ASSEMBLEA REGIONALE A.I.C. ATTI REGGIO EMILIA 01/04/2006 Trascrizione a cura di Valentina Guarini 1. CELIACHIA: LA RISPOSTA IN 5 MINUTI Dott. Enzo Bravi – Eurospital Innanzitutto vorrei ringraziare l’Associazione Italiana Celiachia - sezione Emilia Romagna - per l’invito e per l’opportunità di partecipare a questo incontro. Oggi sono qui per illustrare da un punto di vista tecnico una delle ultime innovazioni che Eurospital ha proposto. Da sempre Eurospital si occupa di diagnosi sierologica di celiachia e siamo contenti di poter portare prodotti nuovi che contribuiscono a migliorare il percorso diagnostico. Il prodotto di cui vi parlerò è un test rapido che è disponibile con due marchi (ma è comunque lo stesso prodotto): Eu-tTG Quick (in confezioni da 20) - si rivolge allo studio professionale quindi al laboratorio di analisi, ai pediatri, ai gastroenterologi, a tutti quelli che esplicano attività professionale; Xeliac Test (in confezione da 1 test) - è disponibile in farmacia, quindi per diagnosi domiciliare. Questo test, innovativo anche in termini di semplicità e affidabilità, è il primo test rapido su sangue intero oggi disponibile. Il principio su cui si basa è la presenza della transglutaminasi nella membrana dei globuli rossi, la quale viene lisata ed espone l’antigene agli anticorpi presenti nel siero: pertanto non è più necessario fare un prelievo di siero per la determinazione degli anticorpi antitransglutaminasi. La rapidità è una questione essenziale in questo tipo di test, perchè non si può pensare di avere la risposta dopo mezz’ora o un’ora. Il test si esegue su una goccia di sangue capillare che si preleva dal dito, dal polpastrello, come se si trattasse di un test per la glicemia, e permette la determinazione degli anticorpi antitransglutaminasi di classe IgA esclusivamente non IgG. La determinazione degli anticorpi antitransglutaminasi è, come sapete, ormai da circa dieci anni a questa parte, il test di riferimento sierologico. Come ho anticipato la goccia di sangue prelevata viene messa in una provetta capillare, contenente un diluente che consente la lisi dei globuli rossi quindi l’esposizione della transglutaminasi e la conseguente reazione antigene-anticorpo. Il complesso antigene2 anticorpo viene poi rilevato, per mezzo di un processo immunocromatografico, su stick. Quali sono le specifiche del test? Intanto di esecuzione: ci vogliono al massimo 1-2 minuti per attuare le fasi operative, ovvero fare uscire una goccia di sangue, aspirarla con il capillare e quindi inserire il capillare nella provetta con il diluente. Il tempo di lettura per vedere se il test è positivo o negativo è di 5 minuti. E’ importante fare attenzione che la lettura non ecceda i 10 minuti perché oltre questo lasso di tempo la fase solida può avere delle interferenze dovute al tipo di test. Come ho già detto ci sono due confezioni, una per uso professionale da 20 test ed una per uso domiciliare da 1 test. Nel kit, qualunque esso sia, è presente tutto il necessario per eseguire il test: lo stick dove avviene la reazione, il diluente dove metteremo il capillare, il capillare dove metteremo la goccia di sangue e ovviamente la lancetta per eseguire il prelievo sul sangue. Il prelievo del sangue è praticamente indolore. E’ importante sapere che il test si conserva, sia per uso professionale sia domiciliare, a temperatura ambiente. Quanto alle caratteristiche del test in termini di sensibilità e specificità, questi sono i valori riportati nelle istruzioni per l’uso del prodotto e che si riferiscono ad uno studio effettuato in due centri di riferimento, uno in Italia ed uno in Finlandia: sensibilità 96, 2% specificità 90 % Vorrei sottolineare come la sensibilità sia paragonabile a quella dei normali test eseguiti in laboratorio e come questa, com’è ovvio dal momento che si tratta di un test di primo livello (questo è importante), sia stata privilegiata rispetto alla specificità (si può avere qualche falso positivo). Come avviene il test? La procedura è estremamente semplice: nella confezione vi è una lancetta pungidito, si preme il cappuccio, si ruota per attivarlo dopodichè si appoggia l’estremità della lancetta contro il polpastrello e si fa scattare la lancetta. La fase operativa vera e propria si compone delle seguenti fasi: si tratta di porre il capillare a contatto con la goccia di sangue, che è il momento più importante secondo me: bisogna premere abbastanza affinchè venga fuori una goccia consistente perché, anche se si ha a che fare con una quantità di sangue infinitesimale 3 come 10 microlitri, è bene che la goccia sia abbondante; una volta riempito il capillare lo si pone all’interno della provetta tubo con il diluente e si chiude il tutto. A questo punto è importante anche agitare la provetta che contiene il capillare in modo che il sangue si mescoli con il diluente, perché deve avvenire la reazione di lisi di cui vi ho parlato: si capisce che questo è avvenuto semplicemente perché il capillare diventa trasparente una volta che il sangue fluisce all’interno del diluente; infine si prende lo stick, si inserisce all’interno della provetta e si attende che trascorrano 5 minuti di orologio. Come si legge il test? Lo stick si presenta con una parte superiore celeste o blu scura: la parte contraddistinta dalle freccette è quella che deve essere immersa nel tubo con il diluente (la quantità del diluente è tarata in modo tale da non superare la linea orizzontale blu); poi abbiamo la parte dove si legge il test, che per essere valido deve sempre dare la linea rossa superiore: questa garantisce che il test ha funzionato, è infatti il controllo negativo. Dopodichè, se compare una linea rossa al di sotto, qualsiasi sia l’intensità della reazione (non esiste un più o meno positivo), il test dev’essere interpretato come positivo. In genere quando compaiono due linee significa che il test è positivo. Si tratta dunque di una procedura rapida, i dati della quale ci garantiscono l’affidabilità, nonché di un test conveniente dal punto di vista dell’ esecuzione in generale, poiché il tempo operativo è minimo rispetto ai passaggi normali (qui sono due soltanto) e l’interpretazione del test è semplice ed immediata. A questo proposito, trattandosi di un test introdotto da poco tempo, è chiaro che, in caso di dubbi sull’interpretazione, è consigliabile farsi aiutare, far vedere il test a qualcuno che abbia esperienza e che possa supportare nella decisione. Vorrei infine ribadire che si tratta di un test di primo livello e dunque: un test non fa diagnosi bensì dà un risultato. Il risultato dev’essere poi interpretato da chi si occupa di questa patologia: che sia lo specialista, il centro di riferimento o il medico di fiducia non importa, ma ciò che conta è che l’interpretazione venga fatta da una persona con competenza. Non è un test che dice “io sono celiaco”, è un test che dà un’indicazione importante, una possibilità, e quindi è di aiuto: per prassi, come tutti i test di laboratorio, 4 se positivo va sempre ripetuto e confermato. Da parte nostra, continuiamo a testare questo prodotto anche in altri centri al di fuori dell’Italia, dove sono in atto studi su centinaia (o addirittura migliaia) di pazienti che confermano i dati che vi ho appena illustrato. Marcella Mastropietro Ringrazio moltissimo il Dott.Bravi perché credo abbia spiegato perfettamente come va eseguito questo test. Anche se la maggior parte delle persone in sala sanno cos’è la celiachia e cosa vuol dire fare una dieta senza glutine, vorrei ribadire, come già detto dal Dott.Bravi, che l’importante è che questo test non venga preso come un test definitivo e soprattutto che a nessuno che ha avuto un risultato positivo venga in mente di mettersi a dieta senza glutine: il che si tradurrebbe in un annullamento della possibilità di fare una diagnosi vera e completa. E’ importantissimo quindi che chiunque faccia il test, più o meno competente che sia, con questo primo risultato si rivolga alle figure mediche giuste, agli specialisti quali il pediatra o il gastroenterologo, cosìcchè venga preso in esame e venga completato il percorso di diagnosi della celiachia prima di aver preso qualsiasi decisione rispetto al tipo di alimentazione. Mettersi a dieta senza glutine significa ricominciare a far lavorare correttamente il corpo, ripristinare l’integrità della mucosa intestinale e quindi di fatto risultare negativi nel tempo ad un test specifico di celiachia. Dott. Umberto Volta – Dipartimento di Medicina, Universittà di Bologna - Policlinico “S.Orsola Malpighi”, consulente scientifico A.I.C. Il test è valido, lo abbiamo provato nel nostro laboratorio, anche se su una casistica molto limitata rispetto ai dati finlandesi o di altri gruppi, e funziona sicuramente. Le uniche perplessità nascevano dal fatto dell’eseguirlo a domicilio, ossia fai da te. Si è arrivati ad un compromesso con l’ Eurospital, partendo dall’idea che questo test dovesse essere eseguito da medici, farmacisti o da personale tecnico di laboratorio, e si è perciò aggiunta la raccomandazione, ad opera della A.I.C., che in ogni caso in cui risulti dubbio nella sua lettura, anche questo primo test sia ripetuto con l’aiuto di un medico, un farmacista o personale tecnico di laboratorio. Lo scopo è naturalmente di evitare che il test risulti negativo per un errore tecnico di procedura: una metodica semplice senz’altro, ma che 5 richiede comunque un minimo di attenzione. D. In presenza di un deficit di IgA questo test funziona? R. Dott. Bravi No, fa solo le IgA . Dunque il test sarebbe sicuramente negativo. D. Dal momento che mio marito è risultato positivo un anno fa e ci hanno consigliato di far fare comunque le analisi ai nostri figli: ora questo test può rassicurarmi in caso di negatività o è comunque bene fare gli accertamenti in tempi rapidi? R. Dott. Bravi Il test è affidabile sulla sensibilità, ad ogni modo sulla diagnosi è bene affidarsi allo specialista e seguirne le indicazioni nel caso specifico. D. Nel caso di diagnosi già fatta e paziente a dieta, questo test sostituisce il controllo annuale o semestrale che il celiaco deve fare? R. Dott. Bravi Il test le dà un risultato ma il discorso del controllo della dieta è individuale. R. Dott. Volta Il fatto è che il test non dà un valore numerico, dunque non può sostituire il controllo della dieta, nel quale ciò che interessa vedere non è solo la negativizzazione del test, ma anche il calo in termini di titolo anticorpale della transglutaminasi. Ecco perchè questo test non è adatto per il follow-up. D. Vorrei chiedere qual è il costo del test e se ci sono esperienze in corso per l’estensione del test per degli screening. R. Dott. Bravi Il prezzo da listino della confezione da 20 è 480 €, sul quale Eurohospital riconosce uno 6 sconto del 25%. In farmacia la confezione singola costa 30 € iva compresa. Tranne il dato di cui ho parlato prima, che riguardava uno studio fatto su circa 2000 pazienti tra la Finlandia e l’Ungheria, non sono a conoscenza di esperienze di screening e non saprei darle esiti di tipo screening locale. Sicuramente il test, per come è configurato, ha una predisposizione per questo tipo di studi. D. A che punto è la ricerca su test rapidi su saliva? R. Dott. Bravi A gennaio c’è stato a Trieste un convegno organizzato dal Prof. Ventura sulla saliva. Sono emersi dati contrastanti: le esperienze pubblicate dicono che gli anticorpi antitransglutaminasi si trovano nella saliva, a Trieste hanno invece detto che la saliva in questo momento non è ancora un valido substrato. E questo prevalentemente, suppongo, per due motivi, ovvero per la questione della composizione della saliva e della sua maggiore o minore densità e poi perché in questo momento ci sono pochissimi studi su questo tipo di campione. R. Dott.Volta Solo una precisazione: l’unico studio che riporta risultati validi per la ricerca degli anticorpi antitransglutaminasi su saliva è quello di Margherita Bonamico, basato sul metodo radioimmunologico. Va subito sottolineato che tale studio non ha avuto conferme da altri lavori (ed infatti alla Bonamico era stato proposto anche dall’ A.I.C. di fare uno studio policentrico sull’argomento). Gli altri test su saliva, nonostante le aspettative in termini diagnostici, sono stati tutti abbastanza deludenti. Per il momento pertanto non è assolutamente proponibile un test diagnsotico su saliva. 