ASSEMBLEA REGIONALE A.I.C.
ATTI
REGGIO EMILIA
01/04/2006
Trascrizione a cura di
Valentina Guarini
1. CELIACHIA: LA RISPOSTA IN 5 MINUTI
Dott. Enzo Bravi – Eurospital
Innanzitutto vorrei ringraziare l’Associazione Italiana Celiachia - sezione Emilia
Romagna - per l’invito e per l’opportunità di partecipare a questo incontro.
Oggi sono qui per illustrare da un punto di vista tecnico una delle ultime innovazioni che
Eurospital ha proposto. Da sempre Eurospital si occupa di diagnosi sierologica di
celiachia e siamo contenti di poter portare prodotti nuovi che contribuiscono a migliorare
il percorso diagnostico.
Il prodotto di cui vi parlerò è un test rapido che è disponibile con due marchi (ma è
comunque lo stesso prodotto):
Eu-tTG Quick (in confezioni da 20) - si rivolge allo studio professionale quindi al
laboratorio di analisi, ai pediatri, ai gastroenterologi, a tutti quelli che esplicano attività
professionale;
Xeliac Test (in confezione da 1 test) - è disponibile in farmacia, quindi per diagnosi
domiciliare.
Questo test, innovativo anche in termini di semplicità e affidabilità, è il primo test rapido
su sangue intero oggi disponibile. Il principio su cui si basa è la presenza della
transglutaminasi nella membrana dei globuli rossi, la quale viene lisata ed espone
l’antigene agli anticorpi presenti nel siero: pertanto non è più necessario fare un prelievo
di siero per la determinazione degli anticorpi antitransglutaminasi.
La rapidità è una questione essenziale in questo tipo di test, perchè non si può pensare di
avere la risposta dopo mezz’ora o un’ora. Il test si esegue su una goccia di sangue
capillare che si preleva dal dito, dal polpastrello, come se si trattasse di un test per la
glicemia, e permette la determinazione degli anticorpi antitransglutaminasi di classe IgA
esclusivamente non IgG. La determinazione degli anticorpi antitransglutaminasi è, come
sapete, ormai da circa dieci anni a questa parte, il test di riferimento sierologico.
Come ho anticipato la goccia di sangue prelevata viene messa in una provetta capillare,
contenente un diluente che consente la lisi dei globuli rossi quindi l’esposizione della
transglutaminasi e la conseguente reazione antigene-anticorpo. Il complesso antigene2
anticorpo viene poi rilevato, per mezzo di un processo immunocromatografico, su stick.
Quali sono le specifiche del test?
Intanto di esecuzione: ci vogliono al massimo 1-2 minuti per attuare le fasi operative,
ovvero fare uscire una goccia di sangue, aspirarla con il capillare e quindi inserire il
capillare nella provetta con il diluente. Il tempo di lettura per vedere se il test è positivo o
negativo è di 5 minuti. E’ importante fare attenzione che la lettura non ecceda i 10 minuti
perché oltre questo lasso di tempo la fase solida può avere delle interferenze dovute al
tipo di test.
Come ho già detto ci sono due confezioni, una per uso professionale da 20 test ed una per
uso domiciliare da 1 test. Nel kit, qualunque esso sia, è presente tutto il necessario per
eseguire il test: lo stick dove avviene la reazione, il diluente dove metteremo il capillare, il
capillare dove metteremo la goccia di sangue e ovviamente la lancetta per eseguire il
prelievo sul sangue. Il prelievo del sangue è praticamente indolore. E’ importante sapere
che il test si conserva, sia per uso professionale sia domiciliare, a temperatura ambiente.
Quanto alle caratteristiche del test in termini di sensibilità e specificità, questi sono i
valori riportati nelle istruzioni per l’uso del prodotto e che si riferiscono ad uno studio
effettuato in due centri di riferimento, uno in Italia ed uno in Finlandia:
sensibilità 96, 2%
specificità 90 %
Vorrei sottolineare come la sensibilità sia paragonabile a quella dei normali test eseguiti
in laboratorio e come questa, com’è ovvio dal momento che si tratta di un test di primo
livello (questo è importante), sia stata privilegiata rispetto alla specificità (si può avere
qualche falso positivo).
Come avviene il test?
La procedura è estremamente semplice: nella confezione vi è una lancetta pungidito, si
preme il cappuccio, si ruota per attivarlo dopodichè si appoggia l’estremità della lancetta
contro il polpastrello e si fa scattare la lancetta.
La fase operativa vera e propria si compone delle seguenti fasi:
si tratta di porre il capillare a contatto con la goccia di sangue, che è il momento più
importante secondo me: bisogna premere abbastanza affinchè venga fuori una goccia
consistente perché, anche se si ha a che fare con una quantità di sangue infinitesimale
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come 10 microlitri, è bene che la goccia sia abbondante;
una volta riempito il capillare lo si pone all’interno della provetta tubo con il diluente e si
chiude il tutto.
A questo punto è importante anche agitare la provetta che contiene il capillare in modo
che il sangue si mescoli con il diluente, perché deve avvenire la reazione di lisi di cui vi ho
parlato: si capisce che questo è avvenuto semplicemente perché il capillare diventa
trasparente una volta che il sangue fluisce all’interno del diluente;
infine si prende lo stick, si inserisce all’interno della provetta e si attende che trascorrano
5 minuti di orologio.
Come si legge il test?
Lo stick si presenta con una parte superiore celeste o blu scura: la parte contraddistinta
dalle freccette è quella che deve essere immersa nel tubo con il diluente (la quantità del
diluente è tarata in modo tale da non superare la linea orizzontale blu); poi abbiamo la
parte dove si legge il test, che per essere valido deve sempre dare la linea rossa
superiore: questa garantisce che il test ha funzionato, è infatti il controllo negativo.
Dopodichè, se compare una linea rossa al di sotto, qualsiasi sia l’intensità della reazione
(non esiste un più o meno positivo), il test dev’essere interpretato come positivo. In
genere quando compaiono due linee significa che il test è positivo.
Si tratta dunque di una procedura rapida, i dati della quale ci garantiscono l’affidabilità,
nonché di un test conveniente dal punto di vista dell’ esecuzione in generale, poiché il
tempo operativo è minimo rispetto ai passaggi normali (qui sono due soltanto) e
l’interpretazione del test è semplice ed immediata. A questo proposito, trattandosi di un
test introdotto da poco tempo, è chiaro che, in caso di dubbi sull’interpretazione, è
consigliabile farsi aiutare, far vedere il test a qualcuno che abbia esperienza e che possa
supportare nella decisione.
Vorrei infine ribadire che si tratta di un test di primo livello e dunque: un test non fa
diagnosi bensì dà un risultato. Il risultato dev’essere poi interpretato da chi si occupa di
questa patologia: che sia lo specialista, il centro di riferimento o il medico di fiducia non
importa, ma ciò che conta è che l’interpretazione venga fatta da una persona con
competenza. Non è un test che dice “io sono celiaco”, è un test che dà un’indicazione
importante, una possibilità, e quindi è di aiuto: per prassi, come tutti i test di laboratorio,
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se positivo va sempre ripetuto e confermato.
Da parte nostra, continuiamo a testare questo prodotto anche in altri centri al di fuori
dell’Italia, dove sono in atto studi su centinaia (o addirittura migliaia) di pazienti che
confermano i dati che vi ho appena illustrato.
Marcella Mastropietro
Ringrazio moltissimo il Dott.Bravi perché credo abbia spiegato perfettamente come va
eseguito questo test. Anche se la maggior parte delle persone in sala sanno cos’è la
celiachia e cosa vuol dire fare una dieta senza glutine, vorrei ribadire, come già detto dal
Dott.Bravi, che l’importante è che questo test non venga preso come un test definitivo e
soprattutto che a nessuno che ha avuto un risultato positivo venga in mente di mettersi a
dieta senza glutine: il che si tradurrebbe in un annullamento della possibilità di fare una
diagnosi vera e completa. E’ importantissimo quindi che chiunque faccia il test, più o
meno competente che sia, con questo primo risultato si rivolga alle figure mediche giuste,
agli specialisti quali il pediatra o il gastroenterologo, cosìcchè venga preso in esame e
venga completato il percorso di diagnosi della celiachia prima di aver preso qualsiasi
decisione rispetto al tipo di alimentazione. Mettersi a dieta senza glutine significa
ricominciare a far lavorare correttamente il corpo, ripristinare l’integrità della mucosa
intestinale e quindi di fatto risultare negativi nel tempo ad un test specifico di celiachia.
Dott. Umberto Volta – Dipartimento di Medicina, Universittà di Bologna - Policlinico
“S.Orsola Malpighi”, consulente scientifico A.I.C.
Il test è valido, lo abbiamo provato nel nostro laboratorio, anche se su una casistica molto
limitata rispetto ai dati finlandesi o di altri gruppi, e funziona sicuramente. Le uniche
perplessità nascevano dal fatto dell’eseguirlo a domicilio, ossia fai da te. Si è arrivati ad
un compromesso con l’ Eurospital, partendo dall’idea che questo test dovesse essere
eseguito da medici, farmacisti o da personale tecnico di laboratorio, e si è perciò aggiunta
la raccomandazione, ad opera della A.I.C., che in ogni caso in cui risulti dubbio nella sua
lettura, anche questo primo test sia ripetuto con l’aiuto di un medico, un farmacista o
personale tecnico di laboratorio. Lo scopo è naturalmente di evitare che il test risulti
negativo per un errore tecnico di procedura: una metodica semplice senz’altro, ma che
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richiede comunque un minimo di attenzione.
D.
In presenza di un deficit di IgA questo test funziona?
R. Dott. Bravi
No, fa solo le IgA . Dunque il test sarebbe sicuramente negativo.
D.
Dal momento che mio marito è risultato positivo un anno fa e ci hanno consigliato di far
fare comunque le analisi ai nostri figli: ora questo test può rassicurarmi in caso di
negatività o è comunque bene fare gli accertamenti in tempi rapidi?
R. Dott. Bravi
Il test è affidabile sulla sensibilità, ad ogni modo sulla diagnosi è bene affidarsi allo
specialista e seguirne le indicazioni nel caso specifico.
D.
Nel caso di diagnosi già fatta e paziente a dieta, questo test sostituisce il controllo
annuale o semestrale che il celiaco deve fare?
R. Dott. Bravi
Il test le dà un risultato ma il discorso del controllo della dieta è individuale.
R. Dott. Volta
Il fatto è che il test non dà un valore numerico, dunque non può sostituire il controllo
della dieta, nel quale ciò che interessa vedere non è solo la negativizzazione del test, ma
anche il calo in termini di titolo anticorpale della transglutaminasi. Ecco perchè questo
test non è adatto per il follow-up.
D.
Vorrei chiedere qual è il costo del test e se ci sono esperienze in corso per l’estensione del
test per degli screening.
R. Dott. Bravi
Il prezzo da listino della confezione da 20 è 480 €, sul quale Eurohospital riconosce uno
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sconto del 25%. In farmacia la confezione singola costa 30 € iva compresa.
Tranne il dato di cui ho parlato prima, che riguardava uno studio fatto su circa 2000
pazienti tra la Finlandia e l’Ungheria, non sono a conoscenza di esperienze di screening e
non saprei darle esiti di tipo screening locale. Sicuramente il test, per come è configurato,
ha una predisposizione per questo tipo di studi.
D.
A che punto è la ricerca su test rapidi su saliva?
R. Dott. Bravi
A gennaio c’è stato a Trieste un convegno organizzato dal Prof. Ventura sulla saliva. Sono
emersi
dati
contrastanti:
le
esperienze
pubblicate
dicono
che
gli
anticorpi
antitransglutaminasi si trovano nella saliva, a Trieste hanno invece detto che la saliva in
questo momento non è ancora un valido substrato. E questo prevalentemente, suppongo,
per due motivi, ovvero per la questione della composizione della saliva e della sua
maggiore o minore densità e poi perché in questo momento ci sono pochissimi studi su
questo tipo di campione.
R. Dott.Volta
Solo una precisazione: l’unico studio che riporta risultati validi per la ricerca degli
anticorpi antitransglutaminasi su saliva è quello di Margherita Bonamico, basato sul
metodo radioimmunologico. Va subito sottolineato che tale studio non ha avuto conferme
da altri lavori (ed infatti alla Bonamico era stato proposto anche dall’ A.I.C. di fare uno
studio policentrico sull’argomento). Gli altri test su saliva, nonostante le aspettative in
termini diagnostici, sono stati tutti abbastanza deludenti. Per il momento pertanto non è
assolutamente proponibile un test diagnsotico su saliva.
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2. IL TRATTAMENTO DELLA CELIACHIA NELLA SOCIETA’ DIFFERENZIATA PER
FUNZIONI. PROBLEMI E PROSPETTIVE
Manola Di Nella - Tesi di laurea in sociologia
Ringrazio il nostro presidente Gino Venturelli e l’associazione per la posssibilità di dare il
mio contributo in occasione di questo incontro. Ho ricevuto la diagnosi di celiachia nel
febbraio 2003 e, dovendo scegliere proprio in quel periodo l’argomento della mia tesi di
laurea, ho sentito la necessità di approfondire la questione celiachia da un punto di vista
sociologico.
