’intera opera fosse conclusa; altri pensano invece che a quella data fossero pronti solo i primi undici capitoli e che il resto sia stato composto intorno al 1515, con eventuali, successive aggiunte. La dedica dell’opera non aiuta a sciogliere l’incertezza. Nel 1513 Machiavelli aveva previsto di offrire a Giuliano de’ Medici il trattato, che in seguito fu invece dedicato a Lorenzo di Piero de’ Medici, duca di Urbino. Ma quando e perché l’autore modificò la dedica? Nel 1516, dopo la morte di Giuliano? Oppure fra il 1515 e il 1516, mentre Giuliano era ancora vivo, ma Lorenzo, nel frattempo, veniva eletto capitano generale dei fiorentini e nominato duca di Urbino? L’incertezza sussiste. Certo è solo che Lorenzo si rivelò una figura abbastanza scialba: la straordinaria novità del trattato passò inosservata e il testo fu stampato solo nel 1532, dopo che il suo autore era già scomparso. STRUTTURA Alla lettera dedicatoria a Lorenzo de’ Medici seguono i 26 capitoli che com- pongono la trattazione teorica: essi si possono raggruppare in quattro sezioni principali. Nella prima sezione (capp. I-XI) Machiavelli distingue fra tre tipi di principato: l’ereditario, il misto e il nuovo. Il primo e il secondo vengono discussi nei capp. II-V: si tratta di quelle monarchie, nelle quali il principe o ha ereditato il potere (principato ereditario), o l’ha in parte ereditato, in parte conquistato di recente (principato misto). Il terzo tipo di Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 568 568 I Grandi Autori monarchia, il principato nuovo, è quello in cui il principe ha conquistato l’intero regno con la sua capacità politica, sfruttando a proprio favore la sorte o fortuna. Questo tipo viene trattato diffusamente (capp. VI-XI) ed è quello che più sta a cuore a Machiavelli, il quale si rivolge ai Medici, principi nuovi di Firenze, e confida in loro, affinché siano risollevate le sorti dell’Italia. Dopo avere additato alcuni modelli antichi [uT95], Machiavelli indugia sull’operato di due principi nuovi vissuti di recente, il cui operato egli considera esemplare: Francesco Sforza, duca di Milano; e il duca Valentino, signore di Romagna [uT96]. Nella seconda sezione, assai breve (capp. XII-XIV), oggetto di analisi è la cruciale questione delle milizie: l’autore esalta le milizie proprie, fedeli al loro principe e motivate dalla difesa di interessi personali; al contrario, deplora le milizie mercenarie, allora impiegate da molti Stati, ma considerate da Machiavelli del tutto inaffidabili. Nella terza sezione (capp. XV-XXIII), Machiavelli prende in esame i vizi e le virtù del principe. Le virtù che egli propone al principe non sono dettate dal criterio di dovere morale, bensì da quello di utilità politica. Secondo Machiavelli, infatti, è indispensabile separare il punto di vista morale dal punto di vista politico: se il primo considera gli uomini per quello che dovrebbero essere, il secondo li fa conoscere per quello che effettivamente sono («verità effettuale»). I vizi e le virtù del principe, di conseguenza, non sono da misurare secondo il criterio morale, bensì secondo quello politico [uT97]. È in quest’ottica che Machiavelli si induce a consigliare al perfetto principe alcune virtù esclusivamente politiche: essere parsimonioso piuttosto che generoso, crudele piuttosto che pietoso, usare l’astuzia della volpe e la violenza del leone, non sentirsi obbligato a rispettare la parola data [uT98]. Nella quarta e ultima sezione (capp. XXIV-XXVI) Machiavelli conclude analizzando la drammatica situazione politica dell’Italia contemporanea [uT99]. Insistendo sulla dialettica fra la capacità politica del principe e la fortuna avversa, Machiavelli auspica l’avvento di un principe nuovo (il destinatario Lorenzo de’ Medici), che con risolutezza sappia liberare l’Italia dai barbari [uT100]. UNA NUOVA VISIONE DELLA POLITICA Per rendersi conto della straordinaria novità del trattato di Machiavelli occorre tener conto che la precedente trattatistica sul potere regale aveva sempre invitato il principe a conformarsi a un modello di virtù morale. Questa tradizione, che prende il nome di Speculum principis (‘specchio di virtù nel quale il principe è invitato a specchiarsi e a conformare le proprie azioni’), viene liquidata da Machiavelli e sostituita con una concezione del tutto nuova di virtù politica. La virtù del regnante, infatti, non si misura sulla sua capacità di conformarsi a un modello etico, bensì sulla sua capacità di conservare il potere e di garantire la felicità pubblica, secondo un principio di vera e propria emancipazione della politica dalla morale. Questa visione della politica, del tutto laica e disincantata, poggia su una concezione dell’uomo pessimistica, una vera e propria antropologia negativa, secondo cui è impossibile, sia ai sudditi sia al principe, conformarsi alla morale; da tale concezione scaturisce di conseguenza che il principe debba guardare in faccia la realtà concreta delle cose («verità effettuale»). Ma oltre alla verità effettuale, a guidare il principe devono essere alcuni modelli antichi e recenti, che Machiavelli di continuo propone all’attenzione come paradigmi di comportamento: il più esplicito dei modelli da lui proposti è un principe nuovo appena uscito di scena, il cosiddetto duca Valentino, capace di una gestione efficacissima in quanto risoluta e astuta. Ma altrettanto influenti sono i modelli antichi per lo più ricavati dalla lettura dei classici (nelle lettera al Vettori, del resto, il Principe viene presentato come il frutto degli studi umanistici coltivati la sera). Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 569 569 14. Niccolò Machiavelli UN NUOVO ORIZZONTE IDEALE La nuova visione politica proposta nel Principe, come si può immaginare, era destinata a risultare scandalosa: non a caso nel 1559, nel clima del disciplinamento cattolico promosso dal Concilio di Trento, tutte le opere di Machiavelli sarebbero state incluse nell’Indice dei libri proibiti; e “machiavellismo” sarebbe presto diventato sinonimo di gestione scaltra e cinica del potere. Tuttavia il “machiavellismo” cinico è ben altra cosa rispetto al Machiavelli autentico. Nella fattispecie, la carica ideale che pervade Il Principe è fortissima: non è una carica di natura morale e tanto meno religiosa, bensì esclusivamente politica. L’esercizio del potere, infatti, viene immaginato da Machiavelli come una grande lotta contro la fortuna, capricciosa e maligna. Se il principe saprà come dare solide basi al suo Stato, otterrà reputazione per sé e darà ai suoi sudditi il buon governo, una volta liberata l’Italia dai barbari. Guida allo studio 1. In quale testo Machiavelli annuncia la composizione del Principe e il suo argomento? 2. In quale periodo della sua vita scrive il trattato? 3. A chi dedica Il Principe e perché? 4. Come è organizzato il trattato e quali argomenti affronta? 5. Quali innovazioni introduce Il Principe rispetto alla precedente trattatistica politica? 6. Quale visione politica e quali modelli devono guidare il principe? 7. Quale significato assume nel corso del tempo il termine “machiavellismo”? In che modo questa definizione si discosta dal pensiero di Machiavelli? T94 Distinzioni preliminari Il Principe, cap. I La lunghezza dei capitoli del Principe è variabile. Il primo capitolo, brevissimo, ha la funzione di preambolo. Qui Machiavelli distingue fra «repubbliche» e «principati», ma soprattutto fra tre diversi tipi di principato: l’ereditario, il nuovo e il misto. Quot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur1 5 Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati2. E’ principati sono o ereditari, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe3, o sono nuovi. E’ nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza4, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna5. Sono questi dominii così acquistati o consueti a vivere sot- 1. Quot sint... acquirantur: ‘Di che genere siano i principati e in che modo si acquistino’. Tutte le indicazioni di argomento premesse ai capitoli del trattato sono in latino. Si ricordi del resto che lo stesso titolo originale è in latino (De principatibus: ‘Sulle monarchie’). 2. Tutti... principati: ‘Tutti gli Stati, i potentati (dominii) che hanno avuto e hanno potere sugli uomini, sono stati e sono o Repubbliche o monarchie’. I principati si contrappongono alle repubbliche, ovvero agli Stati in cui il potere non è nelle mani di uno solo (il termine ‘Repubblica’ viene dal latino res publica: ‘cosa pubblica’). 3. de’ quali... principe: ‘sui quali la dinastia (el sangue) del loro signore sia stata (ne sia suto) a lungo al potere’. 4. o e’ sono... Sforza: ‘o sono totalmente nuovi come fu Milano per Francesco Sforza’. Francesco Sforza (1401-1466) fece fortuna come capitano di ventura e poté sposare Bianca Maria, figlia del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Dopo la morte di questi (1447), Milano si proclamò Repubblica e nominò lo Sforza capitano nella guerra contro Venezia. Ma que- sti prese accordi con l’esercito veneziano e con la forza costrinse i repubblicani a cedergli il potere. Iniziò così il “principato nuovo” degli Sforza su Milano. 5. o sono... Spagna: ‘oppure sono come parti (membri) aggiunte allo Stato ereditario del principe che se ne impossessa come è il Regno di Napoli per il re di Spagna’. Il re di Spagna è Ferdinando il Cattolico, il quale sconfisse Federico di Aragona re di Napoli e gli sottrasse il regno nel 1503. Più avanti Machiavelli chiamerà questi Stati principati mis. ANTOLOGIA Il Principe Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 570 ANTOLOGIA 570 I Grandi Autori to uno principe o usi a essere liberi6; e acquistonsi o con l’arme d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù7. 6. Sono... liberi: ‘Gli Stati conquistati in questo modo o sono abituati (consueti) a vivere sotto un governo monarchico oppure sono liberi, abituati alla Repubblica’. 7. acquistonsi... virtù: ‘si acquistano o con gli eserciti (arme) propri o altrui, o grazie a un’oc- Lettura guidata casione favorevole o per la propria capacità politica (virtù)’. quando una parte dello Stato è ereditata e un’altra parte acquisita di recente. LO STILE DILEMMATICO Nelle prime righe del Prin- cipe Machiavelli impiega subito uno stile che ricorre in molti altri brani del trattato: uno stile che è stato definito dilemmatico per il largo impiego dalla congiunzione disgiuntiva ‘o / oppure’. Il concetto esaminato, infatti, viene presentato da Machiavelli come un dilemma, come una scelta fra due o più elementi in conflitto tra loro, che vengono posti al lettore quali dati di fatto inconfutabili. Proviamo a orientarci fra le molte possibilità condensate nelle poche righe appena lette. A un primo livello, secondo Machiavelli, gli Stati o sono Repubbliche oppure sono monarchie. Le Repubbliche non sono oggetto di analisi del Principe, bensì dell’altra opera politica di Machiavelli, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Non c’è quindi ragione di procedere a ulteriori distinzioni in proposito. Da distinguere, invece, sono le monarchie: il potere di un principe può dunque essere o completamente ereditato, o completamente acquisito, ma può essere, infine, anche misto, ALTRE DISTINZIONI Di tutti i principati, come vedremo nei capitoli successivi, quello che più interessa a Machiavelli è il principato nuovo e tale era anche quello dei Medici, ai quali l’autore si sta rivolgendo. Ecco che allora sono necessarie ulteriori precisazioni circa i principati acquisiti. Quando uno Stato viene conquistato, infatti, o la popolazione amministrata passa da dominio monarchico a un altro di identica natura, oppure passa dalla repubblica alla monarchia. Ci si soffermi infine su un’ultima distinzione: l’acquisto del regno da parte del principe dipende o dalla sua virtù o dalla fortuna. Entrano qui in gioco le due forze principali del mondo di Machiavelli, due forze che vedremo spesso all’opera nei capitoli successivi: la sorte e la capacità politica del principe (si tenga conto fin da subito che il termine virtù nel Principe di norma significa sempre e solo ‘capacità politica’, senza assumere mai alcuna connotazione morale). Esercizi analisi interpretazione 1. Visualizza la casistica prevista da Machiavelli con uno schema ad albero. 2. Cosa distingue la monarchia dal principato? 3. Quali sono i tre tipi di principato per Machiavelli? Come si distinguono tra loro? T95 Il principe nuovo: la perfezione dei modelli antichi Il Principe, cap. VI Nei capitoli II-V, che non abbiamo riportato, sono analizzati i principati ereditari e quelli misti. Nel VI capitolo si analizza il terzo tipo: il principato nuovo. Qui Machiavelli adotta un punto di vista molto peculiare: il principato recente viene discusso tramite alcuni esempi antichi che vengono additati come modelli perfetti, tratti dalla storia e dal mito (Mosè, Ciro, Romolo, Teseo, Gerone). È a questi esempi antichi che i moderni principi nuovi devono rifarsi, secondo un criterio di imitazione. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 571 571 14. Niccolò Machiavelli 5 10 15 25 1. De principatibus... acquiruntur: ‘Sui principati nuovi che si conquistano con le armi proprie e con la virtù’. 2. Non si... esempli: ‘Non si meravigli nessuno se, parlando dei principati del tutto nuovi, in cui è nuova sia la dinastia (di principe), sia il governo monarchico (di stato), io porterò esempi relativi a personaggi illustri’. 3. Perché... imitare: ‘Dal momento che gli uomini seguono sempre le strade percorse (battute) da altri e agiscono imitando i modelli (con le imitazioni), e poiché non è possibile imitare in tutto e per tutto (al tutto) l’esempio offerto da altri, né raggiungere la capacità (virtù) di quelli che vengono imitati, un uomo prudente deve imboccare sempre (entrare sempre per) le vie percorse dagli uomini grandi e imitare quelli che sono stati i più grandi di tutti (eccellentissimi)’. 4. acciò... odore: ‘in modo tale che se la sua capacità politica non è all’altezza di quelli, ne conservi almeno qualche profumo’, cioè manifesti a quale modello ci si è ispirati. 5. e fare... loro: ‘e (deve) comportarsi come gli arcieri accorti, i quali, apparendo loro troppo lontano il luogo del bersaglio che vogliono col- pire e conoscendo la gittata (a quanto va la virtù, letteralmente: ‘fin dove arriva la potenza’) del loro arco, mirano molto più in alto del bersaglio prestabilito (luogo destinato), non per colpire con la loro freccia un punto così alto, ma per arrivare al loro bersaglio (al disegno loro) con l’aiuto di una mira tanto alta’. 6. Dico... acquista: ‘Dico dunque che nei principati del tutto nuovi, dove salga al potere un principe nuovo, si riscontra (si truova) una maggiore o minore difficoltà a seconda che sia più o meno capace (virtuoso) colui che li conquista’. 7. E perché... difficultà: ‘E poiché questo evento, da privato cittadino diventare principe, presuppone o fortuna o abilità individuale (virtù), è evidente (pare) che l’una o l’altra di queste due forze (virtù o fortuna) attenuano in parte molte difficoltà’. 8. nondimanco... più: ‘nondimeno, colui che ha fatto meno affidamento sulla fortuna ha mantenuto il potere più a lungo’. 9. Genera... abitarvi: ‘Facilita inoltre la conservazione del potere il fatto che il principe sia costretto ad abitarvi (nello Stato acquisito), per il fatto che è privo di altri Stati’. 10. e’: ‘i’ (questo vale anche per i casi successivi). 11. Moisè... simili: gli esempi additati come i modelli perfetti del principato nuovo sono tratti dall’antichità ebraica e da quella classica: Mosè liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e, dopo averli ricondotti in Palestina, fu il loro legislatore; Ciro il Vecchio (VI sec. a.C.) diede origine al Regno persiano; Romolo è il mitico fondatore di Roma; altro eroe leggendario, infine, è Teseo, il liberatore di Atene dal dominio di Creta. 12. E benché... con Dio: ‘E anche se di Mosè non si deve parlare, essendo stato (sendo suto) un semplice esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tuttavia (tamen, latino) deve essere ammirato, solamente (solum, latino) per quel privilegio (grazia) che lo rendeva degno di parlare con Dio’. 13. e se si considerranno... precettore: ‘e se si considereranno le azioni e i metodi (ordini) propri di loro (particulari), risulteranno essere non discordanti da quelli di Mosè che ebbe un maestro di arte politica (precettore) tanto grande (Dio)’. ANTOLOGIA 20 Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli2. Perché, camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere né alla virtù di quegli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi e quegli che sono stati eccellentissimi imitare3: acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore4; e fare come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro5. Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si truova a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso colui che gli acquista6. E perché questo evento, di diventare di privato principe, presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighino in parte molte difficultà7; nondimanco, colui che è stato meno in su la fortuna si è mantenuto più8. Genera ancora facilità essere el principe constretto, per non avere altri stati, venire personalmente ad abitarvi9. Ma per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che e’10 più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili11. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamen debbe essere ammirato, solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio12. Ma considerato Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili; e se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì grande precettore13. Ed esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi den- ANTOLOGIA De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur1 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 572 ANTOLOGIA 572 I Grandi Autori 30 35 40 45 50 55 tro quella forma che parse loro14: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano. Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo e oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo15. Conveniva che Romulo non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere, a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria16. Bisognava che Ciro trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati per la lunga pace17. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli ateniesi dispersi18. Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima19. Quelli e’ quali per vie virtuose20, simili a costoro, diventono principi, acquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli hanno nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e la loro sicurtà21. E debbesi considerare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini22. Perché lo introduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene23: la quale tepidezza nasce parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte da la incredulità degli uomini, e’ quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza24. Donde nasce che, qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri difendono tiepidamente: in modo che insieme con loro si periclita25. È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi o se dependono da altri: cioè se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare26. Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna; ma quando dependono da loro 14. non si... loro: ‘si vede che la fortuna offrì loro soltanto l’opportunità, la quale opportunità gli fornì la materia in cui poterono introdurre quella forma che essi vollero (parse loro)’. Con l’antitesi forma / materia si allude qui alla fisica di Aristotele, il quale aveva distinto fra la materia da una parte, duttile e grezza, e la forma dall’altra, che dà ordine alla materia. 15. Era... seguirlo: ‘Era dunque necessario che Mosè trovasse il popolo di Israele schiavo e oppresso dagli Egiziani, affinché quelli, per uscire dalla schiavitù, fossero disposti (si disponessino) a seguirlo’. 16. Conveniva... patria: ‘Era necessario che Romolo non avesse spazio a sufficienza (capessi) ad Alba (Longa) e che, appena nato, fosse stato abbandonato (esposto al nascere), perché egli avesse la volontà di diventare re di Roma e fondatore di quello Stato’. Secondo il racconto di Livio, Romolo e Remo, appena nati, sarebbero stati esposti e allattati da una lupa. 17. Bisognava... pace: ‘Bisognava che Ciro trovasse i Persiani scontenti di essere comandati (dello imperio) dai Medi e che i Medi fossero rammolliti ed effeminati per la lunga pace’. Medi e Persiani erano due popoli che abitavano nell’attuale Iran: Ciro il Grande unificò i due Stati nel 550 a.C. sostituendo al potere dei Medi quello dei Persiani. 18. Non poteva... dispersi: ‘Teseo non avrebbe potuto dimostrare la sua abilità politica se non avesse trovato gli Ateniesi dispersi in tanti villaggi’; secondo il mito Teseo avrebbe confederato gli sparsi villaggi dell’Attica in una sola città: Atene. 19. Queste... felicissima: ‘Queste occasioni pertanto resero fortunati (felici) questi uomini e la loro eccezionale abilità politica face sì che loro riconoscessero tale occasione (e quindi sapessero come utilizzarla); per cui (donde) il loro Stato acquistò prestigio e potere (ne fu nobilitata)’. 20. per vie virtuose: ‘con la propria abilità politica (virtuose, da virtù)’. 21. le difficultà... sicurtà: ‘le difficoltà che essi (gli) hanno nel conquistare un principato nascono in parte dagli ordinamenti (ordini) e dalle forme di governo (modi) che sono costretti (forzati) a introdurre per rendere stabili (fondare) il loro Stato e la loro sicurezza personale (sicurtà)’. 22. debbesi... ordini: ‘si deve tenere presente (considerare) che non c’è cosa più difficile da intraprendere (trattare), né più incerta (dubbia) da portare a compimento (a riuscire), né più pericolosa da attuare (maneggiare) che prendere l’iniziativa di introdurre nuovi ordinamenti’. 23. Perché... bene: ‘Perché chi li introduce ha come nemici tutti quelli che traggono beneficio dai vecchi ordinamenti, e ha come timidi sostenitori quelli che potrebbero trarne vantaggi (farebbono bene)’; costoro esitano perché non sono sicuri di ricevere vantaggi dalla nuova situazione politica. 24. non credono... esperienza: ‘non hanno in verità fiducia nelle novità se non vedono nascere una sua prova certa (ferma esperienza)’. 25. Donde nasce... si periclita: ‘Perciò accade che ogni volta che i nemici (del principe) abbiano occasione di attaccarlo lo fanno con accanimento (partigianamente), e quegli altri (i suoi fautori) lo difendono fiaccamente (tiepidamente), così che con il loro sostegno si corrono dei rischi (si periclita)’. 26. È necessario... forzare: ‘È perciò necessario, volendo discutere (discorrere) bene questo aspetto, considerare attentamente se questi innovatori sono autonomi (stanno... medesimi) o se dipendono da altri: cioè se per portare a termine la loro impresa devono chiedere l’aiuto ad altri (bisogna che preghino) o possono usare la forza’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 573 573 14. Niccolò Machiavelli 65 70 75 80 27. Nel primo caso... periclitano: ‘Nel primo caso falliscono sempre e non raggiungono alcun risultato, ma quando dipendono solo da sé stessi e possono usare la forza (i loro eserciti) allora è raro che corrano rischi (periclitano)’. – è: ‘accade’. 28. di qui... ruinorno: ‘da ciò è conseguito che tutti i profeti armati vinsero (vinsono) e che tutti quelli disarmati andarono in rovina’. In verità l’unico profeta fra i principi sopra ricordati è Mosè, ma Machiavelli usa questa espressione perché subito dopo parla con disprezzo di Girolamo Savonarola. 29. la natura... persuasione: ‘l’indole dei popoli è volubile (varia) ed è facile persuaderli di qualcosa, ma è difficile far sì che mantengano quella convinzione’. 30. e però... forza: ‘e perciò (però) bisogna essere organizzati (essere ordinato) in modo che quando (i sudditi) non hanno più fiducia (nel principe) si possa costringerli ad aver fiducia per forza’. 31. arebbono: ‘avrebbero’. 32. constituzioni: ‘leggi’. 33. intervenne... discredenti: ‘capitò a Girolamo Savonarola, il quale perse il potere (ruinò) quando da poco aveva riformato lo Stato (ne’ sua ordini nuovi), non appena (come) il popolo iniziò a non credere più in lui, né lui aveva modo di far restare fedeli coloro che lo avevano sostenuto, né di rendere fedeli coloro che non lo erano stati prima (e’ discredenti)’. Un modello negativo per Machiavelli è Savonarola (14521498), il celebre frate domenicano, che, dopo la cacciata dei Medici da Firenze (1494), provò a trasformare la Repubblica fiorentina in una democrazia religiosa. Fu avversato dal papa Alessandro VI e dalle più potenti famiglie di Firenze e, in quanto “profeta disarmato”, fallì: fu abbandonato infatti dai suoi sostenitori, accusato di eresia e arso sul rogo in Piazza della Signoria. 34. Però... superino: ‘Perciò questi principi nuovi (questi tali) incontrano grande difficoltà nel procedere (nella conquista del potere) (condursi), e tutti i loro pericoli sono quelli che si frappongono durante il cammino (per conquistare il potere) (fra via) e bisogna che li superino grazie alla loro abilità politica (con la virtù)’. 35. Ma superati... felici: ‘Ma una volta che li (gli) hanno superati e quando (che, con valore temporale) cominciano a essere onorati e obbediti (in venerazione), dopo che hanno eliminato (avendo spenti) coloro che li invidiavano (gli avevano invidia) per la loro posizione (di sua qualità), rimangono potenti, sicuri, onorati e fortunati’. 36. ma bene... simili: ‘ma avrà pure (bene) qualche rapporto di analogia (proporzione) con quelli, e voglio che mi sia sufficiente per tutti gli altri casi simili’. 37. Ierone siracusano: un altro esempio antico, tratto dalla storia greca; Gerone II fu il tiranno di Siracusa (269-215 a.C.). 38. di privato: ‘dalla condizione di privato’. 39. né ancora... occasione: ‘e anche lui non dovette riconoscere (di aver avuto) alla fortuna null’altro che l’occasione favorevole’. 40. perché... principe: ‘perché, essendo i siracusani minacciati, lo scelsero (elessono) come capitano del loro esercito; e da qui meritò di essere fatto loro monarca’. Nel 282 a.C. Siracusa era stata occupata dai Mamertini, guerrieri mercenari provenienti dalla Campania, in precedenza assoldati da Agatocle (tiranno di Siracusa prima di Gerone). 41. fu... regnum: ‘ebbe tanta abilità politica, anche (etiam, latino) da cittadino privato, che lo storico che scrive di lui (Giustino, II sec. d.C.) afferma che non gli mancava nulla per essere re tranne il regno’ (quod... regnum, latino). 42. spense... nuove: ‘eliminò il vecchio esercito (milizia), ne allestì uno nuovo; lasciò le vecchie alleanze, ne fece delle nuove’. 43. possé... mantenere: ‘poté su tali basi (esercito e alleanze) realizzare ogni progetto per il nuovo Stato (ogni edifizio), in modo che fece molta fatica per acquistare (il potere) e poca per mantenerlo’. ANTOLOGIA 60 propri e possono forzare, allora è che rare volte periclitano27: di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno28. Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ populi è varia ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione29: e però conviene essere ordinato in modo che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza30. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono31 potuto fare osservare loro lungamente le loro constituzioni32, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra Ieronimo Savonerola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a fare credere e’ discredenti33. Però questi tali hanno nel condursi grande difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via e conviene che con la virtù gli superino34. Ma superati che gli hanno, e che cominciano a essere in venerazione, avendo spenti quegli che di sua qualità gli avevano invidia, rimangono potenti, sicuri, onorati e felici35. A sì alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene arà qualche proporzione con quegli, e voglio mi basti per tutti gli altri simili36: e questo è Ierone siracusano37. Costui di privato38 diventò principe di Siracusa; né ancora lui conobbe altro da la fortuna che la occasione39: perché, sendo e’ siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano; donde meritò di essere fatto loro principe40. E fu di tanta virtù, etiam in privata fortuna, che chi ne scrive dice quod nihil illi deerat ad regnandum praeter regnum41. Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove42; e come ebbe amicizie e soldati che fussino sua, possé in su tale fondamento edificare ogni edifizio, tanto che lui durò assai fatica in acquistare e poca in mantenere43. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 574 ANTOLOGIA 574 Lettura guidata L’IMITAZIONE DEGLI ANTICHI Nel brano appena letto Machiavelli sostiene la necessità di rifarsi ai modelli antichi. La via da seguire per il principe nuovo (quale era Lorenzo de’ Medici dedicatario del trattato) consiste nell’imitazione dei principi nuovi protagonisti della storia antica o della mitologia. Questo ideale si potrebbe definire una forma di classicismo politico, ma è da tener conto che, nel proporre il criterio di imitazione, Machiavelli è molto cauto. Ai suoi occhi infatti risulta impossibile ricalcare in tutto e per tutto il modello degli antichi, perché non è possibile eguagliarne le capacità politiche. Il criterio di imitazione vale dunque come una linea guida prudenziale. Non a caso Machiavelli usa l’immagine dell’arciere il quale, per colpire il bersaglio più lontano, calcola la gittata della freccia mirando un poco più in alto. Quel mirare un poco più in alto, per chi sappia decifrare la similitudine, consiste nel ricorso al modello degli antichi. LE FORZE IN CAMPO: VIRTÙ E FORTUNA Venen- do al corpo centrale del capitolo, la prima cosa da notare è che nel mondo descritto da Machiavelli agiscono due forze principali: la capacità politica del principe (virtù) e la sorte (fortuna). Il principe perfetto è colui che sa fondare il proprio potere solo sulla propria virtù, senza fare alcun affidamento sulla fortuna. Alla fortuna può essere debitore solo delle circostanze favorevoli che gli hanno permesso di attuare la propria virtù, e nulla più. A queste circostanze Machiavelli attribuisce il nome di occasione. Secondo questo ideale il principe nuovo deve tendere a una totale autonomia dal corso degli eventi: per fare questo egli faticherà molto nel I Grandi Autori fondare le basi del potere, ma non avrà problemi nel gestirlo in seguito, una volta fondato. LE MILIZIE E IL POPOLO Strumento indispensabile per il principe che voglia rendersi autonomo dalla fortuna sono le milizie. Quasi in forma di proverbio Machiavelli scrive: «tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno» (r. 58). Solo un esercito fedele al principe infatti permette a quest’ultimo di garantirsi la fedeltà dei propri fautori e di costringere gli avversari a giurargli fedeltà (non a caso alla necessità di milizie fidate, non mercenarie, è dedicato un intero capitolo del Principe, il XII). Il popolo al quale il principe deve imporre la propria autorità è volubile, infido e oltretutto incapace di leggere i vantaggi che gli possono venire dal principato nuovo. Si noti poi come nel capitolo in esame si sente l’eco di quella antropologia negativa così tipica di Machiavelli, là dove si parla della «incredulità degli uomini, e’ quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza» (rr. 49-50); oppure là dove si dice che «la natura de’ populi è varia ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione» (rr. 59-60). DIO Si presti attenzione, infine, alla anomala com- parsa di Dio in questo capitolo. Colui che per un istante si affaccia nel mondo di Machiavelli non è il Dio della Provvidenza che guida gli eventi al posto degli uomini. Gli eventi, al contrario, sono, nel Principe, il campo di prova dell’uomo e della fortuna, della virtù e del caso (e sull’antagonismo fra virtù e fortuna si veda il celeberrimo capitolo XXV: uT99). Sebbene sia lontano, Dio non è, però, negato. È visto, piuttosto, come il supremo conoscitore dell’arte dello Stato: come l’ispiratore del principato di Mosè. Esercizi comprensione e analisi 1. Individua i passaggi argomentativi usati da Machiavelli nel capitolo che hai letto, sottolineali, quindi riassumi il testo in circa 100 parole. 2. Sintetizza in una mappa concettuale il brano che hai letto, utilizzando le parole dello stesso autore. interpretazione 3. Secondo Machiavelli, che cosa hanno in comune Mosè, Ciro, Romolo, Teseo, Gerone? Qual è il rapporto fra virtù e fortuna che caratterizza i loro regni? Spiegalo per iscritto con circa 200 parole. contestualizzazione 4. Il principio dell’imitazione è uno dei tratti più caratterizzanti dei secoli Quattrocento e Cinquecento. A partire dalle motivazioni che Machiavelli ne fornisce in questo brano, sintetizza le tue conoscenze in un testo di circa 300 parole, facendo riferimento agli autori e ai brani che hai letto. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 575 575 14. Niccolò Machiavelli Il principe nuovo: un esemplare quasi perfetto Il Principe, cap. VII Al capo opposto dei principi che fondano il loro potere su virtù e armi proprie (trattati nel capitolo VI) stanno i principi che fondano il potere sulla fortuna e su armi non proprie. Se quelli faticano molto nella conquista del potere, ma poi lo gestiscono senza traumi, questi invece fondano lo Stato senza doversi impegnare in prima persona, ma poi è raro che lo conservino. Machiavelli adduce in proposito due esempi moderni: il duca di Milano Francesco Sforza (14011466) come esempio di principe che deve il suo regno alla virtù; e Cesare Borgia (1475-1507), creatore di un nuovo Stato in Romagna, come esempio di principe che deve il regno alla fortuna. Figlio del papa spagnolo Alessandro Borgia, Cesare aveva ricevuto dal re di Francia Luigi XII il titolo di duca di Valentinois (feudo francese), da cui il soprannome di duca Valentino. In seguito, con l’appoggio del potentissimo padre e ricorrendo a truppe mercenarie, era riuscito a fondare, all’interno dello Stato della Chiesa, uno Stato personale comprendente le città della Romagna e Urbino. Anche se il regno del Valentino ebbe inizio grazie alla fortuna e alle armi altrui, Machiavelli dedica al figlio del papa un intero capitolo: una lunga digressione critica e narrativa. Perché? Perché, subito dopo aver conquistato il potere, Cesare Borgia, conoscendo la fragilità della propria posizione, inizia a consolidare il suo Stato con la virtù e con le armi proprie, secondo una strategia politica che Machiavelli considera del tutto esemplare, non meno dei modelli antichi di Mosè e Teseo. In più, si tratta di un modello di virtù recente, vicinissimo a quello dei suoi interlocutori e, per questo, tanto più coinvolgente e degno di essere imitato. Se il Valentino fallì, ciò avvenne solo per un’«estrema malignità di fortuna»; e poi perché un errore, uno soltanto ma fatale, fu commesso da Cesare Borgia stesso. De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur1 5 10 Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventono, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti2. E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede3: come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furno fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria4; come erano fatti ancora quelli imperadori che di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio5. Questi stanno semplicemente in su la volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado6: non sanno, perché s’e’ non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comanda- 1. De principatibus... acquiruntur: ‘Sui principati nuovi che s’acquistano con l’esercito e la fortuna di altri’. 2. Coloro... posti: ‘Quelli che da privati cittadini diventano principi solo grazie alla fortuna, lo diventano con poca fatica; ma ne fanno molta a mantenersi al potere; non incontrano alcuna difficoltà durante l’impresa per la conquista (fra via), perché volano al potere (vi volano); ma tutte le difficoltà insorgono quando essi (e’) vengono messi al potere’. 3. E questi... concede: ‘E questi (che diventano principi da privati cittadini) sono coloro ai quali è stato concesso uno Stato o per denaro o per dono di chi lo concede’. 4. come intervenne... gloria: ‘come successe a molti (principi) nelle città greche dell’Asia minore e dell’Ellesponto, dove Dario fece molti principi, affinché le amministrassero per rendere solido e prestigioso il suo regno’ (sua sicurtà e gloria, sua di Dario)’. L’imperatore persiano Dario (521-485 a.C.) aveva diviso il suo regno in regni affidati a principi a lui devoti (satrapi). Tali regni, detti satrapie, comprendevano le città greche dell’Asia minore (Ionia) e lo Stretto dei Dardanelli (Ellesponto). 5. come erano fatti... imperio: ‘come erano nominati anche quegli imperatori che, da privati cittadini, salivano al potere corrompendo i soldati (per corruzione de’ soldati)’. Machiavelli si riferisce qui agli imperatori romani del III secolo d.C., dalla fine della famiglia imperiale degli Antonini sino a Diocleziano (193-284 d.C.). 6. Questi... grado: ‘Questi si fondano semplicemente sulla volontà e sulla fortuna di chi ha concesso loro il potere, due cose volubilissime e instabili, e non sono capaci di mantenere e non possono mantenere quella posizione di potere’. ANTOLOGIA T96 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 576 ANTOLOGIA 576 I Grandi Autori 15 20 25 30 35 re7; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli8. Di poi gli stati che vengono subito, come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro in modo che il primo tempo avverso non le spenga, – se già quelli tali, come è detto, che sì de repente sono diventati principi non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti, che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli faccino poi9. Io voglio all’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra10: e questi sono Francesco Sforza11 e Cesare Borgia12. Francesco, per li debiti mezzi13 e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Da l’altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé14, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi15. Perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, gli potrebbe con una grande virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio16. Se adunque si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali non iudico superfluo discorrere perché io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini sua non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna17. Aveva Alessandro VI18, nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà 7. non sanno... comandare: ‘non sono capaci, perché a meno che il principe (e’, ‘egli’) non sia uomo di grande ingegno e capacità, non è possibile che, essendo sempre vissuto da privato cittadino, sappia comandare’. L’eccezione a questa regola, nel seguito del capitolo, sarà per l’appunto il caso del duca Valentino. 8. non possono... fedeli: ‘non possono, perché non hanno forze che possano essere per loro alleati fedeli’. 9. Di poi... faccino poi: ‘Inoltre gli Stati che sorgono all’improvviso, come tutte le altre cose presenti in natura che nascono e crescono velocemente, non possono avere le radici (barbe) e le ramificazioni sotterranee (correspondenzie) tali da evitare la loro morte alla prima tempesta (in modo che il primo tempo avverso non le spenga); a meno che (se già), come già si è detto, coloro i quali così all’improvviso sono diventati principi non abbiano tanta capacità politica da sapersi subito predisporre (sappino subito prepararsi) a conservare ciò che la sorte ha offerto a loro con facilità (ha messo loro in grembo), e (a meno che) non gettino, dopo la presa del potere (poi), quelle fondamenta che gli altri principi hanno costruito, prima di diventare tali’. – fondamenti: sono le basi che rendono stabile un edificio: la metafora implicita è quella dello Stato come palazzo da costruire. Per la seconda volta in poche righe, Machiavelli insiste accanitamente sull’eccezione alla regola: la possibilità di rifondare dall’interno con la virtù uno Stato nato fragile con la fortuna (come cercò di fare il Valentino). 10. Io voglio... nostra: ‘Io voglio all’uno e all’altro di questi due modi appena visti – il principe che diventa tale grazie alla sua virtù e quello che diventa tale grazie alla fortuna – accludere (all’uno e l’altro... addurre) due esempi accaduti nei nostri tempi’, ossia ‘vivi nella nostra memoria’. 11. Francesco Sforza: il fondatore della signoria degli Sforza a Milano, già ricordato nel capitolo I. 12. Cesare Borgia: come si è già detto, Cesare Borgia (1475-1507) era il figlio del papa spagnolo Alessandro VI (Rodrigo Borgia). Fu nominato arcivescovo di Valencia nel 1492 e poi, nel 1498, gonfaloniere della Chiesa (cioè comandante dell’esercito pontificio). In seguito ricevé dal re di Francia il ducato di Valentinois, donde il titolo di Valentino. Con l’appoggio del padre creò uno Stato personale in Romagna e in Montefeltro (territorio di Urbino), terra da tempo divisa fra varie signorie locali. Machiavelli ebbe di questo Stato una conoscenza diretta, dal momento che vi si recò due volte come osservatore della Repubblica fiorentina. 13. per li debiti mezzi: ‘con gli stumenti dovuti, necessari’. 14. acquistò... perdé: ‘conquistò lo Stato grazie alla fortuna di cui godeva il padre e lo perse quando tale fortuna (con quella) venne meno’. 15. non ostante che... concessi: ‘nonostante che da parte sua (per lui) sia stato usato (si usassi) ogni mezzo e si sia fatto (facessinsi) tutto ciò che doveva esser fatto da un uomo previdente e capace (prudente e virtuoso) per rendere so- lidi (mettere le barbe... in) quegli Stati che gli eserciti (l’arme) e la fortuna di altri gli avevano concesso (di conquistare)’. – mettere le barbe: letteralmente, ‘mettere radici’. Machiavelli riprende la metafora usata qualche riga sopra: non possono avere le barbe e correspondenzie loro. 16. ancora che... edifizio: ‘sebbene (queste fondamenta) si facciano con difficoltà del principe (architettore) e rischi per lo Stato (edifizio)’. Dopo la metafora vegetale delle barbe, Machiavelli riprende l’altra metafora usata in precedenza, tratta dall’architettura: lo Stato come edificio che ha bisogno di solide fondamenta. 17. Se adunque... fortuna: ‘Se dunque si considereranno tutti i modi di procedere (progressi, comportamenti politici) del duca (il Valentino), ci si renderà conto che lui aveva costruito solide fondamenta per il suo potere futuro; le (e’) quali io non ritengo inutile esaminare (discorrere) perché non saprei quali migliori istruzioni (precetti) dare da parte mia (mi), a un nuovo principe, che l’esempio delle sue azioni: e se i suoi metodi non gli furono utili (profittorno), non fu per colpa sua, dal momento che ciò (il fallimento) derivò da un’anomala ed estrema malvagità della sorte (papa Alessandro VI, padre del Valentino, morì proprio mentre quest’ultimo era malato). – mi dare: è fiorentinismo della lingua parlata. 18. Alessandro VI: Rodrigo Borja (italianizzato Borgia), nato nel 1431 a Valencia in Spagna; eletto papa nel 1492 con il nome di Alessandro VI; morto nel 1503. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 577 577 14. Niccolò Machiavelli Cesare Borgia non era soltanto un avventuriero intelligente e senza scrupoli, ma anche un diplomatico accorto e un capace amministratore delle terre di Romagna, da lui conquistate ai danni di piccoli signori locali. L’illusione che il suo Stato 50 55 potesse essere il primo nucleo di una più vasta entità politica indusse Machiavelli, che l’aveva incontrato a Imola e a Urbino nell’ottobre 1502, a ispirarsi alle sue imprese per tracciare un compiuto ritratto del principe ideale. presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa19: e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva 40 che il duca di Milano e ’ viniziani non gliene consentirebbono20, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la gran45 dezza del papa, – e però non se ne poteva fidare, – sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici21. Era adunque necessario si turbassino quelli ordini e disordinare gli stati di Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli22. Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’ viniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti a fare ripassare e’ franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antico del re Luigi23. Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ viniziani e consenso di Alessandro: né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna, la quale gli fu acconsentita per la reputazione del re24. Acquistata adunque il duca la Romagna e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose25: l’una, le arme sua che non gli parevano fedeli; l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acqui- 19. non fussi... Chiesa: ‘non facesse parte dello Stato della Chiesa (che comprendeva Lazio, Umbria, Bologna, Romagna e Marche)’. 20. volgendosi... consentirebbono: ‘se si fosse risolto a impadronirsi dei beni della Chiesa, sapeva che il duca di Milano e i veneziani non glielo avrebbero consentito’. Lo Stato della Chiesa non era unitario: sussistevano al contrario forti autonomie locali, che impedivano al papa di disporre a suo piacere all’interno dei vari sotto-Stati (come le città della Romagna). Forlì e Pesaro erano sotto la protezione del duca di Milano Ludovico il Moro, figlio di Francesco Sforza. Faenza e Rimini, come si dice subito dopo, erano invece sotto la protezione della Repubblica di Venezia. 21. Vedeva... complici: ‘Oltre a questo vedeva che le milizie mercenarie disponibili in Italia (l’arme di Italia), e quelle in particolare delle quali si sarebbe potuto servire, erano nelle mani di coloro i quali dovevano temere la grandezza del papa (cioè dei suoi avversari) – e perciò non se ne poteva fidare – essendo tutte nelle mani de- gli Orsini e dei Colonna e dei loro alleati (complici)’. Orsini e Colonna sono antiche e potenti famiglie romane nemiche dei Borgia. 22. Era adunque... di quelli: ‘Era dunque necessario che fossero turbati gli equilibri e che fossero trasformati gli Stati italiani, per potersi impadronire senza rischi (insignorire sicuramente) di una parte di quegli Stati’. 23. perché... re Luigi: ‘perché egli (e’, Alessandro) trovò i veneziani, che, spinti da altre motivazioni, con un cambio di politica si erano risolti a far tornare i francesi in Italia: cosa che (Alessandro) non contrastò, ma agevolò con lo scioglimento del precedente matrimonio di Luigi (re di Francia)’. Interessati a occupare parte della Lombardia (mossi da altre cagioni), i veneziani nel 1499 avevano preso accordi col re di Francia, anch’egli interessato alla Lombardia (Machiavelli dice fare ripassare i francesi, perché pochi anni prima, nel 1494, l’esercito francese di Carlo VIII aveva già attraversato la penisola per occupare il Regno di Napoli). Alessandrò VI facilitò l’alleanza fra Venezia e Luigi XII, sciogliendo il matrimonio che legava quest’ultimo con Giovanna di Francia e consentendo il nuovo matrimonio con la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna. Così facendo, Alessandro VI si assicurò l’appoggio dei francesi. 24. né prima... del re: ‘e il re non era ancora giunto (né prima fu) a Milano, che il papa aveva (già) ricevuto da lui milizie (gente) per l’impresa in Romagna (cioè per la conquista della Romagna); impresa che gli fu consentita (dai veneziani) grazie al prestigio del re’. Luigi XII scese in Italia nell’ottobre del 1499; già nel novembre successivo il Valentino iniziò la conquista della Romagna con un esercito mercenario in buona parte fornito dal re francese. 25. Acquistata... cose: ‘Dopo che il duca ebbe conquistato la Romagna e debellati (sbattuti) i Colonna, se voleva conservare quella regione e continuare (la conquista) (procedere più avanti), glielo impedivano due cose’. Da qui in poi il protagonista della vicenda narrata è il figlio di Alessandro VI, il “principe nuovo” Cesare Borgia. ANTOLOGIA Ritratto di Cesare Borgia [Museo di Palazzo Venezia, Roma] Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 578 ANTOLOGIA 578 I Grandi Autori 60 65 70 75 80 stato, e che il re ancora non li facessi il simile26. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vidde andare freddi in quello assalto; e circa il re conobbe lo animo suo quando, preso el ducato d’Urbino assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo fece desistere27. Onde che28 il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri; e, la prima cosa, indebolì le parte Orsine e Colonnese in Roma29: perché tutti gli aderenti loro, che fussino gentili uomini, se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provisioni, e onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione delle parti si spense e tutta si volse nel duca30. Dopo questo, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene, e lui la usò meglio31. Perché, avvedutosi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel Perugino32; da quella nacque la ribellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ franzesi33. E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare si volse alli inganni34; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini medesimi, mediante il signore Paulo, si riconciliorno seco, – con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari veste e cavalli, – tanto che la simplicità loro gli condusse a Sinigaglia nelle sua mani35. Spenti adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna col ducato di Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro36. E perché questa parte è degna di notizia e da essere da altri imitata, non la voglio lasciare indreto37. Presa che 26. cioè che... simile: ‘(il duca temeva) cioè che le milizie degli Orsini, di cui si era servito (si era valuto), defezionassero (gli mancassino sotto), e non solo gli impedissero di conquistare (nuovi domìni), ma lo privassero di quanto aveva già conquistato, e che anche (ancora) il re (Luigi XII) non facesse lo stesso (non li facessi il simile)’, cioè ‘venisse meno ai patti’. 27. Delli... desistere: ‘Degli Orsini ebbe una prova (riscontro) quando, dopo la presa di Faenza, attaccò Bologna (aprile 1500), poiché li vide andare a quell’attacco privi di determinazione (freddi), e riguardo al re conobbe il suo intendimento (animo) quando, dopo aver preso il Ducato di Urbino, attaccò la Toscana; impresa dalla quale il re lo fece desistere’. Nel 1502 il Valentino, dopo la conquista di Urbino, provò ad ampliare il suo regno muovendo contro la Toscana, ma Luigi XII, che era alleato di Firenze, lo impedì. 28. Onde che: ‘Cosicché’. 29. la prima... Roma: ‘per prima cosa indebolì le fazioni (parte) degli Orsini e dei Colonna a Roma’. 30. perché tutti... nel duca: ‘perché (spiega in che modo indebolì le fazioni) si guadagnò il favore di tutti i loro sostenitori, che fossero nobili (gentili uomini), nominandoli nobili nel proprio regno e dando loro ricchi stipendi (grandi provisioni), e li gratificò (onorògli), ognuno secondo il proprio grado, con comandi di eserciti (condotte) e incarichi di governo (governi): così che in pochi mesi nei loro animi il loro attacamento (l’affezione) alle fazioni (dei Colonna e degli Orsini) si spense e fu tutto rivolto al duca’. 31. aspettò... meglio: ‘aspettò l’occasione di eliminare fisicamente (spegnere) i capi degli Orsini, avendo già in precedenza disperso le forze dei Colonna, occasione che gli giunse al momento giusto e che lui seppe usare al meglio’. 32. Perché... Perugino: ‘E questo perché, accortisi in ritardo gli Orsini che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro rovina (ruina), fecero una riunione alla Magione, villaggio nel territorio di Perugia (nel Perugino)’. – dieta: letteralmente un’adunanza che dura un giorno (dal latino dies, giorno); in realtà la riunione degli Orsini durò dal 24 settembre all’8 ottobre del 1502. 33. da quella... franzesi: Machiavelli allude alle rivolte avvenute alla fine del 1502 all’interno del Regno di Romagna, fomentate dagli Orsini e piegate dal duca con l’aiuto dei francesi. 34. E ritornatoli... inganni: ‘E recuperata la propria autorità, non fidandosi né della Francia né di altre forze straniere, per non dover sperimentare la loro fedeltà (per non le avere a cimentare), ricorse (si volse) all’inganno’. 35. seppe... mani: ‘(il duca) seppe tanto ben dissimulare il proprio animo che gli stessi Orsini, tramite Paolo, della loro famiglia (il signore Paulo), si riconciliarono con lui (seco) – e con lui usò ogni genere (ragione) di cortesia (offizio) per rassicurarlo, facendogli dono di denari, vesti e cavalli, – tanto che la loro stupidità (simplicità) li fece cadere nelle sue mani a Senigallia’. Il 25 ottobre 1502 Paolo Orsini andò a Imola per trattare la pace col Valentino; il 31 dicembre 1502 il Valentino fece arrestare e uccidere i condottieri ribelli a Senigallia, dove li aveva invitati per ratificare la pace. Quest’episodio di ferocia politica, che non riceve alcuna condanna morale e viene anzi additato a modello, era già stato analizzato da Machiavelli in una sua relazione: Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503). 36. Spenti... loro: ‘Uccisi dunque questi capifazione e resi a sé favorevoli (sua amici) i loro sostenitori, il duca aveva gettato basi assai buone per il suo Stato, poiché teneva tutta la Romagna con il Ducato di Urbino, e soprattutto (massime) perché gli pareva di essersi conquistata l’amicizia della Romagna e di essersi guadagnato il favore di quei popoli, per il fatto che avevano cominciato a gustare il benessere’ (il benessere garantito dal buon governo del Valentino). – per avere cominciato: infinito sostantivato con valore causale. 37. E perché... indreto: ‘E poiché questa parte (della sua opera politica) è degna di essere conosciuta (degna di notizia) e di essere imitata da altri, non la voglio tralasciare (lasciare indreto)’. Prima di continuare a trattare i nemici esterni allo Stato del Valentino (la Francia), Machiavelli apre una sotto-sezione di politica interna. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 579 579 14. Niccolò Machiavelli 90 95 100 105 ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori impotenti, – e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non d’unione, – tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buono governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette plenissima potestà38. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione39. Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì eccessiva autorità perché dubitava non divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo40. E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da lui ma da la acerba natura del ministro41. E presa sopra a questo occasione, lo fece, a Cesena, una mattina mettere in dua pezzi in su la piazza, con uno pezzo di legne e uno coltello sanguinoso accanto: la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi42. Ma torniamo donde noi partimmo43. Dico che, trovandosi il duca assai potente e in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere collo acquisto, el respetto del re di Francia44: perché conosceva come dal re, il quale tardi s’era accorto dello errore suo, non gli sarebbe sopportato45. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove e vacillare con Francia, nella venuta che ’ franzesi feciono verso el regno di Napoli contro alli spagnuoli che assediavano Gaeta; e lo animo suo era assicurarsi di loro: il che gli sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva46. E questi furno e’ governi sua47, quanto alle cose presenti. 38. Presa... potestà: ‘Dopo la conquista della Romagna, vedendo che era stata amministrata (suta comandata) da signori incapaci – i quali avevano derubato i loro sudditi piuttosto (più presto) che governarli (corretti), e avevano dato loro (ai sudditi) motivo (materia) di disunione anziché di unione –, di modo che quella regione (provincia, latinisimo) era ovunque piena di furti, di scontri violenti (brighe) e di ogni altro genere di abuso (insolenzia), ritenne necessario, per renderla pacifica e sottomessa all’autorità del principe (al braccio regio), darle un buon governo: e perciò vi mise a capo il signor Rimirro de Orco, uomo crudele e risoluto (espedito), al quale diede potere assoulto (plenissima potestà)’. – Rimirro de Orco: Ramiro de Lorqua, spagnolo come il Valentino, fu fatto governatore della Romagna nel 1501; nelle assenze del duca disponeva di poteri larghissimi. 39. Costui... reputazione: ‘Questi in poco tempo la pacificò e la fece diventare unita, con grandissima autorità (reputazione)’. 40. iudicò... avvocato suo: ‘il duca ritenne che non era necessario un potere a tal punto illimitato (sì eccessiva autorità), perché temeva che diventasse odioso, e allora istituì un tribunale nel bel mezzo della regione (a Cesena), con un presidente meritevolissimo, nel quale (tribunale) ogni città aveva un suo rappresentante (avvocato)’. Si allude al Tribunale della Rota, una magistratura civile centralizzata avente sede a Cesena, nel cuore della Romagna: fu fondata nell’ottobre del 1502 e presieduta da Antonio dal Monte. 41. E perché... ministro: ‘E poiché sapeva che i precedenti eccessi di rigore (dovuti a Rimirro de Orco) avevano suscitato qualche odio nei suoi confronti (suoi del duca), per liberare (dall’odio) gli animi di quei popoli e guadagnarsi completamente il loro favore, volle dimostrare che, se c’era stata qualche crudeltà, questa non era stata causata da lui, ma dall’indole efferata (acerba natura) del governatore (del ministro)’, cioè di Rimirro de Orco. – era seguita: letteralmente: ‘si era verificata’. 42. E presa... stupidi: ‘E cogliendo l’occasione da questo (questo è il malcontento della popolazione appena descritto), una mattina, sulla piazza a Cesena, lo fece esporre decapitato, con accanto un ceppo e una mannaia insanguinata, e la ferocia (ferocità) di questo spettacolo lasciò quelle popolazioni soddisfatte e sbigottite (satisfatti e stupidi) nello stesso tempo (in uno tempo)’. La caduta di Rimirro de Orco fu repentina. La sua decapitazione ebbe luogo il 26 dicembre del 1502. Anche di questi fatti Machiavelli fu testimone diretto e ne redasse una relazione. 