7 2. IL TRATTAMENTO DELLA CELIACHIA NELLA SOCIETA’ DIFFERENZIATA PER FUNZIONI. PROBLEMI E PROSPETTIVE Manola Di Nella - Tesi di laurea in sociologia Ringrazio il nostro presidente Gino Venturelli e l’associazione per la posssibilità di dare il mio contributo in occasione di questo incontro. Ho ricevuto la diagnosi di celiachia nel febbraio 2003 e, dovendo scegliere proprio in quel periodo l’argomento della mia tesi di laurea, ho sentito la necessità di approfondire la questione celiachia da un punto di vista sociologico. Inizierei ricordando la più recente legge sulla celiachia, de Luglio 2005, che ha portato un cambiamento nella definizione di tale patologia: non si parla più di malattia rara bensì di malattia sociale. Un dato importante questo, ad indicare la maggiore diffusione della patologia. Se si attesta la frequenza di 1 celiaco su 100-150 abitanti, anche molti paesi per anni considerati immuni da tale patologia, per esempio la Danimarca che sembrava presentare 1 caso su 8000-10000 abitanti, in seguito a ricerche e studi ulteriori hanno dovuto rilevare la presenza più marcata del fenomeno: la ragione dell’aumento di diagnosi di celiachia è legata alla constatazione di una natura multisintomatica della patologia, cioè al fatto che essa presenti un’ampia varietà di manifestazioni e non soltanto i sintomi riconosciuti come tipici vent’anni fa. Attualmente si attesta una presenza della patologia omogenea in quasi tutti i paesi. La problematica centrale della mia tesi riguarda il paradigma salute-malattia nell’attuale differenziazione della società. Per differenziazione si intende la struttura della società moderna facendo riferimento all’esponente più autorevole del pensiero sociologico contemporaneo che è Niklas Luhmann, la cui teoria dei sistemi fornisce il quadro più lucido della società moderna: con la modernità, o differenziazione funzionale, non è più possibile collocare l’individuo in uno specifico sottosistema o gruppo. Si sottolinea pertanto la flessibilità acquisita dagli individui e la possibilità di accedere a tutti gli ambiti della sfera umana, dal politico al medico-sanitario all’economico ecc, e dunque si parla di una uguaglianza postulata dalla società moderna. In realtà persone che vivono determinate problematiche, come la celiachia, hanno nel concreto delle limitazioni nella 8 possibilità di accesso a tutti gli ambiti e settori (un esempio tipico è quello dei ristoranti dove poter mangiare). Vi sono dunque realtà come la A.I.C. che, partendo dall’importanza della salute in quanto espressione di sé e del proprio equilibrio psicofisico, ci permettono di mostrare la nostra specificità. Il problema è la distanza che sembra esserci tra il piano emergente del sociale e quello dell’esperienza umana: come se la società stessa non fosse in grado di rispondere alle esigenze di tutti gli individui. Ecco perché il punto da cui partire, e dunque la prospettiva che porto avanti, è quella dell’individuo inteso in tutta la sua persona, con tutta la sua storia: il concetto importante è quello di unità mente-corpo. Mentre la società formalmente tiene conto di tutti, sostanzialmente tende a rimuovere le differenze. Nel caso particolare della “diversità” del celiaco, vediamo come il sistema immunitario del celiaco metta in atto la propria difesa, elimini cioè il glutine, scelga fra altri tipi di cereali e si garantisca così la salute: perché dunque continuare a provare un senso di inadeguatezza? perché vivere o vedere la diversità in termini negativi? Se consideriamo al centro l’unità mente-corpo, dobbiamo smascherare il tentativo del sociale di far interpretare il parametro dell’uniformità come normalità. Il problema è molto delicato da trattare, anche perché ci rendiamo conto dell’alto valore simbolico che il cibo ha ed ha sempre avuto: emblema della cultura di un determinato popolo, strumentale nel rafforzare il sentimento di appartenenza. Il suo valore sociale e comunicativo è legato all’idea di condivisione dei pasti ed è implicito nel concetto stesso di “convivio”, dal latino “vivere con”: il mangiare insieme trascende perciò il gesto nutrizionale di per sé e diventa un fatto culturale. Ecco perché la tendenza ad uniformare piuttosto che a valorizzare le differenze, le peculiarità del singolo, impedisce che il momento conviviale sia motivo di confronto e integrazione e fa sì che la patologia sia piuttosto intesa come un discostarsi pericolosamente dalla norma. Un esempio: il rifiuto degli altri di assaggiare cibi senza glutine. Un riferimento va fatto, a conclusione del discorso, alla recente notizia (pubblicata dall’A.N.S.A. il 25 Marzo scorso) sulla messa a punto, che non è un’utopia e tuttavia è ancora da sperimentare, di una pillola per i celiaci che possa diventare un’ alternativa alla dieta senza glutine. Il rischio dell’accettare una pillola come soluzione è pur sempre quello del voler vedere ancora una volta mascherata o nascosta la propria identità 9 adattandoci alla spinta uniformante della società. E’ importante invece che le istituzioni, le associazioni e le ditte produttrici di alimenti senza glutine, continuino a migliorare ed offrire i loro servizi ai celiaci: affinché, di fronte all’introduzione della pillola da una parte, dall’altra rimanga la possibilità di scegliere la strada della dieta senza glutine. Il che significa, a mio parere, scegliere la strada dell’accettazione di se stessi, della propria identità e specificità. 10 3. ACCETTAZIONE DELLA DIAGNOSI E STRATEGIE PER MIGLIORARE LA PROPRIA QUALITA’ DI VITA Dott.ssa Franca Martinelli - Psicologa Unità operativa di psicologia clinica, Dipartimento di salute mentale, coordinamento A.S.L.- ospedale La celiachia è una malattia complicata poichè tocca tre fasce d’età che dal punto di vista psicologico hanno tre funzionamenti mentali completamente diversi. La malattia comporta sia alterazioni di tipo biologico sia reazioni di tipo psicologico: modifica -questo vale per l’ adulto- il modo di guardare la realtà, di stare nel mondo e di pensare a se stessi. L’adulto ha una sua struttura mentale e suoi punti di forza, ha un modo di guardare la sua realtà poiché in parte l’ha costruita; l’adolescente non ha modo perché ancora la deve costruire. Parleremo dopo del bambino, che è il caso più difficile. Quello che il cambiamento provoca nell’adulto, ovvero il caos emotivo che manda in crisi la sua stabilità, è nell’adolescente, che dal punto di vista emozionale è ancora precario, tanto più disastroso, e va a gravare sulla sua situazione fisiologica. L’impatto con la diagnosi scatena reazioni psicologiche quali emozioni, sensazioni, fantasie, nonché un bisogno di sapere e di capire, poiché rimette in discussione -qui mi ricollego al discorso fatto dalla collega prima di me- l’identità personale che è: “quello che io penso di me e quello che gli altri pensano di me”. Si tratta di difendere, in una società che vorrebbe tutti uguali e tutti perfettamente sani, la propria individualità e progettualità di vita. Per contenere un problema, in altre parole, siamo portati a dover cambiare determinati comportamenti e quello che non sappiamo è quanto questo inciderà rispetto ai nostri progetti di vita. L’ammalarsi può trasformarsi in una situazione di deprivazione, dolore e frustrazione. Cosa ci viene tolto? La possibilità, innanzitutto, di continuare a fare quello che stiamo facendo e che abbiamo cominciato a costruire. Poi, il senso di benessere e la sensazione di sentirci come gli altri. Questi ultimi due sono elementi fondamentali per gli adulti, ma estremamente indispensabili per gli adolescenti, per i quali il fatto di acquisire sicurezza 11 in sé, passa attraverso il sentirsi uguali ai coetanei: così, mentre l’adulto può gestire e sopportare meglio la sua diversità, per l’adolescente l’adeguamento ai pari è uno strumento indispensabile per recuperare la propria sicurezza e procedere nel riconoscimento di se stessi. Il dolore è dolore fisico ed anche psicologico. Frustrazione è avere dei desideri e non riuscire a realizzarli: dunque ha a che fare con le abitudini, con il poter scegliere o meno quello che si mangia. Vorrei far presente che si tratta di situazioni non psicopatologiche bensì situazioni normali, cioè vissute normalmente, reazioni fisiologiche dovute a eventi della vita, reazioni che il nostro sistema psichico utilizza per rispondere a qualcosa da cui è stato toccato. Se poi la malattia assume un carattere cronico gli aspetti emozionali possono influire sul suo andamento a seconda della particolare modalità di rapportarsi ad essa. Già l’impatto con una diagnosi significa riconoscere “ho qualcosa che non va, sono malato, non sono come gli altri”, il che comporta pensare di andare dal medico per avere la cura e dunque risolverla, che è anche un modo passivo. L’impatto con la malattia cronica vuol dire immaginarci che per tutta la vita noi dovremo avere dei comportamenti o fare delle terapie, il che implica come fatto fondamentale la nostra partecipazione nella cura, l’essere attivi nella cura: la riuscita dipende da quanto io sono amico/nemico della malattia, quanto posso integrarla nella mia modalità di vita, quanto mi permette di continuare ad essere quello che sono e continuare a fare quello che ho sempre fatto. Il vissuto può dipendere dall’entità dell’evento morboso, dall’equilibrio psicologico che ciascun soggetto – l’adolescente è quello più a rischio-aveva già raggiunto in quel momento, dai fattori ambientali, ossia quanto la società in cui viviamo ci permette di stare in questa condizione senza farci sentire diversi, dalla famiglia, dalle persone vicine. E voglio sottolineare l’importanza di quest’ultimo aspetto perché nella maggior parte dei casi noi tendiamo a nascondere la malattia, non ne parliamo. Tutte le empasse che ho visto nel mio lavoro clinico, ossia adulti arrivati ad avere complicanze di patologie croniche, derivano dal non aver mai condiviso con gli altri la malattia. Comunicare un disagio serve affinchè io mi senta tranquillo: non deve essere l’opposto, ovvero non ci si deve sentire tranquilli perché non si è comunicato, perché gli altri non sanno del nostro 12 disagio. La cosa fondamentale è partire dalla diagnosi. La prima volta in cui veniamo messi in relazione con la malattia, già cominciamo a strutturare un rapporto mentale ed emotivo con essa. E per questo non ci sono ricette, perché dipende da tanti fattori, come la struttura di personalità- qui cambia molto a seconda che si tratti di bambino, adolescente o adulto- ed il suo sistema difensivo, ovvero i meccanismi messi in atto per ritrovare un equilibrio mentale, che significa non farci distruggere dalle emozioni. Alcuni di questi meccanismi difensivi che noi mettiamo in atto, e che è importante riconoscere perché sono anche l’espressione delle nostre paure, sono: la regressione, che di per sé non è necessariamente patologica purchè non mantenuta nel tempo: significa strutturare dei comportamenti che ci riportano a quelli che avevamo quando eravamo bambini, ovvero ad una posizione infantile di passività e di negligenza; la formazione reattiva, che è l’inverso, e porta alla sfida, alla trasgressione, alla guerra alla malattia (molto utilizzato dagli adolescenti), come a dire “faccio questo per vedere se io sono più forte della malattia”; la negazione, che se rimane e non ci si lavora sopra è il meccanismo più pericoloso (anche per gli adulti): significa fare come se nulla fosse, non avere nessun tipo di comportamento che abbia a che vedere con la malattia. Diversi sono perciò i significati che ciascuno può attribuire alla malattia: nemico, sfida, punizione (questo molto frequente nella nostra cultura in particolare), debolezza che intacca il nostro senso di integrità; per alcuni addirittura- ed è pericolosissimo- sollievo, in quanto permette di metterci in una posizione regressiva, oppure strategia per strutturare dei propri cambiamenti, o infine perdita. Mentre il test medico pone tutti sullo stesso piano poiché l’esito permette di sistemare ciascuno in una categoria, quando noi parliamo di emotività abbiamo invece a che fare con qualcosa che è diverso per ciascuno di noi, così come è diversa la modalità di fare i conti con la propria vulnerabilità emotiva. Una prima differenza è legata al sesso: mentre la donna di fronte alla propria vulnerabilità emotiva ha bisogno di capire perché sta male, ha bisogno di fermarsi e parlare (quindi in un certo senso è agevolata perché può portare il suo dolore emotivo), l’uomo normalmente fa i conti con la propria vulnerabilità emotiva utilizzando l’azione 13 (per esempio lo sport). Questo è il patrimonio emotivo con cui possiamo fare i conti appena parte la diagnosi e durante un percorso diagnostico che non è necessariamente breve: spesso si arriva infatti già vulnerabili alla diagnosi e si provano emozioni come disperazione e passività, agitazione, scoraggiamento, impotenza, debolezza, apatia, senso di inutilità, negazione, aggressività, rifiuto degli altri, perdita di progettualità. Queste sono reazioni che, laddove non elaborate ovvero senza dar loro un nome e trovare una strada, possono portare all’isolamento, al sentirci più malati di quello che non siamo. Oggi la salute non è assenza di sintomi ma è buona qualità di vita. Indagare il mondo emotivo è ciò che permette all’adolescente e all’adulto di capire cosa ci impedisce di fare quello che ci fa stare bene, che vuol dire: ci è stato detto quello che dobbiamo fare ma non lo facciamo. Le strategie cliniche che vengono utilizzate nella rieducazione -per le malattie croniche