Inizierei ricordando la più recente legge sulla celiachia, de Luglio 2005, che ha portato un
cambiamento nella definizione di tale patologia: non si parla più di malattia rara bensì di
malattia sociale. Un dato importante questo, ad indicare la maggiore diffusione della
patologia. Se si attesta la frequenza di 1 celiaco su 100-150 abitanti, anche molti paesi
per anni considerati immuni da tale patologia, per esempio la Danimarca che sembrava
presentare 1 caso su 8000-10000 abitanti, in seguito a ricerche e studi ulteriori hanno
dovuto rilevare la presenza più marcata del
fenomeno: la ragione dell’aumento di
diagnosi di celiachia è legata alla constatazione di una natura multisintomatica della
patologia, cioè al fatto che essa presenti un’ampia varietà di manifestazioni e non soltanto
i sintomi riconosciuti come tipici vent’anni fa. Attualmente si attesta una presenza della
patologia omogenea in quasi tutti i paesi.
La problematica centrale della mia tesi riguarda il paradigma salute-malattia nell’attuale
differenziazione della società. Per differenziazione si intende la struttura della società
moderna facendo riferimento all’esponente più autorevole del pensiero sociologico
contemporaneo che è Niklas Luhmann, la cui teoria dei sistemi fornisce il quadro più
lucido della società moderna: con la modernità, o differenziazione funzionale, non è più
possibile collocare l’individuo in uno specifico sottosistema o gruppo. Si sottolinea
pertanto la flessibilità acquisita dagli individui e la possibilità di accedere a tutti gli
ambiti della sfera umana, dal politico al medico-sanitario all’economico ecc, e dunque si
parla di una uguaglianza postulata dalla società moderna. In realtà persone che vivono
determinate problematiche, come la celiachia, hanno nel concreto delle limitazioni nella
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possibilità di accesso a tutti gli ambiti e settori (un esempio tipico è quello dei ristoranti
dove poter mangiare). Vi sono dunque realtà come la A.I.C. che, partendo dall’importanza
della salute in quanto espressione di sé e del proprio equilibrio psicofisico, ci permettono
di mostrare la nostra specificità.
Il problema è la distanza che sembra esserci tra il piano emergente del sociale e quello
dell’esperienza umana: come se la società stessa non fosse in grado di rispondere alle
esigenze di tutti gli individui. Ecco perché il punto da cui partire, e dunque la prospettiva
che porto avanti, è quella dell’individuo inteso in tutta la sua persona, con tutta la sua
storia: il concetto importante è quello di unità mente-corpo. Mentre la società
formalmente tiene conto di tutti, sostanzialmente tende a rimuovere le differenze.
Nel caso particolare della “diversità” del celiaco, vediamo come il sistema immunitario del
celiaco metta in atto la propria difesa, elimini cioè il glutine, scelga fra altri tipi di cereali
e si garantisca così la salute: perché dunque continuare a provare un senso di
inadeguatezza? perché vivere o vedere la diversità in termini negativi? Se consideriamo
al centro l’unità mente-corpo, dobbiamo smascherare il tentativo del sociale di far
interpretare il parametro dell’uniformità come normalità. Il problema è molto delicato da
trattare, anche perché ci rendiamo conto dell’alto valore simbolico che il cibo ha ed ha
sempre avuto: emblema della cultura di un determinato popolo, strumentale nel
rafforzare il sentimento di appartenenza. Il suo valore sociale e comunicativo è legato
all’idea di condivisione dei pasti ed è implicito nel concetto stesso di “convivio”, dal latino
“vivere con”: il mangiare insieme trascende perciò il gesto nutrizionale di per sé e diventa
un fatto culturale. Ecco perché la tendenza ad uniformare piuttosto che a valorizzare le
differenze, le peculiarità del singolo, impedisce che il momento conviviale sia motivo di
confronto e integrazione e fa sì che la patologia sia piuttosto intesa come un discostarsi
pericolosamente dalla norma. Un esempio: il rifiuto degli altri di assaggiare cibi senza
glutine.
Un riferimento va fatto, a conclusione del discorso, alla recente notizia (pubblicata
dall’A.N.S.A. il 25 Marzo scorso) sulla messa a punto, che non è un’utopia e tuttavia è
ancora da sperimentare, di una pillola per i celiaci che possa diventare un’ alternativa
alla dieta senza glutine. Il rischio dell’accettare una pillola come soluzione è pur sempre
quello del voler vedere ancora una volta mascherata o nascosta la propria identità
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adattandoci alla spinta uniformante della società. E’ importante invece che le istituzioni,
le associazioni e le ditte produttrici di alimenti senza glutine, continuino a migliorare ed
offrire i loro servizi ai celiaci: affinché, di fronte all’introduzione della pillola da una
parte, dall’altra rimanga la possibilità di scegliere la strada della dieta senza glutine. Il
che significa, a mio parere, scegliere la strada dell’accettazione di se stessi, della propria
identità e specificità.
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3. ACCETTAZIONE DELLA DIAGNOSI E STRATEGIE PER MIGLIORARE LA
PROPRIA QUALITA’ DI VITA
Dott.ssa Franca Martinelli - Psicologa Unità operativa di psicologia clinica, Dipartimento
di salute mentale, coordinamento A.S.L.- ospedale
La celiachia è una malattia complicata poichè tocca tre fasce d’età che dal punto di vista
psicologico hanno tre funzionamenti mentali completamente diversi.
La malattia comporta sia alterazioni di tipo biologico sia reazioni di tipo psicologico:
modifica -questo vale per l’ adulto- il modo di guardare la realtà, di stare nel mondo e di
pensare a se stessi.
L’adulto ha una sua struttura mentale e suoi punti di forza, ha un modo di guardare la
sua realtà poiché in parte l’ha costruita; l’adolescente non ha modo perché ancora la deve
costruire. Parleremo dopo del bambino, che è il caso più difficile.
Quello che il cambiamento provoca nell’adulto, ovvero il caos emotivo che manda in crisi
la sua stabilità, è nell’adolescente, che dal punto di vista emozionale è ancora precario,
tanto più disastroso, e va a gravare sulla sua situazione fisiologica.
L’impatto con la diagnosi scatena reazioni psicologiche quali emozioni, sensazioni,
fantasie, nonché un bisogno di sapere e di capire, poiché rimette in discussione -qui mi
ricollego al discorso fatto dalla collega prima di me- l’identità personale che è: “quello che
io penso di me e quello che gli altri pensano di me”. Si tratta di difendere, in una società
che vorrebbe tutti uguali e tutti perfettamente sani, la propria individualità e
progettualità di vita. Per contenere un problema, in altre parole, siamo portati a dover
cambiare determinati comportamenti e quello che non sappiamo è quanto questo inciderà
rispetto ai nostri progetti di vita.
L’ammalarsi può trasformarsi in una situazione di deprivazione, dolore e frustrazione.
Cosa ci viene tolto? La possibilità, innanzitutto, di continuare a fare quello che stiamo
facendo e che abbiamo cominciato a costruire. Poi, il senso di benessere e la sensazione di
sentirci come gli altri. Questi ultimi due sono elementi fondamentali per gli adulti, ma
estremamente indispensabili per gli adolescenti, per i quali il fatto di acquisire sicurezza
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in sé, passa attraverso il sentirsi uguali ai coetanei: così, mentre l’adulto può gestire e
sopportare meglio la sua diversità, per l’adolescente l’adeguamento ai pari è uno
strumento indispensabile per recuperare la propria sicurezza e procedere nel
riconoscimento di se stessi.
Il dolore è dolore fisico ed anche psicologico. Frustrazione è avere dei desideri e non
riuscire a realizzarli: dunque ha a che fare con le abitudini, con il poter scegliere o meno
quello che si mangia.
Vorrei far presente che si tratta di situazioni non psicopatologiche bensì situazioni
normali, cioè vissute normalmente, reazioni fisiologiche dovute a eventi della vita,
reazioni che il nostro sistema psichico utilizza per rispondere a qualcosa da cui è stato
toccato.
Se poi la malattia assume un carattere cronico gli aspetti emozionali possono influire sul
suo andamento a seconda della particolare modalità di rapportarsi ad essa. Già l’impatto
con una diagnosi significa riconoscere “ho qualcosa che non va, sono malato, non sono
come gli altri”, il che comporta pensare di andare dal medico per avere la cura e dunque
risolverla, che è anche un modo passivo. L’impatto con la malattia cronica vuol dire
immaginarci che per tutta la vita noi dovremo avere dei comportamenti o fare delle
terapie, il che implica come fatto fondamentale la nostra partecipazione nella cura,
l’essere attivi nella cura: la riuscita dipende da quanto io sono amico/nemico della
malattia, quanto posso integrarla nella mia modalità di vita, quanto mi permette di
continuare ad essere quello che sono e continuare a fare quello che ho sempre fatto.
Il vissuto può dipendere dall’entità dell’evento morboso, dall’equilibrio psicologico che
ciascun soggetto – l’adolescente è quello più a rischio-aveva già raggiunto in quel
momento, dai fattori ambientali, ossia quanto la società in cui viviamo ci permette di
stare in questa condizione senza farci sentire diversi, dalla famiglia, dalle persone vicine.
E voglio sottolineare l’importanza di quest’ultimo aspetto perché nella maggior parte dei
casi noi tendiamo a nascondere la malattia, non ne parliamo. Tutte le empasse che ho
visto nel mio lavoro clinico, ossia adulti arrivati ad avere complicanze di patologie
croniche, derivano dal non aver mai condiviso con gli altri la malattia. Comunicare un
disagio serve affinchè io mi senta tranquillo: non deve essere l’opposto, ovvero non ci si
deve sentire tranquilli perché non si è comunicato, perché gli altri non sanno del nostro
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disagio.
La cosa fondamentale è partire dalla diagnosi. La prima volta in cui veniamo messi in
relazione con la malattia, già cominciamo a strutturare un rapporto mentale ed emotivo
con essa. E per questo non ci sono ricette, perché dipende da tanti fattori, come la
struttura di personalità- qui cambia molto a seconda che si tratti di bambino, adolescente
o adulto- ed il suo sistema difensivo, ovvero i meccanismi messi in atto per ritrovare un
equilibrio mentale, che significa non farci distruggere dalle emozioni.
Alcuni di questi meccanismi difensivi che noi mettiamo in atto, e che è importante
riconoscere perché sono anche l’espressione delle nostre paure, sono:
la regressione, che di per sé non è necessariamente patologica purchè non mantenuta nel
tempo: significa strutturare dei comportamenti che ci riportano a quelli che avevamo
quando eravamo bambini, ovvero ad una posizione infantile di passività e di negligenza;
la formazione reattiva, che è l’inverso, e porta alla sfida, alla trasgressione, alla guerra
alla malattia (molto utilizzato dagli adolescenti), come a dire “faccio questo per vedere se
io sono più forte della malattia”;
la negazione, che se rimane e non ci si lavora sopra è il meccanismo più pericoloso (anche
per gli adulti): significa fare come se nulla fosse, non avere nessun tipo di comportamento
che abbia a che vedere con la malattia.
Diversi sono perciò i significati che ciascuno può attribuire alla malattia: nemico, sfida,
punizione (questo molto frequente nella nostra cultura in particolare), debolezza che
intacca il nostro senso di integrità; per alcuni addirittura- ed è pericolosissimo- sollievo,
in quanto permette di metterci in una posizione regressiva, oppure strategia per
strutturare dei propri cambiamenti, o infine perdita.
Mentre il test medico pone tutti sullo stesso piano poiché l’esito permette di sistemare
ciascuno in una categoria, quando noi parliamo di emotività abbiamo invece a che fare
con qualcosa che è diverso per ciascuno di noi, così come è diversa la modalità di fare i
conti con la propria vulnerabilità emotiva.
Una prima differenza è legata al sesso: mentre la donna di fronte alla propria
vulnerabilità emotiva ha bisogno di capire perché sta male, ha bisogno di fermarsi e
parlare (quindi in un certo senso è agevolata perché può portare il suo dolore emotivo),
l’uomo normalmente fa i conti con la propria vulnerabilità emotiva utilizzando l’azione
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(per esempio lo sport). Questo è il patrimonio emotivo con cui possiamo fare i conti
appena parte la diagnosi e durante un percorso diagnostico che non è necessariamente
breve: spesso si arriva infatti già vulnerabili alla diagnosi e si provano emozioni come
disperazione e passività, agitazione, scoraggiamento, impotenza, debolezza, apatia, senso
di inutilità, negazione, aggressività, rifiuto degli altri, perdita di progettualità. Queste
sono reazioni che, laddove non elaborate ovvero senza dar loro un nome e trovare una
strada, possono portare all’isolamento, al sentirci più malati di quello che non siamo.
Oggi la salute non è assenza di sintomi ma è buona qualità di vita. Indagare il mondo
emotivo è ciò che permette all’adolescente e all’adulto di capire cosa ci impedisce di fare
quello che ci fa stare bene, che vuol dire: ci è stato detto quello che dobbiamo fare ma non
lo facciamo. Le strategie cliniche che vengono utilizzate nella rieducazione -per le
malattie croniche non si parla infatti di terapie psicologiche- sono proprio quelle che
utilizzano il lavoro cognitivo: darsi dei piccoli obiettivi e poi cercare di analizzare il perché
non si sono raggiunti, il che sta nel mondo emotivo.