43. Ma... partimmo: ‘Ma torniamo al punto di partenza’. Si chiude l’excursus sul buon governo del duca e sugli affari interni. L’attenzione torna ora agli affari esteri: al secondo ostacolo del Valentino, la Francia (il primo, già debellato, erano gli Orsini e i Colonna). 44. Dico che... Francia: ‘Dico che il duca, trovandosi assai potente e in parte riparato dai pericoli immediati, dal momento che si era dotato di un esercito tale quale lo voleva (a suo modo, ossia un esercito fedele) e aveva in buona parte debellato quegli eserciti che lo avrebbero potuto colpire, se fossero rimasti vicini (vicine, predicativo dell’oggetto), gli restava, volendo procedere nella conquista, il timore verso il re di Francia’, ossia: ‘che Luigi XII si opponesse’. 45. perché... sopportato: ‘perché capiva che il re, il quale tardi si era accorto del suo errore (aver aiutato il Valentino a fondare il suo Stato personale), non avrebbe tollerato (sottinteso ‘ulteriori conquiste’)’. 46. cominciò... viveva: ‘cominciò per questo motivo a cercare nuove alleanze (amicizie) e a tentennare (cioè a sottrarsi all’alleanza) con la Francia in occasione della spedizione (venuta) dei francesi nel Regno di Napoli contro gli spagnoli che assediavano Gaeta; e la sua intenzione (animo suo) era di tutelarsi nei loro confronti (rendersi inattaccabile dai francesi), il che gli sarebbe in breve riuscito, se Alessandro non fosse morto (proprio allora)’. Francia e Spagna si stavano contendendo il Regno di Napoli e l’Italia era teatro dei loro scontri. Alessandro VI e il Valentino presero accordi segreti con la Spagna, tradendo la Francia con la quale erano stati alleati fino a quel momento. Proprio nel corso delle trattative, Alessandro VI morì contro ogni aspettativa (18 agosto 1503). Questa morte segnò il declino del potere del figlio, proprio nel momento in cui aveva quasi terminato la rifondazione del suo regno. 47. e’ governi sua: ‘la sua condotta’. ANTOLOGIA 85 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 580 ANTOLOGIA 580 I Grandi Autori 110 115 120 125 130 135 Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesa non gli fussi amico e cercassi torgli quello che Alessandro li aveva dato48. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere il papa in freno; terzo, ridurre il Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto49. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre, la quarta aveva quasi per condotta50: perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere e pochissimi si salvorno, e’ gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione51. E come e’ non avessi avuto ad avere rispetto a Francia, – che non gliene aveva ad avere più, per essere di già e’ franzesi spogliati del Regno da li spagnuoli: di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua, – e’ saltava in Pisa52. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ fiorentini, parte per paura; e’ fiorentini non avevano rimedio53. Il che se gli fussi riuscito, – che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì, – si acquistava tante forze e tanta reputazione che per sé stesso si sarebbe retto e non sarebbe più dependuto da la fortuna e forze di altri, ma da la potenza e virtù sua54. Ma Alessandro morì dopo cinque anni che egli aveva cominciato a trarre fuora la spada55: lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in aria, in fra dua potentissimi eserciti inimici e malato a morte56. Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che s’e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà57. E che e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde58: che la Romagna lo aspettò più 48. lui aveva... dato: ‘egli doveva temere anzitutto (in prima) che un nuovo pontefice, successore di Alessandro, non gli fosse amico e cercasse di sottrargli quello (Stato) che Alessandro gli aveva concesso’. Si ricordi che lo Stato del Valentino è uno Stato nuovo interno allo Stato della Chiesa. 49. Di che... impeto: ‘E da questo (Di che) pensò a tutelarsi in quattro modi: per prima cosa eliminare tutti i consanguinei di quei nobili che aveva privato (dei loro possedimenti), per togliere (per tòrre) al nuovo papa quella opportunità (di restituire loro i territori legittimi); come seconda cosa guadagnarsi il favore di tutti i nobili (e’ gentili uomini) di Roma, come si è gia detto, per controllare il (nuovo) papa (tramite l’influenza delle famiglie nobili); come terza cosa rendere a sé favorevole (ridurre... suo) quanto più possibile il Collegio dei cardinali; come quarta cosa acquistare tanto potere, prima che il papa (Alessandro) morisse, da poter resistere a un primo assalto (impeto) con le sue sole forze’, ossia ‘ampliare a tal punto il suo territorio così da rendersi inattaccabile’. 50. Di queste... condotta: ‘Di queste quattro cose alla morte di Alessandro ne aveva attuate (condotte) tre e la quarta riteneva di averla quasi attuata’. 51. perché... protezione: ‘perché dei signori che aveva privato dei loro beni (spogliati) ne ammazzò quanti poté catturare (aggiugnere, letteralmente: ‘raggiungere, acciuffare’) e pochissimi se ne salvarono, i nobili romani li aveva attirati a sé (si aveva guadagnati), e nel Collegio dei cardinali moltissimi erano dalla sua parte; e quanto all’acquisizione di nuovi territori (nuovo acquisto) aveva progettato (disegnato) di diventare signore della Toscana e possedeva già Perugia e Piombino, e Pisa era sotto la sua protezione’. 52. E come... Pisa: ‘E non appena fosse stato nella condizione di non avere alcun timore della Francia (avere rispetto a Francia) – timore che non doveva avere più, visto che i francesi erano già stati privati del Regno (di Napoli) dagli spagnoli: di modo che (di qualità che) l’uno e l’altro di loro (francesi e spagnoli) era costretto a comprare la sua alleanza –, avrebbe assaltato (saltava in) Pisa’. 53. Lucca... rimedio: ‘Lucca e Siena avrebbero ceduto subito, in parte per odio verso i fiorentini e in parte per paura (verso il duca), e i fiorentini non avrebbero avuto scampo (rimedio)’. Machiavelli continua a dedurre gli eventi a partire da alcune premesse, immaginando una storia che non si è potuta dare a causa del potere della fortuna. 54. si acquistava... virtù sua: ‘avrebbe acqui- stato tanta forza e autorità, che si sarebbe difeso con le sue sole forze, e non sarebbe più dipeso (dependuto) dalla fortuna e dalle forze di altri, ma dalla sua forza e dalla sua capacità politica’. 55. dopo... spada: ‘dopo cinque anni che egli (il duca) aveva sguainato la spada’, ossia (fuor di metafora): ‘aveva cominciato a combattere per uno Stato’. Machiavelli calcola i cinque anni a partire dall’agosto 1498, anno in cui il Valentino era stato nominato gonfaloniere della Chiesa. Esattamente cinque anni dopo, nell’agosto 1503, morì Alessandro. 56. lasciollo... morte: ‘(Alessandro) lasciò il figlio (lo) con il solo Stato di Romagna consolidato (assolidato), con tutti gli altri ancora poco consistenti (in aria), fra due potentissimi eserciti nemici (Francia e Spagna) e malato a rischio di morte’. 57. Ed era... difficultà: ‘Eppure c’era nel duca tanta fierezza e capacità politica, e lui sapeva così bene che ci si deve rendere amici (guadagnare) gli uomini oppure annientarli (perdere), ed erano tanto solide le basi che in così poco tempo si era costruito, che se non avesse avuto quegli eserciti addosso, o non si fosse ammalato, avrebbe saputo far fronte a ogni difficoltà’. 58. si vidde: ‘si vide bene’, ossia: ‘fu chiaro a tutti’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 581 581 14. Niccolò Machiavelli 145 150 155 160 59. la Romagna... mese: le città della Romagna rifiutavano di tornare sotto il controllo diretto del papa; cedettero solo quando il Valentino fu fatto prigioniero (dicembre 1503). 60. in Roma... contro di lui: ‘a Roma, sebbene fosse gravemente malato (mezzo vivo), non corse pericoli e, sebbene i Baglioni, i Vitelli e gli Orsini (le famiglie che aveva combattuto) fossero venuti a Roma, non trovarono alleati (séguito) contro di lui’. 61. possé... non voleva: ‘poté, se non far eleggere papa chi egli voleva, almeno evitare (fare... ch’e’ non fussi) chi non voleva’. Si allude a Pio III, non ostile al Valentino, ma per sua «malignità di fortuna» morto solo un mese dopo essere stato creato. Subito dopo infatti fu creato papa Giuliano della Rovere, che si sarebbe rivelato nemico del Valentino. 62. Ma se... facile: ‘Ma, se al momento della morte di Alessandro, egli (il Valentino) fosse stato sano, ogni cosa gli sarebbe stata facile’. 63. e lui... morire: ‘e lui mi disse, nei giorni che fu eletto papa Giulio II, che aveva pensato a ciò che sarebbe potuto accadere se il padre fosse morto, e a tutto aveva trovato rimedio, tranne che non pensò mai che sarebbe stato anche lui sul punto di morire al momento della morte del padre’. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, nel novembre del 1503 fu eletto papa Giuliano della Rovere (1443-1513) con il nome di Giulio II. Per diventare papa aveva fatto fronte all’astuzia del Valentino con le armi dell’astuzia: si era garantito i voti dei cardinali spagnoli, promettendo al du- ca la restituzione del suo grado (gonfaloniere della Chiesa) e dei suoi possedimenti in Romagna; dopo l’elezione a pontefice non mantenne la parola e procurò la rovina del Borgia. Machiavelli fa riferimento a una testimonianza diretta, ossia ai colloqui privati tenuti col Valentino (probabilmente a Roma, quando vi fu inviato per seguire il conclave, nell’autunno-inverno del 1503). 64. Raccolte... imperio: ‘Raccontate dunque le gesta del duca, non saprei come biasimarlo, anzi, ritengo opportuno, come ho fatto, proporlo come un esempio da imitare per tutti coloro che sono saliti al potere con la fortuna e con gli eserciti altrui’. 65. perché... altrimenti: ‘perché, avendo l’animo ardente (grande) e progetti ambiziosi (la sua intenzione alta), non si poteva comportare altrimenti (governare altrimenti)’. 66. Chi adunque... di costui: ‘Chi dunque ritiene necessario nel suo principato di nuova acquisizione tutelarsi dai (assicurarsi delli) nemici, guadagnarsi degli alleati; vincere o con la forza o con l’inganno (fraude); farsi amare e temere dalle popolazioni, farsi obbedire e rispettare dai soldati; uccidere quelli che ti possono o ti devono danneggiare; rinnovare gli ordinamenti antichi creando nuove istituzioni; essere severo e insieme gradito, magnanimo e generoso (liberale); disfarsi della milizia infedele e crearne della nuova; conservare le alleanze di re e principi in modo che essi ti favoriscano cortesemente (con gratia) o esitino nel danneggiarti (offendere con respetto, letteralmente: ‘attaccare con esitazio- ne’); non può trovare esempi più recenti (freschi) delle azioni di questi (cioè del Valentino)’. 67. Solamente... elezione: ‘L’unico errore che gli si può imputare è l’elezione di Giulio a pontefice, nella quale egli (il duca) fece una cattiva scelta’. 68. Perché... papa: ‘Perché, come si è detto, non potendo fare eleggere papa chi lui volesse (a suo modo), poteva impedire l’elezione a papa di qualcuno (qualcun altro a sé ostile)’. 69. e non doveva... per odio: ‘e non avrebbe mai dovuto permettere che divenisse papa qualcuno di quei cardinali (di quelli cardinali, partitivo) che aveva offeso o che, divenuto papa, avesse ad aver paura di lui: perché gli uomini colpiscono o per paura o per odio’. Si noti il chiasmo: per paura corrisponde a avessino ad aver paura; per odio corrisponde a che lui avessi offesi. 70. San Piero... Ascanio: Giuliano della Rovere, che prima di essere eletto papa era cardinale della chiesa di San Pietro in Vincoli; Giovanni Colonna; Raffaello Riaro, cardinale della chiesa di San Giorgio; Ascanio Sforza. San Piero e San Giorgio sono metonimie che designano i rispettivi cardinali. 71. eccetto... spagnuoli: ‘eccettuati Georges d’Amboise, cardinale di Rouen (Roano), e i cardinali spagnoli’. Machiavelli ha appena fatto il calcolo che avrebbe dovuto fare il Valentino per salvarsi: sapendo che gli uomini sono nemici o per paura o per odio, bisognava sottrare al novero dei cardinali papabili sia coloro che odiavano Cesare Borgia, sia coloro che lo temevano. ANTOLOGIA 140 d’uno mese59; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e, benché Baglioni Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui60; possé fare, se non chi e’ volle, papa, almeno ch’e’ non fussi chi e’ non voleva61. Ma se nella morte di Alessandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile62: e lui mi disse, ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto ch’e’ non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire63. Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo: anzi mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con le arme di altri sono ascesi allo imperio64; perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti65, e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere; innovare con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e grato, magnanimo e liberale; spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi in modo ch’e’ ti abbino a benificare con grazia o offendere con respetto; non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui66. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale il duca ebbe mala elezione67. Perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, poteva tenere che uno non fussi papa68; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi o che, divenuti papa, avessino ad aver paura di lui: perché gli uomini offendono o per paura o per odio69. Quelli che lui aveva offeso erano, in fra li altri, San Piero ad vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio70; tutti li altri avevano, divenuti papi, a temerlo, eccetto Roano e gli spagnuoli71: questi per Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 582 ANTOLOGIA 582 I Grandi Autori 165 coniunzione e obligo, quello per potenza, avendo coniunto seco el regno di Francia72. Pertanto el duca innanzi a ogni cosa doveva creare papa uno spagnuolo: e, non potendo, doveva consentire a Roano, non a San Piero ad vincula73. E chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benifizi nuovi faccino sdimenticare le iniurie vecchie, s’inganna74. Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima ruina sua75. 72. questi... Francia: ‘questi (gli spagnoli), in quanto connazionali e obbligati nei suoi confronti, quello (il cardinale di Rouen) in quanto molto potente (per potenza), dal momento che rappresentava il Regno di Francia’. 73. doveva... vincula: ‘doveva consentire l’ele- zione del cardinale di Rouen, non di quello di San Pietro in Vincoli (il della Rovere)’. 74. E chi crede... s’inganna: ‘E chi crede che nei potenti (personaggi grandi) i nuovi benefici facciano dimenticare le offese vecchie, si inganna’. Questa massima allude al fatto che il Lettura guidata UNA PARABOLA SUL POTERE Con il racconto della breve vicenda politica di Cesare Borgia, durata appena cinque anni, Machiavelli propone una grande parabola della virtù (intesa sempre come capacità di governare) richiesta al principe nuovo. Il Valentino non è il principe nuovo che fonda in prima persona lo Stato, come Francesco Sforza e gli altri eroici fondatori di Stati passati in rassegna nel capitolo precedente (Mosè, Teseo, Romolo e gli altri). Al contrario, la virtù del Valentino viene alla luce, dopo che il regno gli viene messo in mano dalla sorte (fortuna), grazie al potere del padre, il potentissimo papa Alessadro VI, il quale gli consente di fondare un dominio personale all’interno dello Stato della Chiesa. Ben sapendo che la fortuna rende instabile qualsiasi dominio, il Valentino ingaggia una lotta feroce contro i propri nemici per dare al suo regno quelle fondamenta e quelle radici – come dice Machiavelli ricorrendo a metafore architettoniche e vegetali – senza le quali esso sarebbe svanito con la morte del padre. E così fu in effetti. La virtù del Valentino fu sconfitta dalla fortuna (anzi «da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna», r. 35) e il suo Stato crollò alla morte di Alessandro VI. Ciononostante, i suoi provvedimenti vengono minutamente narrati in quanto esempio (quasi) perfetto. Machiavelli li analizza con tanta abbondanza di dettagli, perché gli eventi si riferiscono a un contesto ancora attualissimo per sé e i suoi lettori. Si ricordi del resto che in molti casi l’autore fa qui riferimento a recente favore che il Valentino faceva al della Rovere, contribuendo alla sua elezione, non poteva fargli dimenticare le precedenti offese’. 75. Errò... ruina sua: ‘Il duca dunque sbagliò in questa scelta (elezione), e (tale errore) fu causa della sua definitiva caduta’. fatti che ha visto da vicino e dei quali ha già scritto, in veste di osservatore della Repubblica fiorentina. Alla fine del capitolo, non a caso, egli ricorda esplicitamente i dialoghi avuti col Valentino. LA VIRTÙ DEI BORGIA Proviamo a ripercorrere le mosse che Machiavelli attribuisce ad Alessandro VI e a suo figlio. Le prime azioni sono del papa, che usa il proprio potere spirituale a fini apertamente temporali: sciogliendo Luigi XII dal suo primo matrimonio, Alessandro si allea con la Francia, e con l’aiuto delle truppe mercenarie francesi consente al figlio, senza che Venezia possa intromettersi, di fondare un nuovo Stato in Romagna. Senza soluzione di continuità, il testimone passa dal padre al figlio, il quale per prima cosa elimina i Colonna presenti nel proprio Stato e inizia a confrontarsi con due necessità: 1) dotarsi di un esercito fidato (non mercenario); 2) debellare i sostenitori di una seconda fazione avversaria (dopo quella dei Colonna), quella degli Orsini. Il Valentino si arma quindi di milizie proprie e neutralizza il potere degli Orsini, facendo ricorso all’eliminazione fisica dei propri avversari con un’astuzia feroce: fingendo di essersi riconciliato con loro, il Borgia fa cadere in una trappola i capi Orsini, li cattura e li uccide. Il primo grande nemico esterno del Valentino è dunque neutralizzato: i Colonna e gli Orsini sono stati debellati. Resta l’altro grande ostacolo, la Francia, la quale, dopo aver aiutato il Valentino nella fondazione del suo Stato, ora ne teme l’eccessiva potenza. Prima di toccare quest’altro versante, tuttavia, Machiavelli apre una breve parentesi relativa alla po- Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 583 583 14. Niccolò Machiavelli LA MALIGNITÀ DI FORTUNA E L’ERRORE DEL DUCA Del tutto inaspettatamente, nell’agosto del 1503, muore Alessandro VI e in quello stesso momento anche il Valentino giace malato in pericolo di vita. Come rivela Machiavelli con una drammatica testimonianza diretta, il Valentino aveva pensato a tutto tranne che a una simile coincidenza. Lo Stato del Borgia tuttavia non barcolla, né cede subito, a riprova del fatto che i fondamenti creati in soli cinque anni erano ottimi. Cede però quando (per ulteriore sfortuna) muore anche il successore di Alessandro VI, Pio III (pontefice non ostile al duca), e viene creato papa Giulio II della Rovere. In questa elezione Machiavelli addita l’unico vero errore del duca: non aver impedito l’elezione di colui che sapeva essergli nemico, illudendosi di poterselo fare alleato semplicemente favorendo la sua elezione, come se i favori recenti potessero cancellare le offese antiche. UN MODELLO DA IMITARE Nonostante questo unico errore, il Valentino viene presentato da Machiavelli come un modello da imitare in tutto e per tutto. Come si vede qui (e ancor più nei capitoli XV: uT97 e XVIII: uT98), il buon governo che ha in mente Machiavelli richiede al principe una gestione feroce, astuta e crudele del potere. I fatti narrati in questo capitolo parlano chiaro: il papa non viene giudicato come pastore di anime, ma come abile statista; suo figlio, che uccide a tradimento gli Orsini e fa decapitare in piazza il suo braccio destro Rimirro de Orco, non riceve la benché minima condanna morale. Evidentemente, secondo Machiavelli, chi voglia tenere in pugno lo Stato e garantire il buon governo, non può comportarsi altrimenti. Esercizi comprensione 1. Elenca i personaggi che Machiavelli cita nel brano, associando a ciascuno le informazioni su di loro che fornisce, arricchendole eventualmente con una tua ricerca personale. zione al problema dei principati nati non dalla virtù individuale, bensì grazie alla fortuna (usa 300 parole circa). 3. Quali sono le azioni del Valentino che Machiavelli considera esemplari? Quali sono i colpi della sfortuna che egli subisce? Qual è l’errore che egli commette? analisi e interpretazione contestualizzazione 2. Quali sono le metafore che Machiavelli impiega per descrivere la rifondazione dello Stato da parte del Valentino? Raccoglile e spiega il loro significato in rela- 4. In cosa consiste la “virtù” del Valentino? Spiega l’uso del termine “virtù” in Machiavelli servendoti degli altri brani del Principe che hai letto. ANTOLOGIA litica interna del Valentino. La Romagna, terra tradizionalmente lacerata e divisa da odi di parte (si ricordi il canto XXVII dell’Inferno), era un regno non facile da governare. Anche per instaurare il buon governo, il Valentino ricorre all’astuzia. Prima, egli affida la gestione degli affari interni al severo e ferocissimo Rimirro de Orco, che diventa in breve il suo rappresentante più potente. In un secondo tempo, dopo che i provvedimenti impopolari di Rimirro hanno messo ordine nello Stato, il duca fa uccidere il suo braccio destro, placando la sete di vendetta dei suoi sudditi e saldando il consenso intorno alla propria persona. Trattata la politica interna, Machiavelli torna a esaminare la politica estera. Per difendersi dalla minaccia francese, il Valentino deve fare in modo che il proprio Stato sia così solido che alla morte del padre un nuovo pontefice non possa opporsi al suo dominio. Per ottenere questo risultato, il Valentino attua un piano in quattro punti: 1) elimina fisicamente gli eredi dei signorotti spodestati in Romagna, in modo che diventi impossibile per chiunque restaurare i poteri preesistenti; 2) si fa alleate le famiglie nobili a Roma, così da arginare il potere degli Orsini e dei Colonna; 3) si fa alleato il collegio dei cardinali destinati ad eleggere il nuovo papa, in modo da impedire l’elezione di un nuovo papa a sé ostile; 4) comincia ad ampliare i propri territori assaltando le città toscane. Secondo Machiavelli, si tratta di una strategia perfetta, grazie alla quale, se fosse stato possibile applicarla fino in fondo, lo Stato del Valentino, nato dalla fortuna, sarebbe stato solido e duraturo tanto quanto uno Stato nato con la virtù. A questo punto però interviene l’imprevisto: la fortuna, finora propizia al Valentino, in un istante gli volta le spalle. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 584 ANTOLOGIA 584 I Grandi Autori T97 La «verità effettuale» Il Principe, cap. XV Nella prima sezione del Principe vengono presi in esame i diversi tipi di principato (capp. I-XI). Nella sezione successiva (capp. XII-XIV), riservata alle milizie del principe, Machiavelli si esprime energicamente a favore degli eserciti personali e contro le milizie mercenarie. Nella terza sezione (capp. XV-XXIII), inaugurata dal presente capitolo, viene proposta una definizione teorica dei comportamenti del principe. All’inizio di questa sezione, che è sempre apparsa la più scandalosa e dirompente rispetto a tutta la riflessione politica anteriore, Machiavelli rende ragione del suo punto di vista: la virtù morale non si può accordare con la virtù intesa come sinonimo di capacità politica. Ogni idealizzazione del potere monarchico dipinge uomini che in realtà non esistono. Al contrario, è necessario guardare in faccia la «verità effettuale» (effettiva), nella quale bene morale e potere politico sono due sistemi di valori da tenere rigorosamente distinti. De his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur1 5 10 15 Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi di uno principe o co’ sudditi o con li amici2. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri3. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa4. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere5. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni6. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità7. Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude8. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero, – usan- 1. De his rebus... vituperantur: ‘Di quelle cose di cui gli uomini, e specialmente i principi, sono lodati o biasimati’. 2. Resta... amici: ‘Resta ora da considerare quali debbano essere i comportamenti e i modi di governo di un principe nei confronti dei sudditi e degli alleati (amici). – e’ modi e governi: è un’endiadi e va sciolta come ‘modi di comportarsi e di governare’. 3. E perché... altri: ‘E poiché io so che molti hanno scritto su questo (argomento), temo, se ne scrivo anche (ancora) io, di essere ritenuto presuntuoso, soprattutto (massime) perché nel trattare questa materia mi allontano (partendomi) dall’impostazione (ordini) degli altri’. Machiavelli allude in modo indeterminato a tutti coloro che lo hanno preceduto nel trattare la morale del principe. 4. Ma sendo... di essa: ‘Ma poiché mi sono pro- posto di scrivere qualche cosa di utile per coloro che sono in grado di intenderla, mi è parso più opportuno seguire la realtà dei fatti (verità effettuale della cosa) piuttosto che la loro immagine ideale’. 5. in vero essere: ‘esistere, essere nella realtà’. 6. Perché... buoni: ‘Infatti (Perché), c’è tanta distanza (discosto) tra come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui che abbandona il criterio di ciò che si fa (lascia quello che si fa) in nome di quello che si dovrebbe fare (ovvero: ‘colui che si attiene alle prescrizioni morali’) conosce la propria rovina, piuttosto (più presto) che la propria salvezza (perservazione, letteralmente: ‘conservazione’): perché colui che in tutte le situazioni (in tutte le parte) voglia comportarsi da uomo buono è inevitabile (conviene) che vada incontro alla propria rovina, dal momento che si trova a operare fra tanti che buoni non sono’. 7. Onde... necessità: ‘Perciò è necessario che un principe, se vuole conservare il proprio potere (volendosi... mantenere), impari a sapersi comportare da malvagio e a usare o non usare tale potere a seconda delle necessità’. – potere essere non buono: è infinito sostantivato, complemento oggetto del nesso usarlo e non usarlo: ‘usare o non usare’, all’occorrenza, la capacità di essere malvagio. 8. Lasciando... laude: ‘Tralasciando dunque le cose immaginate a proposito di un principe e trattando quelle che sono vere, dico che tutti gli uomini, quando la gente parla di loro (quando se ne parla), e soprattutto i principi, per il fatto che sono posti in posizione più elevata, vengono giudicati secondo alcune di queste qualità che procurano loro o riprovazione o lode’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 585 585 14. Niccolò Machiavelli 25 30 do uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere: misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo9; – alcuno è tenuto donatore10, alcuno rapace11; alcuno crudele, alcuno piatoso12; l’uno fedifrago, l’altro fedele13; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso14; l’uno umano15, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astuto16; l’uno duro, l’altro facile17; l’uno grave, l’altro leggieri18; l’uno religioso, l’altro incredulo19, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone20. Ma perché le non si possono avere tutte né interamente osservare21, per le condizioni umane che non lo consentono, è necessario essere tanto prudente ch’e’ sappi fuggire la infamia di quegli vizi che gli torrebbono lo stato; e da quegli che non gliene tolgono guardarsi, s’e’ gli è possibile: ma non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare22. Ed etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizi, sanza e’ quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considera bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo23. 9. E questo... il suo: ‘E questo significa che qualcuno (alcuno) è ritenuto generoso (liberale), qualcuno misero (nel senso toscano di ‘gretto’, come si spiega subito dopo) – per usare una parola toscana, visto che avaro in lingua italiana (in nostra lingua) è anche colui che è avido (letteralmente: ‘colui che desidera impossessarsi con la violenza dei beni altrui’), noi (toscani) invece chiamiamo misero chi tende a non spendere i beni propri’. 10. donatore: ‘prodigo’. 11. rapace: ‘accaparratore’. 12. piatoso: ‘pietoso, compassionevole’. 13. l’uno fedifrago... fedele: ‘l’uno traditore, l’altro leale’. 14. l’uno... animoso: ‘l’uno fiacco e vigliacco, l’altro fiero e coraggioso’. 15. umano: ‘cordiale’. 16. l’uno... astuto: ‘l’uno integro e l’altro infido’. 17. l’uno... facile: ‘l’uno intransigente, l’altro compiacente’. 18. l’uno... leggieri: ‘l’uno serio, l’altro frivolo’. 19. l’uno... incredulo: ‘l’uno credente, l’altro non credente’. 20. io so... buone: ‘io so che ciascuno ammetterà (confesserà) che sarebbe una cosa molto apprezzabile che un principe avesse (uno principe trovarsi), di tutte le qualità dette sopra, quelle che sono ritenute (tenute) buone’. 21. osservare: ‘praticare’. 