non si parla infatti di terapie psicologiche- sono proprio quelle che utilizzano il lavoro cognitivo: darsi dei piccoli obiettivi e poi cercare di analizzare il perché non si sono raggiunti, il che sta nel mondo emotivo. E’ importante l’ambiente culturale, nel senso che i medici possono rinforzare il comportamento e l’andamento della malattia e la modalità con cui i sintomi vengono riferiti. I sintomi fisici o il parlare delle difficoltà sono un filtro preferenziale nella relazione con il medico e possono determinare una tendenza alla negazione del disagio psichico, o meglio emotivo: il che è un canale determinante nel trovare una modalità di adattamento alla malattia, ed è un canale nel sostenere l’individuo in tutto il percorso di cura e nel cambiamento. Per l’essere umano, per natura - inoltre noi viviamo in una cultura nazionale o locale per cui non siamo così aperti al cambiamento come società, ma questo viene dopo- il cambiamento è la cosa più difficile: meglio una situazione anche non sana, che però conosciamo, piuttosto che una situazione che ci dicono che può essere migliore ma che noi non conosciamo. Perché ciò che conosciamo ci dà delle sicurezze, anche se non è buono, il cattivo pensiamo di poterlo gestire: dunque il cambiamento mette in atto questo, ovvero il dover accettare qualcosa che non si conosce, partire all’oscuro. E’ il mondo emotivo della persona che ci permette di capire cosa è entrato in crisi, con quale modalità la persona risponde o si difende dalla ferita procurata dalla malattia. Per fare questo non è sempre indispensabile la figura dello psicologo: il mondo emotivo delle 14 persone passa nella famiglia, passa nei rapporti sociali, passa nei rapporti con i medici che si occupano di noi. Tutte queste sono occasioni in cui possiamo esprimere qualcosa: ogni relazione di fiducia che noi abbiamo può essere un’occasione per parlare del proprio mondo emotivo. Riconoscere il proprio mondo emotivo e comunicarlo significa poter metter in atto quelle strategie che possono garantire una buona qualità di vita nonostante la malattia, per contrastare quei meccanismi difensivi che ostacolano il cambiamento. Che cosa vuol dire buona qualità di vita? Avere la possibilità di viversi prima come persona (individuo e persona appartenente ad un sesso), poi come essere sociale, e dunque avere la possibilità di fare progetti di vita: attingere da tutti questi aspetti della propria vita significa vivere bene e in equilibrio. Il che si può fare anche avendo una patologia. Per quanto riguarda l’evoluzione delle reazioni e l’insorgenza della malattia, vi sono tre fasi che variano per durata e intensità a seconda delle persone. In queste tre fasi guardiamo anche alle differenze fra bambino, adolescente e adulto: periodo dello shock iniziale. Anche quando parliamo dei bambini, tutto ciò che si è detto va riferito sempre all’adulto, ovvero alla famiglia che lo circonda: lo spazio emotivo su cui lavorare è quello della famiglia, che deve trovare le regole e la sicurezza da dare quotidianamente al bambino e che il bambino, che in quella fase non ragiona in maniera astratta ma più imitativa, apprenderà molto facilmente. L’adolescente, che è già fragile, avrà un vissuto molto diverso perché non riuscirà ad immaginarsi: e soprattutto, non avendo alle spalle- come l’adulto- tutta una serie di shock e la capacità di vedere che si può stare male ma anche riprendersi, mancherà di esperienza e di elementi contenitivi (nell’adolescente le emozioni, quando arrivano, dilagano) e avrà una grande difficoltà a mettersi in relazione, quindi a parlare del proprio mondo emotivo –cominciare a mettere ordine nello shock iniziale diventa difficile soprattutto con loro, perché scappano; lotta contro la malattia; riorganizzazione ed accettazione della malattia, che passa attraverso dei grossi e difficili cambiamenti. Vorrei a questo punto sottolineare come nel rapporto con il cibo non ci sia solo l’aspetto 15 della “convivialità”, la possibilità di stare con gli altri e uscire, ma anche la nostra matrice del rapporto con dolore/piacere: al cibo, soprattutto per le donne, è legata la possibilità di sedare lo stare male e dunque la libertà di poter avere in qualsiasi momento una medicina per un dolore emotivo. Mi fermerei qui perché per quanto riguarda l’adolescente si aprirebbe un capitolo a parte. Mi preme però in proposito ricordare come per prima cosa sia necessario strutturare una buona relazione: nel senso che la relazione degli adolescenti con le malattie del corpo e con i medici è diversa da quella degli adulti;in secondo luogo, è necessario sostenere la famiglia anche rispetto all’adolescente, e non necessariamente trattarlo - per noi oggi l’adolescenza va dai 14-15 ai 24-25 anni - come un adulto: non bisogna mai dimenticarsi della presenza della famiglia nel rapporto con la malattia, ma a maggior ragione se il paziente è un adolescente minorenne, perché - questa la funzione fondamentale- non spaventare e non alimentare le emozioni che già ci sono, bensì contenerle, è la prima modalità. Marcella Mastropietro Ringrazio moltissimo la Dott.ssa Martinellli che credo abbia fatto - oggi - la relazione più completa ed esaustiva sentita negli ultimi anni su questi argomenti e su queste problematiche psicologiche. Potrebbe parlare probabilmente per giornate intere e noi potremmo ritrovare in ognuna delle sue parole rispecchiata, almeno in parte, un’esperienza nostra, di un nostro familiare o di un nostro amico. Questo credo infatti sia il tema forse meno soddisfatto dall’associazione che naturalmente non può risolvere tutti questi problemi. Un’idea sarebbe una formazione più specifica per noi volontari, per esempio, per poter rispondere meglio alle esigenze di cui l’associazione, mentre promuove l’azione dei medici e sostiene le nostre iniziative per quanto riguarda la ristorazione ed i progetti di gestione quotidiana, non si può tuttavia occupare: degli aspetti, appunto, che riguardano l’accettazione della malattia, e che sono, così come la dottoressa con molta completezza li ha trattati, i più difficoltosi. Una teoria che vorrei sostenere, e che sostengo da quando sono stata diagnosticata e sono presente come volontaria all’interno dell’associazione, è l’importanza - è il primo argomento che la 16 dottoressa ha trattato - del riuscire a conoscere: quanto più sappiamo della nostra patologia, di come va affrontata, tanto meglio la possiamo vivere e far vivere agli altri. Dott.ssa Martinelli Vorrei rilevare due punti importanti di cui non ho parlato ma che potrebbero rientrare come eventuali domande, ovvero: 1. quali sono gli strumenti per affrontare le problematiche psicologiche; 2. il rapporto fra la malattia ed alcuni sintomi che possono essere vissuti come psicopatologia. 17 4. CRITERI MINIMI PER LA DIAGNOSI DI CELIACHIA:STOP ALLE DIAGNOSI “FASULLE”. LUCI ED OMBRE DELLA DIETA AGLUTINATA. NUOVE PROSPETTIVE TERAPEUTICHE Dott. Umberto Volta - Dipartimento di Medicina, Universittà di Bologna - Policlinico “S.Orsola Malpighi”, consulente scientifico A.I.C. Dividerò la relazione in tre punti che sono: 1. criteri diagnostici; 2. luci e ombre della dieta aglutinata; 3. le nuove prospettive terapeutiche. 1. Che la celiachia sia un fenomeno ormai emergente in Italia e nel mondo è stato detto da più parti: sappiamo che dai 18mila casi di malattia celiaca del 1996 siamo passati ai 55mila del 2004, e le previsioni ci portano ad avere almeno 90mila diagnosi verso il 2010. Nel nostro centro, il numero di diagnosi è aumentato in maniera impressionante negli ultimi anni. Proprio in questi giorni abbiamo consegnato alla nostra direzione sanitaria un resoconto del numero di diagnosi fatte da noi nel 2005 con biopsia intestinale e con atrofia dei villi e positivià anticorpale - diagnosi classiche, come vedremo- ed il risultato è che siamo a 90 diagnosi nuove - contro le 10 diagnosi nuove nel 1980. Un trend significativo, eppure vi sono ancora poche diagnosi, come dicevamo, come pure sussistono ritardi diagnostici e, soprattutto, si vedono tutti i giorni macroscopici errori diagnostici. Il punto è che abbiamo bisogno di una diagnosi sicura perchè si tratta di una malattia cronica che impone una dieta per tutta la vita. E’dunque importante fissare i criteri diagnostici -parliamo di criteri, non di clinica, non di sintomi- che sono: la biopsia duodenale nel corso di una gastroscopia, che resta indispensabile. Vorrei sottolinearlo affinchè sia il più chiaro possibile: non esiste diagnosi di celiachia se non è stata fatta una biopsia duodenale che dimostri una lesione compatibile con malattia celiaca; i due anticorpi, l’antiendomisio e l’antitransgutaminasi, che sono importantissimi ma non sono da soli diagnostici per la malattia celiaca. E le categorie entro cui far rientrare i pazienti sono quattro: 18 criteri diagnostici classici, dove rientra il 90% dei pazienti; criteri diagnostici di celiachia potenziale, dove abbiamo un 5% dei pazienti che noi diagnostichiamo; celiachia con deficit di IgA - al momento attuale i pazienti che vi rientrano sono un 3% ; atrofie isolate della mucosa intestinale, celiachie a tutti gli effetti in base ad un iter diagnostico completo, che rappresentano il 2% delle diagnosi. I criteri diagnostici classici sono, come ho detto prima, l’atrofia di mucosa e la presenza di anticorpi di classe IgA. Ma vorrei dire subito che dobbiamo dimenticarci degli anticorpi antigliadina: questi sono utili solo nel bambino piccolo al di sotto dei due anni di età. La celiachia potenziale è anch’essa una realtà importante, c’è un aumento dei linfociti intraepiteliali associato ad anticorpi o antiendomisio o antiglutaminasi di classe IgA; la lesione istologica (aumento linfociti intraepiteliali) da sola non vuol dire celiachia ma associata ad anticorpi dà una diagnosi di celiachia potenziale. Il deficit di IgA è importante anch’esso, è importante sapere che le IgA totali sieriche devono essere sotto un certo livello, ovvero inferiori a 5 mg/dl per un deficit completo di IgA; e qui sono importanti questi anticorpi di classe IgG e la presenza di mucosa piatta. Nei casi in cui è presente atrofia dei villi intestinali con negatività anticorpale (unico criterio diagnostico nel 2% dei casi) è obbligatoria una seconda biopsia intestinale dopo almeno 12 mesi di dieta senza glutine che documenti la ricrescita dei villi per confermare la diagnosi di malattia celiaca. E’ dunque necessario essere in una di queste quattro categorie come criteri diagnostici altrimenti la diagnosi va rivista e rivalutata da parte di uno specialista. Alcuni esempi di criteri insufficientì: se abbiamo per es. un aumento isolato dei linfociti intraepitelialiquella che chiamiamo in termini tecnici Marsh 1 /Marsh 2 con iperplasia anche delle cripte- non abbiamo una lesione specifica di celiachia, perché la troviamo anche nell’allergia alimentare, nel colon irritabile, nelle infezioni intestinali, nelle forme di colite ulcerosa, in molte patologie autoimmuni. Altra possibilità: il 2% dei pazienti osservati quest’anno avevano un positività per anticorpi antiendomisio e antitransglutaminasi con una mucosa completamente normale, un grado 0 -inferiore a 25 linfociti ogni 100 cellule- e dunque cosa fare con questi pazienti? Si seguono nel tempo e si sta a vedere cosa succede perché non abbiamo nessun dato che orienti verso una diagnosi 19 di celiachia, spesso sono asintomatici. Altro dato importante è quello delle diagnosi fasulle, basate su anticorpi antitransglutaminasi di classe IgG con mucosa normale o sulla presenza del solo HLA-DQ2 o -DQ8; la genetica è importante per escludere la diagnosi di celiachia quando non è presente né il -DQ2 o -DQ8 ma non è certo un test diagnostico, in quanto il 30% della popolazione generale sana ha lo stesso pattern gentico dei celiaci. S può avere anche una presunta intolleranza al glutine sul piano clinico, che è in realtà è spesso un’allergia al grano, per la quale non disponiamo purtroppo di test sensibili e specifici. Vorrei soffermarmi sul trattamento della celiachia potenziale. Quella che riporto è un po’ una linea di pensiero che si sta affermando nel mondo scientifico, cioè quella di trattare i pazienti con celiacia potenziale sintomatica, cioè che hanno anemia, aborti ricorrenti, epilessia, atassia cerebellare, ipertransaminasemia, malassorbimento o altri sintomi importanti di malattia, con una dieta aglutinata immediatamente, poiché non ha senso aspettare. E’ altrettanto chiaro che se ci troviamo di fronte ad una forma potenziale del tutto asintomatica, che in genere ritroviamo in parenti di soggetti celiaci, l’atteggiamento corretto è senz’altro quello di lasciarli a dieta libera e di seguirli nel tempo con un attento follow-up. 2. La dieta è senz’altro un provvedimento terapeutico miracoloso per il celiaco, anche se talvolta moto difficile da seguire in modo stretto; la dieta aglutinata porta ad una risoluzione dei sintomi intestinali ed extraintestinali, dà una