E’ importante l’ambiente culturale, nel senso che i medici possono rinforzare il
comportamento e l’andamento della malattia e la modalità con cui i sintomi vengono
riferiti. I sintomi fisici o il parlare delle difficoltà sono un filtro preferenziale nella
relazione con il medico e possono determinare una tendenza alla negazione del disagio
psichico, o meglio emotivo: il che è un canale determinante nel trovare una modalità di
adattamento alla malattia, ed è un canale nel sostenere l’individuo in tutto il percorso di
cura e nel cambiamento. Per l’essere umano, per natura - inoltre noi viviamo in una
cultura nazionale o locale per cui non siamo così aperti al cambiamento come società, ma
questo viene dopo- il cambiamento è la cosa più difficile: meglio una situazione anche non
sana, che però conosciamo, piuttosto che una situazione che ci dicono che può essere
migliore ma che noi non conosciamo. Perché ciò che conosciamo ci dà delle sicurezze,
anche se non è buono, il cattivo pensiamo di poterlo gestire: dunque il cambiamento mette
in atto questo, ovvero il dover accettare qualcosa che non si conosce, partire all’oscuro. E’
il mondo emotivo della persona che ci permette di capire cosa è entrato in crisi, con quale
modalità la persona risponde o si difende dalla ferita procurata dalla malattia. Per fare
questo non è sempre indispensabile la figura dello psicologo: il mondo emotivo delle
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persone passa nella famiglia, passa nei rapporti sociali, passa nei rapporti con i medici
che si occupano di noi. Tutte queste sono occasioni in cui possiamo esprimere qualcosa:
ogni relazione di fiducia che noi abbiamo può essere un’occasione per parlare del proprio
mondo emotivo. Riconoscere il proprio mondo emotivo e comunicarlo significa poter
metter in atto quelle strategie che possono garantire una buona qualità di vita
nonostante la malattia, per contrastare quei meccanismi difensivi che ostacolano il
cambiamento. Che cosa vuol dire buona qualità di vita? Avere la possibilità di viversi
prima come persona (individuo e persona appartenente ad un sesso), poi come essere
sociale, e dunque avere la possibilità di fare progetti di vita: attingere da tutti questi
aspetti della propria vita significa vivere bene e in equilibrio. Il che si può fare anche
avendo una patologia.
Per quanto riguarda l’evoluzione delle reazioni e l’insorgenza della malattia, vi sono tre
fasi che variano per durata e intensità a seconda delle persone. In queste tre fasi
guardiamo anche alle differenze fra bambino, adolescente e adulto:
periodo dello shock iniziale. Anche quando parliamo dei bambini, tutto ciò che si è detto
va riferito sempre all’adulto, ovvero alla famiglia che lo circonda: lo spazio emotivo su cui
lavorare è quello della famiglia, che deve trovare le regole e la sicurezza da dare
quotidianamente al bambino e che il bambino, che in quella fase non ragiona in maniera
astratta ma più imitativa, apprenderà molto facilmente. L’adolescente, che è già fragile,
avrà un vissuto molto diverso perché non riuscirà ad immaginarsi: e soprattutto, non
avendo alle spalle- come l’adulto- tutta una serie di shock e la capacità di vedere che si
può stare male ma anche riprendersi, mancherà di esperienza e di elementi contenitivi
(nell’adolescente le emozioni, quando arrivano, dilagano) e avrà una grande difficoltà a
mettersi in relazione, quindi a parlare del proprio mondo emotivo –cominciare a mettere
ordine nello shock iniziale diventa difficile soprattutto con loro, perché scappano;
lotta contro la malattia;
riorganizzazione ed accettazione della malattia, che passa attraverso dei grossi e difficili
cambiamenti.
Vorrei a questo punto sottolineare come nel rapporto con il cibo non ci sia solo l’aspetto
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della “convivialità”, la possibilità di stare con gli altri e uscire, ma anche la nostra
matrice del rapporto con dolore/piacere: al cibo, soprattutto per le donne, è legata la
possibilità di sedare lo stare male e dunque la libertà di poter avere in qualsiasi momento
una medicina per un dolore emotivo.
Mi fermerei qui perché per quanto riguarda l’adolescente si aprirebbe un capitolo a parte.
Mi preme però in proposito ricordare come per prima cosa sia necessario strutturare una
buona relazione: nel senso che la relazione degli adolescenti con le malattie del corpo e
con i medici è diversa da quella degli adulti;in secondo luogo, è necessario sostenere la
famiglia anche rispetto all’adolescente, e non necessariamente trattarlo - per noi oggi
l’adolescenza va dai 14-15 ai 24-25 anni - come un adulto: non bisogna mai dimenticarsi
della presenza della famiglia nel rapporto con la malattia, ma a maggior ragione se il
paziente è un adolescente minorenne, perché - questa la funzione fondamentale- non
spaventare e non alimentare le emozioni che già ci sono, bensì contenerle, è la prima
modalità.
Marcella Mastropietro
Ringrazio moltissimo la Dott.ssa Martinellli che credo abbia fatto - oggi - la relazione più
completa ed esaustiva sentita negli ultimi anni su questi argomenti e su queste
problematiche psicologiche. Potrebbe parlare probabilmente per giornate intere e noi
potremmo
ritrovare in ognuna delle sue parole rispecchiata, almeno in parte,
un’esperienza nostra, di un nostro familiare o di un nostro amico.
Questo credo infatti sia il tema forse meno soddisfatto dall’associazione che naturalmente
non può risolvere tutti questi problemi. Un’idea sarebbe una formazione più specifica per
noi volontari, per esempio, per poter rispondere meglio alle esigenze di cui l’associazione,
mentre promuove l’azione dei medici e sostiene le nostre iniziative per quanto riguarda la
ristorazione ed i progetti di gestione quotidiana, non si può tuttavia occupare: degli
aspetti, appunto, che riguardano l’accettazione della malattia, e che sono, così come la
dottoressa con molta completezza li ha trattati, i più difficoltosi. Una teoria che vorrei
sostenere, e che sostengo da quando sono stata diagnosticata e sono presente come
volontaria all’interno dell’associazione, è l’importanza - è il primo argomento che la
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dottoressa ha trattato - del riuscire a conoscere: quanto più sappiamo della nostra
patologia, di come va affrontata, tanto meglio la possiamo vivere e far vivere agli altri.
Dott.ssa Martinelli
Vorrei rilevare due punti importanti di cui non ho parlato ma che potrebbero rientrare
come eventuali domande, ovvero: 1. quali sono gli strumenti per affrontare le
problematiche psicologiche; 2. il rapporto fra la malattia ed alcuni sintomi che possono
essere vissuti come psicopatologia.
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4. CRITERI MINIMI PER LA DIAGNOSI DI CELIACHIA:STOP ALLE DIAGNOSI
“FASULLE”. LUCI ED OMBRE DELLA DIETA AGLUTINATA. NUOVE
PROSPETTIVE TERAPEUTICHE
Dott. Umberto Volta - Dipartimento di Medicina, Universittà di Bologna - Policlinico
“S.Orsola Malpighi”, consulente scientifico A.I.C.
Dividerò la relazione in tre punti che sono: 1. criteri diagnostici; 2. luci e ombre della
dieta aglutinata; 3. le nuove prospettive terapeutiche.
1. Che la celiachia sia un fenomeno ormai emergente in Italia e nel mondo è stato detto
da più parti: sappiamo che dai 18mila casi di malattia celiaca del 1996 siamo passati ai
55mila del 2004, e le previsioni ci portano ad avere almeno 90mila diagnosi verso il 2010.
Nel nostro centro, il numero di diagnosi è aumentato in maniera impressionante negli
ultimi anni. Proprio in questi giorni abbiamo consegnato alla nostra direzione sanitaria
un resoconto del numero di diagnosi fatte da noi nel 2005 con biopsia intestinale e con
atrofia dei villi e positivià anticorpale - diagnosi classiche, come vedremo- ed il risultato è
che siamo a 90 diagnosi nuove - contro le 10 diagnosi nuove nel 1980. Un trend
significativo, eppure vi sono ancora poche diagnosi, come dicevamo, come pure sussistono
ritardi diagnostici e, soprattutto, si vedono tutti i giorni macroscopici errori diagnostici. Il
punto è che abbiamo bisogno di una diagnosi sicura perchè si tratta di una malattia
cronica che impone una dieta per tutta la vita.
E’dunque importante fissare i criteri diagnostici -parliamo di criteri, non di clinica, non di
sintomi- che sono:
la biopsia duodenale nel corso di una gastroscopia, che resta indispensabile. Vorrei
sottolinearlo affinchè sia il più chiaro possibile: non esiste diagnosi di celiachia se non è
stata fatta una biopsia duodenale che dimostri una lesione compatibile con malattia
celiaca;
i due anticorpi, l’antiendomisio e l’antitransgutaminasi, che sono importantissimi ma non
sono da soli diagnostici per la malattia celiaca.
E le categorie entro cui far rientrare i pazienti sono quattro:
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criteri diagnostici classici, dove rientra il 90% dei pazienti;
criteri diagnostici di celiachia potenziale, dove abbiamo un 5% dei pazienti che noi
diagnostichiamo;
celiachia con deficit di IgA - al momento attuale i pazienti che vi rientrano sono un 3% ;
atrofie isolate della mucosa intestinale, celiachie a tutti gli effetti in base ad un iter
diagnostico completo, che rappresentano il 2% delle diagnosi.
I criteri diagnostici classici sono, come ho detto prima, l’atrofia di mucosa e la presenza di
anticorpi di classe IgA. Ma vorrei dire subito che dobbiamo dimenticarci degli anticorpi
antigliadina: questi sono utili solo nel bambino piccolo al di sotto dei due anni di età.
La celiachia potenziale è anch’essa una realtà importante, c’è un aumento dei linfociti
intraepiteliali associato ad anticorpi o antiendomisio o antiglutaminasi di classe IgA; la
lesione istologica (aumento linfociti intraepiteliali) da sola non vuol dire celiachia ma
associata ad anticorpi dà una diagnosi di celiachia potenziale.
Il deficit di IgA è importante anch’esso, è importante sapere che le IgA totali sieriche
devono essere sotto un certo livello, ovvero inferiori a 5 mg/dl per un deficit completo di
IgA; e qui sono importanti questi anticorpi di classe IgG e la presenza di mucosa piatta.
Nei casi in cui è presente atrofia dei villi intestinali con negatività anticorpale (unico
criterio diagnostico nel 2% dei casi) è obbligatoria una seconda biopsia intestinale dopo
almeno 12 mesi di dieta senza glutine che documenti la ricrescita dei villi per confermare
la diagnosi di malattia celiaca.
E’ dunque necessario essere in una di queste quattro categorie come criteri diagnostici
altrimenti la diagnosi va rivista e rivalutata da parte di uno specialista. Alcuni esempi di
criteri insufficientì: se abbiamo per es. un aumento isolato dei linfociti intraepitelialiquella che chiamiamo in termini tecnici Marsh 1 /Marsh 2 con iperplasia anche delle
cripte- non abbiamo una lesione specifica di celiachia, perché la troviamo anche
nell’allergia alimentare, nel colon irritabile, nelle infezioni intestinali, nelle forme di
colite ulcerosa, in molte patologie autoimmuni. Altra possibilità: il 2% dei pazienti
osservati
quest’anno
avevano
un
positività
per
anticorpi
antiendomisio
e
antitransglutaminasi con una mucosa completamente normale, un grado 0 -inferiore a 25
linfociti ogni 100 cellule- e dunque cosa fare con questi pazienti? Si seguono nel tempo e si
sta a vedere cosa succede perché non abbiamo nessun dato che orienti verso una diagnosi
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di celiachia, spesso sono asintomatici. Altro dato importante è quello delle diagnosi
fasulle, basate su anticorpi antitransglutaminasi di classe IgG con mucosa normale o
sulla presenza del solo HLA-DQ2 o -DQ8; la genetica è importante per escludere la
diagnosi di celiachia quando non è presente né il -DQ2 o -DQ8 ma non è certo un test
diagnostico, in quanto il 30% della popolazione generale sana ha lo stesso pattern gentico
dei celiaci. S può avere anche una presunta intolleranza al glutine sul piano clinico, che è
in realtà è spesso un’allergia al grano, per la quale non disponiamo purtroppo di test
sensibili e specifici.
Vorrei soffermarmi sul trattamento della celiachia potenziale. Quella che riporto è un po’
una linea di pensiero che si sta affermando nel mondo scientifico, cioè quella di trattare i
pazienti con celiacia potenziale sintomatica, cioè che hanno anemia, aborti ricorrenti,
epilessia, atassia cerebellare, ipertransaminasemia, malassorbimento o altri sintomi
importanti di malattia, con una dieta aglutinata immediatamente, poiché non ha senso
aspettare. E’ altrettanto chiaro che se ci troviamo di fronte ad una forma potenziale del
tutto asintomatica, che in genere ritroviamo in parenti di soggetti celiaci, l’atteggiamento
corretto è senz’altro quello di lasciarli a dieta libera e di seguirli nel tempo con un attento
follow-up.
2. La dieta è senz’altro un provvedimento terapeutico miracoloso per il celiaco, anche se
talvolta moto difficile da seguire in modo stretto; la dieta aglutinata porta ad una
risoluzione dei sintomi intestinali ed extraintestinali, dà una remissione istologica e
sierologica, previene le patologie autoimmuni -per alcune vanno fatte eccezioni, come ad
esempio per la tiroidite autoimmune- ma soprattutto ha un effetto protettivo sulle
complicanze neoplastiche, che, seppur raramente, possono colpire il celiaco, soprattutto
nei casi che hanno avuto una diagnosi tardiva in età avanzata;
la dieta aglutinata
quando instaurata in età precoce, previene lo sviluppo di neoplasie nel celiaco.