22. è necessario... andare: ‘è necessario che (il principe) sia tanto accorto (prudente) da saper fuggire la pubblica condanna (infamia) di quei vizi che gli toglierebbero lo Stato (cioè ‘gli Lettura guidata L’AUTONOMIA DELLA POLITICA Dal capitolo ap- pena letto emerge con chiarezza la dirompente novità del pensiero politico di Machiavelli. Prima del Principe nessuno aveva mai messo in discussione la necessità di adattare la politica alle prescrizioni della morale, anzi nei principi si erano spesso additati modelli di virtù (si pensi solo al grande filosofo greco Platone che aveva addirittura auspicato un’oligarchia retta dai filosofi). A questa tradizione ideale, perpetuata dall’Umanesimo, Machiavelli contrappone quella che egli ritiene la realtà concreta dei fatti (la «verità effettuale», r. 7). Il presupposto di una simile distinzione fra ideale ed effettuale consiste in un’antropologia pessimistica, secondo la quale il farebbero perdere il potere’); e (retto sempre da tanto prudente) da tenersi lontano (guardarsi), se gli è possibile, da quelli (vizi) che non glielo fanno perdere: ma non potendo (guardarsi da questi vizi meno gravi), a questi si può lasciare andare con meno scrupoli (respetto)’. 23. Ed etiam... suo: ‘E anche (etiam, latino) (il principe) non si preoccupi di incorrere nel pubblico biasimo (infamia) di quei vizi senza i quali difficilmente potrebbe conservare lo Stato, perché, a ben considerare ogni cosa, si potrebbe trovare qualche comportamento che sembrerà virtuoso, seguendo il quale sarebbe la sua rovina: e (viceversa) qualche altro comportamento che sembrerà vizioso, seguendo il quale, però, si genera la sicurezza e il benessere del principe (suo). divario fra come ci si dovrebbe comportare e come si comporta davvero è per natura incolmabile. Se il primo ambito (il dovere morale) spetta alla morale, il secondo (la realtà effettiva) compete alla politica, la quale risponde a leggi sue proprie, irriducibili alle prime. Si parla quindi in questo senso di una autonomia del giudizio politico, il cui punto di vista deve essere tenuto ben distinto, secondo Machiavelli, dal giudizio morale. VIZI E VIRTÙ Anche se la morale dipinge un uomo che nella realtà dei fatti non esiste, i comportamenti morali hanno però una ricaduta politica, ed è a questa ricaduta che il principe deve fare attenzione. La lode o il biasimo in materia morale, infatti, possono rispettivamente rafforzare o indebolire il potere del principe. Machiavelli allega in proposito dodi- ANTOLOGIA 20 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 586 ANTOLOGIA 586 I Grandi Autori ci coppie di vizi e di virtù (liberale / misero; donatore / rapace; crudele / piatoso; fedifrago / fedele; effeminato / pusillanime; feroce / animoso; umano / superbo; lascivo / casto; intero / astuto; duro / facile; grave / leggiero; religioso / incredulo). È chiaro che il massimo consenso verrebbe al principe in tutto e per tutto virtuoso. Ma poiché viene ritenuta impossibile la compresenza di tutte le virtù in una sola persona, Machiavelli raccomanda al principe di guardarsi almeno dai vizi che gli toglierebbero autorità, e, di conseguenza, potere. Per quanto concerne invece i vizi che non mettono a repentaglio lo Stato, abbandonarvisi o meno è a discrezione del principe. Viceversa, nel caso in cui un vizio si renda indispensabile per la conservazione del potere, il principe è tenuto a non rispettare la morale e a correre il rischio di un pubblico biasimo (come viene spiegato nel capitolo XVIII: uT98, due vizi indispensabili alla gestione del potere sono, all’occorrenza, l’astuzia e la violenza). Esercizi comprensione 1. Dividi il capitolo in sequenze (premessa, corpo centrale, esemplificazioni, conclusioni), sintetizzando ciascuna sequenza con parole tue. analisi e interpretazione 2. Spiega cosa intenda Machiavelli per «verità effettuale», usando circa 200 parole. T98 3. Riporta in una tabella le dodici coppie di vizi e di virtù elencati nel capitolo, mettendo accanto il significato di ciascuno dei termini usati da Machiavelli. 4. Alla base del pensiero politico di Machiavelli c’è una visione pessimistica della natura e del comportamento umani: sottolinea nel testo le espressioni che, a tuo giudizio, lasciano trasparire in modo più evidente questo punto di vista. «Usare la bestia»: la volpe e il leone Il Principe, cap. XVIII Il capitolo XVIII è forse il più famoso e il più controverso del Principe. Continuando a esplorare quella «verità effettuale», alla quale si è proclamato fedele (nel capitolo XV: uT97), Machiavelli sostiene qui la necessità da parte del principe di essere, all’occorrenza, immorale. Letteralmente, se gli eventi lo richiedono, egli deve saper «entrare nel male», al fine di conservare l’integrità dello Stato: anche la parola data, di conseguenza, dovrà essere disattesa, se l’opportunità politica lo impone. Quomodo fides a principibus sit servanda1 5 Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà2. Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere3: l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene4 ricorrere al secondo: 1. Quomodo... servanda: ‘In che modo i principi debbano tener fede alla parola data’. 2. Quanto... lealtà: ‘Quanto sia lodevole che un principe mantenga la parola data (fede) e viva con lealtà e non con astuzia ogni uomo lo capisce; nondimeno (nondimanco) si vede per esperienza che ai nostri tempi hanno fatto grandi cose quei principi che hanno tenuto poco conto della parola data e hanno saputo raggirare le menti degli uomini con astuzia: e alla fine hanno avuto la meglio su (hanno superato) quelli che hanno confidato nella lealtà’. 3. come... combattere: ‘che esistono due generi di combattimento’. 4. conviene: ‘è necessario’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 587 587 14. Niccolò Machiavelli 15 20 25 30 35 pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo5. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi6. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile7. Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione8: perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono9. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere10. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inosservanzia11. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite e vane12 per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato13. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore14: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare15. Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno16. Alessandro sesto17 non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto18 da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno19; nondimeno sempre gli succederno gl’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo20. A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle21; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; come 5. usare... uomo: ‘ricorrere sia alla forza (propria della bestia) sia alla legge (propria dell’uomo)’. 6. Questa... custodissi: ‘Questa parte (dell’arte di governare) è stata (suta) insegnata ai principi allegoricamente (copertamente) dagli scrittori antichi, i quali scrivono come Achille e molti altri principi antichi fossero stati affidati alle cure del centauro Chirone, affinché li educasse secondo i suoi precetti (disciplina)’. Nella mitologia antica Chirone era il più saggio dei centauri: uomini bestia, per metà cavalli e per metà uomini. Achille, il più valoroso dei Greci nella guerra contro Troia, era stato educato nella sua giovinezza da Chirone. 7. non è durabile: ‘non è durevole’ (e quindi non permette al principe di conservare il potere). 8. Sendo... lione: ‘Essendo dunque obbligato a sapersi comportare a tempo debito (bene) come una bestia, il principe, fra le bestie, deve prendere a modello la volpe e il leone’. 9. perché... intendono: ‘perché il leone non sa difendersi dalle trappole (lacci), mentre la volpe non sa difendersi dai lupi (cioè dalle bestie feroci); bisogna dunque essere astuti come la volpe per riconoscere le trappole e forti come il leone per spaventare i lupi; quelli che usano soltanto la forza (stanno... lione) non se ne intendono (di politica)’. 10. Non può... promettere: ‘Un principe accorto (prudente) pertanto non può né deve tener fede alla parola data, quando tale fedeltà vada contro il suo interesse e quando (che) sono venute meno le ragioni che lo avevano indotto a promettere’. 11. ma perché... inosservanzia: ‘ma poiché essi (gli uomini) sono malvagi (tristi) e non manterrebbero la parola che ti hanno dato, neanche (etiam) tu devi mantenere la parola che hai dato loro; né mai a un principe mancarono giustificazioni per dare una parvenza legittima alla trasgressione della parola data’ – colorire: ‘mascherare’. 12. sono... vane: ‘sono state rese inefficaci (irrite) e inutili’. 13. e quello... capitato: ‘e quello che ha saputo meglio usare l’astuzia della volpe ha ottenuto risultati migliori’. 14. Ma è necessario... dissimulatore: ‘Ma è necessario saper mascherare questa indole astuta (natura) ed essere bravi a simulare (il vero) e dissimulare (il falso)’. 15. e sono... ingannare: ‘ma gli uomini sono tanto sciocchi (semplici) e sono tanto condizionati dalle (ubbidiscono alle) necessità contingenti (presenti) che chi inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare’. 16. non voglio... uno: ‘non voglio tacere nessuno degli esempi recenti (freschi)’. 17. Alessandro sesto: Rodrigo Borja (italianizzato Borgia), nato nel 1431 a Valencia in Spagna; eletto papa nel 1492 con il nome di Alessandro VI; morto nel 1503: è il padre del duca Valentino. 18. subietto: ‘materia’. 19. non fu mai... meno: ‘e non ci fu mai uomo che avesse maggiore energia nel proclamare (qualcosa), e che facesse tanti giuramenti nell’affermare un cosa (un’intenzione), e che poi meno rispettasse la parola data’. 20. nondimeno... mondo: ‘ciononostante i suoi inganni sempre si conclusero secondo il suo auspicio (ad votum, latino), perché conosceva bene questo aspetto dell’esistenza (parte del mondo)’. 21. A uno principe... averle: ‘A un principe, dunque, non è necessario avere effettivamente (in fatto) tutte le qualità sopra elencate (in questo e nel cap. XV: uT97), ma è davvero necessario sembrare di averle’. ANTOLOGIA 10 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 588 ANTOLOGIA 588 I Grandi Autori 40 45 50 55 60 parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario22. E hassi a intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione23. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato24. Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità25. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani26; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine27. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati28; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa29: e nel mondo non è se non vulgo, e’ pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi30. Alcuno principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare31, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo stato32. 22. anzi... il contrario: ‘anzi oserò dire questo: che, avendole e seguendole sempre, sono dannose, ma, facendo mostra di averle, sono utili; come (è utile) apparire pietoso, leale, cordiale, onesto, religioso, ed essere davvero così; ma disporsi con l’animo in modo che (stare in modo edificato con lo animo che), quando serva non essere più così, tu possa e sappia diventare l’opposto (spietato, superbo, sleale, disonesto, empio)’. 23. hassi... religione: ‘si deve capire (hassi a intendere) questo, che un principe e soprattutto (massime) un principe nuovo non può seguire (osservare) tutti quei comportamenti per i quali gli uomini sono giudicati (chiamati) buoni, essendo spesso costretto, per conservare lo Stato, ad agire contro la parola data, contro la carità, contro l’umanità, contro la religione’. 24. E però... necessitato: ‘E perciò (però) bisogna che egli abbia un animo disposto a mutare, a seconda di quanto gli impongono i venti della sorte e la variazione dello stato di cose; e, come ho detto sopra, (bisogna) che egli non si allontani dal bene, se può, ma che sappia scegliere il male, se costretto’. 25. e non è... qualità: ‘e non c’è cosa più necessaria che sembrare di avere quest’ultima qualità (la religione)’. 26. li uomini... mani: ‘gli uomini in generale (in universali) giudicano più secondo l’apparenza che la realtà’; letteralmente: ‘giudicano senza toccare con mano, limitandosi a guardare’. 27. perché tocca... al fine: ‘perché a tutti è dato vedere, solo a pochi percepire da vicino (sentire): ognuno vede come appari, pochi toccano con mano (sentono) come tu sei davvero; e quei pochi non osano opporsi all’opinione dei molti che abbiano dalla loro (che gli difenda) l’autorevolezza dello Stato; e nelle azioni di tutti gli uomini, e soprattutto dei principi, contro i quali non c’è un tribunale contro cui reclamare, si bada al risultato (si guarda al fine)’. Lettura guidata L’ALLEGORIA DEL CENTAURO In questo capitolo trova spazio uno dei concetti centrali del Principe: l’emancipazione della politica dalla sfera morale, che già era stata proclamata nel capitolo XV [uT97]. Il 28. Facci... laudati: ‘Il principe dunque faccia in modo di prevalere e conservare lo Stato: i mezzi sempre saranno giudicati encomiabili e da ciascuno saranno lodati’. 29. perché... cosa: ‘perché il popolo sciocco (vulgo) viene attirato (ne va preso) con le apparenze (quello che pare) e con il risultato effettivo (lo evento della cosa)’. 30. e nel mondo... appoggiarsi: ‘e al mondo non c’è che popolo sciocco (vulgo), i pochi (sottinteso: che capiscono qualcosa) non hanno spazio quando la maggioranza ha una solida base (l’autorità del principe)’. 31. il quale... nominare: ‘che non è il caso di nominare. Probabilmente si allude al re di Spagna Ferdinando il Cattolico (1452-1516). 32. e l’una... stato: ‘e l’una e l’altra (pace e parola data), se egli le avesse messe in pratica, lo avrebbero privato del suo prestigio e del suo Stato’. nuovo punto di vista proposto da Machiavelli va ad abbattere una lunga tradizione di riflessione sul potere che aveva idealizzato il principe, facendone un modello di virtù. Machiavelli contrappone a questa tradizione quella che si potrebbe chiamare la pedagogia del centauro, la mitica creatura dalla natura umana e in- Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 589 14. Niccolò Machiavelli VOLPE E LEONE L’allegoria del potere politico proposta da Machiavelli non si esaurisce con l’immagine del centauro. Se l’uomo deve essere anche bestia, occorre poi specificare quali siano le bestie che il principe dovrà prendere a modello. E queste bestie sono la volpe e il leone, che, sotto forma di metonimia, stanno per l’astuzia e la forza. Machiavelli insiste sul fatto che il principe deve possedere simultaneamente queste due doti, perché ciascuna delle due, di per sé, non basta a garantire la conservazione del potere. Con la forza, infatti, e non con l’astuzia, si abbattono i nemici violenti (i lupi); con l’astuzia, viceversa, e non con la forza, si aggirano le trappole (i lacci). Come l’astuzia da sola non è sufficiente, così non lo è neppure la forza. IL PROBLEMA DELLA PAROLA DATA Il problema a partire dal quale Machiavelli svolge queste riflessioni è l’opportunità che il principe tenga o non tenga fede alla parola data. Come si vede, Machiavelli indica qui la necessità di usare l’astuzia (la volpe): se le circostanze consentono di mantenere le promesse, nulla osta alla fede del principe; ma se, mantenendo la parola data, il principe corre il rischio di perdere il potere, ecco che allora diventa necessario violare la fede. La fede però va violata con astuzia, adducendo ragioni plausibili, con le quali la trasgressione dovrà apparire meno grave o addirittura legittima (Machiavelli usa in proposito l’efficace immagine «colorire la inosservanzia», rr. 24-25, cioè coprire la trasgressione con una mano di colore, ossia con una parvenza legittima). ALESSANDRO VI Una perfetta applicazione del modello proposto viene indicata in papa Alessandro VI, quel Rodrigo Borgia che già era stato lodato nel capitolo VII [uT96]. L’autonomia dalla morale, propria del progetto politico, non può prescindere, infatti, dalla morale e dal senso comune dei sudditi. Nel momento in cui si viene meno alle proprie promesse, è nel contempo necessario dare l’impressione di essere sempre nel giusto. Capiamo quindi per quale ragione, in quello stesso capitolo VII, Machiavelli lodi tanto anche il figlio di Alessandro VI, il duca Valentino, per la sua capacità di trasgredire la parola data al momento opportuno: per rafforzare il suo regno, il figlio del papa, non a caso, aveva tradito il proprio braccio destro Rimirro de Orco; e aveva finto di riconciliarsi coi suoi nemici Orsini, per poi trucidarli. Per il Valentino, secondo Machiavelli, non ci poteva essere altra strada in vista della conservazione del suo Stato. L’«entrare nel male» del principe è condizione necessaria per il bene dello Stato e per la pubblica utilità. UNA CONCEZIONE TRAGICA DELLA NATURA UMANA “Il fine giustifica i mezzi”: è questa la for- mula cinica, nata in ambito gesuitico, con la quale il pensiero di Machiavelli è stato banalizzato dai suoi detrattori o, viceversa, fatto proprio dai suoi segreti ammiratori. A questa formulazione, tanto famigerata quanto impropria, sfugge però la concezione tragica dell’uomo sopra la quale poggia la teoria politica di Machiavelli, secondo il quale fare il bene è impossibile in un mondo dove tutti gli uomini sono tristi (malvagi) e dove conservare la parola data è controproducente, perché nessuno è in grado di tener fede alle proprie promesse. Machiavelli non ha mai detto che il fine giustifichi alcunché: semmai, ai suoi occhi, la condizione umana impone determinati mezzi che, se non hanno giustificazione morale, quanto meno ne hanno una politica. Si aggiunga poi la forte carica ideale che Machiavelli attribuisce all’agire politico e alla figura del principe, proteso a soddisfare i suoi sudditi non solo con le apparenze («quello che pare», r. 59), ma anche e soprattutto con il buon governo effettivo («lo evento della cosa», r. 59). Carichi di questo slancio ideale sono in modo particolare gli ultimi capitoli del trattato, e in ispecie il XXVI [uT100]. ANTOLOGIA sieme animale: per metà uomo e per metà cavallo (dalla cintola in giù). Con un’ardita interpretazione allegorica del mito classico, l’autore sostiene infatti che gli antichi avessero attribuito ad Achille il centauro Chirone come maestro per un motivo ben preciso: perché il principe perfetto è quello che sa usare insieme la natura umana, morale, e la natura ferina, immorale. Il principe perfetto è colui che sa «bene usare la bestia e lo uomo» (r. 10). Il presupposto di questa teoria, naturalmente, è quell’antropologia negativa che ricorre di continuo nel Principe: il male infatti, secondo Machiavelli, è connaturato alla natura umana; se il principe non lo sa usare a proprio vantaggio, il suo regno e tutti i sudditi con lui sono destinati alla rovina. 589 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 590 ANTOLOGIA 590 I Grandi Autori Esercizi comprensione il modo e i contesti in cui debbano essere impiegate. 1. Riscrivi in italiano contemporaneo i capoversi 5, 6 e 7 del brano che hai letto. contestualizzazione interpretazione 2. Indica con parole tue le qualità che secondo il giudizio di Machiavelli devono essere proprie del principe, e T99 3. Leggi (o rileggi) il cap. VII [uT96] e spiega in che modo i princìpi dell’agire politico enunciati nel capitolo XVIII trovano una loro manifestazione esemplare nell’operato politico del duca Valentino. Virtù contro fortuna Il Principe, cap. XXV Negli ultimi tre capitoli del trattato (XXIV-XXVI) Machiavelli deplora lo stato della penisola italiana, in balìa delle potenze straniere e resa instabile dai continui rovesci di fortuna. Nel cap. XXV leggiamo in particolare una grande riflessione sul potere della fortuna. Al potere della sorte, per quanto esteso esso sia, Machiavelli sostiene che non è impossibile resistere. Anche se spesso la virtù è destinata a soccombere (esemplare, in proposito, la vicenda del Valentino), esistono tuttavia alcune strategie che permettono al principe di giocare d’anticipo contro il potere distruttivo della sorte. Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum1 5 10 E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte2. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura3. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro4. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi5. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi, 1. Quantum... occurrendum: ‘Quanto grande sia il potere della fortuna nelle vicende umane e in che modo le si possa resistere’. 2. E’ non mi è... sorte: ‘Non mi è ignoto (incognito) che molti hanno ritenuto e tuttora ritengono che le cose del mondo siano disposte dalla fortuna e da Dio in modo tale (in modo governate), che gli uomini non possono modificarle (correggerle) con la loro accortezza (prudenza), anzi non dispongano di alcun rimedio: e per questo potrebbero credere (potrebbono iudicare) che non sia il caso di affannarsi molto nell’azione (insudare molto nelle cose), ma (che sia meglio) lasciarsi guidare dalla (governare alla) sorte’. 3. Questa... coniettura: ‘Questa opinione è stata quella più ascoltata (più creduta) nei nostri tempi a causa dei grandi mutamenti politici (le variazione grande delle cose) che si sono visti e continuano a vedersi ogni giorno, al di là di ogni previsione umana’. Machiavelli allude all’instabilissima situazione politica dei diversi Stati presenti nell’Italia del Cinquecento, di continuo contesi dalla Francia e dalla Spagna a seguito della discesa del re di Francia Carlo VIII (1494). 4. A che pensando... loro: ‘E io, riflettendo su questo, talora mi sono in qualche modo accostato all’opinione di costoro’ (la posizione dei fatalisti). Si ricordi del resto che fu proprio un improvviso rovescio di fortuna a far cadere la Repubblica a Firenze e a ridare il potere ai Medici, privando Machiavelli del proprio ruolo accanto a Pier Soderini (1512). 5. Nondimanco... a noi: ‘Tuttavia, affinché non sia dichiarata nulla (non sia spento) la nostra libertà d’azione, credo che possa essere vero che la fortuna stabilisca il corso di metà delle nostre azioni, ma che lei pure (etiam, congiunzione latina) lasci governare a noi (uomini) l’altra metà, o quasi’. Si noti come Dio, che poco sopra era stato evocato accanto alla fortuna, sia ora sparito: l’unica forza è la fortuna. Si noti inoltre che viene usata un’espressione di origine cristiana come libero arbitrio non nel significato di libertà di scelta fra bene e male, ma come sinonimo di possibilità d’intervento sulla realtà politica. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 591 591 14. Niccolò Machiavelli 20 25 30 35 40 6. E assimiglio quella... altra: ‘E paragono quella (la fortuna) a uno di questi fiumi impetuosi (rovinosi) che, quando sono rabbiosi (metafora per indicare la piena), allagano le pianure (e’ piani), abbattono (rovinano) gli alberi e le case, asportano il terreno da una parte, lo ammucchiano in un’altra’. 7. ostare: ‘opporre resistenza’. 8. E, benché... sì licenzioso: ‘E, benché siano fatti così (i fiumi), nulla vieta però che (non resta però che) gli uomini, col bel tempo (tempi queti), non possano adottare provvedimenti con barriere e con argini: in modo che, quando poi ingrossano, o confluiscano in un canale oppure il loro impeto non sia tanto dannoso e sfrenato’. 9. Similmente interviene... tenerla: ‘Ugualmente accade con la fortuna, la quale dà prova del proprio potere dove non c’è capacità pronta a resisterle: e indirizza (volta) i suoi assalti (impeti) là dove sa che non sono stati fatti gli argini e i ripari per frenarla (tenerla)’. 10. E se voi... venuta: ‘E se voi considererete (considerrete) l’Italia, la quale è sede di questi cambiamenti, nonché la loro causa scatenante (quella che ha dato loro il moto), vedrete che essa è una campagna senza alcun argine o riparo; perché, se essa fosse stata riparata da una capa- cità adeguata (conveniente), com’è il caso della Germania (Magna è abbreviazione di Alemagna), della Spagna e della Francia, o questa piena non avrebbe causato i grandi mutamenti che ha causato, oppure non sarebbe nemmeno venuta’. L’Italia (come abbiamo già ricordato) era contesa dalla Spagna e dalla Francia, due Stati dove, come nota Machiavelli, il potere centralizzato si era affermato prima che nella nostra penisola, divisa invece fra molteplici Stati e Staterelli. 11. questo... in universali: ‘mi pare sufficiente aver detto queste cose in generale (in universali) per quanto riguarda l’opporsi alla fortuna’. 12. Ma... discorse: ‘Ma per entrare più nel dettaglio (a’ particulari) dico che (come) si vede uno stesso principe (questo principe) oggi prosperare (felicitare) e domani cadere in rovina, senza avergli visto cambiare natura o qualità alcuna, e ciò credo che abbia origine, in primo luogo (prima) dalle cause che si sono in precedenza discusse’ (si allude ai capitoli VI: uT95 e VII: uT96). 13. quel principe... varia: ‘quel principe che fa completo affidamento sulla fortuna cade in rovina non appena quella (la fortuna) muta’. 14. Credo... tempi: ‘Credo anche (ancora) che sia prospero quel principe che fa corrispondere (riscontra) il suo modo di agire alla natura dei tempi (con la qualità de’ tempi): e allo stesso modo (credo) che fallisca (sia infelice) quello al cui modo di agire non si accordano i tempi’. 15. Perché... pervenire: ‘Perché si vede che gli uomini si comportano in diversi modi (variamente) secondo le diverse operazioni necessarie a raggiungere il fine che ciascuno si è prefissato (quale ciascuno ha innanzi): l’uno con prudenza (rispetto), l’altro con veemenza; l’uno per mezzo di violenza, l’altro per mezzo di astuzia; l’uno con pazienza, l’altro con impazienza; e ciascuno vi può arrivare con questi diversi comportamenti’. 16. E vedesi... loro: ‘E si vede anche che di due uomini prudenti (respettivi) uno realizza il suo progetto, l’altro no; e, allo stesso modo, che due uomini hanno uguale successo (equalmente felicitare) con metodi (studi) diversi, essendo l’uno prudente (rispettivo) e l’altro impulsivo (impetuoso): e ciò non deriva da altro se non dalla natura dei tempi, i quali sono più o meno conformi al loro modo di agire’. 17. Di qui... l’altro no: ‘Da ciò consegue quello che ho detto, cioè che due individui, agendo in modo diverso, ottengono (sortiscono) lo stesso effetto: e di due, che agiscono allo stesso modo (equalmente), uno raggiunge il suo obiettivo (si conduce al suo fine) e l’altro no’. ANTOLOGIA 15 lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra6: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare7. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso8. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla9. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che la ha, o la non ci sarebbe venuta10. E questo voglio basti aver detto, quanto allo opporsi alla fortuna, in universali11. Ma ristringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna; il che credo che nasca, prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addreto discorse12: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia13. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi: e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi14. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con rispetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno con pazienza, l’altro col suo contrario; e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire15. E vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con diversi studi, sendo l’uno rispettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non da la qualità de’ tempi che si conformano, o no, col procedere loro16. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto: e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no17. Da questo ancora depende la variazione del Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 592 ANTOLOGIA 592 I Grandi Autori 45 50 55 60 65 bene18; perché se uno, che si governa con rispetti e pazienza, e’ tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando: ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché e’ non muta modo di procedere19. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accommodare a questo20: sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella21. E però l’uomo respettivo, quando e’ gli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare: donde e’ rovina; che se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna22. Papa Iulio II23 procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine24. Considerate la prima impresa ch’e’ fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli25. Viniziani non se ne contentavano; el re di Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale impresa26. E lui nondimanco con la sua ferocità e impeto si mosse personalmente a quella espedizione27. La qual mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e viniziani, quegli per paura e quell’altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno di Napoli28; e da l’altro canto si tirò dietro il re di Francia perché, vedutolo quel re mosso e desiderando farselo amico per abbassare e’ viniziani, iudicò non poterli negare gli eserciti sua sanza iniuriarlo manifestamente29. Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto30. Perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusciva: perché il re di Francia aebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo mille paure31. Io voglio lasciare stare le altre sua azioni, che tutte sono state simili e tutte gli sono successe32 bene: e la brevità della vita non li ha lasciato sentire il contrario33; perché, se fussino sopravvenuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua rovina: né mai arebbe deviato da quegli modi alli quali la natura lo inclinava34. 18. Da questo... bene: ‘Da questo dipende anche (ancora) il tramutarsi del bene (in male)’. Ma si può intendere anche ‘la relatività del comportamento giusto’, ovvero il fatto che non esiste un comportamento valido per tutte le situazioni. 19. perché... procedere: ‘perché uno che si comporta con cautela e pazienza, se i tempi e le circostanze si volgono in modo che il suo comportamento sia valido, continua a prosperare: ma se i tempi e le circostanze cambiano, egli cade in rovina, perché non cambia il suo comportamento (modo di procedere)’. 20. si sappia accommodare a questo: ‘sappia adattarsi a questo cambiamento’. 21. sì perché... da quella: ‘sia perché non può deviare dalle inclinazioni che gli sono naturali, sia anche (etiam, congiunzione latina) perché, dopo che uno ha sempre avuto successo comportandosi in un certo modo (camminando per una via) non può convincersi che sia giusto comportarsi altrimenti (partirsi da quella, ‘allontanarsi da quella via’)’. 22. E però... fortuna: ‘E perciò (però) l’uomo cauto (respettivo), quando è il momento di essere risoluti (venire allo impeto) non lo sa fare, per cui perde il potere (rovina); ma se cambiasse natura col mutare dei tempi e degli eventi, la sua sorte non cambierebbe’. 23. Papa Iulio II: Giuliano della Rovere (1443- 1513), papa dal 1503 al 1513 con il nome di Giulio II. 24. e trovò... fine: ‘e trovò i tempi e le situazioni adatte a quel suo modo di procedere tanto che ottenne sempre un esito favorevole’. 25. Considerate... Bentivogli: ‘Prendete in considerazione la prima impresa che fece a Bologna, quando viveva ancora Giovanni Bentivoglio’. Nel 1506 il papa mosse guerra contro Bologna, signoria dei Bentivoglio. 26. Viniziani... impresa: ‘I veneziani non ne erano contenti; e il re di Spagna lo stesso (quel medesimo, cioè non era soddisfatto); con la Francia (il papa) stava trattando (aveva ragionamenti) in merito a tale impresa’. 27. E lui... espedizione: ‘Ma lui, nondimeno (nondimanco) con la sua fierezza (ferocità) e la sua impulsività (impeto) guidò personalmente quella spedizione’. 28. La qual mossa... Napoli: ‘E questa risoluzione rese incerti e bloccò gli spagnoli e i veneziani: i veneziani per il timore, il re di Spagna (Ferdinando il Cattolico) per il desiderio di recuperare tutto il Regno di Napoli’. Il timore dei veneziani era quello di perdere i porti conquistati in Puglia nel 1494, porti che invece il re di Spagna voleva inglobare nel Regno di Napoli. 29. e da l’altro canto... manifestamente: ‘e (il papa) d’altronde trascinò con sé il re di Francia (nell’impresa di Bologna), perché, quel re, avendo visto che il papa aveva già cominciato l’impresa (vedutolo quel re mosso), e desiderando averlo come alleato per diminuire la potenza (per abbassare) dei veneziani, ritenne di non potergli negare i suoi eserciti senza offenderlo chiaramente (sanza iniuriarlo manifestamente)’. 30. Condusse... condotto: ‘Dunque Giulio con la sua mossa impulsiva portò a termine (Condusse) quello che nessun altro pontefice, con tutta la prudenza umana, avrebbe mai portato a termine (arebbe condotto)’. 31. Perché... paure: ‘Perché, se egli avesse aspettato di muovere (con l’esercito) da Roma con le trattative (conclusioni) terminate e tutti i piani fissati, come avrebbe fatto qualunque altro pontefice, non gli sarebbe mai riuscita (la conquista di Bologna): perché il re di Francia avrebbe addotto mille scuse e gli altri (Venezia e Spagna) gli avrebbero avanzato mille minaccie (paure)’. 32. gli sono successe: ‘gli sono andate’. 33. sentire il contrario: ‘fare la prova di un esito contrario (negativo)’. 34. perché... lo inclinava: ‘perché, se fossero sopraggiunti tempi in cui ci fosse stato bisogno di agire con prudenza, ne sarebbe seguita la sua rovina, perché mai egli avrebbe deviato da quei comportamenti ai quali la sua natura lo induceva (inclinava)’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 593 593 14. Niccolò Machiavelli 75 Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come e’ discordano, infelici35. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo: perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla36. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente procedono37: e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano38. 35. Concludo... infelici: ‘Poiché la fortuna muta i tempi e gli uomini restano ostinati nei loro comportamenti, concludo dunque che (gli uomini) hanno successo (sono felici) fin tanto che (mentre) si adeguano ai tempi, ma falliscono (sono... infelici) appena sono in contrasto (coi tempi)’. 36. Io iudico... urtarla: ‘Nonostante tutto penso che sia sicuramente meglio essere impetuoso che prudente, perché la fortuna è donna ed è quindi necessario, per sottometterla, picchiarla e farle violenza’. 37. E si vede... procedono: ‘E si può vedere che si lascia sottomettere più da questi (gli Lettura guidata METÀ ALL’UOMO E METÀ ALLA FORTUNA Nelle prime righe del capitolo Machiavelli prende in considerazione l’ipotesi di coloro che ritengono la fortuna padrona assoluta delle vicende umane, negando che l’uomo abbia la benché minima facoltà d’intervento. L’autore stesso ammette di essersi talora accostato a questa posizione (a un terribile rovescio di fortuna, del resto, egli doveva la fine della sua carriera politica). Subito dopo, però, questa prima ipotesi viene negata e sostituita con un’altra: una metà degli eventi è in mano alla fortuna, ma un’altra metà, o pressappoco, viene messa in mano alla virtù dell’uomo. Per spiegare in che modo questo sia possibile, Machiavelli ricorre all’immagine del fiume: quando il fiume è in piena, è vero che la sua forza devastatrice non si può arginare; vero è anche però che prima della piena l’uomo può costruire argini e predisporre altri ripari in modo da neutralizzare la violenza dell’acqua. Allo stesso modo anche la virtù dell’uomo, secondo Machiavelli, può arginare il potere devastante della fortuna prima che si manifesti: prevedendo i rischi e calcolando in anticipo i rimedi possibili. FORTUNA E CARATTERE: IL «RISCONTRO» Dopo questa enunciazione generale, Machiavelli entra nello specifico distinguendo fra i vari tipi di carattere che gli uomini presentano di fronte agli eventi, insistendo soprattutto su due diverse indoli: quella calda, impetuosa e risoluta da una parte; e quella fred- impetuosi) che non da quelli che agiscono con freddezza (con prudenza)’. 38. e però... comandano: ‘E perciò, in quanto donna, (la fortuna) è sempre amica dei giovani, perché sono meno prudenti, più aggressivi (feroci), e con più audacia le impongono ordini’. da, prudente e respettiva (cauta) dall’altra. Secondo Machiavelli la possibilità di successo di un principato dipende da una ben precisa corrispondenza, o «riscontro», fra l’indole del principe e la natura delle circostanze in cui il principe si trova ad agire. Se gli eventi si adattano a una gestione del potere cauta e guardinga, allora avrà successo un principe respettivo. Ma se gli eventi chiedono una gestione risoluta, sarà invece il principe impetuoso a prevalere. La tragica conseguenza di questa teoria del riscontro è che, se un principe si trova ad affrontare una situazione che gli impone di comportarsi diversamente da come ha fatto fino a quel punto, difficilmente farà violenza a sé stesso, comportandosi da impetuoso anziché da respettivo o viceversa. A questa contraddizione Machiavelli non trova rimedio. Semplicemente, si limita a constatare la felice corrispondenza fra il carattere di Giulio II e le circostanze tra le quali egli si trovò a esercitare il proprio potere: una coincidenza che permise al papa di averla sempre vinta sui propri avversari, messi in scacco dall’imprevedibilità delle sue manovre. Sennonché, si chiede Machiavelli, cosa sarebbe successo se Giulio II avesse dovuto fronteggiare una situazione che avesse richiesto una gestione cauta, fredda e respettiva? INVITO ALL’AUDACIA A questa domanda non sem- bra esserci risposta. E tuttavia alla fine del capitolo Machiavelli vira bruscamente verso una soluzione possibile. Pur sapendo che un comportamento sempre valido non esiste, l’autore privilegia una gestio- ANTOLOGIA 70 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 594 ANTOLOGIA 594 I Grandi Autori ne audace e veemente del potere, facendo leva sulla motivazione che «la fortuna è donna» e che, di conseguenza, essa vada trattata come una donna volubile e capricciosa: vale a dire con la violenza fisica e con l’impeto brutale che è proprio dei giovani, dai quali ogni donna, secondo Machiavelli, preferisce essere comandata piuttosto che dai vecchi. Allo stesso modo, in linea di massima, anche un principe impetuoso si conquisterà i favori della fortuna più facilmente che un principe respettivo. Esercizi comprensione 1. Rappresenta in forma di schema il procedere argomentativo dello scrittore: dalla premessa alla conclusione. Ricorda di evidenziare gli esempi, le obiezioni, tutte le strategie che l’autore mette in opera per sostenere la propria tesi. 2. Riassumi il capitolo a diversi livelli di sintesi: prima in 100 parole circa e poi in 50 circa. analisi e interpretazione 3. Due similitudini principali sorreggono il presente LC6 capitolo: individuale e spiega il loro significato usando circa 200 parole. contestualizzazione 4. Confronta questo capitolo con quelli che hai letto precedentemente e prova a individuare il lessico ricorrente nel Principe: verifica poi se le espressioni che avrai individuato sono ancora presenti nell’italiano contemporaneo oppure no, e qualora lo siano, se l’accezione in cui sono usate si è conservata nell’italiano contemporaneo oppure no. Giorgio Inglese: virtù e fortuna nel Principe Giorgio Inglese, Introduzione a Niccolò Machiavelli, Il Principe Giorgio Inglese (nato nel 1956) è autore dell’ultima edizione critica del Principe, quella che abbiamo usato in questa antologia. In un saggio complessivo sul capolavoro di Machiavelli, pubblicato ora anche come introduzione a un’edizione tascabile del trattato, Inglese riflette su un tema cruciale: il rapporto fra virtù e fortuna e la legge del riscontro (o corrispondenza) fra l’indole del principe e la natura dei tempi. Ne riportiamo qui di seguito un breve passo. Pur nel caldo tono esortativo – che spiegabilmente accentua i segni del favore divino per i Medici – Machiavelli non manca di sottolineare che la redenzione sarà opera di virtù e sarà opera umana. «Dio non vuole fare ogni cosa»: ha dato il segno, ma «el rimanente dovete fare voi». La redenzione «non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati». Non vi potrà essere grande difficoltà, «pure che quella [Casa] pigli delli ordini di coloro che io ho preposti per mira»1. Come nel VI, così nel XXVI, il motivo della «occasione» si colora di provvidenzialismo, perché tende a trascorrere in una idea della storia per cui il negativo, la rovina, la distruzione – in quanto premessa necessaria del positivo, dello stato, della potenza – vengano alla fine compresi e razionalmente dominati. Simbolo di questa esigenza concettuale è Dio. Ma «Dio non vuole fare ogni cosa»: tra la rovina e la redenzione, sta l’ardua prova della virtù, che può riuscire o fallire («se vi recherete innanzi [...] pure che quella pigli»); e allora tra rovina e redenzione, tra negativo e positivo, ogni necessità si scioglie, e ci ritroviamo in una storia di conflitto assoluto, dall’esito non predeterminabile. Se si volesse ricondurre tutto il pensiero machiavelliano a un motivo generatore e onnipresente, bisognerebbe meditare proprio su questo confronto con il momento oscuro e negativo della storia. Quel che resiste alla interpretazione razionale degli ac1. Dio non vuole... preposti per mira: citazioni tratte dal cap. XXVI [uT100]. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 595 595 14. Niccolò Machiavelli 2. questi nostri principi... possono mutarsi: queste citazioni sono tratte dal cap. XXIV, il primo dei tre capitoli conclusivi, non riportato nella nostra antologia. 3. la sussistenza... pericolo: ‘la permanenza ineliminabile del quale (rischio) deve essere concepita (dal principe) come un calcolo del massimo pericolo’. 4. Scipione/Fabio: allude a due eroi della storia romana, campioni, rispettivamente, di risolutezza e di cautela nell’azione: Publio Cornelio Scipione Africano (235-183 a.C.), vincitore di Annibale a Zama (202) e Quinto Fabio Massimo (275-203 a. C.), il quale si era opposto ad Annibale eludendo il confronto diretto; per questo fu soprannominato il Temporeggiatore. T100 Esortazione a liberare l’Italia Il Principe, cap. XXVI Dopo che nei precedenti 25 capitoli ha analizzato in una luce razionale e obiettiva la forma di governo monarchica, nell’ultimo capitolo Machiavelli adotta uno stile appassionato e profetico. Esortandolo a mettere in pratica i consigli dispensati nel trattato, Machiavelli si rivolge ora al suo destinatario Lorenzo de’ Medici (nipote di Lorenzo il Magnifico) affinché si metta a capo degli Stati italiani e ponga fine alla dominazione straniera sull’Italia cominciata vent’anni prima, con la discesa di Carlo VIII (1494). ANTOLOGIA cadimenti, e perciò resiste allo sforzo di previsione, è «fortuna». Il lavoro dell’interpretazione è tutto rivolto a superare questa resistenza, a cancellare il margine irrazionale-imprevedibile della «fortuna» (la malattia del Valentino, per esempio). Nell’interpretazione della rovina d’Italia, Machiavelli ha toccato la soglia della integrale razionalizzazione («questi nostri principi [...] non accusino la fortuna»), ma subito ha dovuto restituire al quadro un fattore di rischio, che la previsione deve considerare ma non può dissolvere: «perché, non avendo mai ne’ tempi quieti pensato ch’e’ possono mutarsi»2. L’interpretazione-previsione non può eliminare il rischio: la sussistenza irriducibile del quale deve essere ragionata come “calcolo” del massimo pericolo3 (e, quindi, della migliore attrezzatura: «fare provedimento e con ripari e con argini»). Questa ineliminabile insicurezza fa, dell’agire, un agire politico in senso proprio; da essa – come si è visto – e non da altro, nasce la necessità della forza e della frode («perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni», XV, 5). Nel capitolo XXV, l’esame dei limiti imposti all’agire conosce il massimo del rigore: «In universali», esso è consegnato all’attesa di un «fiume rovinoso» la cui potenza sfugge a ogni misura: quanto al «particulare», gli individui che agiscono politicamente sono vincolati a caratteristiche di comportamento (in ultima analisi: scatto e prudenza, «impeto» e «respetto») il cui riscontro positivo con la necessità del momento – la «qualità dei tempi», che richiede l’impiego dell’uno o dell’altro «modo» – è affatto casuale. È come se, di là dai suoi già riconosciuti lineamenti costituzionali [...], l’agire politico rispondesse a una doppia velocità, a un duplice principio operativo (azione risolutiva/azione logoratrice: Scipione/Fabio4); e in questa determinazione estrema riflettesse tuttavia la «naturale» predisposizione alla cautela o all’audacia dell’individuo che di caso in caso è investito di comando, non già il risultato di una scelta razionale conseguente all’esame della realtà. Si intende che per Machiavelli la crisi italiana esige impeto, non respetto; ma sarebbe vano consigliare «impeto» a un «respettivo» e viceversa. «Infine, non consiglar persona né piglar consiglo da persona, excepto un consiglo generale: che ognun facci quello che li detta l’animo et con audacia», aveva scritto nel 1506, in margine ai Ghiribizi al Soderino. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 596 ANTOLOGIA 596 I Grandi Autori Exhortatio ad capessendam italiam in libertatemque a barbaris vindicandam1 5 10 15 20 25 Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo2. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo in Egitto; e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, che e’ persi fussino oppressati da’ medi; e la eccellenza di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che la fussi più stiava che li ebrei, più serva che ’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avessi sopportato d’ogni sorte ruina3. E benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto come di poi, nel più alto corso delle azioni sua, è stato da la fortuna reprobato4. In modo che, rimasa come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le sua ferite e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite5. Vedesi come la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenze barbare6. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre Casa vostra, la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e da la Chiesa, della quale è ora principe, possa farsi capo di questa redenzione7. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati8; e benché quelli uomini sieno rari e meravigliosi, nondimeno furno uomini, ed ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente9: perché la impresa loro non fu più iusta di questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è iustizia grande: 1. Exhortatio... vindicandam: ‘Esortazione a difendere l’Italia e liberarla dai barbari’. I barbari sono ovviamente le potenze straniere: Spagna e Francia. 2. Considerato... a questo: ‘Considerati dunque tutti gli argomenti appena trattati (di sopra discorse), e chiedendomi (pensando meco medesimo) se al presente in Italia non ci siano le condizioni (correvano tempi) che permettano a un principe nuovo di guadagnarsi l’onore (da onorare uno nuovo principe), e (chiedendomi) se non ci siano le premesse tali da dare (se ci era materia che dessi) a un principe accorto e capace l’occasione di introdurre in Italia una nuova forma politica, che a lui procuri onore e (faccia il) bene di tutti gli italiani (università delli uomini di quella), mi sembra che concorrano a favore (in benefizio) di un principe nuovo tante circostanze, che io non so quale mai altro momento storico sia stato più propizio (atto) a questo (scopo)’. 3. E se... ruina: ‘E se, come io dissi (nel cap. VI: uT95), affinché si manifestasse la capacità politica (volendo vedere la virtù) di Mosè, era necessario che il popolo di Israele fosse schiavo in Egitto; e per conoscere la magnanimità di Ciro, (era necessario) che i Persiani fossero oppressi dai Medi; e (per conoscere) l’eccellen- za di Teseo, (era necessario) che gli Ateniesi fossero politicamente divisi; così nel momento presente, affinché si riconosca la capacità politica di un spirito italiano, era necessario che l’Italia si riducesse nelle (misere) condizioni attuali, e che essa fosse più schiava degli ebrei, più serva dei Persiani e più divisa degli Ateniesi; senza un capo, senza un ordinamento, percossa (battuta), saccheggiata, lacerata, attraversata da eserciti stranieri (corsa, letteralmente: ‘percorsa’), e avesse sopportato ogni sorta di sciagura (d’ogni sorte ruina)’. 4. E benché... reprobato: ‘E sebbene sino a questo punto si sia mostrato (mostro) in qualcuno un qualche barlume (spiraculo, spiraglio dal quale filtra il barlume) tale da indurre a credere che egli fosse stato destinato (ordinato) da Dio per la salvezza (redenzione) dell’Italia (sua), tuttavia (tamen, congiunzione latina) si è visto come in seguito, all’apice delle sue imprese, sia stata respinto (reprobato, latinismo) dalla fortuna’. Quest’uomo della Provvidenza è il duca Valentino (cfr. cap. VII: uT96). 5. In modo... infistolite: ‘Cosicché (l’Italia), rimasta (rimasa) quasi senza vita, aspetta chi possa essere l’uomo che curi (sani) le sue ferite e ponga fine ai saccheggi in Lombardia, alle tasse (taglie, per il loro peso elevato) imposte al regno di Napoli (il “Reame” per antonomasia) e alla Toscana, e la guarisca da quelle piaghe già da lungo tempo incancrenite (infistolite)’. 6. Vedesi... barbare: ‘Si vede bene che essa prega Dio (la priega Iddio) che le mandi qualcuno che la salvi da queste crudeltà e da queste offese dovute a stranieri’. 7. Né ci si vede... redenzione: ‘E al presente non si vede qui (ci, in Italia) in quale famiglia essa (lei, l’Italia) possa sperare più che nella vostra illustre famiglia (la casata dei Medici), la quale con la sua fortuna e la sua capacità, favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale ora è a capo (nel momento in cui Machiavelli scrisse Il Principe, nel 1513, era appena stato eletto pontefice Giovanni de’ Medici, papa Leone X), possa capeggiare questa riscossa (redenzione)’. 8. Il che... nominati: ‘E questo non sarà (fia) molto difficile, se terrete a mente le azioni e la vita di coloro che ho appena nominati (Mosè, Ciro, Teseo)’. 9. e benché... presente: ‘e benché quegli uomini siano rari e tali da destare meraviglia, nondimeno furono uomini anche loro, e ciascuno di loro ebbe un’occasione meno favorevole (minore) della presente’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 597 597 14. Niccolò Machiavelli 35 40 45 50 iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est10. Qui è disposizione grandissima: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro che io ho preposti per mira11. Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari sanza esemplo, condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna12. Ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza13. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio14 e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra, e se, in tante revoluzioni di Italia e in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in Italia la virtù militare sia spenta; perché questo nasce che gli ordini antichi di quella non erono buoni, e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi15. E veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi ordini trovati da lui: queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile16. E in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma: qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi17. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi, quanto gli italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno; ma come e’ si viene alli eserciti, non compariscono18. E tutto procede da la debolezza de’ capi: perché quegli che sanno non sono ubbiditi e a ciascuno pare sapere, non ci essendo insino a qui suto alcuno che si sia rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino19. Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti anni, quando gli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova20: di 10. Qui... spes est: ‘Questa impresa è giusta più di ogni altra: la guerra infatti è giusta per coloro ai quali è necessaria e sono pietose le armi quando non c’è speranza se non nelle armi’. Citazione da Livio, lo storico latino che Machiavelli prenderà come punto di riferimento nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio: il passo viene dall’opera Ab Urbe condita, IX, 1. 11. Qui è disposizione... per mira: ‘Ora l’occasione è favorevolissima e non può esserci grande difficoltà, se l’occasione è favorevole, a patto che quella (la famiglia dei Medici) tragga spunto dagli ordinamenti di coloro che io ho additato a modello. – pigli delli ordini: letteralmente ‘prenda (alcuni) degli ordinamenti’. 12. Oltre a di questo... manna: ‘Oltre a questo, oggi si vedono prodigi (estraordinari) senza precedenti compiuti (condotti) da Dio: il mare si è aperto; una nube ha mostrato la strada attraverso di quello (vi ha scorto il cammino); la roccia ha sprigionato acqua, il cibo (manna) è piovuto dal cielo’. Machiavelli sta riferendo ai Medici alcuni dei più celebri prodigi narrati nella Bibbia, a proposito dell’esodo dall’Egitto degli ebrei sotto la guida di Mosè: il Mar Rosso che si apre per far loro strada; la colonna di fuoco e di nubi che segna il cammino; l’acqua miracolosamente sgorgata dalla roccia nel deserto del Sinai; la caduta della manna. Ricordando questi eventi narrati nel libro dell’Esodo, Machiavelli allude in forma allegorica all’elezione di Giovanni de’ Medici al soglio pontificio. 13. Ogni cosa... grandezza: ‘Tutto ha contribuito alla vostra grandezza’. Più esplicitamen- te, ci viene detto che i prodigi dell’Antico Testamento si compiono nell’attuale grandezza dei Medici. 14. per non... arbitrio: ‘per non toglierci (a noi uomini) la libertà di scelta’; sulla particolare accezione di “libero arbitrio” proposta da Machiavelli cfr. cap. XXV [uT99]. 15. E non è... nuovi: ‘E non c’è da meravigliarsi se nessuno dei principi italiani nominati prima (Francesco Sforza e il Valentino di cui parla il cap. VII: uT96) non hanno potuto fare quello che si può sperare che faccia l’illustre vostra famiglia, e se, fra tanti sconvolgimenti (revoluzioni) dell’Italia e tante azioni belliche (maneggi di guerra), il valore militare in Italia appare estinto; il motivo è che gli ordinamenti antichi dell’Italia (di quella) non erano buoni, e non c’è stato (suto) nessuno che abbia saputo trovarne di nuovi’. Come si capirà dal seguito del brano, gli ordinamenti antichi, bisognosi di riforma, sono in primo luogo le istituzioni militari. Secondo Machiavelli infatti è indispensabile che l’Italia passi da un sistema di milizie mercenarie, infedeli, a un sistema di milizie proprie, fedeli. 16. E veruna cosa... mirabile: ‘E nessuna cosa fa tanto onore a un principe nuovo emergente (a uno uomo che di nuovo surga) quanto fanno (fa) le nuove leggi e i nuovi ordinamenti da lui ideati: queste cose, quando sono ben fondate (sono bene fondate) e quando si prefiggono grandi obiettivi (letteralmente: ‘abbiano in sé grandezza’), lo rendono oggetto di reverenza e di ammirazione’. 17. E in Italia... ne’ capi: ‘E in Italia non manca la materia (umana) in grado di ricevere ogni ordinamento possibile (da introdurvi ogni forma): qui c’è grande valore nelle membra, se non mancasse nei capi’. Fuor di metafora, le membra sono le popolazioni italiane soggette; i capi i principi italiani, incapaci di guidarle. – materia... forma: sono due termini aristotelici: indicano rispettivamente la materia grezza e il disegno o progetto in base al quale la materia può essere lavorata. 18. Specchiatevi... compariscono: ‘Guardate bene come nei duelli e negli scontri fra pochi gli italiani siano superiori per forza, agilità, intelligenza; ma non appena si arriva a uno scontro fra eserciti, essi non fanno una buona figura’. 19. E tutto procede... cedino: ‘E tutto deriva (procede) dalla debolezza dei capi, perché quelli che sanno (cosa fare) non sono ubbiditi e a tutti pare di sapere (quello che si deve fare), visto che nessuno, fino a questo momento, si è tanto elevato sopra gli altri, per capacità e per fortuna, al punto da indurre tutti gli altri a cedergli il comando (che li altri cedino)’. 20. Di qui... pruova: ‘È per questo (Di qui nasce) che in tanto tempo, in tante guerre fatte negli ultimi venti anni, quando c’è stato un esercito tutto italiano ha sempre dato cattiva prova di sé’. Machiavelli calcola il ventennio dal 1494 al 1513 (l’anno del Principe). Si ricordi che nel 1494, con la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, erano cominciate le guerre per il predominio in Italia di Francia e Spagna. ANTOLOGIA 30 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 598 ANTOLOGIA 598 I Grandi Autori 55 60 65 70 75 che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri21. Volendo adunque la illustre Casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che redimerno le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie22, perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati: e benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedranno comandare dal loro principe, e da quello onorare e intrattenere23. È necessario pertanto prepararsi a queste arme, per potersi con la virtù italica defendersi da li esterni24. E benché la fanteria svizzera e spagnola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedue è difetto per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli25. Perché gli Spagnoli non possono sostenere e’ cavagli, e’ svizzeri hanno ad avere paura de’ fanti quando gli riscontrino nel combattere ostinati come loro26: donde si è veduto e vedrassi, per esperienza, li Spagnoli non potere sostenere una cavalleria francese, e li svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola27. E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienza, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagnole si affrontorno con le battaglie tedesche, le quali servano el medesimo ordine che le svizzere28: dove li Spagnoli, con la agilità del corpo e aiuto de’ loro brocchieri, erano entrati, tra le picche loro, sotto e stavano sicuri a offendergli sanza che e’ tedeschi vi avessino rimedio; e se non fussi la cavalleria, che gli urtò, gli arebbono consumati tutti29. Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti: il che lo farà la generazione delle arme e la variazione delli ordini30; e queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e grandezza a uno principe nuovo31. Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore32. Né posso esprimere con quale 21. di che... Mestri: ‘e di questo sono testimonianza prima la sconfitta al Taro, e poi quelle di Alessandria, Capua, Genova, Vailate, Bologna, Mestre’. Si allude a varie sconfitte degli eserciti italiani da parte di Francia o Spagna. Celebri in particolare la battaglia di Fornovo sul Taro, nel 1495, quando Carlo VIII debellò lo sbarramento degli eserciti italiani; e la battaglia di Agnadello (vicino a Vailate) che vide soccombere le forze veneziane sotto quelle francesi (1509). 22. Volendo adunque... arme proprie: ‘Se dunque la vostra nobile casata vorrà imitare (seguitare, letteralmente: ‘seguire’) quegli uomini eccellenti (Mosè, Ciro, Teseo) che liberarono (redimerno) i loro paesi, è necessario prima di tutto provvedersi di un esercito proprio (cioè, non mercenario), il che è il vero fondamento di ogni impresa. 23. perché... intrattenere: ‘perché non si possono avere soldati più fedeli, né più sinceri (veri), né più validi (migliori): e benché ciascuno di essi sia valoroso, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedranno comandati dal loro principe, e da quello essere onorati e trattati con rispetto (intrattenere)’. 24. È necessario... esterni: ‘È necessario pertanto dotarsi di questi eserciti, per potersi difendere dagli stranieri (esterni) con il valore italico’. 25. E benché... superargli: ‘E sebbene la fanteria svizzera e quella spagnola siano reputate (sia esistimata) terribili, tuttavia in entrambe si trova un difetto, a causa del quale una fanteria diversamente ordinata (uno ordine terzo) sarebbe in grado non solo di opporsi a loro, ma potrebbe sperare di vincerle’. 26. Perché... loro: ‘Perché gli spagnoli non sono in grado di resistere alla cavalleria, mentre gli svizzeri hanno ragione di temere della fanteria quando la trovino tenace al par di loro nel combattere’. 27. donde... spagnola: ‘per cui si è visto e si vedrà, per esperienza, che gli spagnoli non possono resistere a una cavalleria francese e che gli svizzeri sono sgominati (rovinati) da una fanteria spagnola’. 28. E benché... le svizzere: ‘E benché di questo ultimo (caso) non se ne si sia avuta esperienza diretta, tuttavia (tamen, congiunzione latina) se n’è avuto un segno (saggio) nella battaglia (giornata) di Ravenna, quando le fanterie spagnole affrontarono i battaglioni (le battaglie) tedeschi, che impiegano (servano) l’identico schieramento dei battaglioni svizzeri’. Machiavelli allude alla battaglia di Ravenna (11 aprile 1512), dove una coalizione di eserciti veneziani e spagnoli, uniti insieme da Giulio II nella Lega Santa, affrontò l’esercito dei francesi (coi loro alleati) ed ebbe la peggio. 29. dove li Spagnoli... tutti: ‘nella quale battaglia (dove) gli spagnoli, con l’agilità del corpo e con l’aiuto dei loro brocchieri (piccoli scudi rotondi muniti di una punta al centro) si erano incuneati fra le loro picche (aste lunghe) e potevano colpirli senza correre rischi (stavano sicuri a offendergli), senza che i soldati tedeschi (alleati dei francesi) potessero impedirlo (vi avessino rimedio): e se non fosse stato per la cavalleria, che caricò contro di loro (gli urtò), (gli spagnoli) li avrebbero sterminati (consumati) tutti (i tedeschi)’. Con questa evocazione della battaglia di Ravenna, Machiavelli prova che la debolezza degli svizzeri e dei tedeschi è messa in crisi da una fanteria tenace come quella spagnola; ma che gli spagnoli, a loro volta, non possono difendersi dalla cavalleria. 30. Puossi adunque... ordini: ‘È dunque possibile, una volta riconosciuto il punto debole dell’una e dell’altra fanteria, organizzare una (fanteria) di nuova concezione (di nuovo), la quale resista alla cavalleria e non si lasci intimorire dai fanti (tenaci, come quelli spagnoli); e questa sarà resa possibile dal tipo di armamento (generazione delle arme) e dalla riforma del modo di schierarsi (la variazione delli ordini)’. 31. e queste... nuovo: ‘e questo è il genere di cose che, inventate come nuove, attribuiscono a un principe nuovo prestigio e grandezza’. 32. Non si... redentore: ‘Non si deve (debba, congiuntivo esortativo) dunque lasciar passare questa occasione, affinché l’Italia veda apparire, dopo tanto tempo, un suo redentore’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 599 599 14. Niccolò Machiavelli 85 amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne, con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime33. Quali porte se li serrerebbono?34 Quali populi gli negherebbono la obbedienza? Quale invidia se li35 opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo ossequio?36 A ognuno puzza questo barbaro dominio37. Pigli adunque la illustre Casa vostra questo assunto, con quello animo e con quella speranza che si pigliono le imprese iuste, acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e, sotto e’ sua auspici, si verifichi quel detto del Petrarca38, – quando disse: Virtù contro a furore prenderà l’armi, e fia el combatter corto, che l’antico valore nelli italici cor non è ancor morto39. 33. Né posso... lacrime: ‘Né posso esprimere con quale amore (questo nuovo principe) sarebbe accolto (ricevuto) in tutte le regioni (provincie) che hanno sofferto di queste inondazioni venute dall’esterno (metafora per le invasioni straniere); con quale sete di vendetta, con quale radicata fedeltà (ostinata fede); con che devozione (pietà, latinismo), con quali lacrime (di commozione)’. 34. Quali... serrerebbono?: ‘Quali porte resterebbero chiuse a lui (li, cioè al principe nuovo)?’. 35. se li: ‘gli si’. 36. ossequio: ‘obbedienza, reverenza’. 37. A ognuno... dominio: ‘Fa puzza a tutti il dominio degli stranieri (sull’Italia)’. – puzza: corposa metafora per ‘ripugna’. 38. Pigli adunque... Petrarca: ‘Il vostro illustre casato assuma dunque su di sé questo compito (assunto) con quella risolutezza e con quella fiducia, con le quali (che) si intraprendono le azioni giuste, affinché (acciò che) sotto il suo vessillo (insegna) questa patria (Firenze) sia Lettura guidata UN’ESORTAZIONE DALLE FONDAMENTA SOLIDE Raccogliendo le fila di tutto il trattato, nell’ultimo capitolo del Principe Machiavelli si rivolge direttamente alla casata dei Medici e in particolare a Lorenzo duca di Urbino, che ne è il dedicatario [u14.6]. Si tratta di un’esortazione a liberare l’Italia dai barbari, vale a dire dal dominio di Francia e Spagna. Mettendo a frutto quanto ha detto nei capitoli dedicati al principato nuovo (specie nei capp. VI: uT95 e VII: uT96), Machiavelli insiste sul fatto che la sua esortazione è tutt’altro che infondata e che, al contrario, poggia su ragioni teoriche solidissime: sulle analisi presentate nei capitoli precedenti. Secondo Machiavelli, infatti, nell’Italia del 1513 (l’anno in cui fu scritto il trattato) ci sarebbero le stesse condizioni favorevoli che permisero ai grandi principi nuovi del passato (Mosè, Ciro, Teseo, Romolo, ecc.) di assumere il potere e di liberare i loro popoli da una condizione sfavorevole. Per questo è impossibile che gli Stati italiani, tempestati dalla sfortuna, non si sottomettano all’autorità di un principe nuovo, a nobilitata e, sotto la sua protezione (e’ sua auspici), si realizzi (si verifichi) quel che disse il Petrarca’. 39. Virtù... morto: ‘La virtù (italiana) si armerà contro il furore (straniero) e il combattimento sarà breve; perché il valore antico (ereditato dai Romani) non è ancora morto nei cuori italiani’. Machiavelli conclude il trattato usando come epigrafe i vv. 93-96 della canzone politica di Petrarca Italia mia, benché ’l parlar sia indarno (Canzoniere, 128). patto che sia dotato di sufficiente “virtù” (capacità politica), ovvero: a patto che il principe nuovo metta in pratica i modelli e i comportamenti additati nel Principe. LA VOCE DI UN PROFETA Oltre a insistere su soli- de ragioni politiche, l’esortazione a liberare l’Italia si impone soprattutto come una grande invocazione profetica. Dopo che nei precedenti capitoli, Dio è sempre stato tenuto ai margini (se non proprio al di fuori) delle vicende terrene, ecco che nell’ultimo capitolo, sorprendentemente, la liberazione dell’Italia dai barbari viene presentata dall’autore in una luce biblica e veterotestamentaria. Proprio come Mosè fu ispirato da Dio quando liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, così anche Lorenzo de’ Medici viene spronato da Machiavelli ad assumere il comando e a liberare l’Italia. Addirittura, in forma allegorica, il segretario fiorentino può riferire ai Medici i prodigi dell’Antico Testamento (lo spalancarsi del mare, il miracoloso sgorgare delle acque dalla roccia, la discesa della manna). E non a caso può invitare il suo destinatario a cogliere l’occasione di farsi redentore dell’Italia («Non si debba adun- ANTOLOGIA 80 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 600 ANTOLOGIA 600 I Grandi Autori que lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore», rr. 78-79). Profetico, inoltre, è lo stile di tutto il capitolo: uno stile patetico, fatto di frasi spezzate e ricco di interrogative retoriche. Né mancano metafore corpose, di gusto dantesco, come quella celeberrima che conclude il trattato: «A ognuno puzza questo barbaro dominio» (r. 84). UN SEGRETO MILITARE È da notare tuttavia come l’autore non si allontani mai da un orizzonte concretamente politico. Non a caso, poco prima della conclusione, vediamo tornare alla ribalta il Machiavelli teorico, esperto di tattica militare. L’ultima prova che egli fornisce ai Medici delle proprie capacità politiche – tenuta volontariamente alla fine, in posizione di rilievo – concerne la necessità di riformare le milizie. Per contrastare la temutissima fanteria della Spagna e quella dei mercenari svizzeri, Machiavelli prima illumina i rispettivi punti deboli: gli spagnoli non reggono l’urto della cavalleria; gli svizzeri (come i tedeschi) non sanno far fronte a una fanteria agguerrita. L’ultimo consiglio dispensato da Machiavelli è dunque quello di istruire un nuovo metodo di combattimento, in grado di resistere, al tempo stesso, alla cavalleria e alla fanteria. PER NON EQUIVOCARE Come si può facilmente intuire, questo brano del Principe ebbe straordinaria fortuna nell’Ottocento, quando il problema dell’unità d’Italia fu particolarmente urgente e gli storici italiani rilessero in chiave risorgimentale la storia della nostra letteratura. E tuttavia è indispensabile non equivocare le reali intenzioni di Machiavelli. Come Petrarca, di cui sono citati in epigrafe i versi di una celebre canzone politica, anche Machiavelli non ha in mente l’unità d’Italia in chiave nazionale, ciò che potrà attuarsi solo nel 1861. L’Italia ai suoi occhi è un’entità geografica e culturale, è la culla dell’Impero romano, depositaria di quell’«antico valore» di cui parlano anche i versi petrarcheschi. Di conseguenza, ciò che propone il segretario fiorentino non è un’unità politica forte, bensì la semplice egemonia di uno Stato (fiorentino) sopra gli altri: una condizione analoga, insomma, a ciò che aveva iniziato a fare il Valentino a partire dal suo Stato personale in Romagna, prima che la fortuna si abbattesse su di lui. Esercizi comprensione 1. Sottolinea nel testo le informazioni principali, poi sulla base di queste scrivi un riassunto della lunghezza di circa 80 parole. 2. Nel capitolo che hai letto sono numerosi i riferimenti a personaggi o eventi della cultura classica e biblica. Riportali sul tuo quaderno e, se li hai già incontrati in qualche altro passo letto, indica in quale capitolo e a che proposito. analisi e interpretazione 3. Fai un’analisi retorica e stilistica del capitolo indivi- LC7 duando i tratti essenziali dello stile profetico adottato da Machiavelli. 4. All’interno di un brano così ricco di pàthos come quello appena letto trova spazio una questione teorica fondamentale: quella delle milizie proprie. Spiega la posizione di Machiavelli, usando circa 200 parole. contestualizzazione 5. Sulla base delle argomentazioni presenti nel brano e delle tue conoscenze, spiega le ragioni della scelta di Lorenzo de’ Medici come destinatario dell’opera e della presenza dell’esortazione in questa sua parte conclusiva. Federico Chabod: il primato dell’immaginazione Federico Chabod, Metodo e stile di Machiavelli Federico Chabod (1901-1960) è stato uno dei massimi storici italiani: i suoi studi su Machiavelli, coltivati fin dalla tesi di laurea e mai interrotti, sono ben poco datati e ancora oggi essenziali. Proponiamo qui un brano dal saggio Metodo e stile di Machiavelli (1955) dove lo storico Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 601 601 14. Niccolò Machiavelli Il vero è che il Machiavelli lascia, ben fermo, l’ideale morale: e lo lascia fermo perché non se n’ha da occupare. Tutto e soltanto preso com’è dal suo «demone» interiore, dal suo furor1 politico, dal suo non saper parlare che di cose di Stato – o, altrimenti, tacere: tutto contenuto in quel principio e termine del suo vivere interiore, ch’è l’affisarsi2 nell’agire politico, il resto rimane al di fuori del suo sguardo. «Immaginazione» la sua, anzitutto: e, cioè, intuizione simile a quella del grande poeta e del grande artista, a cui il mondo si presenta sotto quella forma, ed egli quella soltanto può vedere: altri vede solo forme o colori, e taluno dirà che tutto quel che sente deve esprimerlo, non può che esprimerlo in note musicali; ed egli – lo dice apertamente – quel che pensa e sente, una volta spogliati gli abiti di fango e di loto3, lo vede e lo pensa sotto la forma sola dell’agire politico. Non quindi un loico4 anzitutto, che muova da principî e per virtù progressiva di ragionamento ne deduca, con rigore e consequenziarietà, tutto un sistema; ma, anzitutto, un immaginativo, che afferra di colpo, con illuminazione folgorante, la sua verità, e solo successivamente si affida al ragionamento, per commentare quella verità. La sua «verità» è la politica, scoperta nella sua ferina nudità: come coordinare questa verità con le altre già prima riconosciute – e anzitutto con il vero morale – questo il Machiavelli lo lascierà ai posteri, rimanendo perciò per quattro secoli di pensiero europeo nel centro del continuo, aspro, angoscioso travaglio fra kratos ed ethos5. Massimo fra i pensatori politici di ogni tempo, il Machiavelli ha in comune con i grandissimi fra gli uomini politici – così simili, anch’essi, all’artista, per il primeggiare assoluto del momento intuitivo su quello della logica e della dottrina – ha in comune con essi, precisamente, l’iniziale «illuminazione» interiore, il veder, per intuizione, d’un colpo gli eventi e il loro significato – soltanto poi trascorrendo alla, diremo, applicazione per ragionamento. E, certo, nella prosa del Machiavelli si ripete con frequenza «è ragionevole», oppure «non è ragionevole che sia»: ma il ragionevole o no è l’applicazione, potrebbesi dire tattica, il commento particolare che segue il grande momento intuitivo e creativo, ed è, rispetto a quello, di secondo piano. [...] Del prevaler del momento immaginativo su quello puramente logico è, infine, espressione compiuta la prosa del Machiavelli. In luogo del giudizio preciso e soppesato, proprio là dove men facile è concludere, l’immagine plastica che risolve, per via immaginativa e non logica, il dubbio: come nel capitolo XXV del Principe sulla fortuna, questa necessaria premessa alla esortazione finale, per aprir la via al Principe redentore d’Italia: «io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla... e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano». 1. furor: ‘furore’ (latino). 2. affisarsi: ‘concentrarsi, guardare fissamente’. 3. spogliati... loto: Chabod allude al simbolico cambio d’abito che Machiavelli descrive nella lettera al Vettori del 10 dicembre 1513: «et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto (‘mota’), et mi metto pan- ni reali et curiali» [uT93]. 4. loico: ‘logico’. 5. kratos ed ethos: ‘potere politico e costume morale’ (sostantivi greci). ANTOLOGIA sconfina nel campo della critica letteraria, mettendo in luce il “metodo” teorico tipico del Principe: un metodo fatto di continue intuizioni, che si sorreggono su uno “stile” immaginoso, basato su similitudini folgoranti. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 602 ANTOLOGIA 602 I Grandi Autori Plastica immagine della donna battuta e tenuta sotto; potente finale che fuga il dubbio: ma, appunto, con la forza di un’immagine, non di un giudizio logico. Il procedimento dilemmatico, raziocinante, polemico, cede, anche stilisticamente, nei momenti supremi ad un’onda impetuosa che sostituisce al giudizio logico l’immagine. E avete l’improvviso alzarsi al tono biblico della esortazione finale del Principe, l’evocare i miracoli voluti da Dio «el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuto la manna». 7 Altre opere teoriche DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO: GENESI E COMPOSIZIONE Non conosciamo con esattezza i tempi e le fasi di stesura dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, ma senza dubbio l’opera ebbe una gestazione alquanto diversa rispetto al Principe. Secondo le ipotesi più accreditate, i Discorsi sarebbero stati avviati nel 1513, nell’immediato della destituzione, interrotti in quello stesso anno per fare spazio a una rapida composizione del Principe e, in seguito, ripresi, completati e rilavorati fino al 1519. Ma il secondo trattato non differisce dal primo solo per i tempi di stesura: a mutare sono soprattutto l’oggetto e l’impostazione argomentativa. Se Il Principe affronta in una sintesi concitata e drammatica il regime monarchico, i Discorsi analizzano invece lo Stato repubblicano in forma asistematica, più quieta e divagante. Le proposte politiche, in questo caso, nascono dal confronto con la pagina dello storico latino Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), della cui opera – Ab Urbe condita libri, narrazione della storia di Roma a partire dalla sua fondazione – Machiavelli commenta i primi dieci libri («prima deca»), dove si narra la mitica fondazione di Roma da parte di Enea, l’iniziale assetto monarchico, la costituzione e il rafforzamento territoriale della Repubblica. I Discorsi di Machiavelli rientrano, così, nel genere umanistico del commentarium, inteso come libera divagazione in margine, non come commento serrato al testo in esame. Nel corso della composizione dei Discorsi, Machiavelli fu particolarmente stimolato dalla frequentazione di quei gruppi aristocratici di orientamento repubblicano che si riunivano negli Orti Oricellari (giardino di Palazzo Rucellai) per discutere di politica e letteratura. Non a caso l’opera fu dedicata a due giovani membri di questo gruppo repubblicano: Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO: STRUTTURA E MOTIVAZIONI I Discorsi si dividono in tre libri. Nel primo Machiavelli si interroga sulla fondazione dello Stato romano, occupandosi del grado di coesione politica garantito dalle sue istituzioni: in particolare, Machiavelli addita nella religione pagana dei Romani un fattore di coesione sociale, mentre vede nella Chiesa romana un’istituzione destabilizzante, perennemente in conflitto con gli Stati moderni. Nel secondo libro vengono esaminate le condizioni che resero possibile l’espansione dello Stato romano e i nessi fra virtù e fortuna. Nel terzo libro, di vario argomento, tornano alla ribalta alcuni temi già affrontati nei primi due libri, con un indugio particolare sul contributo dei grandi protagonisti nella storia della Repubblica di Roma. A lungo si è voluta vedere una contraddizione fra l’impostazione monarchica del Principe e la vocazione repubblicana dei Discorsi. In realtà occorre tenere conto che si tratta di opere che rispon- Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 603 603 14. Niccolò Machiavelli Scuola del Bronzino, Ritratto di Giovanni dalle Bande Nere, XVI sec. [Uffizi, Firenze] Nel dialogo Dell’arte della guerra Machiavelli analizza gli svantaggi di un sistema militare fondato sull’utilizzo di eserciti mercenari, che, per loro natura, non assicurano la dovuta stabilità e fedeltà allo Stato. Questo dipinto ritrae uno dei capitani di ventura più celebri del Cinquecento, Giovanni de’ Medici, detto “dalle Bande Nere”. Dopo aver militato al servizio del papa Leone X, alleato con l’imperatore Carlo V contro Francesco I, passò poi dalla parte dei francesi (su richiesta del successivo papa). Morì ferito a una gamba da un “falconetto”, un piccolo cannone d’avanguardia per l’epoca. dono a fini ben diversi l’una dall’altra. Mentre Il Principe, concepito in dialogo col principato nuovo dei Medici, va in cerca di una risposta immediata alla «ruina di Italia» e addita nella monarchia l’unica istituzione in grado di sollevare in tempi rapidi le sorti tragiche degli Stati italiani, i Discorsi indugiano, invece, sugli assetti di uno Stato già consolidato, riflettendo sui metodi che rendano possibile la sua sopravvivenza. D’altro canto le due opere condividono il metodo speculativo, basato sulla “verità effettuale” e sul classicismo politico, inteso come introiezione e imitazione dei modelli antichi; nonché la concezione dello Stato come una sorta di organismo biologico che necessita di leggi ben precise per fortificarsi e mantenersi in vita. DELL’ARTE DELLA GUERRA Il dialogo intitolato Dell’arte della guerra fu composto da Machiavelli fra il 1519 e il 1520 e fu edito a Firenze da Giunti nel 1521. Composto di seguito al Principe e ai Discorsi, il testo affronta un tema già affrontato con grande premura nei trattati politici: la gestione degli eserciti. I sette libri che compongono il dialogo passano in rassegna le tecniche di arruolamento, di addestramento, la tattica militare nelle diverse situazioni (battaglia campale, marcia in terra straniera, assedio, fortificazione). Il dialogo si immagina svolto nel 1516 nell’ambiente degli Orti Oricellari, dove primeggiano Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai (i due dedicatari dei Discorsi) intenti a interrogare il grande condottiero Fabrizio Colonna ormai vecchio e prossimo alla morte. Anche in questa opera l’esperienza diretta del protagonista fittizio (che è anzitutto l’esperienza diretta dell’autore) si fonde con un ideale classicista, che induce Machiavelli a evocare fonti classiche come i resoconti militari di Giulio Cesare, le storie di Livio e di Polibio. Particolarmente urgente, all’interno del dialogo, è il problema delle truppe mercenarie, che Machiavelli, come già aveva fatto nel Principe, condanna senza riserve, proponendo invece una gestione della cosa militare strettamente integrata con quella della cosa pubblica. Ai suoi occhi, infatti, l’unico modello positivo di esercito è quello composto da cittadini che difendano al tempo stesso i propri interessi e quelli della collettività: condizioni che le truppe mercenarie, per quanto fossero molto impiegate nell’Italia e nell’Europa della prima età moderna, non potevano evidentemente soddisfare. Guida allo studio 1. Quali caratteristiche testuali differenziano i Discorsi dal Principe? 2. Qual è l’argomento dei Discorsi? 3. A chi è dedicata l’opera? 4. Qual è la struttura dei Discorsi? 5. Per quali ragioni si potrebbe essere indotti a scorgere una contraddizione tra Il Principe e i Discorsi? 6. Quali sono i fondamenti metodologici che accomunano le riflessioni politiche dei due trattati? 7. L’argomento dell’Arte della guerra costituisce una novità nella riflessione e nella produzione letteraria di Machiavelli, oppure no? 8. Quali personaggi intervengono nei dialoghi che compongono l’opera Dell’arte della guerra? 9. Erano comparsi già in altre opere? 10. Chi è Fabrizio Colonna? 11. Perché Machiavelli considera pericolose le truppe mercenarie? Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 604 604 I Grandi Autori 8 Le opere storiche LA VITA DI CASTRUCCIO CASTRACANI Intorno al 1520 l’unica mansione che i Medici sembrano disposti ad affidare a Machiavelli è quella di redigere una storia ufficiale della città di Firenze. Nell’estate di quell’anno, per dare un saggio del proprio stile storiografico, Machiavelli compone una breve biografia di un condottiero ghibellino del Trecento, il lucchese Castruccio Castracani. Si tratta di un’opera che rientra nel genere umanistico della biografia esemplare, secondo i modelli classici di Cornelio Nepote e Plutarco. Non a caso il breve testo si conclude con una serie di massime morali attribuite al condottiero ghibellino, seguendo un gusto tipico della biografia morale prima antica e poi umanistica. Per quanto il Castracani fosse stato nemico della Firenze guelfa trecentesca, Machiavelli lo sceglie come condottiero esemplare, indicando in lui un modello di “virtù” in grado di resistere all’opposizione della “fortuna”. L’opera viene pubblicata già nel 1521 in appendice all’Arte della guerra. LE ISTORIE FIORENTINE Nel novembre del 1520, Machiavelli riceve finalmente l’incarico di redigere la storia di Firenze, un compito che svolge nell’arco di circa cinque anni. Nel maggio del 1525 il novello storico di Firenze – si ricordi che a questo compito già si erano dedicati, nel Quattrocento, umanisti illustri come Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini [u11.6] – si reca a Roma per consegnare il manoscritto dell’opera al suo dedicatario, Giulio de’ Medici, recentemente eletto papa col nome di Clemente VII. L’opera – che sarebbe stata pubblicata postuma nel 1532 – si compone di otto libri: vi si narra la storia d’Italia dal crollo dell’Impero romano fino al 1434, anno in cui i Medici conquistano il potere in Firenze (libro I); si viene, di seguito, alla storia di Firenze dall’origine fino allo stesso 1434 (libri II-IV); si conclude, infine, trattando la storia della Firenze medicea, terminando il racconto con la morte di Lorenzo il Magnifico (1492), giustamente indicata come il momento in cui crollano gli equilibri politici delle signorie quattrocentesche (libri V-VIII). Quella di Machiavelli è una scrittura storiografica che, nonostante la committenza medicea, rifugge da ogni logica encomiastica. Al contrario, da profondo conoscitore di “arte dello Stato” e “arte della guerra”, Machiavelli evita di indugiare nell’analisi di documenti o in resoconti minuti; concentra invece la sua attenzione sui moventi profondi delle azioni umane, facendo procedere di pari passo il racconto dei fatti e la loro interpretazione. Guida allo studio 1. A quale genere letterario appartiene la Vita di Castruccio Castracani? 2. Per quali ragioni Machiavelli la compone? 3. A chi sono dedicate le Istorie fiorentine? 4. In quali anni vengono composte? 5. Nelle Isto- rie, dati i delicati rapporti con i suoi committenti, i Medici, Machiavelli assume un atteggiamento encomiastico oppure no? 6. Quando vengono pubblicate le Istorie? 