remissione istologica e sierologica, previene le patologie autoimmuni -per alcune vanno fatte eccezioni, come ad esempio per la tiroidite autoimmune- ma soprattutto ha un effetto protettivo sulle complicanze neoplastiche, che, seppur raramente, possono colpire il celiaco, soprattutto nei casi che hanno avuto una diagnosi tardiva in età avanzata; la dieta aglutinata quando instaurata in età precoce, previene lo sviluppo di neoplasie nel celiaco. La dieta aglutinata è priva di alcuni costituenti importanti. Al momento della diagnosi il celiaco presenta spesso già una carenza di ferro, di folati, di complesso B, di fibre; nella fase iniziale della dieta questa carenza può anche aumentare perché gli alimenti dietoterapeutici, soprattutto se consumati in eccesso, portano ad un calo ulteriore di questi costituenti. La situazione poi in qualche modo si stabilizza nel lungo termine ma 20 spesso c’è bisogno di integrare la dieta con fibre, con acido folico e con il complesso B. Un altro problema della dieta aglutinata è quello delle complicanze metaboliche: è molto facile osservare nei celiaci a dieta lo sviluppo di obesità, più facile nell’uomo che nella donna, e in genere un 10/15 % dei pazienti a due anni dall’inizio della dieta sviluppa un’obesità importante -aumenti di oltre il 10% del peso corporeo, aumenti anche fino a 2030 kg-, causata dalla normalizzazione dell’assorbimento intestinale e dall’elevato apporto di lipidi e carboidrati con la dieta, poiché molti cibi dietoterapeutici sono sbilanciati in questo senso. Questo si osserva anche nella celiachia infantile. E’ importante far seguire al paziente la dieta strettamente, istruirlo molto attentamente, avere i consigli nutrizionali di una dietista con esperienza nella celiachia. In tutta Europa sono presenti associazioni nazionali per la celiachia ed essere iscritti a queste associazioni faciliti molto il compito del paziente nel seguire la dieta in modo corretto. La dieta è difficile da seguire per tanti motivi, vuoi per la scarsa palatabilità degli alimenti, vuoi per le carenze sul contenuto dei prodotti per un’etichettatura approssimativa - abbiamo una legge in merito che non è ancora operativa e non consente ai pazienti di orientarsi nel consumo degli alimenti- ed infine c’è certo il grosso problema dell’interferenza della dieta con la socializzazione e dell’introduzione involontaria di glutine per cui è bene stare molto attenti. 3. In questi giorni molti giornali e la stessa televisione hanno riacceso l’entusiasmo dei celiaci sulla possibilità di una terapia alternativa alla dieta aglutinata, rappresentata da una pillola in grado di contrastare gli effetti del glutine nell’organismo. La pillola in questione è la pillola basata sull’impiego di inibitori sintetici della zonulina, una proteina che è presente in grande quantità a livello della mucosa intestinale nelle celiachia non trattata e sembra essere responsabile di un significativo aumento della permeabilità intestinale alla gliadina. Studi sperimentali compiuti su ratti diabetici (non esiste al momento un modello sperimentale di animale celiaco) hanno consentito di dimostrare che l’impiego di inibitori sintetici della zonulina sarebbe in grado di determinare un blocco dell’assorbimento del glutine, che in tal modo non riuscirebbe a raggiungere i linfociti della sottomucosa intestinale. In tal modo non verrebbe innescata quella serie di reazioni immunologiche che sappiamo intervenire nella malattia celiaca. In base alla molta 21 ottimistica ipotesi riportata dalla stampa in un prossimo futuro (quantizzato sui giornali più prudenti in 4-5 anni) il celiaco potrebbe mangiare pane e pasta normali, neutralizzando gli effeti dannosi del glutine grazie all’assunzione di una pillola a base di inibitori di zonulina. Bisogna subito sottolineare, per non alimentare inutili illusioni, che gli studi sull’uomo sono partiti solo nel mese di gennaio di questo anno su 21 volontari e non vi è ancora alcun dato che dimostri l’efficacia, anche in minima parte, di questa ipotesi terapeutica. La sperimentazione, approvata dalla FDA negli Stati Uniti, si protrarrà per almeno 7 anni e prima di allora sarà praticamente impossibilie trarre qualsiasi conclusione. Raffreddare gli entusiasmi è doveroso per chi si occupa seriamente di celiachia, ma è atrettanto doveroso sottolineare come la ricerca scientifica si stia impegnado da un paio di anni come non mai in passato per trovare un’alternativa terapeutica alla dieta senza glutine. Esempi di questo impegno sono gli studi per mettere a punto un vaccino che attraverso l’impiego di piccole dosi di peptidi tossici sia in grado di desensibilizzare il celiaco verso il glutine o anche l’impiego di enzimi batterici (endopeptidasi) che somministati per via orale riescano a digerire il glutine prima del suo arrivo a livello della mucosa intestinale o ancora la messa a punto di inibitori sintetici della transglutaminasi in grado di bloccare la deamidazione dei peptidi tossici di gliadina da parte della transglutaminasi stessa. Come vedete, la ricerca scientifica è etremamente vivace in questo momento ed anche se per ora la dieta rimane l’unica certezza del celiaco per avere un’esistenza sicura al riparo da complicanze e patologie autoimmuni associate, si può sperare che in un prossimo futuro il paziente celiaco possa abbondonare quel senso di depressione e talvolta di rabbia che derivano dalla obbligata rinuncia alla dieta meditteranea per riassaporare il gusto ormai dimenticato di un buon piattio di spaghetti o di tagliatelle: speriamo che questo sogno si avveri e che non rimanga solo un’utopia. 22 5. DIABETE E CELIACHIA Dott. Valerio Miselli - Primario di Diabetologia , Malattie Metaboliche e Nutrizione Clinica, A.S.L. di Reggio Emilia, Presidio Ospedaliero di Scandiano. Il diabete è una malattia di grande rilievo sociale con un grave impatto sulla salute pubblica, per l’entità della sua diffusione e la gravità delle sue complicanze. • In tutto il mondo, si stima che le persone affette da diabete superino i 194 milioni, ma secondo le previsioni dell’OMS nel 2005 i malati di diabete saliranno a 333 milioni. • La crescente diffusione del diabeti di tipo 2 è evidentemente collegata a un generale aumento dell’obesità nella popolazione. Nei paesi industrializzati occidentali, almeno il 90% dei casi di diabete di tipo 2 sembra dovuto al soprappeso. La prevalenza del diabete di tipo 1 in Italia risulta invece essere tra lo 0.4 e l’1 per mille. L’incidenza è compresa tra i 6 e i 10 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6.72 casi per 100.000 per anno nella fascia di età da 15 a 29 anni. Fa assoluta eccezione la Sardegna che ha un’incidenza di diabete giovanile tra le più altre del mondo, pari a 34 casi per 100.000 per anno nella fascia di età di 0-14 anni. UNA STORIA VERA Una giovane donna di 44 anni presenta nell’anamnesi familiare una positività per il diabete tipo 2 nella madre e in una sorella della madre. Lavora come impiegata, non pratica attività fisica regolare, non ha mai fumato. All’età di 26 anni fu posta diagnosi di diabete gestazionale in occasione della prima gravidanza. All’età di 30 anni presentò sintomi iniziali di scompenso (polidipsia e poliuria) con glicemia a digiuno uguale a 242 mg; fu trattata con ipoglicemizzanti orali (terapia combinata 3 cps/die). Durante il trattamento con compresse la paziente presentò test di gravidanza positivo: furono immediatamente sospesi i farmaci orali e iniziata terapia 23 insulinica con 3 dosi giornaliere di insulina rapida. Fu rapidamente istruita all’autocontrollo e dalla 10° settimana la gravidanza fu presa in carico da un’Unità operativa di Diabetologia; a quel punto si hanno notizie dell’HbA1c che era 5.6%. Alla 39° settimana la paziente ha partorito con parto fisiologico un maschio di 4.800 kg che ha presentato una ipoglicemia non grave subito dopo la nascita; l’HbA1c era di 5.0%. Subito dopo il parto fu eseguito il test al glucagone con esiti di scarsa secrezione insulinica (Cpeptide da 1.0 a 1.3 ng/mL); durante l’allattamento, per un cero periodo, fu sospesa ogni terapia farmacologica e per sei mesi il diabete è stato controllato con programma alimentare e attività fisica quotidiana. Inizia terapia insulinica dopo quasi due anni lamenta episodi caratterizzati da vertigine, nausea soprattutto postprandiale: in due occasioni ha avuto “svenimenti”come da crisi ipotensive con glicemie perfettamente normali o addirittura elevate. Inizia una storia di depressione che porta anche a un’alimentazione disordinata spesso secondaria a episodi di panico. Viene diagnosticata dopo un anno una vitiligine dallo specialista dermatologo; fu eseguita anche gastroscopia per il persistere di difficoltà digestive, ma il quadro endoscopico era normale e venne prescritta cisapride per il sospetto di un’iniziale gastroparesi. Per circa un anno il medico curante tratta la sintomatologia digestiva con farmaci inibitori di pompa, ansiolitici e modulatori della motilità. A questo punto viene fatta diagnosi di psoriasi e vengono ridotte le dosi di insulina per persistente sintomi ipoglicemici. Dopo un episodio caratterizzato da perdita di conoscenza mentre la paziente era al volante della propria automobile, fortunatamente senza conseguenze gravi viene, formulato il sospetto di ipoglicemia asintomatica e ricoverata in reparto specialistico: il monitoraggio glicemico permetti di impostare terapia con tre iniezioni giornaliere di analogo rapido più insulina lenta bed-time; vengono eseguite ricerche per Helicobacter pilori ; uno screening delle complicanze esclude la presenza di neuropatia autonomia; viene consigliato un programma alimentare indicato per la prevenzione delle ipoglicemie; l’HbA1c è l’8.1%. Dopo circa 6 mesi la paziente viene ricoverata in ambito cardiologico con diagnosi di “algie toraciche in diabetica”, viene eseguita una prova da sforzo al cicloergometro che risulta negativa per insufficienza coronaria e il referto ECGrafico viene considerato indicativo per alterazione della ripolarizzazione di tipo aspecifico. Alla 24 dimissione viene consigliata terapia con cisapride per disturbi digestivi riferibile a sospetta gastroparesi. Per persistente perdita di capelli si rivolge a un dermatologo che pone diagnosi di alopecia e inizia terapia steroidea a partire dalla dosi di 50 mg/die di prednisone, viene inviata di nuovo al gastroenterologo per la comparsa di positività per gli anticorpi anticellule parietali gastriche, senza alterazioni della crasi ematica, dell’esame emocromo-citometrico, tranne una lieve anemia ipocromica, e della funzionalità renale ed epatica; viene eseguita gastroscopia e posta diagnosi di gastrite cronica, modificata la terapia sintomatica introducendo levosulpiride. Il peso corporeo nella paziente negli ultimi tre anni è rimasto costante e l’HbA1c ha oscillato tra 7.9 e 8.9% nonostante la transitoria terapia steroidea. Soltanto a questo punto, dopo circa quattro anni di sintomi digestivi variante diagnosticati, viene posto il sospetto di celiachia e vengono eseguiti gli anticorpi IgG e IgA antigliadina (AGA) e gli anticorpi IgA antiendomisio (EMA). Data la positività degli EMA viene eseguita altra gastroscopia con biopsia digiunale la cui diagnosi è “mucosa digiunale con villi in parte conservati ad aspetto tozzo; si osserva infiltrato flogistico linfoplasmacellulare. Reperto compatibile con celiachia”. La paziente inizia una dieta priva di glutine e viene inserita in un percorso educativo differenziato per diabete tipo 1 con celiachia. DIAGNOSI DI CELIACHIA Come nel bambino, anche nell’adulto diarrea e dimagramento sono stati considerati per molto tempo i principali sintomi e, in assenza di questi, non era giustificata l’effettuazione della biopsia intestinale; attualmente possiamo dire che i sintomi variano notevolmente da paziente a paziente e raramente si ha la contemporaneità di tutti i sintomi. . La malattia predilige il sesso femminile con un rapporto F/M dell’ordine di 2:1 e con picchi di insorgenza fra la terza e quarta decade di vita. Dal punto di vista nosologico possiamo distinguere varie forme di malattia in base al quadro clinico ed all’estensione e alla severità delle lesioni intestinali. Come si può evincere anche dalla storia clinica della nostra paziente i sintomi dell’adulto possono essere così vari e molteplici da poter spingere i pazienti verso specialisti come dermatologi, ematologi ortopedici, endocrinologi, 25 neurologi, ginecologi, reumatologi, non sempre consapevoli di tutti i problemi connessi alla celiachia. Nel caso specifico la paziente, ad un certo punto si è rivolta alla “ medicina alternativa”, perché non trovava soluzioni ai suoi problemi . La minore gravità o addirittura ,l’assenza di sintomi intestinali in molti pazienti adulti non dipende da una minore gravità delle lesioni (che sono sempre rappresentate dall’appiattimento dei villi) ma da una loro minore estensione lungo l’intestino tenue. In questi pazienti con lesioni meno estese i tratti sani di intestino riassorbono a valle le sostanze nutritizie malassorbite a monte. Le manifestazioni cliniche, di conseguenza, sono meno rilevanti o addirittura assenti. DISCUSSIONE: Il diabete tipo 1 è una malattia cronica autoimmune con vari gradi di deficit insulinico risultanti dalla distruzione delle beta cellule pancreatiche immuno-mediata. Può associarsi ad altre situazioni cliniche, subcliniche o potenzialmente organo-specifiche di natura autoimmune; di solito tiroide, stomaco, ghiandole surrenali e intestino costituiscono il quadro di una sindrome autoimmune polighiandolare. La Malattia celiachia è una enteropatia autoimmune caratterizzata da lesioni di vario grado dell’intestino tenue. Negli individui geneticamente predisposti la malattia si slatentizza con l’ingestione di glutine; il morbo celiaco è diagnosticato in modo preciso dal dato bioptico intestinale e si associa con gli anticorpi antigladiana (AGA), antiendomisio (EMA), e con gli anticorpi tissutali atitrasglutaminasi (tTGA) appartenenti alla classe (IGA). Fin dal 1954 è stata osservata la coesistenza di malattia celiaca e diabete tipo1; è di grande importanza il riconoscimento della malattia in fase asintomatica in questo tipo di pazienti. Dalla letteratura si può osservare in 38 articoli pubblicati dal 1984 al 2001 che la prevalenza della celiachia in popolazioni con diabete tipo 1 a causa delle differenti tecniche di sceening può variare dallo 0.6 al 16.4%. Dati più recenti su una popolazione studiata in Germania rivelano che il tTGA –IGA rappresenterebbe il marker più specifico per la diagnosi delle forme silenti di morbo celiaco: ciò è estremamente importante perché il trattamento con dieta priva di glutine dei pazienti con terapia insulinica ha effetti positivi sull’ HbA1C e sulla crescita. 