La dieta aglutinata è priva di alcuni costituenti importanti. Al momento della diagnosi il
celiaco presenta spesso già una carenza di ferro, di folati, di complesso B, di fibre; nella
fase iniziale della dieta questa carenza può anche aumentare perché gli alimenti
dietoterapeutici, soprattutto se consumati in eccesso, portano ad un calo ulteriore di
questi costituenti. La situazione poi in qualche modo si stabilizza nel lungo termine ma
20
spesso c’è bisogno di integrare la dieta con fibre, con acido folico e con il complesso B. Un
altro problema della dieta aglutinata è quello delle complicanze metaboliche: è molto
facile osservare nei celiaci a dieta lo sviluppo di obesità, più facile nell’uomo che nella
donna, e in genere un 10/15 % dei pazienti a due anni dall’inizio della dieta sviluppa
un’obesità importante -aumenti di oltre il 10% del peso corporeo, aumenti anche fino a 2030 kg-, causata dalla normalizzazione dell’assorbimento intestinale e dall’elevato apporto
di lipidi e carboidrati con la dieta, poiché molti cibi dietoterapeutici sono sbilanciati in
questo senso. Questo si osserva anche nella celiachia infantile.
E’ importante far seguire al paziente la dieta strettamente, istruirlo molto attentamente,
avere i consigli nutrizionali di una dietista con esperienza nella celiachia. In tutta Europa
sono presenti associazioni nazionali per la celiachia ed essere iscritti a queste associazioni
faciliti molto il compito del paziente nel seguire la dieta in modo corretto. La dieta è
difficile da seguire per tanti motivi, vuoi per la scarsa palatabilità degli alimenti, vuoi per
le carenze sul contenuto dei prodotti per un’etichettatura approssimativa - abbiamo una
legge in merito che non è ancora operativa e non consente ai pazienti di orientarsi nel
consumo degli alimenti- ed infine c’è certo il grosso problema dell’interferenza della dieta
con la socializzazione e dell’introduzione involontaria di glutine per cui è bene stare molto
attenti.
3. In questi giorni molti giornali e la stessa televisione hanno riacceso l’entusiasmo dei
celiaci sulla possibilità di una terapia alternativa alla dieta aglutinata, rappresentata da
una pillola in grado di contrastare gli effetti del glutine nell’organismo. La pillola in
questione è la pillola basata sull’impiego di inibitori sintetici della zonulina, una proteina
che è presente in grande quantità a livello della mucosa intestinale nelle celiachia non
trattata e sembra essere responsabile di un significativo aumento della permeabilità
intestinale alla gliadina. Studi sperimentali compiuti su ratti diabetici (non esiste al
momento un modello sperimentale di animale celiaco) hanno consentito di dimostrare che
l’impiego di inibitori sintetici della zonulina sarebbe in grado di determinare un blocco
dell’assorbimento del glutine, che in tal modo non riuscirebbe a raggiungere i linfociti
della sottomucosa intestinale. In tal modo non verrebbe innescata quella serie di reazioni
immunologiche che sappiamo intervenire nella malattia celiaca. In base alla molta
21
ottimistica ipotesi riportata dalla stampa in un prossimo futuro (quantizzato sui giornali
più prudenti in 4-5 anni) il celiaco potrebbe mangiare pane e pasta normali,
neutralizzando gli effeti dannosi del glutine grazie all’assunzione di una pillola a base di
inibitori di zonulina. Bisogna subito sottolineare, per non alimentare inutili illusioni, che
gli studi sull’uomo sono partiti solo nel mese di gennaio di questo anno su 21 volontari e
non vi è ancora alcun dato che dimostri l’efficacia, anche in minima parte, di questa
ipotesi terapeutica. La sperimentazione, approvata dalla FDA negli Stati Uniti, si
protrarrà per almeno 7 anni e prima di allora sarà praticamente impossibilie trarre
qualsiasi conclusione. Raffreddare gli entusiasmi è doveroso per chi si occupa seriamente
di celiachia, ma è atrettanto doveroso sottolineare come la ricerca scientifica si stia
impegnado da un paio di anni come non mai in passato per trovare un’alternativa
terapeutica alla dieta senza glutine. Esempi di questo impegno sono gli studi per mettere
a punto un vaccino che attraverso l’impiego di piccole dosi di peptidi tossici sia in grado
di desensibilizzare il celiaco verso il glutine o anche l’impiego di enzimi batterici
(endopeptidasi) che somministati per via orale riescano a digerire il glutine prima del
suo arrivo a livello della mucosa intestinale o ancora la messa a punto di inibitori
sintetici della transglutaminasi in grado di bloccare la deamidazione dei peptidi tossici di
gliadina da parte della transglutaminasi stessa. Come vedete, la ricerca scientifica è
etremamente vivace in questo momento ed anche se per ora la dieta rimane l’unica
certezza del celiaco per avere un’esistenza sicura al riparo da complicanze e patologie
autoimmuni associate, si può sperare che in un prossimo futuro il paziente celiaco possa
abbondonare quel senso di depressione e talvolta di rabbia che derivano dalla obbligata
rinuncia alla dieta meditteranea per riassaporare il gusto ormai dimenticato di un buon
piattio di spaghetti o di tagliatelle: speriamo che questo sogno si avveri e che non
rimanga solo un’utopia.
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5. DIABETE E CELIACHIA
Dott. Valerio Miselli - Primario di Diabetologia , Malattie Metaboliche e Nutrizione
Clinica, A.S.L. di Reggio Emilia, Presidio Ospedaliero di Scandiano.
Il diabete è una malattia di grande rilievo sociale con un grave impatto sulla salute
pubblica, per l’entità della sua diffusione e la gravità delle sue complicanze.
•
In tutto il mondo, si stima che le persone affette da diabete superino i 194 milioni,
ma secondo le previsioni dell’OMS nel 2005 i malati di diabete saliranno a 333
milioni.
•
La crescente diffusione del diabeti di tipo 2 è evidentemente collegata a un
generale aumento dell’obesità nella popolazione. Nei paesi industrializzati
occidentali, almeno il 90% dei casi di diabete di tipo 2 sembra dovuto al
soprappeso.
La prevalenza del diabete di tipo 1 in Italia risulta invece essere tra lo 0.4 e l’1 per mille.
L’incidenza è compresa tra i 6 e i 10 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 0 a 14
anni, mentre è stimata in 6.72 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 15 a 29
anni. Fa assoluta eccezione la Sardegna che ha un’incidenza di diabete giovanile tra le
più altre del mondo, pari a 34 casi per 100.000 per anno nella fascia di età di 0-14 anni.
UNA STORIA VERA
Una giovane donna di 44 anni presenta nell’anamnesi familiare una positività per il
diabete tipo 2 nella madre e in una sorella della madre.
Lavora come impiegata, non pratica attività fisica regolare, non ha mai fumato. All’età di
26 anni fu posta diagnosi di diabete gestazionale in occasione della prima gravidanza.
All’età di 30 anni presentò sintomi iniziali di scompenso (polidipsia e poliuria) con
glicemia a digiuno uguale a 242 mg; fu trattata con ipoglicemizzanti orali (terapia
combinata 3 cps/die). Durante il trattamento con compresse la paziente presentò test di
gravidanza positivo: furono immediatamente sospesi i farmaci orali e iniziata terapia
23
insulinica con 3 dosi giornaliere di insulina rapida. Fu rapidamente istruita
all’autocontrollo e dalla 10° settimana la gravidanza fu presa in carico da un’Unità
operativa di Diabetologia; a quel punto si hanno notizie dell’HbA1c che era 5.6%. Alla 39°
settimana la paziente ha partorito con parto fisiologico un maschio di 4.800 kg che ha
presentato una ipoglicemia non grave subito dopo la nascita; l’HbA1c era di 5.0%. Subito
dopo il parto fu eseguito il test al glucagone con esiti di scarsa secrezione insulinica (Cpeptide da 1.0 a 1.3 ng/mL); durante l’allattamento, per un cero periodo, fu sospesa ogni
terapia farmacologica e per sei mesi il diabete è stato controllato con programma
alimentare e attività fisica quotidiana.
Inizia terapia insulinica dopo quasi due anni lamenta episodi caratterizzati da vertigine,
nausea soprattutto postprandiale: in due occasioni ha avuto “svenimenti”come da crisi
ipotensive con glicemie perfettamente normali o addirittura elevate.
Inizia una storia di depressione che porta anche a un’alimentazione disordinata spesso
secondaria a episodi di panico.
Viene diagnosticata dopo un anno una vitiligine dallo specialista dermatologo; fu eseguita
anche gastroscopia per il persistere di difficoltà digestive, ma il quadro endoscopico era
normale e venne prescritta cisapride per il sospetto di un’iniziale gastroparesi.
Per circa un anno il medico curante tratta la sintomatologia digestiva con farmaci
inibitori di pompa, ansiolitici e modulatori della motilità. A questo punto viene fatta
diagnosi di psoriasi e vengono ridotte le dosi di insulina per persistente sintomi
ipoglicemici. Dopo un episodio caratterizzato da perdita di conoscenza mentre la paziente
era al volante della propria automobile, fortunatamente senza conseguenze gravi viene,
formulato il sospetto di ipoglicemia asintomatica e ricoverata in reparto specialistico: il
monitoraggio glicemico permetti di impostare terapia con tre iniezioni giornaliere di
analogo rapido più insulina lenta bed-time; vengono eseguite ricerche per Helicobacter
pilori ; uno screening delle complicanze esclude la presenza di neuropatia autonomia;
viene consigliato un programma alimentare indicato per la prevenzione delle ipoglicemie;
l’HbA1c è l’8.1%. Dopo circa 6 mesi la paziente viene ricoverata in ambito cardiologico con
diagnosi di “algie toraciche in diabetica”, viene eseguita una prova da sforzo al
cicloergometro che risulta negativa per insufficienza coronaria e il referto ECGrafico
viene considerato indicativo per alterazione della ripolarizzazione di tipo aspecifico. Alla
24
dimissione viene consigliata terapia con cisapride per disturbi digestivi riferibile a
sospetta gastroparesi.
Per persistente perdita di capelli si rivolge a un dermatologo che pone diagnosi di
alopecia e inizia terapia steroidea a partire dalla dosi di 50 mg/die di prednisone, viene
inviata di nuovo al gastroenterologo per la comparsa di positività per gli anticorpi
anticellule parietali gastriche, senza alterazioni della crasi ematica, dell’esame
emocromo-citometrico, tranne una lieve anemia ipocromica, e della funzionalità renale ed
epatica; viene eseguita gastroscopia e posta diagnosi di gastrite cronica, modificata la
terapia sintomatica introducendo levosulpiride.
Il peso corporeo nella paziente negli ultimi tre anni è rimasto costante e l’HbA1c ha
oscillato tra 7.9 e 8.9% nonostante la transitoria terapia steroidea.
Soltanto a questo punto, dopo circa quattro anni di sintomi digestivi variante
diagnosticati, viene posto il sospetto di celiachia e vengono eseguiti gli anticorpi IgG e IgA
antigliadina (AGA) e gli anticorpi IgA antiendomisio (EMA). Data la positività degli EMA
viene eseguita altra gastroscopia con biopsia digiunale la cui diagnosi è “mucosa
digiunale con villi in parte conservati ad aspetto tozzo; si osserva infiltrato flogistico
linfoplasmacellulare. Reperto compatibile con celiachia”.
La paziente inizia una dieta priva di glutine e viene inserita in un percorso educativo
differenziato per diabete tipo 1 con celiachia.
DIAGNOSI DI CELIACHIA
Come nel bambino, anche nell’adulto diarrea e dimagramento sono stati considerati per
molto tempo i principali sintomi e, in assenza di questi, non era giustificata
l’effettuazione della biopsia intestinale; attualmente possiamo dire che i sintomi variano
notevolmente da paziente a paziente e raramente si ha la contemporaneità di tutti i
sintomi. . La malattia predilige il sesso femminile con un rapporto F/M dell’ordine di 2:1 e
con picchi di insorgenza fra la terza e quarta decade di vita. Dal punto di vista nosologico
possiamo distinguere varie forme di malattia in base al quadro clinico ed all’estensione e
alla severità delle lesioni intestinali. Come si può evincere anche dalla storia clinica della
nostra paziente i
sintomi dell’adulto possono essere così vari e molteplici da poter
spingere i pazienti verso specialisti come dermatologi, ematologi ortopedici, endocrinologi,
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neurologi, ginecologi, reumatologi, non sempre consapevoli di tutti i problemi connessi
alla celiachia. Nel caso specifico la paziente, ad un certo punto si è rivolta alla “ medicina
alternativa”, perché non trovava soluzioni ai suoi problemi . La minore gravità o
addirittura ,l’assenza di sintomi intestinali in molti pazienti adulti non dipende da una
minore gravità delle lesioni (che sono sempre rappresentate dall’appiattimento dei villi)
ma da una loro minore estensione lungo l’intestino tenue. In questi pazienti con lesioni
meno estese i tratti sani di intestino riassorbono a valle le sostanze nutritizie
malassorbite a monte. Le manifestazioni cliniche, di conseguenza, sono meno rilevanti o
addirittura assenti.