9 Il teatro e gli scritti letterari PRIMA DEL 1512: IL DECENNALE PRIMO E I CAPITOLI MORALI Fin dalla giovinezza Machiavelli aveva coltivato la scrittura in versi come una forma di interpretazione della realtà socio-politica di Firenze. Seguendo in parte il modello dantesco della Commedia, già Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 605 14. Niccolò Machiavelli 605 nell’autunno del 1504 Machiavelli aveva composto una cronaca in terzine dei dieci anni di storia di Firenze e di Italia compresi fra il 1494 e il 1504, edita nel 1506 col titolo di Decennale. Sempre nel metro della terzina, molto usato nel Cinquecento per componimenti di natura discorsiva di carattere morale (detti ‘capitoli in terza rima’), fra il 1506 e il 1512 Machiavelli aveva inoltre composto quattro capitoli morali dedicati a temi tipici della sua riflessione sulla condizione umana: la fortuna, l’ingratitudine, l’ambizione e l’occasione. DUE OPERE INCOMPIUTE: IL DECENNALE SECONDO E L’ASINO Negli anni di estromis- sione dalla politica, dopo il 1514, Machiavelli avvia la composizione di un altro decennale, detto Decennale secondo, che si arresta però alla cronaca del 1509, per rimanere incompiuto. Ma soprattutto l’ex segretario fra il 1516 e il 1517 avvia la composizione di un più ambizioso poema comico in terzine intitolato Asino. Il poema consiste nella narrazione di una metamorfosi da uomo in asino che la maga Circe avrebbe inflitto al protagonista, narratore in prima persona. Purtroppo il frammento del poema non giunge a riferire la metamorfosi asinina, ma ci manifesta comunque quelle che erano le intenzioni di Machiavelli: costruire un mondo alla rovescia nel quale la condizione animale è resa specchio comico della condizione umana, in una sorta di rito di iniziazione grottesco. Il modello di questa vicenda sono le Metamorfosi di Apuleio (dove si narra una metamorfosi analoga), nutrite però con la retorica profetica della Commedia dantesca. BELFAGOR E LE COMMEDIE Più ancora che nella scrittura in versi, la vena comica di Machiavelli si traduce in opere in prosa. Già in molte delle lettere è evidente una vena comica (quanto mai sensibile nella lettera al Vettori: uT93). Si tratta di un comico amaro e, alle volte, sarcastico, che riflette una condizione umana lacerata al proprio interno e fortemente negativa. Questa vocazione comica si realizza compiutamente in una breve novella intitolata Belfagor arcidiavolo e in due commedie (esse pure in prosa) intitolate Mandragola e Clizia. La novella Belfagor, che si suppone composta intorno al 1518, è una novella di beffa, secondo il modello del Decameron (si pensi soprattutto alle giornate VII e VIII). La comicità del racconto si basa sulla rappresentazione misogina della realtà e sulla deformazione grottesca del mondo diabolico. Il diavolo protagonista del racconto, infatti, per sperimentare quanto affermano i dannati (ossia che le mogli sono molto peggio dell’Inferno), si risolve a prendere moglie. Questa scelta si rivelerà funesta e porterà il povero arcidiavolo a essere beffato da un villano che, con l’ingegno, saprà sfruttare a proprio vantaggio l’orrore del demonio per le donne. Per quanto concerne il teatro non si dimentichi che già negli anni di segretariato Machiavelli aveva volgarizzato l’Andria di Terenzio. Con spirito diverso, negli anni di estromissione politica, Machiavelli compone invece due commedie nuove, non tanto “traducendo”, quanto “imitando” – il che comporta, secondo un’estetica di tipo classicista uno spirito di emulazione e una ricerca di novità – i commediografi latini Terenzio e Plauto. Nascono così le due commedie nuove Mandragola (1518) e Clizia (1525), dove Machiavelli allestisce intrighi borghesi a sfondo amoroso (secondo il modello della commedia latina), arricchendoli però di un gusto moderno e boccacciano per la beffa e proiettandovi una psicologia moderna e quanto mai vivida [uT101 e T102]. Paradossalmente furono proprio queste opere a dare a Machiavelli maggiore successo negli ultimi anni della sua vita, ben più che Il Principe o i Discorsi. Ancora oggi la Mandragola viene rappresentata con una certa frequenza ed è universalmente riconosciuta come il testo teatrale più bello e più efficace del Cinquecento in Italia. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 606 606 I Grandi Autori DISCORSO O DIALOGO DELLA NOSTRA LINGUA Degno di nota è infine il breve opusco- lo intitolato Discorso o dialogo della nostra lingua (databile al 1524 e non da tutti attribuito all’ex segretario). Qui Machiavelli entra nel vivo della questione di quale lingua gli scrittori moderni debbano usare per comunicare tra loro, un problema assai dibattuto in seguito all’invenzione della stampa. La tesi di fondo consiste in una difesa del fiorentino parlato: un fiorentino ben diverso da quello proposto da Pietro Bembo, arcaico e formalizzato nei testi di Petrarca e Boccaccio. Ma la polemica di Machiavelli va a colpire soprattutto l’ipotesi di una lingua curiale, nella quale si assommino le diverse parlate d’Italia, filtrate e nobilitate. Si trattava di un’idea che proprio in quegli anni, in seguito alla riscoperta del De vulgari eloquentia, il letterato vicentino Giovan Giorgio Trissino aveva attribuito a Dante. Il breve opuscolo di Machiavelli nella sua parte centrale diventa così un dialogo paradossale fra Niccolò e l’ombra di Dante, dove il primo, con comica superiorità, mostra al secondo che la lingua usata nella Commedia è il fiorentino e che tale fiorentino nulla avrebbe a che spartire con la lingua curiale teorizzata nel De vulgari eloquentia. Guida allo studio ANTOLOGIA 1. A quale periodo risale il Decennale primo? 2. In quali anni viene composto il Decennale secondo? 3. A quale genere letterario appartengono i Decennali? 4. A quale genere letterario appartiene l’Asino? 5. Che cosa racconta la novella Belfagor? 6. Quali opere compone Machiavelli per il teatro e in quali anni? 7. Quale fortu- na riscuotono le commedie di Machiavelli presso i suoi contemporanei? 8. In quale opera Machiavelli espone la sua opinione sulla cosiddetta “questione della lingua”? In quali anni? 9. Quale scelta linguistica sostiene e per quali ragioni? Mandragola LA TRAMA La Mandragola è una commedia in cinque atti in prosa, ambientata a Firenze nel 1504. Il giovane Callimaco Guadagni, dopo aver a lungo vissuto a Parigi, è tornato nella città natale, Firenze, appositamente per sedurre Lucrezia, gentildonna sposata con l’anziano notaio Nicia Calfucci. Callimaco si è innamorato di Lucrezia per sentito dire: a Parigi gliene hanno parlato come della donna più bella e più virtuosa mai esistita. Ora egli intende farne la sua amante, raggirando il marito, famoso anche lui, ma per la sua stupidaggine. Il nucleo della trama è la beffa che Callimaco intende giocare ai danni di Nicia per soddisfare la propria concupiscenza carnale e diventare l’amante di Lucrezia. Callimaco, tuttavia, da solo non è capace di architettare nulla di buono e deve affidarsi alla scaltra inventiva del suo servo Ligurio. È costui il geniale architetto della beffa: sfruttando il desiderio di paternità di Nicia, il quale, dopo sei anni di matrimonio, ancora non ha potuto avere figli con Lucrezia, Ligurio induce Callimaco a travestirsi da medico. Su suggerimento di Ligurio, Callimaco fa credere a Nicia che nulla renda fertile una donna come una pozione di mandragola, un’erba miracolosa. L’unica controindicazione è che il primo uomo che abbia un rapporto sessuale con la donna, dopo che questa abbia assunto la pozione, è destinato a morte certa. Spaventato, Nicia si tira indietro, ma Ligurio e Callimaco lo persuadono a servirsi di un ragazzo di strada (un «garzonaccio») per fecondare la moglie, sacrificando senza scrupoli la vita di quel giovane. Questo giovane, però, non sarà scelto a caso: al contrario, sarà Callimaco travestito, il quale in questo modo potrà giacere indisturbato Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 607 14. Niccolò Machiavelli 607 UNA COMMEDIA MODERNA Le circostanze in cui la commedia fu composta sono ignote, ma è probabile che sia stata scritta da Machiavelli all’Albergaccio fra il gennaio e il febbraio del 1518, forse in occasione del matrimonio fra Lorenzo de’ Medici e Maddalena de la Tour d’Auvergne. Come le commedie di Ariosto, anche la Mandragola è una commedia cosiddetta regolare, ossia basata sui modelli del teatro comico latino (quelli di Terenzio e di Plauto): un intreccio di ambientazione urbana e borghese; un complicato intrigo basato su una passione amorosa ostacolata; personaggi diversi l’uno dall’altro, dalla psicologia ben caratterizzata. Nel rapportarsi ai modelli antichi, tuttavia, Machiavelli agisce con grande libertà e sa creare un intreccio e una psicologia del tutto moderni, in grado di rinnovare le situazioni drammatiche dei commediografi latini. L’intreccio basato sulla beffa ai danni di un marito stupido, in particolare, deve molto al modello novellistico moderno del Decameron di Boccaccio: la comicità del dramma nasce infatti dal contrasto fra il disegno razionale di Ligurio (e Callimaco) e la stupidità di Nicia, che si lascia irretire in una trappola congegnata alla perfezione. La psicologia dei personaggi, d’altronde, è efficacemente caratterizzata: Nicia è lo stupido disposto ad agire con malvagità, pur di raggiungere il suo scopo; Callimaco l’innamorato audace, ma non del tutto capace di agire con lucidità; lucidissimo invece è Ligurio, regista della beffa e attentissimo a sfruttare a proprio vantaggio la stupidaggine e la bassezza morale altrui: quella di Nicia, di Timoteo e Sostrata. L’unico personaggio moralmente virtuoso è Lucrezia (anche il suo nome, del resto, richiama l’antica eroina della storia romana): ma lei pure, alla fine, si induce ad accettare i compromessi del vivere sociale e prende Callimaco come amante. T101 Le fantomatiche virtù della mandragola Mandragola, Atto II, scena 6 In questa scena cruciale, Ligurio e Callimaco mettono in atto, ai danni di Nicia, l’inganno che permetterà a Callimaco di appartarsi con Lucrezia e farne la sua amante. Callimaco si è travestito da medico e, su suggerimento di Ligurio, fa credere allo stupido Nicia che il toccasana, per rendere gravida una donna, sia una pozione di mandragola. Con un effetto collaterale, tuttavia: il primo uomo che giacerà con la donna dopo l’assunzione della mandragola è destinato a morire di lì a poco. Sfruttando la malvagità di Nicia e il suo ostinato desiderio di paternità, Ligurio e Callimaco lo inducono a servirsi di un ragazzaccio preso dalla strada per fecondare la moglie. Ovviamente, quel ragazzaccio sacrificato alla causa di Nicia altri non sarà se non Callimaco travestito. ANTOLOGIA con Lucrezia, ovviamente senza correre alcun rischio di morte. Proprio Lucrezia, tuttavia, costituisce l’ultimo ostacolo da aggirare. Se Nicia non ha scrupoli, Lucrezia al contrario è donna pia e timorata di Dio; e si rifiuta di causare la morte di qualcuno. Per convincerla a obbedire al marito, Ligurio si serve del frate confessore e della madre della donna, Timoteo e Sostrata, i quali la inducono ad accettare, ciascuno dei due sollecitato dal proprio tornaconto. La fecondazione tramite mandragola può dunque avere luogo. In camera da letto, Callimaco depone il suo travestimento da «garzonaccio» e rivela a Lucrezia l’inganno: dopo un’iniziale resistenza, la donna si induce a mettere da parte i suoi scrupoli e a prendere come amante colui che ha raggirato sia lei, sia suo marito. Alla fine risultano tutti più o meno soddisfatti, compreso Nicia, del tutto ignaro di essere stato beffato. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 608 ANTOLOGIA 608 I Grandi Autori Ligurio, Callimaco, Messer Nicia 5 10 15 20 25 30 Ligurio (piano, a Callimaco). El dottore fia facile a persuadere: la difficultà fia la donna, ed a questo non ci mancherà modi1. Callimaco (a messer Nicia). Avete voi el segno?2 Nicia E’ l’ha Siro, sotto3. Callimaco (a Siro). Dàllo qua. (Dopo aver osservato il segno). Oh! questo segno mostra debilità4 di rene. Nicia E’ mi par torbidiccio5; eppur l’ha fatto ora ora. Callimaco Non ve ne maravigliate. Nam mulieris urine sunt semper maioris grossitiei et albedinis, et minoris pulchritudinis quam virorum. Huius autem, inter cetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eorum que ex matrice exeunt cum urinis6. Nicia (a parte). Oh! uh! potta di san Puccio!7 Costui mi raffinisce in tralle mani8; guarda come ragiona bene di queste cose! Callimaco Io ho paura che costei non sia la notte mal coperta, e per questo fa l’orina cruda9. Nicia Ella tien pure adosso un buon coltrone; ma la sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri, innanzi che la se ne venghi al letto, ed è una bestia a patir freddo10. Callimaco Infine, dottore, o voi avete fede in me, o no; o io vi ho ad insegnare un rimedio certo, o no. Io, per me, el rimedio vi darò. Se voi arete fede in me voi lo piglierete; e se, oggi ad uno anno11 la vostra donna non ha un suo figliuolo in braccio, io voglio avervi a donare12 dumilia ducati. Nicia Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto, e per credervi più che al mio confessoro13. Callimaco Voi avete ad intender questo, che non è cosa più certa ad ingravidare una donna14 che dargli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me dua paia di volte15, e trovata sempre vera; e, se non era questo16, la reina di Francia sarebbe sterile, ed infinite altre principesse di quello stato. Nicia È egli possibile? Callimaco Egli è come io vi dico. E la Fortuna vi ha in tanto voluto bene che io ho condutto qui meco tutte quelle cose17 che in quella pozione si mettono, e potete averla a vostra posta18. Nicia Quando l’arebbe ella a pigliare? Callimaco Questa sera dopo cena, perché la luna è ben disposta, ed el tempo non può essere più appropriato. 1. El dottore... modi: ‘Sarà facile persuadere il dottore (Nicia): le difficoltà piuttosto si avranno con la donna (Lucrezia, moglie di Nicia), ma per questo non ci mancherà il sistema’. 2. segno: il campione di urina di Lucrezia. 3. sotto: sotto il mantello. 4. debilità: ‘debolezza’. 5. torbidiccio: ‘piuttosto torbido’. 6. Nam mulieris... urinis: ‘L’urina della donna infatti è sempre di maggiore consistenza e biancore e di minore bellezza di quella degli uomini. Causa di ciò, tra l’altro, è l’ampiezza dei canali (urinari) e la mescolanza di ciò che esce dalla matrice con l’urina’. 7. potta di san Puccio: esclamazione oscena. – potta: ‘vulva’, qui comicamente attribuita a un santo (maschio) immaginario, come se si trattasse di una reliquia da venerare. 8. Costui... mani: ‘Questi (Callimaco) mi appare sempre più fine quanto più lo frequento (letteralmente: ‘lo tengo fra le mani’)’. 9. Io ho... cruda: ‘Io temo che costei di notte sia coperta male e che per questo fa l’orina densa’. – mal coperta: è un doppio senso osceno: significa infatti ‘mal riparata contro il freddo’ (come intende Nicia); ma anche ‘coperta malamente’ dal marito nei rapporti sessuali. 10. Ella tien... freddo: ‘Lei si tiene sempre (pure) addosso una grossa coperta; ma sta per quattro ore inginocchiata a sciorinare preghiere prima di venire a letto, ed è una sciocca a patire tanto freddo’. 11. oggi ad un anno: ‘di qui a un anno’. 12. io voglio avervi a donare: ‘intendo esservi debitore di’. 13. ché io son... confessoro: ‘perché io sono disposto a rendervi ogni onore e a prestarvi fiducia più che al mio confessore’. 14. cosa... donna: ‘metodo più sicuro per rendere gravida una donna’. 15. dua paia di volte: significa genericamente ‘molte volte’. 16. se non era questo: ‘se non ci fosse stata la pozione di mandragola’. 17. cose: ‘ingredienti’. 18. a vostra posta: ‘a vostra disposizione’. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 609 609 14. Niccolò Machiavelli 40 45 50 55 60 65 Nicia Cotesto non fia molto gran cosa19. Ordinatela in ogni modo20: io gliene farò pigliare. Callimaco E’ bisogna ora pensare a questo: che quello uomo che ha prima a fare seco, presa che l’ha, cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe el mondo21. Nicia Cacasangue!22 Io non voglio cotesta suzzacchera! A me non l’apiccherai tu! Voi mi avete concio bene!23 Callimaco State saldo24, e’ ci è rimedio. Nicia Quale? Callimaco Fare dormire subito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a sé tutta quella infezione della mandragola: dipoi vi iacerete voi sanza periculo25. Nicia Io non vo’ fare cotesto. Callimaco Perché? Nicia Perché io non vo’ fare la mia donna femmina e me becco26. Callimaco Che dite voi, dottore? Oh! io non vi ho per savio come io credetti27. Sì che voi dubitate di fare28 quello che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti sono là? Nicia Chi volete voi che io truovi che facci cotesta pazzia? Se io gliene dico, e’ non vorrà; se io non gliene dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto: io non ci vo’ capitare sotto male29. Callimaco Se non vi dà briga altro che cotesto, lasciatene la cura a me30. Nicia Come si farà? Callimaco Dirovelo: io vi darò la pozione questa sera dopo cena; voi gliene darete bere e, subito, la metterete nel letto, che fieno circa a quattro ore di notte31. Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e andrencene cercando32 in Mercato Nuovo, in Mercato Vecchio, per questi canti33; ed el primo garzonaccio che noi troverremo scioperato34, lo imbavagliereno, ed a suon di mazzate lo condurreno in casa ed in camera vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli quel che gli abbia a fare, non ci fia difficultà veruna35. Dipoi, la mattina, ne manderete colui innanzi dì36, farete lavare la vostra donna, starete37 con lei a vostro piacere e sanza periculo. Nicia Io sono contento, poiché tu di’ che e re e principi e signori hanno tenuto questo modo38. Ma, sopratutto, che non si sappia, per amore degli Otto!39 Callimaco Chi volete voi che lo dica? 19. Cotesto... cosa: ‘Questo (che dite) non sarà molto difficile’. 20. Ordinatela... modo: ‘Preparatela con ogni cura’. 21. E’ bisogna... el mondo: ‘È necessario pensare ora a questo: colui che per primo si accoppia con lei, dopo che ha preso questa pozione, muore di lì a otto giorni, e nulla al mondo potrebbe salvarlo’. 22. Cacasangue: altra esclamazione volgare: letteralmente significa ‘dissenteria’. 23. Io non voglio... concio bene: ‘Io non voglio questa schifezza (la suzzacchera è un miscuglio di zucchero e di aceto). A me tu non me la appioppi! Voi mi vorreste (letteralmente: ‘volete’) sistemare bene’. 24. saldo: ‘calmo’. 25. Fare dormire... sanza periculo: ‘Subito (dopo che la donna ha bevuto la pozione) fare dormire con lei qualcun altro che assorba (tiri... a sé) tutte le proprietà infettive della mandragola. Dopo voi potrete giacere con lei senza correre pericoli’. 26. Perché... becco: ‘Perché non voglio fare di mia moglie una sgualdrina (femmina) e di me un cornuto’. 27. io non vi ho... credetti: ‘io non vi trovo giudizioso (savio) come avevo pensato’. 28. dubitate di fare: ‘esitate a fare’. 29. se io... male: ‘ma se io non lo metto al corrente, sono un traditore, ed è un caso da tribunale criminale. Non ci voglio rimettere’. – caso da Otto: allude alla corte penale detta “degli Otto”. 30. Se non... a me: ‘se non vi infastidisce altro che questo (cioè: se avete deposto lo scrupolo di rendere sgualdrina vostra moglie e voi stesso cornuto), lasciate sia io a preoccuparmene’. 31. Dirovelo... notte: ‘Ve lo dirò: io vi darò la pozione stasera dopo cena; voi gliene farete bere (a Lucrezia) e la farete coricare non appe- na saranno trascorse circa quattro ore dal tramonto’. – che fieno... quattro ore di notte: letteralmente: ‘non appena saranno circa le quattro di notte’. 32. andrencene cercando: ‘ce ne andremo a cercare’. 33. canti: ‘quartieri’. 34. el primo... scioperato: ‘il primo giovinastro (garzonaccio) che troveremo con le mani in mano (scioperato)’. 35. direngli... veruna: ‘gli diremo quel che dovrà fare, non ci sarà alcuna (veruna) difficoltà’. 36. ne manderete... dì: ‘lo manderete via prima che spunti il sole’. 37. starete: ‘giacerete’. 38. poiché... modo: ‘perché tu dici che re, principi e signori si sono comportati in questo modo’. 39. per amore degli Otto: comica esclamazione ricalcata sull’espressione ‘per amor di Dio!’. Nicia non teme la giustizia di Dio, bensì quella ANTOLOGIA 35 Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 610 ANTOLOGIA 610 I Grandi Autori 70 75 80 85 90 Nicia Una fatica ci resta, e d’importanza. Callimaco Quale? Nicia Farne contenta mogliama, a che io non credo ch’ella si disponga mai40. Callimaco Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere marito, se io non la disponessi a fare a mio modo41. Ligurio Io ho pensato el rimedio. Nicia Come? Ligurio Per via del confessoro. Callimaco Chi disporrà42 el confessoro, tu? Ligurio Io, e danari, la cattività nostra, loro43. Nicia Io dubito, non che altro, che per mio detto la non voglia ire a parlare al confessoro44. Ligurio Ed anche a cotesto è rimedio. Callimaco Dimmi. Ligurio Farvela condurre alla madre45. Nicia La le presta fede46. Ligurio Ed io so che la madre è della opinione nostra. Orsù! avanziam tempo47, che si fa sera. (a parte, a Callimaco). Vatti, Callimaco, a spasso, e fa’ che alle ventitré ore noi ti ritroviamo in casa con la pozione ad ordine48. Noi n’andreno a casa la madre49, el dottore ed io, a disporla, perché è mia nota50. Poi ne andreno al frate, e vi raguagliereno di quello che noi areno fatto51. Callimaco (c.s. a Ligurio). Deh! non mi lasciar solo. Ligurio (c.s. a Callimaco) Tu mi par’ cotto52. Callimaco (c.s.) Dove vuoi tu ch’io vadia ora? Ligurio (c.s.) Di là, di qua, per questa via, per quell’altra: egli è sì grande Firenze! Callimaco (c.s.) Io son morto53. terrena degli Otto. 40. Farne... mai: ‘Rendere consenziente (contenta) mia moglie in merito a questo (progetto); del quale non credo che lei si convincerà mai’. – mogliama: secondo l’uso del toscano antico, l’aggettivo possessivo enclitico è accorpato con il sostantivo. 41. Ma io... a mio modo: ‘Ma io vorrei piuttosto (innanzi) non essere marito, se non fossi in grado di convincerla a fare a modo mio’. 42. disporrà: ‘persuaderà’. 43. Io... loro: ‘(Lo convinceremo) io e i denari, la nostra malizia e la loro (dei frati)’. 44. Io dubito... confessoro: ‘Io temo, fra l’altro, che, se sono solo io a dirglielo (di andare dal frate), lei non voglia andare a parlare al confessore’. 45. Farvela... madre: ‘Farcela portare dalla madre’. 46. La le... fede: ‘Si fida di lei’. 47. avanziam tempo: ‘affrettiamoci’. 48. Vatti... ordine: ‘Callimaco va’ via di qua (letteralmente: ‘vattene a spasso’) e fatti trovare a Lettura guidata LIGURIO, ARCHITETTO DELLA BEFFA L’inganno della mandragola, che qui viene messo in moto, è il frutto dell’intelligenza e della malizia di Ligurio, il servo che organizza la beffa per conto di Callimaco. Si noti come Ligurio non si sia limitato a pensare come raggirare Nicia, bersaglio facile in quanto stupido e ottuso. Attribuendo alla mandragola virtù straordinarie – la pozione renderebbe sì gravida la casa (di Nicia) ventitré ore dopo il tramonto (cioè nell’ultima ora di luce, poco prima che inizi la notte) con la pozione preparata (ad ordine)’. 49. casa la madre: ‘casa della madre’. 50. a disporla... nota: ‘a convincerla, perché la conosco bene’. 51. vi raguagliereno... fatto: ‘vi informeremo di quel che avremo fatto’. 52. cotto: ‘innamorato cotto’. 53. Io son morto: ‘Mi sembra di morire per l’ansia’. donna, ma uccidendo l’uomo che l’ha posseduta per primo dopo la cura – egli ha escogitato uno stratagemma perfetto, in grado di aggirare anche le resistenze di Lucrezia. La moglie di Nicia, infatti, è una donna devota, che, come abbiamo sentito, indugia in preghiere prima di coricarsi: virtuosa com’è, mai acconsentirebbe all’adulterio. Ligurio però, sfruttando l’ostinato desiderio di paternità di Nicia, fa in modo che sia proprio il marito a costringere la moglie all’adulterio. A fare ulteriori pressioni su Lucre- Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 611 611 14. Niccolò Machiavelli CALLIMACO E NICIA Callimaco e Nicia a ben vedere sono due burattini nelle mani di Ligurio. Il primo, accecato dalla passione, esegue alla lettera le indicazioni del suo servitore. Qui si traveste da medico e in seguito si travestirà da garzonaccio. Tuttavia l’innamorato è incapace di iniziativa personale: si veda come alla fine della scena si sente perduto nel momento in cui si separa da Ligurio e non a caso viene preso in giro («Di là, di qua, per questa via, per quell’altra: egli è sì grande Firenze!», r. 92). Il secondo, Nicia, è invece il personaggio che più rende comica la scena con le sue esclamazioni volgari e la sua ri- dicola stupidità. Nicia però è anche personaggio mediocre e malvagio. Purché Lucrezia abbia un figlio, non disdegna di ricorrere all’omicidio di un garzonaccio. La sua unica preoccupazione è di non incappare nella giustizia penale degli Otto: altri scrupoli non ne ha. Sembra giusto, insomma, concludere riportando le situazioni psicologiche tipiche della Mandragola a quella antropologia negativa che tante volte emerge nel Principe. Gli uomini, secondo Machiavelli, sono per lo più «tristi» (malvagi), o stupidi come Nicia, oppure astuti e mossi da interessi personali come Ligurio e Callimaco. Tuttavia, se nel Principe questa concezione produce situazioni altamente drammatiche, nella commedia è al servizio di un intreccio faceto e leggero. Esercizi comprensione interpretazione 1. Elenca i personaggi che compaiono nel brano che hai letto, distinguendo quelli che intervengono nel discorso da quelli che sono solo citati. 2. Callimaco e Ligurio per beffare Nicia devono vincere alcune resistenze. Individua nel brano appena letto tali resistenze, unitamente agli argomenti che i due beffatori adducono per aggirarle. 4. Ricostruisci il carattere dei personaggi desumibile dalle parole del testo, riportandole sul tuo quaderno accanto a ciascun nome. analisi 3. La comicità della scena si basa sulla stupidità di Nicia: isola le espressioni e le situazioni deputate a suscitare il riso dello spettatore. contestualizzazione 5. I protagonisti della commedia sono esempi, come spiega anche la lettura guidata, di quella antropologia negativa che è già nel Principe. Rileggi il capitolo XVIII del trattato [uT98] e, confrontandolo con questo brano della commedia, scrivi sull’argomento un testo di circa 300 parole. Guida a leggere e a capire T102 La saggezza di Lucrezia Mandragola, Atto V, scena 4 Callimaco, Ligurio 5 Callimaco Come io t’ho detto, Ligurio mio, io stetti di mala voglia insino alle nove ore1; e, benché io avessi gran piacere, e’ non mi parve buono2. Ma poi che io me le fu’ dato a conoscere3, e che io l’ebbi dato ad intendere4 lo amore che io le portavo, e quanto facilmente, per la semplicità5 del marito, noi potavàno viver felici sanza 1. stetti... ore: ‘fui di malumore fino a notte inoltrata’. 2. e’... buono: ‘non mi sembrò soddisfacente’. 3. me... conoscere: ‘mi feci riconoscere’. 4. dato ad intendere: ‘rivelato’. 5. semplicità: ‘stupidità, dabbenaggine’. ANTOLOGIA zia saranno due figure che la donna considera autorevoli, ma che in realtà sono corrotte e meschine: il suo confessore (Timoteo) e la madre (Sostrata). Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 612 ANTOLOGIA 612 I Grandi Autori 10 15 20 infamia alcuna6, promettendole che, qualunque volta Dio facessi altro di lui7, di prenderla per donna8; ed avendo ella, oltre alle vere ragioni, gustato che differenzia è dalla giacitura mia a quella di Nicia9, e da e’ baci d’uno amante giovane a quelli d’uno marito vecchio, doppo qualche sospiro, disse: «Poi che l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia10 del mio confessoro mi hanno condotta11 a fare quello che mai per me medesima arei12 fatto, io voglio iudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbi voluto così13, e non sono sufficiente a recusare14 quello che ’l cielo vuole che io accetti. Però15 io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e, quello che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre. Fara’ti adunque suo compare16, e verrai questa mattina alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi17; e l’andare e lo stare starà a te18, e potreno ad ogni ora e senza sospetto convenire insieme19». Io fui, udendo queste parole, per morirmi per la dolcezza20. Non potetti rispondere alla minima parte di quello che io arei desiderato. Tanto che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai nel mondo; e se questa felicità non mi mancassi o per morte o per tempo21, io sarei più beato ch’e beati, più santo che e’ santi. 6. potavàno... alcuna: ‘potevamo vivere felici senza alcuna vergogna’. 7. qualunque... lui: ‘nel caso Dio decidesse di farlo morire’. 8. donna: ‘moglie’. 9. che... Nicia: ‘che differenza c’è tra il fare l’amore con me e farlo con Nicia’. 10. tristizia: ‘malvagia scaltrezza’. 11. condotta: ‘spinta’. 1 ● 2 ● 12. arei: ‘avrei’. 13. voglio... così: ‘voglio credere che tutto ciò sia avvenuto per volontà divina’. 14. non... recusare: ‘non penso che sia in mio potere rifiutare’. 15. Però: ‘Perciò’. 16. compare: ‘stretto conoscente’. 17. con esso noi: ‘insieme a noi, a casa nostra’. 18. l’andare... starà a te: ‘potrai scegliere tu quando andartene e quando rimanere’. 19. convenire insieme: ‘incontrarci’. 20. per... dolcezza: ‘sul punto di morire per il piacere’. 21. non mi... tempo: ‘non dovesse venirmi a mancare a causa della morte o per il passare del tempo’. UN PRIMO SGUARDO SUL TESTO La commedia di Machiavelli è giunta quasi alla sua conclusione. Callimaco, innamorato di Lucrezia, ha raggiunto lo scopo di possederla, dopo aver ingannato il marito di lei, Nicia. Callimaco racconta al servo-consigliere Ligurio come si sono messe le cose fra lui e Lucrezia dopo la prima notte d’amore. Per cominciare a capire la vicenda vai a rivedere il riassunto della commedia [u14.9] e il ruolo che vi svolgono i diversi personaggi nominati in questo breve passo e gli altri che non sono presenti qui. Prima di tutto spiega (in non più di 100 parole) in che cosa consiste l’inganno ordito ai danni di Nicia e quale sarebbe la virtù miracolosa dell’erba mandragola. COMPRENSIONE DI PRIMO LIVELLO a. La parte di dialogo riportata appartiene a Callimaco, ma essa riporta al suo interno anche un discorso di Lucrezia. Questo passo può essere, dunque, segmentato in tre parti: • Callimaco descrive le azioni compiute per convincere Lucrezia; • Callimaco racconta come Lucrezia abbia accettato di buon grado il suo amore; • Callimaco manifesta all’amico la sua gioia. Espandi i brevi titoli delle sequenze riassumendone sinteticamente il contenuto. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 613 14. Niccolò Machiavelli 613 3 ● ANALISI E INTERPRETAZIONE Approfondiamo le dinamiche fra i personaggi e analizziamo la lingua di Machiavelli. a. Quali sono gli argomenti usati da Callimaco per convincere Lucrezia? Sono sostanzialmente tre: • la stupidità di Nicia garantisce loro libertà di amarsi di nascosto senza incorrere nella riprovazione di alcuno (quale frase lo esprime?); • lei, dopo aver verificato la differenza che corre tra lui e il vecchio Nicia, non può esitare a scegliere lui; • lui promette di sposarla nel caso che Nicia muoia. b. Quali le giustificazioni addotte da Lucrezia per motivare la sua resa? Non dimentichiamoci, infatti, che la donna, onesta e timorata di Dio, si è a lungo rifiutata di sottoporsi alla prova della mandragola e ha ceduto solo grazie agli inganni della madre Sostrata e del confessore, fra’ Timoteo. Ora però Lucrezia sostiene che: • sebbene sia stata obbligata a fare l’amore con Callimaco; • ora è convinta che farlo fosse volontà del cielo, alla quale non ritiene di potersi opporre (con quali parole lo dice?); • perciò accetta di diventare l’amante di Callimaco; • e gli consiglia i comportamenti da tenere per continuare a ingannare Nicia. c. Dunque Lucrezia accetta di diventare l’amante di Callimaco senza dichiarare apertamente di aver provato piacere con lui e continuando a sostenere di essere stata manipolata dagli inganni degli uni (trova tu i nomi) e condizionata dalla sciocchezza degli altri (chi sono questi sciocchi?). Tu pensi che Lucrezia abbia capito appieno la situazione in cui si è trovata o che si inganni ancora sul comportamento di qualcuno? Insomma – sembra concludere – «quel che è fatto è fatto; vuol dire che non poteva non essere diversamente. Ma ora deve essere fatto per bene». Ciò significa che nelle parole di Lucrezia Callimaco diventa come un secondo marito (o marito effettivo), compare del primo. Dice infatti: «io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene» (rr. 13-15). La familiarità tra i due uomini servirà di copertura alla loro relazione. C’è una singolare coincidenza fra le parole usate dai due amanti su questo argomento (metti a confronto le due frasi): la felicità sarà raggiunta a condizione di non apparire, cioè tenendo nascosta la relazione, cosa di non difficile attuazione, stante la stupidità di Nicia. d. Tra le parole di Lucrezia dobbiamo notare quel «senza sospetto» che rimanda al v. 129 («soli eravamo e sanza alcun sospetto») del canto V dell’Inferno, il canto di Paolo e Francesca, che avevano avuto agio di incontrarsi da soli e senza suscitare il sospetto degli altri in quanto cognati, cioè appartenenti alla medesima famiglia. I lettori sanno che quella familiarità li aveva portati, inconsapevolmente, verso l’attrazione reciproca e la colpa. La situazione di Callimaco e Lucrezia è simile, per quanto collocata a un grado più basso e, perciò, ANTOLOGIA b. I personaggi coinvolti nella scena sono solo due: Callimaco e Lucrezia. Per verificare come essi si presentino al lettore con quello che dicono e le azioni che compiono compila una tabella a due colonne su cui registrerai i loro predicati e le loro qualificazioni, riportando, quando è possibile, le parole di Machiavelli, oppure sintetizzandole con parole tue. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 614 614 ANTOLOGIA I Grandi Autori comica: la parentela acquisita scade, infatti, al livello di “comparatico”, cioè di amicizia fra “compari”, quali dovrebbero diventare, maliziosamente, Callimaco e Nicia. Ma c’è una differenza sostanziale: la familiarità per Paolo e Francesca è causa dell’adulterio; per Callimaco e Lucrezia, invece, dovrà servire da copertura dell’adulterio già avvenuto. Da Dante a Machiavelli siamo scesi dal tragico al comico e si è dissolto il significato morale di “colpa”, “peccato”. Sei d’accordo con questa affermazione? La puoi sostenere con altre prove desunte dall’insieme della commedia? e. Lasciamo per ultime le osservazioni linguistiche. Le note ti hanno segnalato alcune forme “strane”: potavàno per ‘potevamo’, arei per ‘avrei’. Puoi notare anche il nome confessoro per ‘confessore’, il futuro potreno per ‘potremo’, l’articolo el (al posto del trecentesco il, passato nell’italiano moderno). È presente infine il pronome soggetto e’ («e’ non mi parve buono», r. 2, per esempio), quasi obbligatorio nel fiorentino antico, ma nel Cinquecento già inteso come una forma parlata e popolareggiante (e in questo senso ancora in uso a Firenze). Tutte queste particolarità configurano la lingua di Machiavelli come “lingua scritta-parlata”, cioè come una lingua che imita l’oralità. La lingua di Machiavelli si ispira, infatti, al fiorentino parlato al suo tempo, e, nella Mandragola, al registro popolare. Ciò conferisce alla commedia realismo e vivacità espressiva. Machiavelli, nel Discorso o dialogo della nostra lingua, scritto dopo la Mandragola, afferma che una commedia, per funzionare, ha bisogno di «sali», cioè espressioni scherzose attinte dalla lingua parlata, meglio ancora se si tratta della lingua parlata dall’autore. Anzi si dice convinto che in Italia manchi un teatro vivace e solido proprio perché gli autori non scrivono nella loro lingua materna (essendo il fiorentino lingua parlata da pochi di loro). 4 ● CONTESTUALIZZAZIONE È arrivato il momento di fare una sintesi e di allargare lo sguardo oltre il passo analizzato. a. La vera protagonista del passo è Lucrezia. Subìto l’inganno, è lei che prende in mano la situazione, quasi per normalizzarla e controllarla. Si tratta di una rivelazione, di un deciso cambiamento psicologico oppure il personaggio di Lucrezia fin dall’inizio nascondeva questi tratti di “decisione”? Nella prima scena dell’atto primo Lucrezia è presentata da Callimaco con queste parole: «E nominò madonna Lucrezia, moglie di messer Nicia Calfucci, alla quale e’ dette tante laude e di bellezze e di costumi, che fece restare stupidi [stupiti] qualunche di noi [tutti]», «ho trovato la fama di madonna Lucrezia essere minore assai che la verità, il che occorre [capita] rarissime volte», «onestissima e del tutto aliena dalle [estranea alle] cose d’amore». Nel Prologo, peraltro, l’autore la introduceva come una «giovane accorta». Tenendo conto di questi fatti, sviluppa le tue considerazioni intorno alla “determinazione” di Lucrezia, sia nel rifiutare l’esperimento (come hai desunto dal riassunto), sia nel gestirne le conseguenze (come hai letto nel passo analizzato). Per dire le cose essenziali ti basteranno circa 300 parole. b. Puoi, infine, provare a mettere in relazione il comportamento di Lucrezia con le teorie politiche esposte da Machiavelli a proposito dell’adattabilità, della capacità dell’individuo “virtuoso” di cambiare la propria indole per conformarla alle condizioni in cui si trova. È possibile dimostrare che Lucrezia è un esempio di “virtù”, nel senso che Machiavelli dà a questo termine? Per farlo è necessario anche sostenere l’indipendenza di Lucrezia da valutazioni di ordine morale. Rifletti anche sulle parole: «quello che ’l mio marito ha voluto per Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 615 14. Niccolò Machiavelli 615 PRINCIPIO DI IMITAZIONE T93 Le giornate all’Albergaccio e la composizione del Principe VIRTÙ E FORTUNA La capacità politica individuale (virtù) si manifesta nel confronto con la sorte (fortuna). La fortuna è instabile e capricciosa, per cui essa può sia favorire l’azione politica del principe, sia farla rovinare. Il principe accorto è colui che sa fondare il proprio regno sulla virtù, traendo vantaggio dalle circostanze favorevoli offerte dalla fortuna (occasione). Viceversa se il regno non nasce dalla virtù e dall’occasione propizia, bensì da un semplice caso fortuito, è indispensabile rafforzare quel regno con la virtù, pena un rapido tracollo. La dialettica virtù/fortuna si coglie anche nei rapporti umani quotidiani messi in scena nella Mandragola, dove Callimaco e Ligurio sanno sfruttare l’occasione favorevole (il desiderio di paternità di Nicia) per sedurre Lucrezia. Tale dialettica si coglie anche nella lettera al Vettori: il Principe infatti è scritto dopo un tracollo di fortuna e viene offerto ai Medici come il frutto di una virtù politica in cerca di riscatto. T95 Il principe nuovo: la perfezione dei modelli antichi T95 Il principe nuovo: la perfezione dei modelli antichi T96 Il principe nuovo: un esemplare quasi perfetto T100 Esortazione a liberare l’Italia T96 Il principe nuovo: un esemplare quasi perfetto T99 Virtù contro fortuna T100 Esortazione a liberare l’Italia T101 Le fantomatiche virtù della mandragola TEMI E FORME Secondo Machiavelli, per realizzare un progetto politico è indispensabile unire all’esperienza una solida conoscenza dei modelli del passato (prossimo e remoto). Tali modelli devono essere per quanto possibile imitati (principio di imitazione), in modo che il politico moderno possa colmare le proprie insufficienze facendo tesoro dell’esperienza maturata da alcuni politici esemplari vissuti prima di lui. Come si desume dalla lettera di Machiavelli al Vettori, il Principe nasce da questa fiducia nel principio di imitazione, rivolta ai modelli di massima capacità politica: quelli del mondo romano. Sia il trattato sulla monarchia sia quello sulla repubblica (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio) furono scritti meditando sui modelli della storia antica. A sua volta Machiavelli, nel momento in cui raccoglie e analizza i modelli politici del passato, li propone ai suoi lettori come punti di riferimento per il futuro. Il Principe, in particolare, è indirizzato ai Medici, in modo che essi sappiano imitare i modelli ivi additati. ANTOLOGIA una sera, voglio ch’egli abbia sempre», che sembrano essere non solo decise (voglio) ma anche vendicative. Se è vera l’ipotesi di una Lucrezia esempio della teoria del “riscontro” (nel senso di ‘adeguamento alla situazione’), quale giudizio si deve trarre sull’ambiente in cui agiscono i personaggi? Machiavelli lo raffigura con uno sguardo ironico e divertito, ma lo sottopone anche a un giudizio morale? Per discutere di questi problemi devi rileggere la presentazione della commedia e l’altro passo antologizzato [uT101]. Esponi ordinatamente le tue considerazioni in un saggio di circa 600 parole, nel quale dovranno trovare spazio anche alcune considerazioni di base sul Principe. Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 616 IL «RISCONTRO» La virtù non potrà mai neutralizzare del tutto il potere della fortuna, che costituisce un fondo oscuro, irriducibile e irrazionale. Secondo Machiavelli, infatti, alla base del successo politico sta una corrispondenza («riscontro») fra il carattere del politico e la natura dei tempi. Se i tempi favoriscono un carattere impetuoso allora il principe impetuoso avrà un regno stabile; se invece i tempi ne favoriscono uno «respettivo» (cauto) il principe impetuoso fallirà e avrà successo il «respettivo». Quest’ultimo a sua volta fallirà nel primo caso, visto che, secondo Machiavelli, è quasi impossibile che un politico si comporti diversamente da come gli suggerisce il proprio carattere. T99 Virtù contro fortuna LA «VERITÀ EFFETTUALE»: LA POLITICA COME SCIENZA AUTONOMA I Grandi Autori Virtù, per Machiavelli, significa sempre virtù politica e non è mai sinonimo di virtù morale. La virtù morale infatti viene tenuta nettamente distinta dalla capacità politica, perché la prima descrive il dover essere degli uomini e li dipinge quali essi non sono; la seconda invece sa guardare alla realtà concreta degli uomini («verità effettuale»). È in base a questa «verità effettuale», e non alla legge morale, che il principe deve regolare le proprie azioni. Ne consegue che anche il tradimento può essere legittimo, dal punto di vista politico, nel caso in cui la parola data possa portare al tracollo dello Stato. Il buon principe, infatti, deve guardarsi dall’offendere apertamente la morale: tuttavia non si può esimere, in molti casi, dall’usare virtù immorali come l’astuzia (della volpe) e la violenza (del leone). Nel momento in cui distingue fra bene morale e bene politico (basato sulla «verità effettuale»), Machiavelli fonda la politica come scienza autonoma, in grado di garantire il benessere materiale dei sudditi e la solidità dello Stato. Spostandoci dai rapporti politici ai rapporti familiari, una forma di saggezza, intesa come adesione alla «verità effettuale», si può infine riconoscere a Lucrezia, quando alla fine della Mandragola si rende conto che il dover essere morale (la fedeltà al marito Nicia) non è più praticabile e si risolve ad accettare Callimaco come amante. T96 Il principe nuovo: un esemplare quasi perfetto IL PRINCIPE NUOVO REDENTORE DELL’ITALIA TEMI E FORME 616 I principati sono di tre tipi: del tutto ereditari, del tutto nuovi (o recenti), misti (in parte ereditari e in parte acquisiti). Il principe che Machiavelli privilegia nel suo trattato è il principe nuovo: il principe che deve cogliere l’occasione fornita della fortuna per gettare le fondamenta di uno Stato del tutto nuovo. Il principe nuovo è quello che agisce nei momenti storici più travagliati, come un tempo avevano agito i grandi fondatori degli Stati antichi (Teseo, Mosè, Romolo). Nell’Italia coeva del 1513 Machiavelli vede le stesse condizioni propizie per formare un principato nuovo che ebbero i grandi principi dell’antichità. L’Italia di allora, infatti, composta da molti Stati e staterelli, era invasa da potenze straniere che si contendono l’egemonia. Machiavelli auspica l’avvento di un principe «redentore» che sappia imporre una nuova egemonia, cacciando i «barbari» invasori. In questo progetto aveva fallito, di poco, il Valentino, dopo aver formato un principato nuovo in Romagna. Rivolgendosi ai Medici, e in particolare a Lorenzo, Machiavelli auspica l’avvento di un principato nuovo a partire dallo Stato toscano. T93 Le giornate all’Albergaccio e la composizione del Principe T97 La «verità effettuale» T98 «Usare la bestia»: la volpe e il leone T102 La saggezza di Lucrezia T94 Distinzioni preliminari T95 Il principe nuovo: la perfezione dei modelli antichi T96 Il principe nuovo: un esemplare quasi perfetto T100 Esortazione a liberare l’Italia Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 617 617 LO STILE Strumento indispensabile del principe sono le milizie, senza le quali il suo potere è nullo. Mentre però le milizie mercenarie (usatissime nel Cinquecento) non risultano affidabili, le milizie proprie, composte da uomini fedeli al principe, sono l’unico esercito che Machiavelli considera affidabile. T100 Esortazione a liberare l’Italia Nello stile del Principe convivono uno stile raziocinante, che tende a scomporre la realtà politica nelle sue varie possibilità (uno stile che è stato definito dilemmatico); e uno stile metaforico e immaginoso, che condensa una complessità concettuale in alcune similitudini folgoranti: la volpe e il leone, la fortuna come un fiume in piena, la donna fortuna, il principe nuovo come redentore, ecc. T94 Distinzioni preliminari TEMI E FORME LE MILIZIE PROPRIE 14. Niccolò Machiavelli T98 «Usare la bestia»: la volpe e il leone T99 Virtù contro fortuna T100 Esortazione a liberare l’Italia Einaudi, Torino 1964. Torino 1980. Niccolò Machiavelli, Epistolario, in Tutte le opere, a cura di Mario Martelli, Sansoni, Firenze 1971. Niccolò Machiavelli, Mandragola, a cura di Gennaro Sasso e Giorgio Inglese, Rizzoli, Milano 1980. Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., il Mulino, Bologna 1993. Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di Giorgio Inglese, Einaudi, Torino 1995. Studi Giorgio Inglese, Introduzione a Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino 1995. Federico Chabod, Metodo e stile di Machiavelli, in Scritti su Machiavelli, Felix Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, il Mulino, Bologna 1964. Ezio Raimondi, Politica e commedia, il Mulino, Bologna 1972. Carlo Dionisotti, Machiavellerie, Einaudi, Quentin Skinner, Machiavelli, il Mulino, Bologna 1999. Giulio Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Donzelli, Roma 2003. Francesco Bausi, Machiavelli, Salerno Editrice, Roma 2005. BIBLIOGRAFIA Fonti Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 618 VERIFICA FINALE 618 I Grandi Autori Verifica delle conoscenze 1 Assegna una data (o un intervallo temporale) agli eventi e alle circostanze riportate qui di seguito. ● a. Nascita di Niccolò Machiavelli: ________________________________________________ b. Periodo del segretariato fiorentino: ________________________________________________ c. Esilio all’Albergaccio: ________________________________________________ d. Composizione del Principe: ________________________________________________ e. Composizione della Mandragola: ________________________________________________ f. Composizione dell’Arte della guerra: ________________________________________________ g. Ritorno a Firenze: ________________________________________________ h. Composizione delle Istorie fiorentine: ________________________________________________ i. Nuovi incarichi pratici ottenuti dai Medici: ________________________________________________ l. Restaurazione della Repubblica fiorentina e conseguente nuovo allontanamento dalla vita politica: ________________________________________________ 2 Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. ● a. Il periodo di attività politica più intensa è vissuto da Machiavelli quando è al servizio dei Medici, ormai signori di Firenze. V F f. Con Machiavelli nasce un’idea di politica intesa come vera e propria scienza, come sapere a sé stante e autonomo. V F b. Niccolò Machiavelli nasce a Firenze da una famiglia aristocratica che gli garantisce un’istruzione classica molto robusta e sistematica. V F g. Uno dei presupposti della riflessione politica di Machiavelli è che gli uomini del suo tempo, a differenza dei loro predecessori, si sono dimostrati deboli e corrotti. V F c. Niccolò Machiavelli riceve l’incarico di segretario della Repubblica fiorentina da Pier Soderini, eletto a sua volta gonfaloniere. V F h. Nella sua attività teatrale Machiavelli recupera i modelli del teatro comico latino e greco, ammodernandoli tuttavia con un’analisi lucida e sarcastica della natura umana. V F d. Machiavelli scrive le opere maggiori nel corso del periodo di “ozio” forzato a cui è costretto dopo essere stato allontanato da Firenze. V F e. L’Arte della guerra è un trattato che richiama la forma del commentarium, in quanto Machiavelli dialoga idealmente con gli storici antichi, commentandone le opere. V F i. La dirompente novità introdotta da Machiavelli nell’analisi politica ha esposto la sua opera a censure e fraintendimenti fino a qualche secolo addietro. V F l. La Mandragola è considerata il testo teatrale più brillante del Cinquecento italiano. V F 3 Per ciascuno dei testi che seguono indica se si tratti di un’opera compiuta oppure incompiuta e il genere di appar● tenenza. TITOLO COMPIUTA/INCOMPIUTA GENERE Il Principe ______________________________________________________ Mandragola ______________________________________________________ Belfagor arcidiavolo ______________________________________________________ Santagata_14:14 29/12/08 11:43 Pagina 619 619 Niccolò Machiavelli COMPIUTA/INCOMPIUTA GENERE Dell’arte della guerra ______________________________________________________ Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio ______________________________________________________ Asino ______________________________________________________ Discorso o dialogo della nostra lingua ______________________________________________________ Clizia ______________________________________________________ 4 Sintetizza la posizione sostenuta da Machiavelli sulla “questione della lingua” secondo quanto affermato dall’auto● re nel Discorso o dialogo della nostra lingua. ________________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________________ 5 Completa il testo che segue inserendo le parole date. ● argomentative • breve • censura chiavellismo • poliedrico • rigore • cinica • condottiero • • trattato • uomini Dell’arte della guerra • dialogo • dialogo • ma- Machiavelli è scrittore ...................................... e la sua opera sfugge a ogni classificazione. Il Principe, i Discorsi, ...................................... appartengono al genere del ......................................, tuttavia si realizzano in forme e con strategie ...................................... assai diverse tra loro. Il primo è uno scritto piuttosto ......................................, caratterizzato da una prosa efficace; il secondo si presenta come un ...................................... ideale con le pagine dello storico romano Tito Livio; il terzo, infine, richiama il modello cinqueseicentesco del ...................................... tra due amici di Machiavelli e il ...................................... Fabrizio Colonna. È possibile comunque individuare una legge comune nella straordinaria varietà degli scritti di Machiavelli, consistente nella spregiudicata acutezza con la quale si indagano i rapporti reciproci (pubblici e privati) fra gli ....................................... Un così straordinario ...................................... nell’analisi politica non riscuote successo presso i suoi contemporanei, anzi viene ben presto sottoposto al limite della ...................................... e assai facilmente frainteso con una sua deformazione ...................................... e opportunistica: quella che è più corretto definire ....................................... Fare ordine tra le idee 6 In più testi Machiavelli indugia sulla necessità di organizzare in modo rigoroso la componente militare di uno Sta● to, fornendo indicazioni precise al riguardo. Sulla base dei testi che hai letto, prepara un intervento orale sull’argomento della durata di 8 minuti. 7 “Virtù” e “fortuna”, “uomo” e “bestia”, “golpe” e “lione” sono forse tra i binomi più celebri del Principe. Hanno tutti ● un ruolo centrale nella particolare visione politica di Machiavelli, basata sulla considerazione della «verità effettuale» e su una concezione pessimistica dell’uomo. Facendo riferimento ai testi che hai letto, organizza su questo argomento un’esposizione orale di circa 8 minuti. Confrontare, approfondire, scrivere 8 Sottolinea le informazioni principali e secondarie contenute nel saggio critico di Giorgio Inglese [uLC6], quindi rias● sumilo nel minor numero di parole possibile. 9 Lo stile di Machiavelli è assai vario, quanto è varia la sua produzione letteraria: ripercorri le opere che hai letto e ● argomenta la precedente affermazione in un saggio di circa 300 parole, facendo riferimento ai testi. VERIFICA FINALE TITOLO Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 620 VERIFICA FINALE 620 I Grandi Autori Verso l’esame 10 Leggi la pagina del Principe (cap. XVII) che ti presentiamo e analizzala secondo le indicazioni che seguono. ● 5 10 15 20 25 Dico che ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto piatoso e non crudele: nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà1. Era tenuto Cesare Borgia crudele: nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede2. Il che se si considera bene, si vedrà quello essere stato molto più piatoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire il nome di crudele, lasciò distruggere Pistoia3. Debbe pertanto uno principe non si curare della infamia del crudele per tenere e’ sudditi sua uniti e in fede: perché con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli e’ quali per troppa pietà lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca uccisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare4. E in fra tutti e’ principi al principe nuovo è impossibile fuggire il nome di crudele, per essere gli stati nuovi pieni di pericoli5. [...] Nondimanco debbe essere grave al credere e al muoversi, né si fare paura da sé stesso: e procedere in modo, temperato con prudenza e umanità, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile6. Nasce da questo una disputa, s’e’ gli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché e’ gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno de’ dua7. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina8. Perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con grandezza e nobilità di animo, si meritano, ma elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il 1. Dico... pietà: ‘Io affermo che ogni principe deve desiderare di essere considerato compassionevole (tenuto piatoso) e non crudele: ciò nonostante deve badare a (avvertire di) non usare male questa compassione’. 2. Era... fede: ‘Cesare Borgia era considerato crudele: ciononostante quella sua crudeltà aveva riordinato e riunificato la Romagna, l’aveva resa pacifica e fedele’. 3. Il che... Pistoia: ‘E se si osservano bene questi fatti, si potrà notare che (Cesare Borgia) è stato molto più compassionevole del popolo fiorentino; il quale, per non essere considerato crudele, lasciò che Pistoia fosse distrutta’. Nel marzo del 1502 il governo fiorentino non ricorse a un’azione risoluta che ponesse fine al conflitto fra due famiglie rivali di Pistoia, contribuendo così alla rovina della città. 4. Debbe... particulare: ‘Pertanto un principe non si deve preoccupare che gli venga attribuita la cattiva fama di crudele se vuol mantenere i suoi sudditi uniti e fedeli a lui (e in fede); perché dando solo pochissimi esempi (di crudeltà) sarà più compassionevole di quanti, per troppa pietà, lasciano accadere disordini, dai quali possono scaturire (di che ne nasca) stragi e ruberie: queste, infatti, colpiscono (sogliono offendere) tutti i cittadini (una universalità intera), mentre le esecuzioni ordinate dal principe colpiscono un solo individuo (uno particulare)’. 5. E in fra... pericoli: ‘E fra tutti i principi quello nuovo non può evitare la fama di crudele, dal momento che gli Stati nuovi (di nuova acquisizione) sono pieni di rischi’. 6. Nondimanco... intollerabile: ‘Ciononostante egli deve essere cauto nel (grave al) prestare fiducia (credere) e nell’agire (muoversi), e non spaventarsi da solo (cioè per pericoli immaginari): e deve procedere con un misto di prudenza e di umanità in modo che la troppa fiducia non lo renda (non lo facci) imprudente e l’eccessiva diffidenza non lo renda intollerabile’ ai sudditi. 7. Nasce... dua: ‘A questo proposito nasce una discussione, se sia meglio essere amato che temuto o il contrario (e converso, latinismo). Si può rispondere che bisognerebbe essere l’uno e l’altro (cioè amato e temuto); ma poiché è difficile conciliare questi due aspetti (accozzarli insieme), rende più sicuri essere temuti piuttosto che amati, quando non sono possibili contemporaneamente le due cose (letteralmente: ‘nel caso venga a mancare uno dei due aspetti’)’. 8. Perché... ruina: ‘Degli uomini, infatti, si può dire questo, in generale: che sono ingrati, volubili, che fingono il falso e nascondono il vero (simulatori e dissimulatori), che sono vigliacchi (fuggitori de’ pericoli), avidi (cupidi del guadagno); e mentre fai loro del bene sono tutti con te, ti offrono (offeronti) il loro sangue, i loro beni, la vita, i figli, come ho detto prima (nel cap. IX), quando il momento del bisogno è lontano (discosto): ma quando questo ti si fa più vicino (ti si appressa), (gli uomini) girano le spalle, e allora il principe che si è basato esclusivamente (si è tutto fondato in) sulle loro promesse (parole), ritrovandosi privo (nudo) di altre difese (di altre preparazioni), perde il potere’. Santagata_14:14 29/12/08 11:43 Pagina 621 621 Niccolò Machiavelli 9. Perché... abbandona mai: ‘Infatti (Perché) le alleanze che si acquistano con il denaro (col prezzo), e non con la grandezza e la nobiltà d’animo, le si pagano (si meritano), ma non le si possiedono davvero (non si hanno), e al momento del bisogno (alli tempi, letteralmente: ‘alla scadenza’) non si può ricorrere a esse (spendere); e gli uomini hanno meno timore (rispetto) a colpire uno che si faccia amare, rispetto a uno che si faccia temere; e questo perché l’amore è con- servato da un legame di riconoscenza il quale, essendo gli uomini malvagi (tristi), è infranto da ogni occasione di tornaconto personale, mentre il timore è conservato da una paura del castigo (pena) che non ti lascia mai’. Comprensione a. Dividi il passo in sequenze e individua i legami argomentativi che le tengono insieme, evidenziandoli con la costruzione di una mappa concettuale (puoi esplicitare la natura dei nessi scrivendoli sopra le frecce che collegano le sequenze individuate, che possono essere di diversa ampiezza). Analisi b. Definisci i concetti di crudeltà, pietà e “verità effettuale” che ricorrono in questo passo. c. Riassumi brevemente i due esempi di pietà e di crudeltà che sono qui citati, mettendone in evidenza gli aspetti contraddittori (puoi disporli in una tabella che giustapponga effetti negativi e positivi dei due comportamenti). d. Segnala gli avverbi “nondimeno” presenti in questo passo e spiega per ogni occorrenza il legame fra quanto Machiavelli ha detto prima e quanto si accinge a dire. Valuta l’importanza di questo tipo di argomentazione nella prosa e nel pensiero di Machiavelli. e. Quale giudizio sulla natura umana esprime in questo passo Machiavelli? Dopo averlo spiegato vai alla ricerca di eventuali conferme in altri passi di questo autore. Interpretazione e approfondimento f. Esponi le conclusioni alle quali arriva Machiavelli intorno al dilemma se il principe debba essere amato o temuto. g. Collega questo argomento al tema del “principe nuovo” che Machiavelli tratta, per esempio, nel cap. VII [uT96] del Principe ed esponi le sue teorie in un saggio di circa 600 parole. VERIFICA FINALE quale, per essere gl’uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai9.