26 Diabete tipo 1 e celiachia Una volta fatta la diagnosi di celiachia così come in ogni malattia cronica il gradino iniziale del trattamento è l’educazione terapeutica; ci vuole uno sforzo combinato tra medico curante, specialista e dietista con esperienza sul campo per stabilire un buon rapporto con il paziente, identificare gli obiettivi del trattamento e, non ultimo infondere ottimismo in chi avrà bisogno di molti supporti per mantenere un comportamento alimentare adeguato. L’obiettivo della dieta priva di glutine è di permettere il ripristino di una normale morfologia istologica intestinale e possibilmente rimediare alle situazioni cliniche connesse alla diagnosi di celiachia. I pazienti dovranno imparare a riconoscere i cibi contenenti glutine e tutti gli alimenti che nascondono tracce di glutine non così evidenti. Ciò permette il ripristino della funzione assorbente della mucosa intestinale normalmente dopo 3-6 mesi. Gli AGA IgG possono permanere elevati per periodi più lunghi di tempo per i fenomeni di memoria immunologica. La persistente positività AGA, EMA, tTG, indica generalmente una scarsa aderenza al trattamento con dieta aglutinata. Bisogna tenere presente che l’introduzione di minime quantità di glutine ( a seguito di contaminazione o per aggiunta di additivi quali l’amido di grano ) raramente è in grado di indurre positivizzazione della sierologia specifica: valori alti indicano macrotrasgressioni alimentari. ASSOCIAZIONE TRA CELIACHIA E MALATTIE AUTOIMMUNI Una aumentata prevalenza di malattie autoimmuni tra i soggetti celiaci, così come di celiaci (di regola misconosciuti) tra i soggetti con malattie autoimmuni (in particolar modo, ma non solo, il diabete insulino dipendente e le tireopatie autoimmuni) è da tempo nota. Nelle diverse casistiche la diagnosi di malattia celiaca era quasi sempre posteriore a quella della malattia autoimmune associata: questo dato ha suggerito l’ipotesi che la malattia celiaca non trattata, o in altre parole l’esposizione al glutine nel soggetto celiaco, avesse un ruolo causale nel rischio di malattie autoimmuni. Un largo studio policentrico italiano ha recentemente dimostrato che la prevalenza di malattie autoimmuni in adolescenti celiaci è molto più elevata che nella popolazione coetanea generale (13.8% contro 3.6%) ma, ciò che è più interessante, dipende dall’età alla 27 diagnosi, vale a dire dalla durata dell’esposizione al glutine. Infatti, i celiaci esposti al glutine per meno di due anni non sembrano avere una prevalenza di malattie autoimmuni significativamente superiori a quella dei controlli, mentre il rischio sale (proporzionale con l’età alla diagnosi)se l’esposizione è presente I rapporti tra Diabete tipo 1 e Celiachia rappresentano un importante capitolo nella Storia della Medicina sia per gli aspetti umani che per quelli scientifici. Per quelli umani perché sono due malattie(meglio chiamarle condizioni)croniche che richiedono un forte adattamento psicologico e una presa in carico della propria condizione come le tecniche moderne suggeriscono secondo i modelli dell’empowerment Sul piano scientifico perché la ricerca comincia a fare progressi da quando gli studiosi si sono messi insieme e hanno cercato di collegare fenomeni che non possono essere definiti più casuali: l’identificazione della zonulina e le ricerche su ceppi di topi con diabete hanno aperto un nuovo capitolo in campo scientifico.In attesa che la speranza di una cura definitiva diventi più vicina alla realtà ,dobbiamo trovare modelli di assistenza e di supporto più orientati ai bisogni dei cittadini che vivono con una condizione cronica invece che continuare ad investire energie solo per le criticità in pazienti acuti. 28 6. PROTOTIPO DI REGISTRO DI PATOLOGIA DELLA MALATTIA CELIACA IN REGIONE EMILIA ROMAGNA Dott. Sergio Amarri - Direttore U.O. Pediatria dell’ A.S.L. di Ravenna, Medico pediatra, consulente scientifico A.I.C. Presento oggi lo stato di avanzamento dei lavori per il Progetto “Prototipo di Registro di patologia della malattia Celiaca in Regione Emilia Romagna” finanziato dalla Regione Emilia Romagna nel novembre 2005. La A.I.C. è sempre stata parte integrante di questo lavoro nonchè principale promotore, ed ora è iniziato il piano operativo. Lo scorso anno la regione Emilia Romagna, l’Assessorato alla sanità e l’Agenzia Sanitaria Regionale hanno lanciato progetti di questo tipo, soprattutto volti a promuovere pratiche organizzative che modernizzassero l’uso delle risorse sanitarie. Noi abbiamo presentato con successo un progetto interprovinciale, che ha coinvolto quattro professionisti in rappresentanza delle rispettive aziende sanitarie, oltre a me per l’ A.S.L. di Ravenna, Umberto Volta per l’azienda ospedaliera di Bologna, Giacomo Banchini per l’azienda ospedaliera di Reggio Emilia, e Dante Baronciani che è un epidemiologo del C.E.V.E.A.S. in rappresentanza della A.S.L. di Modena. Nel contenuto del progetto si è cercato di applicare il sottotitolo “come promuovere una corretta diagnosi della malattia celiaca in età sia pediatrica che adulta, aumentando l’attenzione diagnostica e l’appropriatezza del percorso diagnostico assistenziale”. Dalla stima fatta in Emilia Romagna, su dati raccolti da una collega pediatra (Dott.ssa Brusa) e presentati a Imola nel 2004 -abbiamo fuso dati provenienti dalle aziende sanitarie locali con dati, ad esempio, di questa associazione- si vede l’enorme differenza di prevalenza nelle varie province: nella fascia pediatrica si va ad esempio da Reggio Emilia con una prevalenza di 1 ogni 298 a Rimini con una prevalenza di 1 ogni 514, che è quasi il doppio. Se questa è la prevalenza stimata ma credibile in età pediatrica, si vede poi come nell’età adulta i numeri siano drammaticamente più bassi e dunque le differenze di prevalenza da una provincia all’altra ancora più accentuate. Per esempio Ravenna, ha un’incidenza altissima per gli adulti pari a 1 ogni 634. Quindi la celiachia è riconosciuta con più facilità in età pediatrica che in età adulta con 29 una prevalenza complessiva ben più alta della stima 1 su 100-150, che è stata citata più volte: per 1 celiaco diagnosticato infatti 8 non sono diagnosticati. Se ci limitiamo alla parte pediatrica abbiamo, stando sempre al 2004, 1330 circa celiaci diagnosticati contro 3406 possibili. OBIETTIVO DEL PROGETTO Obiettivo primario è la valutazione di un intervento formativo, rivolto ai medici di medicina generale (MMG) e a specialisti d’organo (esclusi i gastroenterologi) e a pediatri di famiglia (PdF) teso a favorire una politica di case-finding dei soggetti celiaci in età adulta e pediatrica. Obiettivi secondari sono la valutazione: dell’appropriatezza dell’iter diagnostico nei casi diagnosticati sia prima che successivamente all’intervento formativo; dell’adesione alle misure terapeutiche in relazione alla presenza e gravità dei sintomi; delle misure di supporto: sociali, economiche e relazionali che caratterizzano il processo assistenziale. Ulteriore obiettivo è quello di stabilire quanto un’analisi dei dati correnti possa offrire una stima della prevalenza della condizione. FASI DEL PROGETTO Stima dei casi già diagnosticati per malattia celiaca Rilevazione, da parte di MMG e pediatri PdF, dei soggetti che a loro conoscenza, tra i loro assistiti, risultano affetti da malattia celiaca. Per tali soggetti, dopo aver ottenuto il loro consenso informato, devono essere rilevati i dati anagrafici al fine di poter procedere all’intervista (vedi fase c e fase d). In caso di mancato consenso deve essere centralizzato il dato dell’esistenza del caso, specificando l’impossibilità di inclusione nelle successive fasi dello studio. I professionisti devono inoltre comunicare il dato relativo al numero totale dei propri assistiti (per fascia 30 d’età e sesso) e il numero dei soggetti, tra questi, che non hanno usufruito dell’assistenza del medico (pazienti non conosciuti). (vedi scheda allegata) Formazione al case-finding Deve essere definito e distribuito un materiale informativo, rivolto ai professionisti coinvolti nel progetto, relativo a: sintesi delle conoscenze sulla storia naturale della malattia celiaca con particolare attenzione alle problematiche diagnostiche e alle patologie associate; informazioni relative all’efficacia della politica di case-finding e alle motivazioni che fanno preferire tale intervento ad uno screening di massa; elenco dei sintomi e segni clinici che dovrebbero determinare la scelta di indagare l’esistenza della malattia celiaca (case finding); algoritmo per garantire un appropriato percorso diagnostico. modalità di accesso alle misure di supporto: sociali ed economiche Arruolamento dei nuovi casi Successivamente al momento formativo e alla distribuzione del materiale informativo i MMG e PdF coinvolti dovrebbero, per la durata di 1 anno, rilevare i dati anagrafici, dopo aver ottenuto il consenso informato, di tutti i casi: in cui sia stata posta diagnosi di malattia celiaca (anche da parte di altri professionisti quali gli specialisti d’organo); in cui siano state effettuate indagini per un sospetto di malattia celiaca, risultate negative (anche quelle richieste da parte di altri professionisti quali gli specialisti d’organo); in cui siano state richieste indagini per un sospetto di malattia celiaca, non effettuate per scelta autonoma del paziente (anche quelle richieste da parte di altri professionisti quali gli specialisti d’organo). In caso di mancato consenso deve essere centralizzato il dato dell’esistenza del caso, specificando l’impossibilità di inclusione nelle successive fasi dello studio. I professionisti devono inoltre comunicare il dato relativo al numero totale dei propri assistiti (per fascia 31 d’età e sesso) e il numero dei soggetti, tra questi, che non hanno usufruito dell’assistenza del medico (pazienti non conosciuti). (vedi scheda allegata) Studio di follow-up: fase retrospettiva Tutti i soggetti reclutati prima dell’evento formativo (già diagnosticati) dovranno essere sottoposti ad intervista strutturata (vedi scheda allegata) da parte di intervistatore. Le aree da sottoporre ad indagine sono le seguenti: modalità della diagnosi: storia clinica, età della diagnosi, indagini diagnostiche, servizi utilizzati,… modalità della terapia: adesione alla stessa, controlli clinici, servizi utilizzati … misure di sostegno e di supporto: aspetti relazionali (compresa comunicazione dei professionisti), sociale ed economico … Studio di follow-up: fase prospettica Tutti i soggetti reclutati dopo l’evento formativo (nuove diagnosi) dovranno essere sottoposti ad intervista strutturata (vedi scheda allegata) da parte di intervistatore. Le aree da sottoporre ad indagine sono le seguenti: modalità della diagnosi: storia clinica, età della diagnosi, indagini diagnostiche, servizi utilizzati,… modalità della terapia: adesione alla stessa, controlli clinici, servizi utilizzati … misure di sostegno e di supporto: aspetti relazionali (compresa comunicazione dei professionisti), sociale ed economico,… Valutazione delle potenzialità della rilevazione dei dati correnti per stimare la frequenza della patologia