DISCUSSIONE:
Il diabete tipo 1 è una malattia cronica autoimmune con vari gradi di deficit insulinico
risultanti dalla distruzione delle beta cellule pancreatiche immuno-mediata. Può
associarsi ad altre situazioni cliniche, subcliniche o potenzialmente organo-specifiche di
natura autoimmune; di solito tiroide, stomaco, ghiandole surrenali e intestino
costituiscono il quadro di una sindrome autoimmune polighiandolare. La Malattia
celiachia è una enteropatia autoimmune caratterizzata da lesioni di vario grado
dell’intestino tenue. Negli individui geneticamente predisposti la malattia si slatentizza
con l’ingestione di glutine; il morbo celiaco è diagnosticato in modo preciso dal dato
bioptico intestinale e si associa con gli anticorpi antigladiana (AGA), antiendomisio
(EMA), e con gli anticorpi tissutali atitrasglutaminasi (tTGA) appartenenti alla classe
(IGA).
Fin dal 1954 è stata osservata la coesistenza di malattia celiaca e diabete tipo1; è di
grande importanza il riconoscimento della malattia in fase asintomatica in questo tipo di
pazienti. Dalla letteratura si può osservare in 38 articoli pubblicati dal 1984 al 2001 che
la prevalenza della celiachia in popolazioni con diabete tipo 1 a causa delle differenti
tecniche di sceening può variare dallo 0.6 al 16.4%. Dati più recenti su una popolazione
studiata in Germania rivelano che il tTGA –IGA rappresenterebbe il marker più specifico
per la diagnosi delle forme silenti di morbo celiaco: ciò è estremamente importante perché
il trattamento con dieta priva di glutine dei pazienti con terapia insulinica ha effetti
positivi sull’ HbA1C e sulla crescita.
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Diabete tipo 1 e celiachia
Una volta fatta la diagnosi di celiachia così come in ogni malattia cronica il gradino
iniziale del trattamento è l’educazione terapeutica; ci vuole uno sforzo combinato tra
medico curante, specialista e dietista con esperienza sul campo per stabilire un buon
rapporto con il paziente, identificare gli obiettivi del trattamento e, non ultimo infondere
ottimismo in chi avrà bisogno di molti supporti per mantenere un comportamento
alimentare adeguato. L’obiettivo della dieta priva di glutine è di permettere il ripristino
di una normale morfologia istologica intestinale e possibilmente rimediare alle situazioni
cliniche connesse alla diagnosi di celiachia. I pazienti dovranno imparare a riconoscere i
cibi contenenti glutine e tutti gli alimenti che nascondono tracce di glutine non così
evidenti. Ciò permette il ripristino della funzione assorbente della mucosa intestinale
normalmente dopo 3-6 mesi. Gli AGA IgG possono permanere elevati per periodi più
lunghi di tempo per i fenomeni di memoria immunologica. La persistente positività AGA,
EMA, tTG, indica generalmente una scarsa aderenza al trattamento con dieta aglutinata.
Bisogna tenere presente che l’introduzione di minime quantità di glutine ( a seguito di
contaminazione o per aggiunta di additivi quali l’amido di grano ) raramente è in grado di
indurre positivizzazione della sierologia specifica: valori alti indicano macrotrasgressioni
alimentari.
ASSOCIAZIONE TRA CELIACHIA E MALATTIE AUTOIMMUNI
Una aumentata prevalenza di malattie autoimmuni tra i soggetti celiaci, così come di
celiaci (di regola misconosciuti) tra i soggetti con malattie autoimmuni (in particolar
modo, ma non solo, il diabete insulino dipendente e le tireopatie autoimmuni) è da tempo
nota. Nelle diverse casistiche la diagnosi di malattia celiaca era quasi sempre posteriore a
quella della malattia autoimmune associata: questo dato ha suggerito l’ipotesi che la
malattia celiaca non trattata, o in altre parole l’esposizione al glutine nel soggetto celiaco,
avesse un ruolo causale nel rischio di malattie autoimmuni.
Un largo studio policentrico italiano ha recentemente dimostrato che la prevalenza di
malattie autoimmuni in adolescenti celiaci è molto più elevata che nella popolazione
coetanea generale (13.8% contro 3.6%) ma, ciò che è più interessante, dipende dall’età alla
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diagnosi, vale a dire dalla durata dell’esposizione al glutine. Infatti, i celiaci esposti al
glutine per meno di due anni non sembrano avere una prevalenza di malattie
autoimmuni significativamente superiori a quella dei controlli, mentre il rischio sale
(proporzionale con l’età alla diagnosi)se l’esposizione è presente
I rapporti tra Diabete tipo 1 e Celiachia rappresentano un importante capitolo nella
Storia della Medicina sia per gli aspetti umani che per quelli scientifici.
Per quelli umani perché sono due malattie(meglio chiamarle condizioni)croniche che
richiedono un forte adattamento psicologico e una presa in carico della propria condizione
come le tecniche moderne suggeriscono secondo i modelli dell’empowerment
Sul piano scientifico perché la ricerca comincia a fare progressi da quando gli studiosi si
sono messi insieme e hanno cercato di collegare fenomeni che non possono essere definiti
più casuali: l’identificazione della zonulina e le ricerche su ceppi di topi con diabete hanno
aperto un nuovo capitolo in campo scientifico.In attesa che la speranza di una cura
definitiva diventi più vicina alla realtà ,dobbiamo trovare modelli di assistenza e di
supporto più orientati ai bisogni dei cittadini che vivono con una condizione cronica
invece che continuare ad investire energie solo per le criticità in pazienti acuti.
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6. PROTOTIPO DI REGISTRO DI PATOLOGIA DELLA MALATTIA CELIACA IN
REGIONE EMILIA ROMAGNA
Dott. Sergio Amarri - Direttore U.O. Pediatria dell’ A.S.L. di Ravenna, Medico pediatra,
consulente scientifico A.I.C.
Presento oggi lo stato di avanzamento dei lavori per il Progetto “Prototipo di Registro di
patologia della malattia Celiaca in Regione Emilia Romagna” finanziato dalla Regione
Emilia Romagna nel novembre 2005. La A.I.C. è sempre stata parte integrante di questo
lavoro nonchè principale promotore, ed ora è iniziato il piano operativo. Lo scorso anno la
regione Emilia Romagna, l’Assessorato alla sanità e l’Agenzia Sanitaria Regionale hanno
lanciato progetti di questo tipo, soprattutto volti a promuovere pratiche organizzative che
modernizzassero l’uso delle risorse sanitarie. Noi abbiamo presentato con successo un
progetto interprovinciale, che ha coinvolto quattro professionisti in rappresentanza delle
rispettive aziende sanitarie, oltre a me per l’ A.S.L. di Ravenna, Umberto Volta per
l’azienda ospedaliera di Bologna, Giacomo Banchini per l’azienda ospedaliera di Reggio
Emilia, e Dante Baronciani che è un epidemiologo del C.E.V.E.A.S. in rappresentanza
della A.S.L. di Modena. Nel contenuto del progetto si è cercato di applicare il sottotitolo
“come promuovere una corretta diagnosi della malattia celiaca in età sia pediatrica che
adulta, aumentando l’attenzione diagnostica e l’appropriatezza del percorso diagnostico
assistenziale”.
Dalla stima fatta in Emilia Romagna, su dati raccolti da una collega pediatra (Dott.ssa
Brusa) e presentati a Imola nel 2004 -abbiamo fuso dati provenienti dalle aziende
sanitarie locali con dati, ad esempio, di questa associazione- si vede l’enorme differenza di
prevalenza nelle varie province: nella fascia pediatrica si va ad esempio da Reggio Emilia
con una prevalenza di 1 ogni 298 a Rimini con una prevalenza di 1 ogni 514, che è quasi il
doppio. Se questa è la prevalenza stimata ma credibile in età pediatrica, si vede poi come
nell’età adulta i numeri siano drammaticamente più bassi e dunque le differenze di
prevalenza da una provincia all’altra ancora più accentuate. Per esempio Ravenna, ha
un’incidenza altissima per gli adulti pari a 1 ogni 634.
Quindi la celiachia è riconosciuta con più facilità in età pediatrica che in età adulta con
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una prevalenza complessiva ben più alta della stima 1 su 100-150, che è stata citata più
volte: per 1 celiaco diagnosticato infatti 8 non sono diagnosticati. Se ci limitiamo alla
parte pediatrica abbiamo, stando sempre al 2004, 1330 circa celiaci diagnosticati contro
3406 possibili.
OBIETTIVO DEL PROGETTO
Obiettivo primario è la valutazione di un intervento formativo, rivolto ai medici di
medicina generale (MMG) e a specialisti d’organo (esclusi i gastroenterologi) e a pediatri
di famiglia (PdF) teso a favorire una politica di case-finding dei soggetti celiaci in età
adulta e pediatrica.
Obiettivi secondari sono la valutazione:
dell’appropriatezza
dell’iter
diagnostico
nei
casi
diagnosticati
sia
prima
che
successivamente all’intervento formativo;
dell’adesione alle misure terapeutiche in relazione alla presenza e gravità dei sintomi;
delle misure di supporto: sociali, economiche e relazionali che caratterizzano il processo
assistenziale.
Ulteriore obiettivo è quello di stabilire quanto un’analisi dei dati correnti possa offrire
una stima della prevalenza della condizione.
FASI DEL PROGETTO
Stima dei casi già diagnosticati per malattia celiaca
Rilevazione, da parte di MMG e pediatri PdF, dei soggetti che a loro conoscenza, tra i loro
assistiti, risultano affetti da malattia celiaca. Per tali soggetti, dopo aver ottenuto il loro
consenso informato, devono essere rilevati i dati anagrafici al fine di poter procedere
all’intervista (vedi fase c e fase d).
In caso di mancato consenso deve essere centralizzato il dato dell’esistenza del caso,
specificando l’impossibilità di inclusione nelle successive fasi dello studio. I professionisti
devono inoltre comunicare il dato relativo al numero totale dei propri assistiti (per fascia
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d’età e sesso) e il numero dei soggetti, tra questi, che non hanno usufruito dell’assistenza
del medico (pazienti non conosciuti). (vedi scheda allegata)
Formazione al case-finding
Deve essere definito e distribuito un materiale informativo, rivolto ai professionisti
coinvolti nel progetto, relativo a:
sintesi delle conoscenze sulla storia naturale della malattia celiaca con particolare
attenzione alle problematiche diagnostiche e alle patologie associate;
informazioni relative all’efficacia della politica di case-finding e alle motivazioni che
fanno preferire tale intervento ad uno screening di massa;
elenco dei sintomi e segni clinici che dovrebbero determinare la scelta di indagare
l’esistenza della malattia celiaca (case finding);
algoritmo per garantire un appropriato percorso diagnostico.
modalità di accesso alle misure di supporto: sociali ed economiche
Arruolamento dei nuovi casi
Successivamente al momento formativo e alla distribuzione del materiale informativo i
MMG e PdF coinvolti dovrebbero, per la durata di 1 anno, rilevare i dati anagrafici, dopo
aver ottenuto il consenso informato, di tutti i casi:
in cui sia stata posta diagnosi di malattia celiaca (anche da parte di altri professionisti
quali gli specialisti d’organo);
in cui siano state effettuate indagini per un sospetto di malattia celiaca, risultate
negative (anche quelle richieste da parte di altri professionisti quali gli specialisti
d’organo);
in cui siano state richieste indagini per un sospetto di malattia celiaca, non effettuate
per scelta autonoma del paziente (anche quelle richieste da parte di altri professionisti
quali gli specialisti d’organo).
In caso di mancato consenso deve essere centralizzato il dato dell’esistenza del caso,
specificando l’impossibilità di inclusione nelle successive fasi dello studio. I professionisti
devono inoltre comunicare il dato relativo al numero totale dei propri assistiti (per fascia
31
d’età e sesso) e il numero dei soggetti, tra questi, che non hanno usufruito dell’assistenza
del medico (pazienti non conosciuti). (vedi scheda allegata)
Studio di follow-up: fase retrospettiva
Tutti i soggetti reclutati prima dell’evento formativo (già diagnosticati) dovranno essere
sottoposti ad intervista strutturata (vedi scheda allegata) da parte di intervistatore. Le
aree da sottoporre ad indagine sono le seguenti:
modalità della diagnosi: storia clinica, età della diagnosi, indagini diagnostiche,
servizi utilizzati,…
modalità della terapia: adesione alla stessa, controlli clinici, servizi utilizzati …
misure di sostegno e di supporto: aspetti relazionali (compresa comunicazione dei
professionisti), sociale ed economico …
Studio di follow-up: fase prospettica
Tutti i soggetti reclutati dopo l’evento formativo (nuove diagnosi) dovranno essere
sottoposti ad intervista strutturata (vedi scheda allegata) da parte di intervistatore. Le
aree da sottoporre ad indagine sono le seguenti:
modalità della diagnosi: storia clinica, età della diagnosi, indagini diagnostiche, servizi
utilizzati,…
modalità della terapia: adesione alla stessa, controlli clinici, servizi utilizzati …
misure di sostegno e di supporto: aspetti relazionali (compresa comunicazione dei
professionisti), sociale ed economico,…
Valutazione delle potenzialità della rilevazione dei dati correnti per stimare la frequenza
della patologia
La conclusione del progetto non può essere sinonimo di assenza di dati relativi alla
prevalenza ed incidenza della malattia celiaca né d’altra parte è proponibile che i MMG e
i PdF continuino ad inviare i dati relativi ai pazienti in carico e alle nuove diagnosi (quasi
a costituire un Registro della condizione). Lo svolgimento dello studio può rappresentare
32
l’occasione per valutare, con i MMG e i PdF, quanto i dati correnti siano in grado di
stimare la frequenza della patologia.
Le fonti dei dati sono molteplici ciascuna caratterizzata da alcuni limiti:
archivi di esenzione ticket specifica per patologia costituisce la fonte dati principale.
L’informazione può essere affetta da sottostima (soggetti con malattia celiaca che per
motivi diversi non hanno chiesto
l’esenzione) o da una più improbabile sovrastima
(soggetti che hanno accesso all’esenzione pur non avendo una appropriatezza della
diagnosi di malattia celiaca);
schede di Dimissione Ospedaliere (SDO). La fonte può fornire qualche risultato per
quanto riguarda l’età pediatrica (effettuazione di biopsia intestinale solitamente in
regime di Day-Hospital) mentre più improbabile risulta il ricovero in età adulta con
diagnosi di malattia celiaca;
prestazioni di specialistica ambulatoriale (ASA). La fonte presenta importanti problemi di
attendibilità del flusso informativo (variabile nelle diverse Aziende) non legate alla
patologia in esame quanto alla completezza dei dati.
Il progetto prevede di confrontare, in modo anonimo, per una definita entità territoriale
(distretto) i dati derivati dai flussi informativi dei dati correnti con quelli prodotti dai
MMG e dai PdF onde stimare l’attendibilità dei dati e poter procedere, una volta concluso
il progetto, ad un eventuale monitoraggio della patologia attraverso l’utilizzo dei dati
correnti.
Si tratta di cercare di creare, per la malattia celiaca, quello che nei paesi anglosassoni
viene chiamato EHL - Electronic Health Library - ovvero una biblioteca elettronica sulla
salute dell’individuo.
Nella provincia di Ravenna - nel 2004 365.000 abitanti di cui quasi 40.000 bambini- si è
provato a fare questo lavoro elettronico attraverso cui possiamo accedere a circa 562
persone, 12-13 non registrati: si vede come la popolazione colpita è giovane - l’età media è
33 anni - e la maggioranza ( il che purtroppo vale sempre nelle malattie autoimmuni) è di
sesso femminile – 69%, mentre per il 25% riguarda l’età pediatrica, ovvero al di sotto dei
14 anni; infine solo 8 sono gli stranieri rilevati -mentre sappiamo che la malattia celiaca è
presente anche negli stranieri, ma evidentemente non è cercata a sufficienza.
Il tasso totale - malattia ogni 1000 assistiti per ogni singolo medico - è molto diverso
33
all’interno dei tre distretti in cui è suddivisa la provincia di Ravenna; anche qui i pediatri
reclutano molti più celiaci dei medici di medicina generale; c’è il 30% di medici che non
hanno mai visto un paziente celiaco
DEFINIZIONE DEL CAMPIONE DI PROFESSIONISTI COINVOLTI
Per definire la dimensione del campione necessario ad una corretta descrizione del
fenomeno possono essere fatte alcune ipotesi di scenario tenendo conto che in Regione
Emilia Romagna:
operano 485 pediatri di libera scelta e 3270 medici di medicina generale,
per una popolazione 0-14 anni di 461.685 bambini e una di età ≥15 aa di 3.534.910
soggetti.
Si ipotizza che un MMG abbia in carico circa 1000 soggetti e un PdF 800 soggetti.
Se fossero diagnosticati tutti i casi, stante una prevalenza del 7‰(1:150), si dovrebbero
osservare circa 3200 casi in età pediatrica e 24.500 casi in età adulta.
tasso di prevalenza “casi diagnosticati”: 5‰ (1:200) in età pediatrica) e 1‰ (1:1000) in età
adulta.
Il che significherebbe che dovrebbero essere noti
2300 casi (dei 3200 previsti in età pediatrica)
3500 casi (dei 24.500 previsti in età adulta).
Alla fine della prima fase sarebbero quindi rilevati 5800 casi rispetto ai 27.800 previsti.
tasso di incidenza “casi diagnosticabili” dopo opportuna formazione dei professionisti: 6‰
(1:170) in età pediatrica e 3‰ (1:330) in età adulta.
Il che significherebbe che dovrebbero essere diagnosticati:
2750 casi (di cui 2300 già noti dalla prima fase) dei 3200 previsti in età pediatrica
10.600 casi (di cui 3500 già noti dalla prima fase) dei 24.500 previsti) in età adulta.
Se si ipotizza di voler reclutare almeno il 10% della popolazione dei soggetti celiaci
diagnosticati, secondo questo primo scenario (1300 casi), è necessario l’impegno del 10%
dei professionisti (circa 300 MMG e 50 PdLS suddivisi nelle diverse province).
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Lo sviluppo del progetto in quattro AUSL permette la sostanziale corrispondenza delle
previsioni minime summenzionate.
ORGANIZZAZIONE DEL PROGETTO
Reclutamento dei MMG e PdF
L’adesione al progetto da parte dei MMG e PdF è naturalmente su base volontaria. La
volontarietà dell’adesione introduce un bias di selezione (professionisti più attenti già
prima della formazione) la cui rilevanza andrà stimata. L’adesione potrà essere facilitata
coinvolgendo attraverso le Direzioni Sanitarie delle AUSL interessate i Distretti ed in
particolare i Nuclei di Cure Primarie.
La condivisione del Progetto con le organizzazioni sindacali dei MMG e PDF risulta un
fattore favorente; deve essere prevista una rappresentanza dei MMG e PdF nel Comitato
scientifico del progetto.
E’ necessario sottolineare come il progetto tenda a minimizzare l’impegno richiesto ai
singoli MMG e PdF cui è richiesto:
la partecipazione ad un incontro di formazione sul tema della malattia celiaca (durata 1-2
ore). Dovrà essere effettuata una valutazione prima del momento formativo circa le
conoscenze dei professionisti sulle patologie che possono portare alla diagnosi di malattia
celiaca.
la comunicazione di alcuni dati relativa ai pazienti in carico in cui sia stata formulata la
diagnosi di malattia celiaca ed il loro consenso informato ad essere intervistati.
la comunicazione di alcuni dati relativa ai pazienti reclutati nel corso dell’anno successivo
all’evento formativo in cui sia formulata la diagnosi di malattia celiaca (o effettuati o
proposti accertamenti relativi alla stesa) ed il loro consenso informato ad essere
intervistati.
Si può stimare che per ogni MMG il numero complessivo di pazienti da segnalare sia
attorno ai 2-4 pazienti ogni 1000 assistiti.
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Reclutamento degli specialisti
Il materiale informativo dovrebbe essere diffuso anche agli specialisti che possono
inserire la malattia celiaca nella diagnosi differenziale di alcuni sintomi o segni; in
particolare: cardiologi, dermatologi, ematologi, endocrinologi, immunologi, internisti,
nefrologi, neurologi, odontoiatri, oncologi, ostetrico-ginecologi, psichiatri,, psicologi,
reumatologi.
Il coinvolgimento degli specialisti potrebbe essere facilitato oltreché dalle Direzioni
Sanitarie delle AUSL e Aziende Ospedaliere anche dagli Ordine dei Medici Provinciali.
Materiale informativo
Il materiale informativo deve essere costituito da un opuscolo in cui siano contenuti:
la sintesi delle conoscenze sulla storia naturale della malattia celiaca con particolare
attenzione alle problematiche diagnostiche e alle patologie associate;
le informazioni relative all’efficacia della politica di case-finding e alle motivazioni che
fanno preferire tale intervento ad uno screening di massa;
algoritmo per garantire un appropriato percorso diagnostico.
A tale opuscolo dovrebbe essere allegato
l’elenco dei sintomi e segni clinici che
dovrebbero determinare la scelta di indagare l’esistenza della malattia celiaca. Tale
allegato dovrebbe avere un formato che ne faciliti la consultazione da parte del medico
(ad esempio differenziata per specialità)
Dovrebbe inoltre essere reso disponibile un materiale informativo che il medico possa
utilizzare al fine di indicare al paziente le modalità con cui accedere alle misure di
supporto sociali ed economiche.
La preparazione del materiale informativo dovrebbe essere effettuata con la consulenza
di professionisti.
Schema intervista e formazione degli intervistatori
Lo schema dell’intervista è il risultato di un lavoro multidisciplinare (specialisti di
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settore, MMG e PdF, epidemiologi e genitori) comprendente una serie di domande (la
maggior parte con risposte codificate) tese ad indagare:
sintomi o segni che hanno portato alla diagnosi e autore della stessa
appropriatezza del percorso diagnostico-terapeutico: effettuazione ed interpretazione
dei test e della biopsia secondo le raccomandazioni internazionali
patologia associata
complicanze (neoplastiche e non)
difficoltà del paziente nel seguire le indicazioni terapeutiche
difficoltà del paziente rispetto alle misure di supporto sociali ed economiche
soddisfazione del paziente
Gli intervistatori devono seguire un breve corso di formazione (definire se intervista
telefonica o di persona) e la sua durata.
Avendo ottenuto questa doppia sponsorizzazione- dalla A.I.C. e dalla regione - il nostro
obiettivo è di andare ad accumulare questi dati in modo da avere dei numeri
statisticamente significativi e trarre conclusioni utili. Qualora si realizzi- il se è d’obbligosi tratterà di uno studio che raramente si riesce a fare in Italia: l’ambizione più grossa è
di contare tutti. Il nostro obiettivo, come ho detto, non è solo questo ma è anche
promuovere una corretta ed efficace diagnosi, e questo attualmente significa concentrare
la maggior parte delle nostre azioni sul medico di medicina generale dell’adulto. Dopo
opportuna formazione e lo studio d’incidenza, i casi diagnosticabili pensiamo si possano
triplicare.
Il reclutamento dei medici di medicina generale e pediatri di famiglia
è su base
volontaria, l’adesione speriamo e pensiamo che sia facilitata coinvolgendo le direzioni
sanitarie, i distretti ed in particolare i nuclei di cure primarie - che adesso sono, come voi
sapete, una realtà trainante del nostro sistema organizzativo. Ai medici di medicina
generale ed ai pediatri di famiglia noi chiediamo un recall formativo di non più di un paio
d’ore da inserire nel programma di formazione obbligatorio che hanno, e la comunicazione
dei dati di pazienti noti e nuovi. Infine, obiettivo particolare e non facile, a cui tutto il
gruppo tiene molto, sarebbe il coinvolgimento e la formazione anche solo parziale di una
lunga lista di colleghi – specialisti d’organo, come si è detto - che va di pari passo con la
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lista di segni, sintomi e patologie associate che tutti voi conoscete: affinchè in ciascun
settore i pazienti trovino una minima ma sufficiente attenzione sulla celiachia.
38
7. DIBATTITO FINALE
D.
Si ritiene che esistano delle relazioni tra la somministrazione di vaccini in età pediatrica
e la genesi e l’insorgenza della celiachia?
R. Dott. Amarri
Non mi risulta nel modo più categorico. E’ un quesito di moda sulle patologie
autoimmunitarie in genere, ma non mi risulta che questo problema riguardi la celiachia.
Per esempio, il vaccino più imputato è quello del morbillo, la trivalente, ma per altre
malattie.
R. Dott. Amarri
Rispetto alla domanda sull’epoca di introduzione del glutine nel lattante, ovvero l’epoca
del giusto divezzamento, non c’è una risposta scientifica vera, e questo non solo per la
celiachia: i bambini si divezzano, abitualmente e su linee guida internazionali molto
condivise, tra il quarto ed il sesto mese - al sesto mese generalmente - ma non ci sono
conoscenze scentifiche tali da sapere l’esatto momento in cui introdurre il glutine nei
celiaci, tanto quanto nei non celiaci. Lo studio del Prof. Catassi a cui lei accennava e a cui
aderisce questa regione - ho l’onore di coordinare il gruppo regionale - dovrebbe, se avrà
successo e casi sufficienti, aiutare a rispondere a questa domanda perché finora ci sono
solo ipotesi senza conclusioni se sia meglio introdurre il glutine a sei o dodici mesi per
evitare malattie autoimmunitarie o complicanze. Per quanto riguarda l’età in cui si può
fare l’ HLA - risposta che condividerò suppongo con altri colleghi - ovviamente essendo
l’assetto genetico fisso non penso ci sia un numero preciso, tuttavia la politica del
cosìddetto case-finding di cui parlavo prima è quella che io adotto come guida in tutti gli
esami: è chiaro che non dico che al primo prelievo uno fa l’HLA ma lo fa quando ha il
sospetto di malattia, può essere un sintomo, una patologia associata, può essere la
familiarità.
R. Prof. Giacomo Banchini - Medico pediatra, consulente scientifico A.I.C. fino al 2004.
Aggiungo sull’HLA che noi lo facciamo di regola nel protocollo di alcune particolari
39
categorie a rischio come i bambini con sindrome di Down, Turner, Williams ecc, in modo
tale da dare un conforto, quando il test è negativo, per non dover vivere anche con questo
timore, ossia che alla patologia cromosomica si associ anche la malattia celiaca.
D.
Una ragazza che è a dieta dall’età di 6 anni, una dieta precisa e documentata dalle
analisi, perché può ritrovarsi carenza di ferro come prima della diagnosi?
R. Dott. Volta
Questo tipo di discorso viene fuori spesso, anche nell’adulto che fa benissimo la dieta, che
normalizza tutto: l’emoglobina normalizza, eppure rimane un ferro relativamente basso molto spesso è una ferritina bassa più che un ferro basso. Non ho una spiegazione in
questi casi, potrebbe darsi che la dieta sia povera di ferro, perché l’assorbimento
teoricamente normalizza in questi soggetti. In genere mi comporto prescrivendo del ferro
per via orale, perché sono convinto che venga assorbito se è tutto in ordine non c’è motivo
di pensare che il soggetto non assorba.