La conclusione del progetto non può essere sinonimo di assenza di dati relativi alla prevalenza ed incidenza della malattia celiaca né d’altra parte è proponibile che i MMG e i PdF continuino ad inviare i dati relativi ai pazienti in carico e alle nuove diagnosi (quasi a costituire un Registro della condizione). Lo svolgimento dello studio può rappresentare 32 l’occasione per valutare, con i MMG e i PdF, quanto i dati correnti siano in grado di stimare la frequenza della patologia. Le fonti dei dati sono molteplici ciascuna caratterizzata da alcuni limiti: archivi di esenzione ticket specifica per patologia costituisce la fonte dati principale. L’informazione può essere affetta da sottostima (soggetti con malattia celiaca che per motivi diversi non hanno chiesto l’esenzione) o da una più improbabile sovrastima (soggetti che hanno accesso all’esenzione pur non avendo una appropriatezza della diagnosi di malattia celiaca); schede di Dimissione Ospedaliere (SDO). La fonte può fornire qualche risultato per quanto riguarda l’età pediatrica (effettuazione di biopsia intestinale solitamente in regime di Day-Hospital) mentre più improbabile risulta il ricovero in età adulta con diagnosi di malattia celiaca; prestazioni di specialistica ambulatoriale (ASA). La fonte presenta importanti problemi di attendibilità del flusso informativo (variabile nelle diverse Aziende) non legate alla patologia in esame quanto alla completezza dei dati. Il progetto prevede di confrontare, in modo anonimo, per una definita entità territoriale (distretto) i dati derivati dai flussi informativi dei dati correnti con quelli prodotti dai MMG e dai PdF onde stimare l’attendibilità dei dati e poter procedere, una volta concluso il progetto, ad un eventuale monitoraggio della patologia attraverso l’utilizzo dei dati correnti. Si tratta di cercare di creare, per la malattia celiaca, quello che nei paesi anglosassoni viene chiamato EHL - Electronic Health Library - ovvero una biblioteca elettronica sulla salute dell’individuo. Nella provincia di Ravenna - nel 2004 365.000 abitanti di cui quasi 40.000 bambini- si è provato a fare questo lavoro elettronico attraverso cui possiamo accedere a circa 562 persone, 12-13 non registrati: si vede come la popolazione colpita è giovane - l’età media è 33 anni - e la maggioranza ( il che purtroppo vale sempre nelle malattie autoimmuni) è di sesso femminile – 69%, mentre per il 25% riguarda l’età pediatrica, ovvero al di sotto dei 14 anni; infine solo 8 sono gli stranieri rilevati -mentre sappiamo che la malattia celiaca è presente anche negli stranieri, ma evidentemente non è cercata a sufficienza. Il tasso totale - malattia ogni 1000 assistiti per ogni singolo medico - è molto diverso 33 all’interno dei tre distretti in cui è suddivisa la provincia di Ravenna; anche qui i pediatri reclutano molti più celiaci dei medici di medicina generale; c’è il 30% di medici che non hanno mai visto un paziente celiaco DEFINIZIONE DEL CAMPIONE DI PROFESSIONISTI COINVOLTI Per definire la dimensione del campione necessario ad una corretta descrizione del fenomeno possono essere fatte alcune ipotesi di scenario tenendo conto che in Regione Emilia Romagna: operano 485 pediatri di libera scelta e 3270 medici di medicina generale, per una popolazione 0-14 anni di 461.685 bambini e una di età ≥15 aa di 3.534.910 soggetti. Si ipotizza che un MMG abbia in carico circa 1000 soggetti e un PdF 800 soggetti. Se fossero diagnosticati tutti i casi, stante una prevalenza del 7‰(1:150), si dovrebbero osservare circa 3200 casi in età pediatrica e 24.500 casi in età adulta. tasso di prevalenza “casi diagnosticati”: 5‰ (1:200) in età pediatrica) e 1‰ (1:1000) in età adulta. Il che significherebbe che dovrebbero essere noti 2300 casi (dei 3200 previsti in età pediatrica) 3500 casi (dei 24.500 previsti in età adulta). Alla fine della prima fase sarebbero quindi rilevati 5800 casi rispetto ai 27.800 previsti. tasso di incidenza “casi diagnosticabili” dopo opportuna formazione dei professionisti: 6‰ (1:170) in età pediatrica e 3‰ (1:330) in età adulta. Il che significherebbe che dovrebbero essere diagnosticati: 2750 casi (di cui 2300 già noti dalla prima fase) dei 3200 previsti in età pediatrica 10.600 casi (di cui 3500 già noti dalla prima fase) dei 24.500 previsti) in età adulta. Se si ipotizza di voler reclutare almeno il 10% della popolazione dei soggetti celiaci diagnosticati, secondo questo primo scenario (1300 casi), è necessario l’impegno del 10% dei professionisti (circa 300 MMG e 50 PdLS suddivisi nelle diverse province). 34 Lo sviluppo del progetto in quattro AUSL permette la sostanziale corrispondenza delle previsioni minime summenzionate. ORGANIZZAZIONE DEL PROGETTO Reclutamento dei MMG e PdF L’adesione al progetto da parte dei MMG e PdF è naturalmente su base volontaria. La volontarietà dell’adesione introduce un bias di selezione (professionisti più attenti già prima della formazione) la cui rilevanza andrà stimata. L’adesione potrà essere facilitata coinvolgendo attraverso le Direzioni Sanitarie delle AUSL interessate i Distretti ed in particolare i Nuclei di Cure Primarie. La condivisione del Progetto con le organizzazioni sindacali dei MMG e PDF risulta un fattore favorente; deve essere prevista una rappresentanza dei MMG e PdF nel Comitato scientifico del progetto. E’ necessario sottolineare come il progetto tenda a minimizzare l’impegno richiesto ai singoli MMG e PdF cui è richiesto: la partecipazione ad un incontro di formazione sul tema della malattia celiaca (durata 1-2 ore). Dovrà essere effettuata una valutazione prima del momento formativo circa le conoscenze dei professionisti sulle patologie che possono portare alla diagnosi di malattia celiaca. la comunicazione di alcuni dati relativa ai pazienti in carico in cui sia stata formulata la diagnosi di malattia celiaca ed il loro consenso informato ad essere intervistati. la comunicazione di alcuni dati relativa ai pazienti reclutati nel corso dell’anno successivo all’evento formativo in cui sia formulata la diagnosi di malattia celiaca (o effettuati o proposti accertamenti relativi alla stesa) ed il loro consenso informato ad essere intervistati. Si può stimare che per ogni MMG il numero complessivo di pazienti da segnalare sia attorno ai 2-4 pazienti ogni 1000 assistiti. 35 Reclutamento degli specialisti Il materiale informativo dovrebbe essere diffuso anche agli specialisti che possono inserire la malattia celiaca nella diagnosi differenziale di alcuni sintomi o segni; in particolare: cardiologi, dermatologi, ematologi, endocrinologi, immunologi, internisti, nefrologi, neurologi, odontoiatri, oncologi, ostetrico-ginecologi, psichiatri,, psicologi, reumatologi. Il coinvolgimento degli specialisti potrebbe essere facilitato oltreché dalle Direzioni Sanitarie delle AUSL e Aziende Ospedaliere anche dagli Ordine dei Medici Provinciali. Materiale informativo Il materiale informativo deve essere costituito da un opuscolo in cui siano contenuti: la sintesi delle conoscenze sulla storia naturale della malattia celiaca con particolare attenzione alle problematiche diagnostiche e alle patologie associate; le informazioni relative all’efficacia della politica di case-finding e alle motivazioni che fanno preferire tale intervento ad uno screening di massa; algoritmo per garantire un appropriato percorso diagnostico. A tale opuscolo dovrebbe essere allegato l’elenco dei sintomi e segni clinici che dovrebbero determinare la scelta di indagare l’esistenza della malattia celiaca. Tale allegato dovrebbe avere un formato che ne faciliti la consultazione da parte del medico (ad esempio differenziata per specialità) Dovrebbe inoltre essere reso disponibile un materiale informativo che il medico possa utilizzare al fine di indicare al paziente le modalità con cui accedere alle misure di supporto sociali ed economiche. La preparazione del materiale informativo dovrebbe essere effettuata con la consulenza di professionisti. Schema intervista e formazione degli intervistatori Lo schema dell’intervista è il risultato di un lavoro multidisciplinare (specialisti di 36 settore, MMG e PdF, epidemiologi e genitori) comprendente una serie di domande (la maggior parte con risposte codificate) tese ad indagare: sintomi o segni che hanno portato alla diagnosi e autore della stessa appropriatezza del percorso diagnostico-terapeutico: effettuazione ed interpretazione dei test e della biopsia secondo le raccomandazioni internazionali patologia associata complicanze (neoplastiche e non) difficoltà del paziente nel seguire le indicazioni terapeutiche difficoltà del paziente rispetto alle misure di supporto sociali ed economiche soddisfazione del paziente Gli intervistatori devono seguire un breve corso di formazione (definire se intervista telefonica o di persona) e la sua durata. Avendo ottenuto questa doppia sponsorizzazione- dalla A.I.C. e dalla regione - il nostro obiettivo è di andare ad accumulare questi dati in modo da avere dei numeri statisticamente significativi e trarre conclusioni utili. Qualora si realizzi- il se è d’obbligosi tratterà di uno studio che raramente si riesce a fare in Italia: l’ambizione più grossa è di contare tutti. Il nostro obiettivo, come ho detto, non è solo questo ma è anche promuovere una corretta ed efficace diagnosi, e questo attualmente significa concentrare la maggior parte delle nostre azioni sul medico di medicina generale dell’adulto. Dopo opportuna formazione e lo studio d’incidenza, i casi diagnosticabili pensiamo si possano triplicare. Il reclutamento dei medici di medicina generale e pediatri di famiglia è su base volontaria, l’adesione speriamo e pensiamo che sia facilitata coinvolgendo le direzioni sanitarie, i distretti ed in particolare i nuclei di cure primarie - che adesso sono, come voi sapete, una realtà trainante del nostro sistema organizzativo. Ai medici di medicina generale ed ai pediatri di famiglia noi chiediamo un recall formativo di non più di un paio d’ore da inserire nel programma di formazione obbligatorio che hanno, e la comunicazione dei dati di pazienti noti e nuovi. Infine, obiettivo particolare e non facile, a cui tutto il gruppo tiene molto, sarebbe il coinvolgimento e la formazione anche solo parziale di una lunga lista di colleghi – specialisti d’organo, come si è detto - che va di pari passo con la 37 lista di segni, sintomi e patologie associate che tutti voi conoscete: affinchè in ciascun settore i pazienti trovino una minima ma sufficiente attenzione sulla celiachia. 38 7. DIBATTITO FINALE D. Si ritiene che esistano delle relazioni tra la somministrazione di vaccini in età pediatrica e la genesi e l’insorgenza della celiachia? R. Dott. Amarri Non mi risulta nel modo più categorico. E’ un quesito di moda sulle patologie autoimmunitarie in genere, ma non mi risulta che questo problema riguardi la celiachia. Per esempio, il vaccino più imputato è quello del morbillo, la trivalente, ma per altre malattie. R. Dott. Amarri Rispetto alla domanda sull’epoca di introduzione del glutine nel lattante, ovvero l’epoca del giusto divezzamento, non c’è una risposta scientifica vera, e questo non solo per la celiachia: i bambini si divezzano, abitualmente e su linee guida internazionali molto condivise, tra il quarto ed il sesto mese - al sesto mese generalmente - ma non ci sono conoscenze scentifiche tali da sapere l’esatto momento in cui introdurre il glutine nei celiaci, tanto quanto nei non celiaci. Lo studio del Prof. Catassi a cui lei accennava e a cui aderisce questa regione - ho l’onore di coordinare il gruppo regionale - dovrebbe, se avrà successo e casi sufficienti, aiutare a rispondere a questa domanda perché finora ci sono solo ipotesi senza conclusioni se sia meglio introdurre il glutine a sei o dodici mesi per evitare malattie autoimmunitarie o complicanze. Per quanto riguarda l’età in cui si può fare l’ HLA - risposta che condividerò suppongo con altri colleghi - ovviamente essendo l’assetto genetico fisso non penso ci sia un numero preciso, tuttavia la politica del cosìddetto case-finding di cui parlavo prima è quella che io adotto come guida in tutti gli esami: è chiaro che non dico che al primo prelievo uno fa l’HLA ma lo fa quando ha il sospetto di malattia, può essere un sintomo, una patologia associata, può essere la familiarità. R. Prof. Giacomo Banchini - Medico pediatra, consulente scientifico A.I.C. fino al 2004. Aggiungo sull’HLA che noi lo facciamo di regola nel protocollo di alcune particolari 39 categorie a rischio come i bambini con sindrome di Down, Turner, Williams ecc, in modo tale da dare un conforto, quando il test è negativo, per non dover vivere anche con questo timore, ossia che alla patologia cromosomica si associ anche la malattia celiaca. D. Una ragazza che è a dieta dall’età di 6 anni, una dieta precisa e documentata dalle analisi, perché può ritrovarsi carenza di ferro come prima della diagnosi? R. Dott. Volta Questo tipo di discorso viene fuori spesso, anche nell’adulto che fa benissimo la dieta, che normalizza tutto: l’emoglobina normalizza, eppure rimane un ferro relativamente basso molto spesso è una ferritina bassa più che un ferro basso. Non ho una spiegazione in questi casi, potrebbe darsi che la dieta sia povera di ferro, perché l’assorbimento teoricamente normalizza in questi soggetti. In genere mi comporto prescrivendo del ferro per via orale, perché sono convinto che venga assorbito se è tutto in ordine non c’è motivo di pensare che il soggetto non assorba. D. Mio figlio ha avuto la diagnosi ed è stato fatto tutto normalmente, ma in questi ultimi due anni ha dei dolori molto forti al petto, dolori alle mani, è sempre piuttosto anemico: poiché non si è capito cosa siano questi dolori, che hanno provocato anche svenimenti non si è trovato niente di anomalo al cuore - mi chiedevo se non è opportuno rifare una verifica. R. Prof.Banchini E’ una domanda a cui non è facile rispondere ma evidentemente la prima cosa da fare è una verifica della compliance alla dieta: nel senso che, purtroppo, l’esperienza di tanti anni ed anche i dati che vengono riportati non soltanto nelle casistiche nostre - bensì come ha mostrato il Dott.Volta in quelle internazionali - mostrano come molto spesso una buona percentuale di soggetti non fa la dieta in modo regolare. Quindi la prima cosa è un buon check dal punto di vista dietetico e dei marker della celiachia. Dai sintomi che lei ha riferito - il dolore articolare, il dolore muscolare, l’astenia ecc - si può anche pensare, in effetti, alla presenza di altre patologie autoimmuni, pensando alle quali si 40 potrebbe prendere in considerazione una rivalutazione del caso. R. Dott.Volta Concordo pienamente: è fondamentale la verifica che la compliance alla dieta sia buona, e poi in genere è consigliabile uno studio delle autommunità se ci sono sintomi di questo tipo. E’ chiaro che certe volte la compliance alla dieta va valutata sotto tanti punti di vista: non ultimo, se il soggetto continua ad avere sintomi importanti ed anche esami di laboratorio alterati, non escluderei anche un ulteriore accertamento istologico. La biopsia duodenale, ripeto, non dev’essere più considerata un accertamento obbligatorio dopo dieta aglutinata per la conferma della diagnosi, ma in certi casi in cui il soggetto clinicamente non sta bene - e ci sono sintomi che possono far pensare anche ad una forma di celiachia refrattaria o altro - va comunque ripetuta. D. I prodotti da forno contengono delle alte percentuali di grassi vegetali: a lungo andare potrebbero causarci il colesterolo anche in giovane età? R. Dott.Volta Non tutti i prodotti dietoterapeutici sono particolarmente ricchi di grassi o carboidrati tali da sbilanciare l’assetto metabolico del soggetto: questo è vero soprattutto per snack, merendine e dolci. In linea di massima però anche i prodotti dietoterapeutici di base hanno comunque un certo sbilanciamento di questo tipo. Ecco perché, quello che io di solito raccomando quando faccio una diagnosi di celiachia, è che la dieta sia soprattutto a base di prodotti naturalmente privi di glutine e con uso di prodotti dietoterapeutici limitato al minimo indispensabile. D. Ho un figlio celiaco preadolescente e, pensando all’importanza dell’aggregazione e del non negare e nascondere la patologia, soprattutto per i ragazzi della sua età, mi domando perché a Reggio Emilia città, visti gli importi che sono devoluti alla ristorazione normale, non esista una pizzeria vicina - l’unica è a S.Antonino di Casalgrande - dove mangiare una pizza senza glutine. R. Silvia Cavalchi Mi sento chiamata in causa anche in quanto tutor della ristorazione nella provincia di 41 Reggio e posso dire che l’associazione sta facendo molto da questo punto di vista. Soltanto l’anno scorso abbiamo organizzato un corso, della durata di un anno, per i ristoranti e le pizzerie: erano sei o sette i ristoranti di Reggio e provincia che hanno partecipato aprendo alla fine del corso due agriturismi. La pizzeria c’è, da tanto tempo - si tratta di quella di Casalgrande di cui parlavi - ed altre pizzerie sono state coinvolte ma non è così facile perché si cerca di coinvolgere ristoratori che si conoscono personalmente e di cui si ha massima fiducia, proprio per garantire quella sicurezza nella preparazione dei cibi che è necessaria al celiaco. Ci si dà da fare per questo ma non basta soltanto la buona volontà dell’esercente, sono esercizi che vengono selezionati: è necessaria una cucina idonea, è necessario che questo ristoratore si impegni a mantenersi aggiornato ed informato, dunque c’è un lavoro che dev’essere fatto con un impegno reciproco. Mi sento però di aggiungere che questo lavoro non può continuare se i celiaci che vanno a mangiare nei ristoranti hanno nei confronti dei ristoratori un atteggiamento di pretesa e non di collaborazione, ovvero dei modi che scoraggiano – un episodio di questo tipo si è purtroppo, e a discapito della nostra iniziativa, verificato appunto a Reggio - il ristoratore nonostante l’impegno e la buona volontà. Il nostro obiettivo è comunque continuare a far sì che il numero di esercizi aumenti, soprattutto per il discorso che riguarda gli adolescenti: ci tengo però a ribadire che non è facile e ci vuole l’impegno di tutti. R. Gino Venturelli Vorrei sottolineare che, a parte la nostra provincia, secondo i dati regionali ci sono almeno 30 ristoranti abilitati a servire pasti senza glutine con determinate garanzie. Si tratta, lo ricordo, di un rapporto privato tra l’associazione e gli esercenti privati che si rendono disponibili a voler fornire un determinato servizio per andare incontro ad un’esigenza che riguarda la colletività. Vorrei anche far presente che a livello istituzionale un comune romagnolo - quello di Cattolica - ha dato il via al progetto “Cattolica- comune gluten free”: sono quindi le istituzioni stesse, coinvolgendo il comune e le A.S.L. locali, a portare avanti una campagna di sensibilizzazione al problema del senza glutine che arrivi anche agli esercenti in modo da poter fornire un servizio completo. L’altro aspetto importante che emerge da questa domanda è quello psicologico: noi non possiamo legare, mi sembra, il problema della celiachia nell’adolescenza all’esigenza di 42 una pizzeria, perché se è così credo che questo crei problemi ben più difficili. R. Dott.ssa Martinelli Credo anch’io che il problema non sia solo quello, perché è vero che per un ragazzo la rinuncia alla pizzeria in un determinato momento può essere difficile, ma un ragazzo dovrà imparare a fare rinunce nella vita. Dunque il problema non si può risolvere in una direzione unica ma dev’essere indirizzato in altro modo: noi viviamo in una cultura in cui gli alimenti senza glutine diventano indispensabili perché qui l’alimentazione prevalente è legata a prodotti che contengono il glutine - c’è l’abitudine alla pizza e alla pasta - ma in realtà ci sono altre soluzioni. E’ chiaro che, laddove il problema rispetto al trovare un buon equilibrio con la dieta diventi il poter trovare un ristorante, affrontare la questione sarà molto più dura: ovvero sia, proprio perché si tratta di un problema grosso, se ci si concentra solo sul cibo il problema diventerà ancora più grosso. Quando uno ha una patologia è chiaro che la soluzione più semplice, che gli limita meno la vita è quella ottimale, ma se non c’è, non possiamo aspettare e basta: ecco perché quello che dico io è, intanto, in attesa di, lavoriamo su altre aree. R. Marcella Mastropietro Rimaniamo sul cibo, siccome parliamo ad una platea di persone celiache o con parenti celiaci. L’associazione non è un’entità astratta ma siamo noi. I volontari attivi sul territorio, rispetto ai soci dell’associazione, sono una minoranza numericamente non significativa guardando l’opera che l’associazione - a livello locale, regionale e nazionale deve compiere. Per questo, tutti i volontari attivi - e iperattivi - devono privare la loro vita privata, professionale e affettiva di spazi da dedicare all’associazione, quindi: la prima cosa da fare è dire grazie a tutti quelli che hanno ottenuto i successi che oggi abbiamo raggiunto. Dopodichè, ricordiamoci che il passo fatto è piccolo rispetto a quello che ancora vogliamo ottenere ma enorme rispetto alla base di partenza - e chi è celiaco da un po’ di tempo, anche solo da cinque o sei anni, ha presente come le situazione fosse all’età della pietra: non avevamo locali, avevamo pochissimi prodotti - di bassa qualità organolettica e di pessima qualità di conservazione - ed avevamo una classe medica meno sensibilizzata, che faceva meno diagnosi e che ci seguiva anche meno. Oggi la situazione è nettamente cambiata grazie all’azione di quei volontari che, pochi rispetto alla popolazione celiaca, hanno lavorato: dunque, perché questa popolazione dei celiaci 43 - in aumento - possa migliorare la sua qualità della vita è indispensabile che in molti di più lavorino per l’associazione e diano il proprio contributo. Il progetto ristorazione è il più delicato: per ogni ristorante che entra nella catena c’è un tutor che lo segue nella sua formazione prima del corso, assiste e segue il corso di formazione, lo segue nel tempo - a distanza e in modo ravvicinato - facendo dei controlli, andando nelle cucine, facendo da mediatore nel rapporto ristoratore-cliente, nel rapporto ristoratore-fornitore di prodotti dietoterapeutici. Avere 30 ristoranti significa avere 30 tutor impegnati in questo campo, più il coordinatore ed il referente regionale. Crescere, anche nel numero di ristoranti sicuri nella loro qualità, vuol dire crescere come numero di tutor. R. Dott.ssa Paola Accorsi - Dietista La sezione di Reggio Emilia dell’associazione ha chiesto già anni fa la nostra collaborazione - in quanto dietiste di un’azienda sanitaria - affinchè facessimo una formazione specifica e potessimo dare delle risposte alle domande che voi costantemente fate su una dieta priva di glutine sicura e affinchè ciascuno avesse una risposta personalizzata al suo problema - poiché ognuno di noi ha una propria storia ed un proprio rapporto con il cibo e dunque, nelle varie fasi della vita, può trovare mille risposte diverse. Anche chi non ha problemi con il glutine varia a seconda dei momenti e delle età il proprio rapporto - più o meno conflittuale - con il cibo, così come varia la possibilità di dedicarsi più o meno serenamente ad una dieta salutista. Ben vengano allora anche le proposte delle industrie. Il poter andare a leggere le etichette di tante offerte - questo vi stimolo a fare - significa fare attenzione all’effettivo contenuto di un determinato alimento: cioè, oltre a concentrarsi sull’assenza di glutine, andare a verificare quali altri ingredienti ci sono - affinchè la vostra alimentazione possa diventare il più possibile confacente agli obiettivi di un’alimentazione sana. Però ripeto: non ci sono risposte generiche ma ognuno ha un percorso individuale e se c’è la possibilità di avere - come nell’associazione - qualcuno a cui fare le domande specifiche su quelli che sono i vostri bisogni della vita quotidiana, credo che questo sia il massimo risultato. R. Silvia Cavalchi Vorrei ribadire che il discorso sulla ristorazione che si è fatto prima non chiude le possibilità sulla nostra provincia dove ogni anno noi cerchiamo di reclutare ristoratori 44 interessati. Essendo l’iter appunto quello che vi ha descritto Marcella, la difficoltà sta nel fatto che, proprio per garantirvi il massimo della non contaminazione - lo spazio dove si fanno le pizze è rispetto alla cucina luogo molto più rischioso - entra in gioco la disponibilità del ristoratore a trovare un luogo adatto, separato, per assicurarvi che la pizza sia senza glutine e dunque per garantire la salute. In questo senso non è così facile. D. Mia figlia ha due anni e mezzo ed ho scoperto da poco che è celiaca: non essendo io celiaca, l’ho allattata assumendo glutine. Mia figlia ha sofferto per tantissimi mesi di violente coliche intestinali. Siccome vorrei avere un altro figlio, che potrebbe essere a rischio, la mia domanda è: allattare un bambino a rischio assumendo glutine significa far passare il glutine al bambino e dunque provocare dei problemi? R. Dott.Volta Non c’è nessun collegamento. Essendo l’allattamento al seno la miglior forma di nutrizione per il bambino, non va assolutamente scoraggiato: le controindicazioni per l’allattamento al seno sono ridotte ad entità gravissime e risicatissime, non consiglierei mai di ridurre la durata dell’allattamento al seno ad una mamma che ha una predisposizione genetica alla celiachia. Il glutine non entra nel latte comunque, dunque è un nonsense biologico. E le coliche gassose del lattante - che sono una cosa fisiologica per lui e fastidiosa per la mamma - fanno parte della crescita dell’apparato gastrointestinale: anche i non celiaci hanno molte coliche. R. Prof. Banchini Quelli senza glutine, come ha riferito bene il