D.
Mio figlio ha avuto la diagnosi ed è stato fatto tutto normalmente, ma in questi ultimi due
anni ha dei dolori molto forti al petto, dolori alle mani, è sempre piuttosto anemico:
poiché non si è capito cosa siano questi dolori, che hanno provocato anche svenimenti non si è trovato niente di anomalo al cuore - mi chiedevo se non è opportuno rifare una
verifica.
R. Prof.Banchini
E’ una domanda a cui non è facile rispondere ma evidentemente la prima cosa da fare è
una verifica della compliance alla dieta: nel senso che, purtroppo, l’esperienza di tanti
anni ed anche i dati che vengono riportati non soltanto nelle casistiche nostre - bensì
come ha mostrato il Dott.Volta in quelle internazionali - mostrano come molto spesso
una buona percentuale di soggetti non fa la dieta in modo regolare. Quindi la prima cosa
è un buon check dal punto di vista dietetico e dei marker della celiachia. Dai sintomi che
lei ha riferito - il dolore articolare, il dolore muscolare, l’astenia ecc - si può anche
pensare, in effetti, alla presenza di altre patologie autoimmuni, pensando alle quali si
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potrebbe prendere in considerazione una rivalutazione del caso.
R. Dott.Volta
Concordo pienamente: è fondamentale la verifica che la compliance alla dieta sia buona, e
poi in genere è consigliabile uno studio delle autommunità se ci sono sintomi di questo
tipo. E’ chiaro che certe volte la compliance alla dieta va valutata sotto tanti punti di
vista: non ultimo, se il soggetto continua ad avere sintomi importanti ed anche esami di
laboratorio alterati, non escluderei anche un ulteriore accertamento istologico. La biopsia
duodenale, ripeto, non dev’essere più considerata un accertamento obbligatorio dopo dieta
aglutinata per la conferma della diagnosi, ma in certi casi in cui il soggetto clinicamente
non sta bene - e ci sono sintomi che possono far pensare anche ad una forma di celiachia
refrattaria o altro - va comunque ripetuta.
D.
I prodotti da forno contengono delle alte percentuali di grassi vegetali: a lungo andare
potrebbero causarci il colesterolo anche in giovane età?
R. Dott.Volta
Non tutti i prodotti dietoterapeutici sono particolarmente ricchi di grassi o carboidrati
tali da sbilanciare l’assetto metabolico del soggetto: questo è vero soprattutto per snack,
merendine e dolci. In linea di massima però anche i prodotti dietoterapeutici di base
hanno comunque un certo sbilanciamento di questo tipo. Ecco perché, quello che io di
solito raccomando quando faccio una diagnosi di celiachia, è che la dieta sia soprattutto a
base di prodotti naturalmente privi di glutine e con uso di prodotti dietoterapeutici
limitato al minimo indispensabile.
D.
Ho un figlio celiaco preadolescente e, pensando all’importanza dell’aggregazione e del non
negare e nascondere la patologia, soprattutto per i ragazzi della sua età, mi domando
perché a Reggio Emilia città, visti gli importi che sono devoluti alla ristorazione normale,
non esista una pizzeria vicina - l’unica è a S.Antonino di Casalgrande - dove mangiare
una pizza senza glutine.
R. Silvia Cavalchi
Mi sento chiamata in causa anche in quanto tutor della ristorazione nella provincia di
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Reggio e posso dire che l’associazione sta facendo molto da questo punto di vista. Soltanto
l’anno scorso abbiamo organizzato un corso, della durata di un anno, per i ristoranti e le
pizzerie: erano sei o sette i ristoranti di Reggio e provincia che hanno partecipato aprendo alla fine del corso due agriturismi. La pizzeria c’è, da tanto tempo - si tratta di
quella di Casalgrande di cui parlavi - ed altre pizzerie sono state coinvolte ma non è così
facile perché si cerca di coinvolgere ristoratori che si conoscono personalmente e di cui si
ha massima fiducia, proprio per garantire quella sicurezza nella preparazione dei cibi che
è necessaria al celiaco. Ci si dà da fare per questo ma non basta soltanto la buona volontà
dell’esercente, sono esercizi che vengono selezionati: è necessaria una cucina idonea, è
necessario che questo ristoratore si impegni a mantenersi aggiornato ed informato,
dunque c’è un lavoro che dev’essere fatto con un impegno reciproco. Mi sento però di
aggiungere che questo lavoro non può continuare se i celiaci che vanno a mangiare nei
ristoranti hanno nei confronti dei ristoratori un atteggiamento di pretesa e non di
collaborazione, ovvero dei modi che scoraggiano – un episodio di questo tipo si è
purtroppo, e
a discapito della nostra iniziativa, verificato appunto a Reggio - il
ristoratore nonostante l’impegno e la buona volontà. Il nostro obiettivo è comunque
continuare a far sì che il numero di esercizi aumenti, soprattutto per il discorso che
riguarda gli adolescenti: ci tengo però a ribadire che non è facile e ci vuole l’impegno di
tutti.
R. Gino Venturelli
Vorrei sottolineare che, a parte la nostra provincia, secondo i dati regionali ci sono
almeno 30 ristoranti abilitati a servire pasti senza glutine con determinate garanzie.
Si tratta, lo ricordo, di un rapporto privato tra l’associazione e gli esercenti privati che si
rendono disponibili a voler fornire un determinato servizio per andare incontro ad
un’esigenza che riguarda la colletività. Vorrei anche far presente che a livello
istituzionale un comune romagnolo - quello di Cattolica - ha dato il via al progetto
“Cattolica- comune gluten free”: sono quindi le istituzioni stesse, coinvolgendo il comune e
le A.S.L. locali, a portare avanti una campagna di sensibilizzazione al problema del senza
glutine che arrivi anche agli esercenti in modo da poter fornire un servizio completo.
L’altro aspetto importante che emerge da questa domanda è quello psicologico: noi non
possiamo legare, mi sembra, il problema della celiachia nell’adolescenza all’esigenza di
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una pizzeria, perché se è così credo che questo crei problemi ben più difficili.
R. Dott.ssa Martinelli
Credo anch’io che il problema non sia solo quello, perché è vero che per un ragazzo la
rinuncia alla pizzeria in un determinato momento può essere difficile, ma un ragazzo
dovrà imparare a fare rinunce nella vita. Dunque il problema non si può risolvere in una
direzione unica ma dev’essere indirizzato in altro modo: noi viviamo in una cultura in cui
gli alimenti senza glutine diventano indispensabili perché qui l’alimentazione prevalente
è legata a prodotti che contengono il glutine - c’è l’abitudine alla pizza e alla pasta - ma
in realtà ci sono altre soluzioni. E’ chiaro che, laddove il problema rispetto al trovare un
buon equilibrio con la dieta diventi il poter trovare un ristorante, affrontare la questione
sarà molto più dura: ovvero sia, proprio perché si tratta di un problema grosso, se ci si
concentra solo sul cibo il problema diventerà ancora più grosso. Quando uno ha una
patologia è chiaro che la soluzione più semplice, che gli limita meno la vita è quella
ottimale, ma se non c’è, non possiamo aspettare e basta: ecco perché quello che dico io è,
intanto, in attesa di, lavoriamo su altre aree.
R. Marcella Mastropietro
Rimaniamo sul cibo, siccome parliamo ad una platea di persone celiache o con parenti
celiaci. L’associazione non è un’entità astratta ma siamo noi. I volontari attivi sul
territorio, rispetto ai soci dell’associazione, sono una minoranza numericamente non
significativa guardando l’opera che l’associazione - a livello locale, regionale e nazionale deve compiere. Per questo, tutti i volontari attivi - e iperattivi - devono privare la loro vita
privata, professionale e affettiva di spazi da dedicare all’associazione, quindi: la prima
cosa da fare è dire grazie a tutti quelli che hanno ottenuto i successi che oggi abbiamo
raggiunto. Dopodichè, ricordiamoci che il passo fatto è piccolo rispetto a quello che ancora
vogliamo ottenere ma enorme rispetto alla base di partenza - e chi è celiaco da un po’ di
tempo, anche solo da cinque o sei anni, ha presente come le situazione fosse all’età della
pietra: non avevamo locali, avevamo pochissimi prodotti - di bassa qualità organolettica e
di pessima qualità di conservazione - ed avevamo una classe medica meno sensibilizzata,
che faceva meno diagnosi e che ci seguiva anche meno. Oggi la situazione è nettamente
cambiata grazie all’azione di quei volontari che, pochi rispetto alla popolazione celiaca,
hanno lavorato: dunque, perché questa popolazione dei celiaci
43
- in aumento - possa
migliorare la sua qualità della vita è indispensabile che in molti di più lavorino per
l’associazione e diano il proprio contributo.
Il progetto ristorazione è il più delicato: per ogni ristorante che entra nella catena c’è un
tutor che lo segue nella sua formazione prima del corso, assiste e segue il corso di
formazione, lo segue nel tempo - a distanza e in modo ravvicinato - facendo dei controlli,
andando nelle cucine, facendo da mediatore nel rapporto ristoratore-cliente, nel rapporto
ristoratore-fornitore di prodotti dietoterapeutici. Avere 30 ristoranti significa avere 30
tutor impegnati in questo campo, più il coordinatore ed il referente regionale. Crescere,
anche nel numero di ristoranti sicuri nella loro qualità, vuol dire crescere come numero di
tutor.
R. Dott.ssa Paola Accorsi - Dietista
La sezione di Reggio Emilia dell’associazione ha chiesto già anni fa la nostra
collaborazione - in quanto dietiste di un’azienda sanitaria - affinchè facessimo una
formazione specifica e potessimo dare delle risposte alle domande che voi costantemente
fate su una dieta priva di glutine sicura e affinchè ciascuno avesse una risposta
personalizzata al suo problema - poiché ognuno di noi ha una propria storia ed un proprio
rapporto con il cibo e dunque, nelle varie fasi della vita, può trovare mille risposte
diverse. Anche chi non ha problemi con il glutine varia a seconda dei momenti e delle età
il proprio rapporto - più o meno conflittuale - con il cibo, così come varia la possibilità di
dedicarsi più o meno serenamente ad una dieta salutista. Ben vengano allora anche le
proposte delle industrie. Il poter andare a leggere le etichette di tante offerte - questo vi
stimolo a fare - significa fare attenzione all’effettivo contenuto di un determinato
alimento: cioè, oltre a concentrarsi sull’assenza di glutine, andare a verificare quali altri
ingredienti ci sono - affinchè la vostra alimentazione possa diventare il più possibile
confacente agli obiettivi di un’alimentazione sana. Però ripeto: non ci sono risposte
generiche ma ognuno ha un percorso individuale e se c’è la possibilità di avere - come
nell’associazione - qualcuno a cui fare le domande specifiche su quelli che sono i vostri
bisogni della vita quotidiana, credo che questo sia il massimo risultato.
R. Silvia Cavalchi
Vorrei ribadire che il discorso sulla ristorazione che si è fatto prima non chiude le
possibilità sulla nostra provincia dove ogni anno noi cerchiamo di reclutare ristoratori
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interessati. Essendo l’iter appunto quello che vi ha descritto Marcella, la difficoltà sta nel
fatto che, proprio per garantirvi il massimo della non contaminazione - lo spazio dove si
fanno le pizze è rispetto alla cucina luogo molto più rischioso - entra in gioco la
disponibilità del ristoratore a trovare un luogo adatto, separato, per assicurarvi che la
pizza sia senza glutine e dunque per garantire la salute. In questo senso non è così facile.
D.
Mia figlia ha due anni e mezzo ed ho scoperto da poco che è celiaca: non essendo io
celiaca, l’ho allattata assumendo glutine. Mia figlia ha sofferto per tantissimi mesi di
violente coliche intestinali. Siccome vorrei avere un altro figlio, che potrebbe essere a
rischio, la mia domanda è: allattare un bambino a rischio assumendo glutine significa far
passare il glutine al bambino e dunque provocare dei problemi?
R. Dott.Volta
Non c’è nessun collegamento. Essendo l’allattamento al seno la miglior forma di
nutrizione per il bambino, non va assolutamente scoraggiato: le controindicazioni per
l’allattamento al seno sono ridotte ad entità gravissime e risicatissime, non consiglierei
mai di ridurre la durata dell’allattamento al seno ad una mamma che ha una
predisposizione genetica alla celiachia. Il glutine non entra nel latte comunque, dunque è
un nonsense biologico.
E le coliche gassose del lattante - che sono una cosa fisiologica per lui e fastidiosa per la
mamma - fanno parte della crescita dell’apparato gastrointestinale: anche i non celiaci
hanno molte coliche.
R. Prof. Banchini
Quelli senza glutine, come ha riferito bene il Dott.Volta, sono prodotti un pochino
squilibrati, sono molto ricchi in zucchero, proteine e anche grassi rispetto ai prodotti
normali. In ogni modo, un bambino diabetico che si riferisce ad un centro antidiabetico
può trovare una buona risposta con la dietista a questo tipo di domanda. Nel senso che se
già un bambino diabetico deve fare una dieta ben equilibrata ma normale, evidentemente
il togliere il glutine comporta qualche problematica in più. Quello che si deve favorire in
modo assoluto è la minima dipendenza dai prodotti farmaceutici rispetto a quelli
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naturali: si può cercare cioè di mangiare tutti i prodotti che sono naturalmente senza
glutine, privilegiandoli a quelli confezionati industrialmente. Rispetto a questi
l’associazione si sta impegnando e si dovrà impegnare in futuro perché siano sempre più
equilibrati.