Dott.Volta, sono prodotti un pochino squilibrati, sono molto ricchi in zucchero, proteine e anche grassi rispetto ai prodotti normali. In ogni modo, un bambino diabetico che si riferisce ad un centro antidiabetico può trovare una buona risposta con la dietista a questo tipo di domanda. Nel senso che se già un bambino diabetico deve fare una dieta ben equilibrata ma normale, evidentemente il togliere il glutine comporta qualche problematica in più. Quello che si deve favorire in modo assoluto è la minima dipendenza dai prodotti farmaceutici rispetto a quelli 45 naturali: si può cercare cioè di mangiare tutti i prodotti che sono naturalmente senza glutine, privilegiandoli a quelli confezionati industrialmente. Rispetto a questi l’associazione si sta impegnando e si dovrà impegnare in futuro perché siano sempre più equilibrati. R. Dott.ssa Accorsi In effetti è una complicazione perché pensando ai prodotti naturali che bene si prestano per il bambino, come ad esempio la frutta, subentra il discorso della glicemia: come diceva il Dott.Banchini però, dal punto di vista terapeutico, adeguatamente sincronizzando l’intervento dietetico con l’intervento medico - ovvero la prescrizione insulinica - si riescono a creare degli equilibri molto gestibili. Non è un no agli zuccheri semplici ad esempio, ma dipende: certo sono due cose che vanno incrociate - e la priorità è l’assenza di glutine - però si può andare incontro ad un incremento del consumo di zuccheri semplici attraverso i prodotti naturali con la terapia insulinica adeguata. D. Ho due gemelle monozigote di 28 anni, l’una diagnosticata celiaca a 18 anni. C’è possibilità che l’altra gemella se la cavi? R. Prof. Banchini La percentuale è nota: l’85-87 % sono celiaci, perciò è bene che stia sotto stretto controllo, il follow-up deve necessariamente continuare. D. Rispetto al follow-up, da una ricerca apparsa su uno degli ultimi numeri di “Celiachia” sulla tossicità delle tracce di glutine, mi pare di aver capito che a fronte di esami sierologici negativi, con la dieta senza glutine, ci siano stati invece dei problemi a indagine istologica: dunque le prospettive sono sempre quelle di mantenere un follow-up soltanto sulle analisi del sangue oppure è cambiato qualcosa? R. Dott. Volta Il lavoro a cui si riferisce la signora è un lavoro policentrico a cui abbiamo partecipato anche noi - coordinato da Carlo Catassi. Il discorso è che in questi casi, sottoposti a biopsia intestinale, effettivamente si aveva un aumento dei linfociti intraepiteliali nella 46 mucosa intestinale nonostante la persistente negatività degli anticorpi. Erano pazienti che stavano bene e non avevano avuto nessuna ricaduta sul piano clinico - e noi sappiamo che ci possono essere variazioni: ossia, nell’adulto - su un campione di 100 casi biopsiati dopo un anno di dieta senza glutine - la normalizzazione assoluta dei linfociti intraepiteliali si ha in un 20-30% mentre negli altri rimangono aumentati. Dunque io ritengo che valga più il criterio clinico e sierologico. D. Un celiaco può avere anche problemi ai reni o urologici? I problemi renali hanno a che fare con la celiachia? R. Dott. Volta No, l’unica associazione è con la nefropatia di Berger, che è una nefropatia IgA molto rara - però non è un’associazione stretta, assolutamente, e con altre forme di nefropatia su base autoimmune. E poi ci sono celiaci che a seguito di associazioni con altre patologie autoimmuni, come il diabete di tipo 1, hanno sviluppano negli anni problemi di insufficienza renale che hanno richiesto anche trattamenti dialitici o trapianti di rene. Ma questo è un discorso che rientra nella storia clinica di complicanze e di altre patologie associate, non è così frequente. D. Sono affetta da endometriosi pelvica e intestinale e, in seguito a complicanze, da tre anni faccio continuamente urinoculture che spesso mi danno positività all’E.coli - l’ultima un mese fa, è stata di 40 milioni di batteri: la celiachia potrebbe dare questo aumento di Coli nell’intestino e provocare questo passaggio nella vescica? R. Dott.Volta La celiachia si può associare come tale ad una condizione di alterazione della flora batterica intestinale ed i pazienti celiaci hanno spesso quadri di colonpatia funzionale che favoriscono un aumento di questi batteri intestinali, i quali possono poi passare per via linfatica dall’intestino alle vie urinarie - ed in questo senso possono favorire delle infezioni urinarie. Noi in genere profilassiamo i pazienti che hanno queste caratteristiche, anche quando sono a dieta aglutinata, con terapia a cicli fissi di fermenti 47 lattici da ripetere per 10-15 giorni mensili. L’endometriosi non credo c’entri più di tanto con il discorso delle infezioni urinarie. D. Sono celiaca ed in quanto volontaria dell’associazione di Parma ricevo spesso segnalazioni allarmate di genitori di bambini o adolescenti che hanno ingerito piccole o discrete quantità di glutine e si chiedono cosa fare. R. Dott. Volta In questi casi di assunzione involontaria, con sintomi più o meno evidenti, a parte la terapia sintomatica non c’è nessuna profilassi o terapia da mettere in atto sul momento per cercare di attutire gli effetti tossici - potenziali - del glutine sulla mucosa intestinale. Solo in casi estremi arriverei ad indicare il pronto soccorso in ospedale. R. Prof. Banchini Nei bambini, possiamo tranquillizzare quanto all’assunzione occasionale e involontaria quello che preoccupa è casomai l’assunzione volontaria. D. Chi si occupa di istruire sulla celiachia gli insegnanti ed il personale che ha a che fare con le mense delle scuole? sono per esempio tenuti a fare dei corsi? e chi li organizza? R. Marcella Mastropietro E’ un problema molto sentito, e naturalmente bisogna tenere presente che il primo insegnante è sempre e comunque il genitore, perché il rapporto personale sensibilizza l’insegnante. Dal momento che ogni comune ha il suo modo di gestire la formazione degli insegnanti e del personale che sta nelle mense e in cucina, non credo di poter dare termini - a livello regionale - dei tempi in cui potremo raggiungere questo tipo di formazione. Però è vero che un insegnante che ha avuto un genitore che l’ha seguito e l’ha formato, se ha avuto la prima esperienza con un bambino celiaco, è poi in grado di riconoscere, aiutare e seguire meglio un altro bambino che verrà dopo di lui. Resta quindi fondamentale il lavoro che deve fare il genitore. D. 48 La nonna è celiaca, la figlia - medico - per tutelare a sua volta la propria figlia evitandole gli esami anticorpi e antitransglutaminasi pensa di fare il test su di sé ed anche la genetica cosicchè se il DQ2 /DQ8 è negativo non è necessario esaminare anche la figlia perché non può trasmettere il gene della celiachia. E’ corretto? R. Dott.Volta L’indagine genetica - ovvero, escludere la presenza dell’eterodimero HLA DQ2/ DQ8 toglie una buona possibilità di rischio di malattia celiaca nel paziente singolo, non nel genitore che lo trasmetta al figlio: può saltare benissimo una o due generazioni. D. Sono emersi nel forum su internet tentativi forse autogestiti di desensibilizzazione al glutine dopo 10 anni di dieta - come dire: introduzioni di gliadine limitate nell’arco di sei mesi per vedere il responso di questi soggetti che risultano quasi guariti. R. Dott.Volta Quei casi riportati da un lavoro pubblicato dalla scuola della Cattolica si riferivano a 3-4 pazienti seguiti per un follow-up di tempo non sufficientemente lungo per valutare la presenza di una ricaduta. Io credo che la strada della desensibilizzazione - meccanismo totalmente diverso, che si può applicare a patologie allergiche - non abbia dal punto di vista scientifico nessuna prospettiva nella malattia celiaca. D. Ho una domanda che riguarda il discorso delle mense scolastiche. Mia figlia va a scuola a Cesena ma il servizio di mensa è un servizio di catering esterno alla scuola. Ho cercato di seguire l’iter di questa azienda che gestisce la mensa scolastica, ma in quanto genitore non ho la possibilità di accedere alle cucine, né parlare con i cuochi del servizio di catering. Che strada posso percorrere, per avere informazioni e poter garantire a mia figlia che mangi correttamente? R. Gino Venturelli L’associazione certamente è un valido supporto - per esempio i referenti provinciali - ma si può arrivare anche ad un livello istituzionale perché venga segnalato il problema: giacchè è un diritto ricevere risposte da chi fornisce il servizio. 49 Rispetto al discorso scolastico, vorrei sottolineare che l’associazione è estremamente sensibile - nella celiachia il soggetto minorenne è l’anello debole della catena. Già 4-5 anni fa era partito un progetto-scuola che coinvolgeva circa 90 scuole - fra elementari e medie - in tutta l’Emilia Romagna in cui è stata fatta educazione alla celiachia: sulla base di questa esperienza in diverse realtà - da Parma a Piacenza a Modena - si fanno attività di educazione alla celiachia nelle scuole, grazie alla sensibilità dei volontari e soprattutto anche dei genitori che segnalano il problema. Da parte delle scuole abbiamo sempre avuto risposte positive e disponibilità ad affrontare questo argomento. R. Dott.ssa Accorsi Volevo aggiungere che se si tratta di un’azienda di catering piuttosto grande può fare riferimento anche al personale dietistico - che solo le strutture un po’ organizzate hanno, e che ha l’obbligo di garantire le diete specifiche per persone con diverse problematiche alimentari. R. Marcella Mastropietro In queste cose naturalmente si può affiancare l’associazione, perché i consiglieri provinciali referenti accolgono sempre queste sollecitazioni. E dunque è bene individuare la persona - all’interno degli uffici comunali - che segue il servizio di mensa scolastica: sia per quanto riguarda la mensa interna sia il catering, infatti il comune - oggi addirittura in forza della legge nazionale sulla celiachia approvata a luglio del 2005 - è tenuto a garantire un servizio senza glutine. D. Sono stata diagnosticata celiaca 4 anni fa mentre ero in gravidanza ed ho allattato mia figlia per 13 mesi. A che età sarebbe opportuno farle gli esami anche se finora cresce bene? R. Dott. Amarri Se non ci sono sintomi, in media noi consigliamo almeno 6 mesi dopo l’inizio di una dieta con glutine. D. Mi ha colpito molto il discorso della Dott.Martinelli riguardo l’approccio dei bambini alla 50 malattia, e in particolare mi interesserebbe capire la strategia della famiglia nel caso di un bambino con una celiachia asintomanica - per il quale quindi la dieta diventa un peso enorme rispetto ad una situazione in cui la malattia non si manifesta. Come fare? se il bambino ragiona sul presente, è difficile fargli capire l’utilità della soluzione ad un problema che lui nell’immediato non vede. R. Dott.ssa Martinelli Nonostante la difficoltà nel caso del bambino appunto, la soluzione credo sia un po’ anche in quello che si diceva prima: abituarlo sempre di più a mangiare cibi naturalmente senza glutine. Questo con l’aiuto della famiglia naturalmente: perché un cambiamento alimentare - il che vale non solo per la celiachia, ma per qualsiasi cambiamento al tipo di alimentazione che sia necessario per il benessere personale - è impensabile che riguardi solo il bambino piccolo. Certamente il bambino va poi costantemente informato - tanto quanto l’adulto - e la sua alimentazione non deve diventare un punto di differenza, ma anzi deve poterne parlare. Come deve, ad esempio, poter essere orgoglioso degli obiettivi raggiunti per la sua salute – e questo lo si ottiene dandogli traguardi precisi e piccoli, non a lunga scadenza. 51 INDICE 1. CELIACHIA:LA RISPOSTA IN 5 MINUTI Dott. Enzo Bravi – Eurospital………..pag.2 2. IL TRATTAMENTO DELLA CELIACHIA NELLA SOCIETA’ DIFFERENZIATA PER FUNZIONI. PROBLEMI E PROSPETTIVE Manola Di Nella - Tesi di laurea in sociologia……………………………………………………………………………………..……pag.8 3. ACCETTAZIONE DELLA DIAGNOSI E STRATEGIE PER MIGLIORARE LA PROPRIA QUALITA’ DI VITA Dott.ssa Franca Martinelli - Psicologa Unità operativa di psicologia clinica, Dipartimento di salute mentale, coordinamento A.S.L.- ospedale………………………………………………………………………………………….pag.11 4. CRITERI MINIMI PER LA DIAGNOSI DI CELIACHIA:STOP ALLE DIAGNOSI “FASULLE”. LUCI ED OMBRE PROSPETTIVE TERAPEUTICHE DELLA DIETA AGLUTINATA. NUOVE Dott. Umberto Volta - Dipartimento di Medicina, Universittà di Bologna - Policlinico “S.Orsola Malpighi”, consulente scientifico A.I.C………………………………………………………………………………………………pag.18 5. DIABETE E CELIACHIA Dott. Valerio Miselli - Primario di Diabetologia , Malattie Metaboliche e Nutrizione Clinica, A.S.L. di Reggio Emilia, Presidio Ospedaliero di Scandiano………………….…………………………………………………………………….pag.23 6. PROTOTIPO DI REGISTRO DI PATOLOGIA DELLA MALATTIA CELIACA IN REGIONE EMILIA ROMAGNA Dott. Sergio Amarri - Direttore U.O. Pediatria della A.S.L. di Ravenna, Medico pediatra, consulente scientifico A.I.C..……………….……pag.29 7. DIBATTITO FINALE……………………………………………………………………....pag.38 52