R. Dott.ssa Accorsi
In effetti è una complicazione perché pensando ai prodotti naturali che bene si prestano
per il bambino, come ad esempio la frutta, subentra il discorso della glicemia: come diceva
il Dott.Banchini però, dal punto di vista terapeutico, adeguatamente sincronizzando
l’intervento dietetico con l’intervento medico - ovvero la prescrizione insulinica - si
riescono a creare degli equilibri molto gestibili. Non è un no agli zuccheri semplici ad
esempio, ma dipende: certo sono due cose che vanno incrociate - e la priorità è l’assenza
di glutine - però si può andare incontro ad un incremento del consumo di zuccheri
semplici attraverso i prodotti naturali con la terapia insulinica adeguata.
D.
Ho due gemelle monozigote di 28 anni, l’una diagnosticata celiaca a 18 anni. C’è
possibilità che l’altra gemella se la cavi?
R. Prof. Banchini
La percentuale è nota: l’85-87 % sono celiaci, perciò è bene che stia sotto stretto controllo,
il follow-up deve necessariamente continuare.
D.
Rispetto al follow-up, da una ricerca apparsa su uno degli ultimi numeri di “Celiachia”
sulla tossicità delle tracce di glutine, mi pare di aver capito che a fronte di esami
sierologici negativi, con la dieta senza glutine, ci siano stati invece dei problemi a
indagine istologica: dunque le prospettive sono sempre quelle di mantenere un follow-up
soltanto sulle analisi del sangue oppure è cambiato qualcosa?
R. Dott. Volta
Il lavoro a cui si riferisce la signora è un lavoro policentrico a cui abbiamo partecipato
anche noi - coordinato da Carlo Catassi. Il discorso è che in questi casi, sottoposti a
biopsia intestinale, effettivamente si aveva un aumento dei linfociti intraepiteliali nella
46
mucosa intestinale nonostante la persistente negatività degli anticorpi. Erano pazienti
che stavano bene e non avevano avuto nessuna ricaduta sul piano clinico - e noi sappiamo
che ci possono essere variazioni: ossia, nell’adulto - su un campione di 100 casi biopsiati
dopo un anno di dieta senza glutine - la normalizzazione assoluta dei linfociti
intraepiteliali si ha in un 20-30% mentre negli altri rimangono aumentati. Dunque io
ritengo che valga più il criterio clinico e sierologico.
D.
Un celiaco può avere anche problemi ai reni o urologici? I problemi renali hanno a che
fare con la celiachia?
R. Dott. Volta
No, l’unica associazione è con la nefropatia di Berger, che è una nefropatia IgA molto rara
- però non è un’associazione stretta, assolutamente, e con altre forme di nefropatia su
base autoimmune. E poi ci sono celiaci che a seguito di associazioni con altre patologie
autoimmuni, come il diabete di tipo 1, hanno sviluppano negli anni problemi di
insufficienza renale che hanno richiesto anche trattamenti dialitici o trapianti di rene.
Ma questo è un discorso che rientra nella storia clinica di complicanze e di altre patologie
associate, non è così frequente.
D.
Sono affetta da endometriosi pelvica e intestinale e, in seguito a complicanze, da tre anni
faccio continuamente urinoculture che spesso mi danno positività all’E.coli - l’ultima un
mese fa, è stata di 40 milioni di batteri: la celiachia potrebbe dare questo aumento di Coli
nell’intestino e provocare questo passaggio nella vescica?
R. Dott.Volta
La celiachia si può associare come tale ad una condizione di alterazione della flora
batterica intestinale ed i pazienti celiaci hanno spesso quadri di colonpatia funzionale che
favoriscono un aumento di questi batteri intestinali, i quali possono poi passare per via
linfatica dall’intestino alle vie urinarie - ed in questo senso possono favorire delle
infezioni urinarie. Noi in genere profilassiamo
i pazienti che hanno queste
caratteristiche, anche quando sono a dieta aglutinata, con terapia a cicli fissi di fermenti
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lattici da ripetere per 10-15 giorni mensili.
L’endometriosi non credo c’entri più di tanto con il discorso delle infezioni urinarie.
D.
Sono celiaca ed in quanto volontaria dell’associazione di Parma ricevo spesso segnalazioni
allarmate di genitori di bambini o adolescenti che hanno ingerito piccole o discrete
quantità di glutine e si chiedono cosa fare.
R. Dott. Volta
In questi casi di assunzione involontaria, con sintomi più o meno evidenti, a parte la
terapia sintomatica non c’è nessuna profilassi o terapia da mettere in atto sul momento
per cercare di attutire gli effetti tossici - potenziali - del glutine sulla mucosa intestinale.
Solo in casi estremi arriverei ad indicare il pronto soccorso in ospedale.
R. Prof. Banchini
Nei bambini, possiamo tranquillizzare quanto all’assunzione occasionale e involontaria quello che preoccupa è casomai l’assunzione volontaria.
D.
Chi si occupa di istruire sulla celiachia gli insegnanti ed il personale che ha a che fare con
le mense delle scuole? sono per esempio tenuti a fare dei corsi? e chi li organizza?
R. Marcella Mastropietro
E’ un problema molto sentito, e naturalmente bisogna tenere presente che il primo
insegnante è sempre e comunque il genitore, perché il rapporto personale sensibilizza
l’insegnante. Dal momento che ogni comune ha il suo modo di gestire la formazione degli
insegnanti e del personale che sta nelle mense e in cucina, non credo di poter dare
termini - a livello regionale - dei tempi in cui potremo raggiungere questo tipo di
formazione. Però è vero che un insegnante che ha avuto un genitore che l’ha seguito e l’ha
formato, se ha avuto la prima esperienza con un bambino celiaco, è poi in grado di
riconoscere, aiutare e seguire meglio un altro bambino che verrà dopo di lui. Resta quindi
fondamentale il lavoro che deve fare il genitore.
D.
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La nonna è celiaca, la figlia - medico - per tutelare a sua volta la propria figlia evitandole
gli esami anticorpi e antitransglutaminasi pensa di fare il test su di sé ed anche la
genetica cosicchè se il DQ2 /DQ8 è negativo non è necessario esaminare anche la figlia
perché non può trasmettere il gene della celiachia. E’ corretto?
R. Dott.Volta
L’indagine genetica - ovvero, escludere la presenza dell’eterodimero HLA DQ2/ DQ8 toglie una buona possibilità di rischio di malattia celiaca nel paziente singolo, non nel
genitore che lo trasmetta al figlio: può saltare benissimo una o due generazioni.
D.
Sono emersi nel forum su internet tentativi forse autogestiti di desensibilizzazione al
glutine dopo 10 anni di dieta - come dire: introduzioni di gliadine limitate nell’arco di sei
mesi per vedere il responso di questi soggetti che risultano quasi guariti.
R. Dott.Volta
Quei casi riportati da un lavoro pubblicato dalla scuola della Cattolica si riferivano a 3-4
pazienti seguiti per un follow-up di tempo non sufficientemente lungo per valutare la
presenza di una ricaduta. Io credo che la strada della desensibilizzazione - meccanismo
totalmente diverso, che si può applicare a patologie allergiche - non abbia dal punto di
vista scientifico nessuna prospettiva nella malattia celiaca.
D.
Ho una domanda che riguarda il discorso delle mense scolastiche. Mia figlia va a scuola a
Cesena ma il servizio di mensa è un servizio di catering esterno alla scuola. Ho cercato di
seguire l’iter di questa azienda che gestisce la mensa scolastica, ma in quanto genitore
non ho la possibilità di accedere alle cucine, né parlare con i cuochi del servizio di
catering. Che strada posso percorrere, per avere informazioni e poter garantire a mia
figlia che mangi correttamente?
R. Gino Venturelli
L’associazione certamente è un valido supporto - per esempio i referenti provinciali - ma
si può arrivare anche ad un livello istituzionale perché venga segnalato il problema:
giacchè è un diritto ricevere risposte da chi fornisce il servizio.
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Rispetto al discorso scolastico, vorrei sottolineare che l’associazione è estremamente
sensibile - nella celiachia il soggetto minorenne è l’anello debole della catena. Già 4-5
anni fa era partito un progetto-scuola che coinvolgeva circa 90 scuole - fra elementari e
medie - in tutta l’Emilia Romagna in cui è stata fatta educazione alla celiachia: sulla base
di questa esperienza in diverse realtà - da Parma a Piacenza a Modena - si fanno attività
di educazione alla celiachia nelle scuole, grazie alla sensibilità dei volontari e soprattutto
anche dei genitori che segnalano il problema. Da parte delle scuole abbiamo sempre avuto
risposte positive e disponibilità ad affrontare questo argomento.
R. Dott.ssa Accorsi
Volevo aggiungere che se si tratta di un’azienda di catering piuttosto grande può fare
riferimento anche al personale dietistico - che solo le strutture un po’ organizzate hanno,
e che ha l’obbligo di garantire le diete specifiche per persone con diverse problematiche
alimentari.
R. Marcella Mastropietro
In queste cose naturalmente si può affiancare l’associazione, perché i consiglieri
provinciali referenti accolgono sempre queste sollecitazioni. E dunque è bene individuare
la persona - all’interno degli uffici comunali - che segue il servizio di mensa scolastica: sia
per quanto riguarda la mensa interna sia il catering, infatti il comune - oggi addirittura
in forza della legge nazionale sulla celiachia approvata a luglio del 2005 - è tenuto a
garantire un servizio senza glutine.
D.
Sono stata diagnosticata celiaca 4 anni fa mentre ero in gravidanza ed ho allattato mia
figlia per 13 mesi. A che età sarebbe opportuno farle gli esami anche se finora cresce
bene?
R. Dott. Amarri
Se non ci sono sintomi, in media noi consigliamo almeno 6 mesi dopo l’inizio di una dieta
con glutine.
D.
Mi ha colpito molto il discorso della Dott.Martinelli riguardo l’approccio dei bambini alla
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malattia, e in particolare mi interesserebbe capire la strategia della famiglia nel caso di
un bambino con una celiachia asintomanica - per il quale quindi la dieta diventa un peso
enorme rispetto ad una situazione in cui la malattia non si manifesta. Come fare? se il
bambino ragiona sul presente, è difficile fargli capire l’utilità della soluzione ad un
problema che lui nell’immediato non vede.
R. Dott.ssa Martinelli
Nonostante la difficoltà nel caso del bambino appunto, la soluzione credo sia un po’ anche
in quello che si diceva prima: abituarlo sempre di più a mangiare cibi naturalmente senza
glutine. Questo con l’aiuto della famiglia naturalmente: perché un cambiamento
alimentare - il che vale non solo per la celiachia, ma per qualsiasi cambiamento al tipo di
alimentazione che sia necessario per il benessere personale - è impensabile che riguardi
solo il bambino piccolo. Certamente il bambino va poi costantemente informato - tanto
quanto l’adulto - e la sua alimentazione non deve diventare un punto di differenza, ma
anzi deve poterne parlare. Come deve, ad esempio, poter essere orgoglioso degli obiettivi
raggiunti per la sua salute – e questo lo si ottiene dandogli traguardi precisi e piccoli, non
a lunga scadenza.
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INDICE
1. CELIACHIA:LA RISPOSTA IN 5 MINUTI Dott. Enzo Bravi – Eurospital………..pag.2
2. IL TRATTAMENTO DELLA CELIACHIA NELLA SOCIETA’ DIFFERENZIATA PER
FUNZIONI. PROBLEMI E PROSPETTIVE
Manola Di Nella - Tesi di laurea in
sociologia……………………………………………………………………………………..……pag.8
3. ACCETTAZIONE DELLA DIAGNOSI E STRATEGIE PER MIGLIORARE LA
PROPRIA QUALITA’ DI VITA Dott.ssa Franca Martinelli - Psicologa Unità operativa di
psicologia
clinica,
Dipartimento
di
salute
mentale,
coordinamento
A.S.L.-
ospedale………………………………………………………………………………………….pag.11
4. CRITERI MINIMI PER LA DIAGNOSI DI CELIACHIA:STOP ALLE DIAGNOSI
“FASULLE”.
LUCI
ED
OMBRE
PROSPETTIVE TERAPEUTICHE
DELLA
DIETA
AGLUTINATA.
NUOVE
Dott. Umberto Volta - Dipartimento di Medicina,
Universittà di Bologna - Policlinico “S.Orsola Malpighi”, consulente scientifico
A.I.C………………………………………………………………………………………………pag.18
5. DIABETE E CELIACHIA Dott. Valerio Miselli - Primario di Diabetologia , Malattie
Metaboliche e Nutrizione Clinica, A.S.L. di Reggio Emilia, Presidio Ospedaliero di
Scandiano………………….…………………………………………………………………….pag.23
6. PROTOTIPO DI REGISTRO DI PATOLOGIA DELLA MALATTIA CELIACA IN
REGIONE EMILIA ROMAGNA Dott. Sergio Amarri - Direttore U.O. Pediatria della
A.S.L. di Ravenna, Medico pediatra, consulente scientifico A.I.C..……………….……pag.29
7. DIBATTITO FINALE……………………………………………………………………....pag.38
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Atti Assemblea Regionale 2006 - Associazione Italiana Celiachia